I Castelli nell'Ariosto

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Testo

Canto IV
I temi del canto
All'inizio del canto quarto viene delineata una prospettiva meditativa che mette a paragone le situazioni create dalla fantasia con la ricerca di un comportamento umano, che, non potendo ubbidire solo ai dettami dell'interiore moralità, deve adattarsi a plasmarsi a seconda della natura della persone (qui del furbesco Brunello) con cui si entra in rapporto: viene così offerta un'immagine della vita umana quale si può configurare dinanzi a una realistica considerazione, che si contrappone al raggiare splendido ed infinito della fantasia: "in questa assai più oscura che serena/ vita mortal tutta d'invidia piena" (IÌ). Ma propri di fronte a tale amara consapevolezza si aprono gli orizzonti del meraviglioso coi voli dell'Ippogrifo, visti da un'angolazione di natura popolare ("E vede l'oste e tutta la famiglia,/ e chi a finestre e chi fuor ne la via, / tener levati al ciel gli occhi e le ciglia", 4), ora in una prospettiva di paesaggi sterminati ("Calosse, e fu tra le montagne immerso",5). Prende quindi consistenza fantastica l'Ippogrifo, quale immagine scopertamente simbolica di una fuga nella fantasia cui non manca neppure il tocco di garanzia del sorriso. D'altra parte, una figura, quella del mago Atlante, viene a qualificarsi come essenziale punto di riferimento nei riguardi dell'ideazione di situazioni caratterizzanti dello sviluppo della trama: il creatore dei castelli e dei palazzi incantati, dall'astuzia felina, si rivela amante dei bei colpi di lancia e di spada come un buon maestro di cavalleria, ma anche tormentato da una sua interiore malinconia nella consapevolezza di una vita inutilmente spesa, nella sua stanchezza di vecchio e nel suo desiderio di morte. Ruggero, tratto dall'inganno dell'Ippogrifo nell'alto dei cieli, viene raffigurato in una situazione che riprende quella dell'antico Ganimede ("Ciò che già inteso avea di Ganimede",47): il che conferma, da parte dell'Ariosto, l'uso della mitologia in maniera così familiare e discorsiva che simili esempi assumono un'evidenza rappresentativa quale potrebbe essere del mondo reale, se pure con un tocco in più di incanto e di rapimento. Con la fuga agevole, fluida dell'Ippogrifo ("e per l'aria ne va come legno unto",50) si ritorna alla poesia del movimento e del mutamento, sì che appare naturale poi il passaggio alle altre avventure di Rinaldo nella selva Calidonia, famosa per le imprese dei cavalieri della Tavola Rotonda. Ivi il paladino, non solo indulge, in una badìa, alle gioie del cibo, ma anche pensa ad imprese tali che i monaci non stimano conveniente si compiano in quei boschi ove "i fatti ancor son foschi" (56), bensì presso la corte, ove il cavaliere potrà conseguire vera fama difendendo Ginevra accusata da Lucranio.
Gli amori di Bradamante e Ruggiero costituiscono uno dei filoni principali del Furioso: il motivo encomiastico dedicato alla gloriosa origine della casa d'Este, nata appunto dall'unione dei due innamorati. Anche questo amore è caratterizzato dal tema della continua ricerca: Ruggiero risulta, sia pure controvoglia, inafferrabile per l'eroina che lo cerca e che deve tra l'altro contrastare le magie di Atlante. Il negromante protegge infatti Ruggiero per preservarlo da morte certa: egli sa che Bradamante è perseguitata dai perfidi Maganzesi, nemici della casa di Chiaramonte cui l'eroina appartiene, e che, se la sposerà, Ruggiero cadrà vittima delle loro trame. Atlante ha costruito un castello incantato sui Pirenei dove tien rinchiusi, insieme e Ruggiero, molti altri cavalieri e dame cortesi. Bradamante, accompagnata da Brunello, un truffatore che è stato inviato al re Agramante a Riprendere Ruggiero affinché torni a combattere, vi arriva pronta a sfidare il mago e a liberare il suo amato.
Marcello Turchi
(da "Orlando Furioso" volume I,
XV ediz., Milano, Garzanti,1996, pp. 6-8)
Bradamante: guerriera e amante
Bradamante incarna in sé le due tematiche portanti del poema: l'armi e gli amori. Come un magnifico eroe epico, Bradamante è valorosa guerriera, impavida e possente; ma nello stesso tempo folgorante, come la sua bianca armatura, è la sua bellezza, la dolcezza del suo viso e la sensualità dei suoi lunghi capelli neri. Il suo stesso nome è una sorta di nome parlante che compendia i motivi del guerresco e dell'erotico: brado, cioè "selvaggio", ma anche "fiero, coraggioso", e amante.
Alla vicenda di Bradamante, cristiana, sorella di Rinaldo di Montalbano, e Ruggiero, saraceno, è legato al motivo encomiastico del poema: quello che, escogitato già da Boiardo nell'Innamorato, celebra la casa dei duchi d'Este attribuendole una mitica ascendenza nell'unione di questi due straordinari eroi. Anzi, le radici della nobile pianta estense, risalgono fino all'illustre stirpe troiana, emulando in questo senso la genealogia della gens Iulia romana celebrata da Virgilio, attraverso Ruggiero, come discendente dell'eroe transfuga da Troia, nell'Eneide, modello epico per eccellenza.
Atlante: la magia del racconto
La storia d'amore tra Ruggiero e Bradamante è contrastata dalla manifestazione di un altro sentimento d'amore, quello che lega d'affetto paterno Atlante al cavaliere saraceno. C'è di mezzo infatti una questione di profezie: Ruggiero è l'eroe predestinato, l'unico fra i personaggi del Furioso, a compiere nell'arco del poema un chiaro percorso di evoluzione. Le stelle hanno deciso che il valoroso cavaliere si converta al cristianesimo e sposi Bradamante; questo però gli costerà la vita, ucciso a tradimento dai perfidi maganzesi. Per scongiurare questo pericolo, Atlante si prodiga a ostacolare, ma più che altro a differire, il compimento di questo destino.
Il mago Atlante sembra quasi tenere le fila della storia: i suoi interventi sono finalizzati a procrastinare l'esito - inevitabile perché già deciso dal destino - della vicenda dell'avventuroso amore tra Ruggiero e Bradamante e degli episodi che si sviluppano intorno ad essa. Sembra inoltre di scorgere una certa simpatia di Ariosto per questo suo personaggio, una sorta di alter ego dell'autore, che a forza d'incantesimi provoca svolte tanto improvvise quanto determinanti nello svolgimento della narrazione. Qui, per esempio, con un cenno Atlante farà dissolvere il castello e scomparire se stesso, un gesto di sovrana indipendenza, emblema della stessa libertà fantastica dell'arte su ogni altra legge e costrizione. La presenza del mago e dei suoi precetti incantati inoltre serve "strategicamente" a tener fuori per un po' dal palcoscenico del poema molti dei personaggi che lì vengono in qualche modo "parcheggiati" dal narratore, quando l'intreccio delle storie diventa troppo dispersivo da portare avanti simultaneamente. Ecco allora che con l'espediente del sequestro, cavalieri e dame scompaiono per un po' dentro il castello dei Pirenei o, più tardi, all'interno del palazzo incantato. Un altro giudizio poi sembra confermare questa simbolica assimilazione di Atlante alle funzioni del narratore: lo vediamo infatti volteggiare in groppa all'Ippogrifo tenendo aperto un libro, strumento delle sue meravigliose illusioni. Un libro dunque, e la sua lettura danno vita a nuove dimensioni della fantasia, a una realtà diversa da quella materiale e dentro la quale si può finire prigionieri.
L'Ippogrifo è dunque, fuor di metafora, l'immaginazione fantastica che trasporta a volo il lettore verso lidi lontani e immaginari, l'anello che possiede Bradamante è invece l'intelligenza, che smaschera le cattive illusioni del mago.
Un fantastico a dimensione umana:
Con l'episodio del castello sui Pirenei e con Atlante l'elemento magico e soprannaturale entra decisamente sulla scena del poema. Ma il fantastico in Ariosto ha sempre qualcosa di bonariamente rassicurante. Per esempio, l'apparizione di quell'eccezionale e mostruosa creatura che è l'Ippogrifo avviene all'insegna di una naturale descrizione morfologica ("simile al padre avea la piuma e l'ale… / in tutte l'altre membra parea quale / era la madre",18) e nella collocazione della sua origine ("che nei monti Rifei vengon, ma rari…",18). Lo stesso incantesimo del castello fatato viene rotto con l'infrangersi di certi pentoloni fumanti ("vasi vi son, che chiamano olle" ,38).
Gino Cervi
(da "Scritture 2", II ediz.,
Milano, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori,
1997, p. 291-292)
Cap XII
I temi del canto
Nel canto dodicesimo continua l'amorosa inchiesta d'Orlando, paragonata a quella condotta da Cerere per ritrovare la figlia, e il paladino sembra anche finalmente incontrare Angelica; ma si tratta solo di un fantasma creato da Atlante, per attirare lui dentro la "gabbia" del palazzo incantato, ove le illusioni si moltiplicano all'interno e all'esterno, si spengono e rinascono in un fluttuare continuo. Proprio nel palazzo tuttavia Orlando è raggiunto dalla vera Angelica, già invisibile per l'anello, che si rivela a lui, sfatando l'incanto, per poi di nuovo sparire: "l'annel che le schivò più d'un disagio / tra le rosate labra si richiudea" (349. Si produce prima quasi un vortice di illusioni ("di su, di giù, dentro e di fuor cercando", 29), con tutti i cavalieri che verso di lei accorrono, e quindi un movimento di dispersione in cui realtà ed illusione tra loro si confondono, offrendo l'immagine di una mimesi del movimento e del mutamento che risponde intimamente al motivo e alla natura di Angelica fuggente. Orlando, invece, nella sua inchiesta, presenta costantemente la testimonianza di un pensiero cui egli resta fedele attraverso il variare del tempo ("né notte, o giorno, o pioggia o sol l'arresta",67) e durante le sue imprese, compiute in solitudine ed appena illuminate dall'immagine della fanciulla di cui va sognando trepidamente come di "una paurosa lepre" (87).
Marcello Turchi
(da "Orlando Furioso" volume I,
XV ediz., Milano, Garzanti,1996, pp. 164-165)
Secondo Calvino
Nel cuore del poema vi è un trabocchetto, una specie di vortice che inghiotte a uno a uno tutti i personaggi principali: il castello del Mago Atlante. Il castello si trova in mezzo a un prato non lontano dalle coste della Manica.
Attraversando un bosco Ruggero sente un grido e vede un gigante che lotta contro a un cavaliere, il cavaliere è Bradamante e il gigante la trascina nel suo castello dalle porte d’oro, Ruggero per aiutare Bradamante insegue il gigante fino dentro al castello. Ruggero entra, percorre le logge e le scale, si perde, perlustra tutto il palazzo, ma non trova né il gigante né Bradamante. Il palazzo per tutti è deserto di ciò che si cerca, ma è ricco di cercatori. Atlante ha dato vita al regno dell’illusione; se la vita è varia e imprevedibile, il castello è invece monotono come l’illusione stessa. Questi che vagano per androni e sottoscala, che frugano sotto arazzi e baldacchini sono i più famosi soldati cristiani e mori: tutti sono stati attratti nel palazzo dalla visione d’una donna amata, d’un nemico irraggiungibile, d’un cavallo rubato, d’un oggetto perduto. Non possono più staccarsi da quelle mura; se uno fa per allontanarsene, si sente richiamare, si volta e l’apparizione invano inseguita è là, affacciata a una finestra, che implora soccorso (XII, 4-20). Il desiderio è una corsa verso il nulla, l’incantesimo di Atlante concentra tutte le brame inappagate, nel chiuso del labirinto, ma non muta le regole che governano i movimenti degli uomini.
Anche Astolfo finisce nel palazzo incantato, ma Astolfo possiede il libro magico di Logistilla, che gli permette di mandare in fumo il castello incantato. Tutti però si abbattono su Astolfo, perché Atlante, attraverso l’incantesimo, fa credere che Astolfo sia il nemico che li aveva condotti lì. Ma Astolfo suona il suo corno e il palazzo si disfa: cessa di essere uno spazio esterno a noi, per ritornare a celarsi nelle nostre menti e nel labirinto dei pensieri (XXII, 11-23).
L’arrivo di Astolfo avviene quindi dopo un intervallo di dieci canti dal momento in cui i paladino sono entrati nel castello (dieci canti in cui la battaglia di Parigi cambia sorte). Bisogna ora solo porsi una domanda: l’incantatore è Atlante o Ariosto? Atlante è l’incantatore che vuole ritardare il compiersi del destino, mentre il poeta aggiunge, sottrae, raggruppa i personaggi della vicenda. La giostra delle illusioni è il palazzo , il poema, è tutto il mondo.
Italo Calvino
(da "L’orlando Furioso letto da Italo Calvino")
Il palazzo di Atlante emblema dell’irraggiungibilità dell’oggetto d’amore.
Con il palazzo oltre ad iscriversi nel tema generale dell’irraggiungibilità dell’oggetto d’amore (“di su di giù va il conte Orlando e riede; né per questo può far gli occhi mai lieti che riveggiano Angelica, o quel ladro che n’ha portato il bel viso leggiadro”), prospetta l’eroe nella dimensione magica: e nello svolgimento magico del tema dell’irraggiungibilità la sequenza si trova legata a quella di altri eroi e si appoggia all’ottava 20 del canto XII. La sorte dell’eroe Orlando è unita a quella di altri eroi presi nelle maglie dell’incanto di Atlante: subito dopo, infatti, si racconta della medesima sorte toccata a Ruggiero (XII 19, 6-7); e poco più avanti nel caso di Bradamante. La descrizione del castello incantato fa percepire in modo acuto qual è il senso della ricerca amorosa: una ricerca destinata a rimanere tensione dentro l’eroe, senza che si possa appagare mai dell’oggetto (XIII 50).
In alcune fasi del poema, come ad esempio in questa, l’articolazione si sviluppa piuttosto che in fabule tutte diverse, sulla ripresa alternata di alcune di esse (Orlando, Ruggiero) o di alcune relazioni oggettuali (Angelica, poi la falsa ricerca nel palazzo incantato). Come ho già osservato, nel Furioso questi segmenti narrativo sono i processi narrativi che fanno avanzare l’intreccio.
Il palazzo incantato rappresenta l’apice della dominante narrativa dei primi tredici canti, il punto di massima tensione (per tutti gli eroi) dell’irraggiungibilità nel moto di ricerca, qui rappresentato quale puro movimento, puro desiderio, senza neppure più il residuo o l’illusione dell’oggetto reale. Ma l’incanto di Atlante, magica condensazione della ricerca innapagata, è un punto di riferimento importante anche per lo sviluppo della trama nel suo complesso: è un artificio che dà occasione a nuovi incontri: quello di Orlando con Sacripante e Ferraù e quello di Ruggero e Bradamante.
Nuova dispersione e nuova ricerca.
Angelica, col suo anello magico rende vano l’incanto e si svela, per un breve momento, a Sacripante a Ferraù e a Orlando: come sempre, Angelica conta per la sua presenza/assenza, “immagine di gioia continuamente sventolata e rapita”.1 Lo schema è quello di sempre: si presenta la ricerca amorosa (XII 33, 1-4) e subito la delusione, con Angelica che si sottrae ancora una volta (XII 34, 5-8) e così la ricerca continua ad attrarre senza scampo gli eroi (XII 37, 5-6).
Dopo il palazzo incantato che accomunava gli eroi nell’immagine di una ricerca tanto continua quanto inappagata, ora quella stessa ricerca torna ad essere movimento centrifugo, momento di distrazione nel percorso dell’eroe.
Giuseppe Dalla Palma
(da "Le strutture narrative dell’ “Orlando Furioso”)
Illusione, vanità, delusione
I miti ricorrenti nel poema sono miti di illusione, vanità, delusione; e il sapore che resta a chi legge è di una mobilità e labilità senza limiti, di un trascorrere vario di forme instabili, come i mille aspetti che il vecchio Atlante assume in una passo del libro. […] Il castello di Atlante è l'allegoria o simbolo a dire la follia del nostro correre dietro le nostre passioni, tutte vane e illusorie; e quel palazzo incantato, in cui si giunge inseguendo il proprio sogno, e in cui si resta prigionieri non d'altro che delle nostre passioni, quel palazzo in cui ognuno ha innanzi o accanto l'oggetto del suo desiderio e pure non lo riconosce, è un modo mitico a dire una visione del mondo che lo fa non più un fatto fermo e sicuro, un possesso certo e immutabile, ma un non so che di sfuggente e di labile. […] E', insomma tutto ciò che di fantasmagorico, iridescente, fuggevole e mobile svaria nel poema, e che pare proporre e risolvere, nelle forme mitiche dell'arte, il problema che già della cultura umanistica angustiava gl'italiani, del rapporto tra virtù e fortuna, tra le forze dell'uomo e le altre forze, non più provvidenziali, ma cieche, casuali, fortuite, eppure reali, con le quali occorreva fare i conti. Qui con la fortuna, o caso che sia, bisogna fare i conti, con quel caso che a ogni passo mette sulla nostra strada, nel bosco, un incontro denso di eventi; con il caso che opera anche dentro di noi e ci irretisce in amori e passioni, e ci mette a rischio continuo a perdere il senno. […] Capriccio del caso, labilità del senno, volubilità degli uomini, potere della magia: e l'uomo, anche il più forte, il più serio, il più nobile, Orlando, diventa una foglia preda del vento, incontra e perde chi ama, vede e poi ecco non vede più chi desidera, si irretisce in castelli incantati, si perde nel buio della follia, dalla quale riemerge stupito e atterrito, con l'angoscia di ciò che può aver commesso quando era e pur non era più lui.
Giuseppe Petronio
(da "L'attività letteraria in Italia"
decima ediz., Palermo, Palumbo,1969,
pp. 276-277)
Letture critiche
Atlante
I motivi poetici di Atlante sono lo sfondo arioso del suo primo castello e dei suoi mirabili voli, la sua malinconica tenerezza di vecchio tutore, l'illusione in cui avvolge donne e cavalieri nelle stanze del suo castello.
Il mago compare per la prima volta nel racconto di Pinabello a Bradamante:
Signor, io conducea
Oedoni e cavallieri, e venìa in campo
Là dove Carlo Marsilio attendea,
Perch'al scender del monte avesse inciampo;
E una giovane bella meco ave,
Del cui fervido amor nel petto avampo:
E ritrovai presso a Rodonna armato
Un che frenava un gran destriero alato.
Tosto che 'l ladro, o sia mortale, o sia
Una de l'infernali anime orrende,
Vede la cara e bella donna mia,
Come falcon che per ferir discende,
Cala e poggia in un ettimo, e tra via
Getta la mani, e lei smarrita prende.
Ancor non m'era accorto de l'assalto,
Che de la donna io senti' il grido in alto.
II, 37-38
E così per lungo tratto l'Ariosto ci accompagna con questi colpi d'ala, e il suo verso si leva, leggero, nel vano cilestrino dell'aria, su picchi solitari, sospesi sul paesaggio profondo e deserto. Ad ogni istante in queste pagine si apre una prospettiva di aquila, e la poesia balza dalle contrade impervie dei Pirenei alle aperte serenità del cielo.
Pinabello insegue vagamente, a cavallo, fra i monti aspri quel cavaliere che gli ha rapito la sua donna: quanto è bella, aerea e solitaria, quanto è lontana nel cielo, quanto è vicina nel cuore questa storia dove sono intrecciati e fusi quella malinconia d'amore, il paesaggio impervio e la prodigiosa vista del cavallo con le ali dritte sul cielo! Non importa che Pinabello sia un traditore: qui, con gli occhi levati verso la donna ghermita dal mago, con quel suo camminare instancabile e solingo dietro il volo dell'Ippogrifo , diventa anche lui uno dei personaggi elegiaci, una delle più suggestive sfumature di tristezza e di passione di tutto il poema.
Poche volte la poesia dell'Ariosto è così isolata come in queste pagine, poche volte essa pare - come qui - una visione circonfusa soltanto d'aria e di silenzio:
Sei giorni me n'andai matina e sera
Per balze e per pendici orride e strane,
Dove non via, dove sentier non era,
Dove né segno di vestigia umane;
Poi giunsi in una valle inculta e fiera,
Di ripe cinta e spaventose tane,
Che nel mezzo d'un sasso avea un castello
Forte e ben posto, a meraviglia bello.
II, 41
L'ottava è tutta un incanto e una tristezza: ci sentite dentro Pinabello - l'amante infelice -, e Atlante - l'inaccessibile mago. La strofa, una delle meravigliose del poema, è dipinta di poche sfumature indefinite, e vi dà l'immagine del paesaggio, non con la precisione d'un quadro, ma con la vaghezza d'una visione: e perciò vi sentite la presenza del cavaliere e dell'incantatore.
Le linee del castello, tutto d'acciaio, sono appena accennate: il paesaggio rupestre e il prodigioso signore le compiono. Non ci sono qui le minuzie solite dei palazzi ariosteschi, con quella ricchezza e quello splendore troppo tipici degli esemplari del Rinascimento: c'è invece, la sensazione dell'incanto e della minaccia; e il castello, i monti, l'Ippogrifo, tutto dà l'impressione di quello che diciamo il "nido d'aquila". La fantasia, sobria e concreta, spazia nella solitudine, fra il grigio delle cime e l'azzurro del cielo. E' questo il paesaggio più solenne e silenzioso del poema.
Mentre Pinabello si strugge di non poter salire alla dimora di Atlante, sopraggiungono Gradasso e Ruggiero, guidati da un nano. Pinabello li prega, se vincono il mago, di liberare la sua donna. Il duello comincia con Gradasso, e continua con entrambi i cavalieri: e con esso ripiglia il tema del volo, con un motivo musicale insistente su squilli alti e larghi. Ad ogni chiusa di ottava sembra che l'orizzonte si apra; ad ogni chiusa del gruppo statuario di cavaliere a cavallo alato che s'alza o piomba e risale nel cielo, rinnova la meraviglia di quegli sfondi.
Finalmente, sul far della notte, per terminare la battaglia Atlante scopre il suo scudo. Narra Pinabello:
Splende lo scudo a guisa di piropo,
E luce altra non è tanto lucente.
Cadere in terra allo splendor fu d'uopo
Con gli occhi abbacinati, e senza mente.
Perdei da lungi anch'io i sensi, e dopo
Gran spazio mi riebbi finalmente;
Né più i guerrier né più vidi quel nano,
Ma vòto il campo, e scuro il monte e il piano.
II, 56
Silenzio, solitudine, tenebre, incanto chiudono con una perfetta fusione di toni gravi la grandiosa sinfonia magica e alpestre; una delle solite perorazioni appassionate suggella il racconto di Pinabello e rinnova nel lettore la pietà per la sua patetica avventura.
Il tema dei monti inaccessibili sorvolati con ala tranquilla e superba tace per lungo tratto; e della malinconia amorosa del maganzese non si parla più […]
Mentre [Bradamante e Brunello] sono insieme, sentono un gran rumore: qui il canto si tronca con uno degli effetti più ansiosi del poema. Finalmente, quando incomincia il canto quarto, ripiglia l'aereo tema di Atlante: ma sopra uno sfondo nuovo.
Ecco all'orecchie un gran rumor lor viene.
Disse la donna: - O gloriosa Madre,
O Re del Ciel, che cosa sarà questa? -
E dove era il rumor si trovò presta.
E vede l'oste e tutta la famiglia,
E chi afinestre e chi fuor ne la via,
Tener levati el ciel gli occhi e le ciglia,
Come l'ecclisse o la cometa sia.
Vede la donna un'altra maraviglia,
Che di leggier creduta non saria:
Vede passar un gran destriero alato,
Che porta in aria un cavalliero armato.
IV, 3-4
L'ottava comincia nel reale e finisce nel fantastico; dallo sfondo villereccio si alza verso la cavalcata aerea: su quella cornice da Don Chisciotte, lo spettacolo magico spicca prodigiosamente:
Grandi eran l'ale e di color diverso,
E vi sedea nel mezzo un cavalliero,
Di ferro armato luminoso e terso;
E ver ponente avea dritto il sentiero.
Calossi, e fu tra le montagne immerso:
IV,5
Il motivo si rinnova, con una maestà gigantesca: un'atmosfera immensa circonda il mago che si sprofonda fra cima e cima.
Saputo che quello è Atlante, la donna domanda all'oste una guida che le insegni il cammino: naturalmente le si offre Brunello. Quando sono giunti ai piedi della rocca, Bradamante lega il ladro, gli prende l'anello prodigioso e sfida a gran voce Atlante. Dopo una battaglia accanita, la donna - difesa dall'anello - si finge atterrata dallo scudo: l'incantatore scende per prenderla, e intanto lascia cadere a terra il libro da cui nascono tutti i suoi prodigi. Allora Bradamante si alza per tagliargli la testa.
Ma qui improvvisamente dal magico balza fuori l'umano, e il tema miracoloso di Atlante si arricchisce e si ravviva in una delle più nobili commozioni del poema. La donna leva la mano per troncare il capo del vinto: ma quando vede il volto di Atlante, un volto rugoso di povero vecchio, cinto dai capelli bianchi, lascia cadere la spada. Il passaggio subitaneo da quella figura lontana e superba di cavaliere librato nell'aria a questo volto di vecchio veduto da vicino, nella sua umanità debole e veneranda, ha ancora del fantastico: ma proprio in questo punto il fantastico muore, e sotto l'incanto svanito sorge il dramma d'un sentimento umile e devoto. Atlante, che finora pareva solo un personaggio fantasmagorico, diviene d'un tratto uno di quelli più affettuosi dell'Orlando. […]
Come svanisce d'un tratto il castello dinanzi agli occhi di Bradamante, così svaniscono d'un tratto le immagini inseguite dentro il palazzo del mago, che compare alcuni canti più innanzi (canto XXII). Qui la sensazione di ciò che era e non è, si fa più maliziosa e più lieve, si colora di un'incantevole tinta sentimentale, si arricchisce di un'intima suggestione simbolica. La storia di questo palazzo è il più bello fra i prodigi del poema: qui l'arte dell'Ariosto raggiunge l'incorporeo del sogno, , pur conservando una relativa definitezza di linee e di colori. La poesia di queste pagine non consiste soltanto nella modulazione musicale, ma anche nella chiarezza del disegno da cui nasce l'affascinante illusione. Nel limpidissimo poema nulla è artisticamente più limpido di quelle sale dove s'avvolgono i cavalieri dietro le immagini fallaci del loro cuore.
'è, in quelle ottave senz'ombra di vapori, la magia fantasticante dei grandi sognatori della poesia. Leggendole, vi sembra di vedervi l'immagine dell'illusione della vita e un'inconscia pittura delle ore poetiche dell'Ariosto, quando i personaggi del suo poema apparivano e sparivano nelle contrade solinghe della sua fantasia.
Chi ha toccato così recondite corde dell'anima conservando una così argentina chiarità di suono?
Attilio Momigliano
(da Saggio su l'"Orlando Furioso", terza ediz.
Riveduta, Bari, Laterza, 1946, pp 9-12; 13-15
e 16-17).
Il castello magico
[…] A questo punto, io sento la voce di Messer Ludovico, e vedo il suo volto arguto sorridere nell'ombra. Egli mi guida entro la selva armonica del suo poema, verso il palazzo di Atlante, e mi dice - Guarda. Tu ricorderai, è vero, il Palazzo gioioso, e il Lago di Morgana, e la Fontana della Fata, del mio percussore Matteo Maria Boiardo; erano belle finzioni, ma tuttavia nascevano da la Tavola Rotonda; se tu ora entri nel mio Palazzo d'Atlante, vedrai altra cosa. Venne fabbricato da Atlante, per tenervi prigionieri coloro che potevano nuocere al suo prediletto Ruggiero; ma non di tale inganno io voglio parlarti, perché l'avrai già conosciuto nel palazzo di Uriella del Cieco di Ferrara; e neppure dell'errore di coloro che si precipitano nel castello, credendo di poter salvare persone amate, perché ti ricorderai della Riviera del Riso di Matteo Maria: e neppure dell'anello di Angelica onde son liberati i prigionieri, perché tu ricorderai il giardino di Dragontina nell'Innamorato; né l'errare perduti, senza memoria, perché l'avrai più volte incontrato nel Girone, nel Bret, nel Lancillotto; né il disparire del palazzo, che avrai già visto in Corbenic, nella tavola rotonda. E allora, mi chiederai, che cosa hai creato di nuovo in codesto palazzo di Atlante? Una cosa sola: ho creduto più di tutti gli altri alla sua esistenza vera, così che gli sparsi motivi e i vaghi fantasmi, si sono fusi in una figurazione eterna del desiderio, della illusione dell'anima, che dovunque finge ad ognuno la esistenza di ciò che brama. V'erano molti cristalli, ed io formai il diamante, perché credetti più vero, il mio fantasma, della vita stessa.-[…]
Domenico Tumiati
(da "L'Ottava d'oro" I ediz.,
Verona, A. Mondadori, 1933, pp.42-43)
Elementi di teatro nell'"Orlando Furioso"
[…] Momigliano:
"Il Furioso è un'interminabile fuga di avventure straordinarie e comuni, una vicenda perpetua di incontri inaspettati e di sùbite scomparse. Si rinnova ad ogni canto, e spesso più volte in un canto, la sensazione d'una potenza che mova gli uomini, li avvicini, li mescoli, li disperda, li riunisca, "oltre la difension de' senni umani".
Il miracolo costante del poema è l'improvviso sopravvenire di nuovi personaggi a mutare la sorte dei primi e la fisionomia della scena; l'inatteso trascolorare degli eventi; il trapassare del paesaggio dalla solitudine deserta al tumulto, e da questo al più tranquillo silenzio; il risonar subitaneo di una nota gioconda, dolente, incantata, eroica, in mezzo ai luoghi riposati o silenti."
Quell'entrar dei caratteri nella commedia si fa più vivace nel poema: nell'ottava c'è dibattito, c'è dialogo, c'è quella psicologia puramente teatrale che si completa con quei disegni, c'è la trovata del particolare pittoresco non soltanto ma espressivo, ci sono dei ritratti come questo, che non è soltanto fatto per la cornice di un capolavoro fermo, ma per la sagoma del palco, dove la viva persona ha da truccarsi, da agire e da muoversi:
ma poi che 'l viso mira, il colpo arresta,
quasi sdegnando sì bassa vendetta:
un venerabil vecchio in faccia mesta
vede esser quel ch'ella ha giunto alla stretta,
che mostra al viso crespo e al pelo bianco,
età di settanta anni o poco manco.
IV, 27
[…]
Poi che siamo nell'episodio di Atlante, su questo solo voglio per un attimo indugiarmi per mostrarvi, più con parole dell'Ariosta che mie, come si svolga e come, a colpo di scena, esso si concluda.
[…]
Ecco all'orecchie un gran rumor lor viene.
Disse la donna: - O gloriosa Madre,
o Re del ciel, che cosa sarà questa?-
E dove era il rumor si trovò presta.
IV,3
E qui vedete altra scena, prima reale, quasi goldoniana, di movimento, di colore, che si illumina a poco a poco e svanisce nel fantastico per favorire il galoppo radioso della cavalcata che contiua:
E vede l'oste e tutta la famiglia,
E chi afinestre e chi fuor ne la via,
Tener levati el ciel gli occhi e le ciglia,
Come l'ecclisse o la cometa sia.
Vede la donna un'altra maraviglia,
Che di leggier creduta non saria:
Vede passar un gran destriero alato,
Che porta in aria un cavalliero armato.
IV, 3-4
Ma il colpo di scena è finale: il fantastico ritorna ad essere umano. Con una dei quella inversioni, di cui il teatro spesso si compiace per effetti suoi più sicuri, sul punto di troncare la testa di Atlante, al cavaliere alato che da lungi poteva ispirare la musica sonante di versi da epopea, Bradamente scorge sotto la celata dell'elmo una povera faccia grinzuta, i capelli bianchi di un vecchio spaurito… E lascia cadere la spada.
Il fantastico muore: ma, non per questo, in un poema tutto di fantasia, muore il senso della teatralità. Spunta l'umano, e si contrappone in antitesi. I due elementi fondamentali della tecnica arcinota creano, in potenza ed in contrasto, il quadro dell'emotività e della bellezza scenica suprema. […]
Gino Rocca
(da "L'Ottava d'oro" I ediz.,
Verona, A. Mondadori, 1933, pp. 635-638)
1 A. MOMIGLIANO, Saggio su l’”Orlando Furioso” cit., p. 69.
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