La crisi del '29

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Testo

Mappa concettuale

La crisi del 1929
(il crollo di Wall Street)
Introduzione alla crisi
Il crollo di Wall Street, il grande crollo, la crisi del 1929, sono tutte espressioni usate per indicare un periodo della storia economica del Novecento durante il quale si ridussero considerevolmente e su scala mondiale produzione, occupazione, redditi, salari, consumi, investimenti, risparmi, ovvero tutte le grandezze economiche il cui andamento caratterizza di norma lo stato di progresso o di regresso dell'economia di un paese. Ciò che rese unica questa crisi fu che la contrazione dell’attività economica fu in quegli anni così rapida e radicale come mai era accaduto. Quando la crisi esplose, nel 1929, la letteratura economica era assai ricca e si vantava di poter ricostruire le vicende delle varie crisi succedutesi nel tempo, nonché di poterne fornire spiegazioni logiche. Si sapeva quali fattori del processo economico potevano essere ritenuti responsabili delle crisi: l'eccesso di risparmio (Malthus), l’insufficienza del consumo (Sismondi), il tasso d’interesse tenuto artificiosamente basso (Wicksell), e ancora: l’eccesso di impianti nelle industrie di beni strumentali rispetto a quelle di beni di consumo; l’eccesso di credito, etc. Si era consapevoli del peso dell’andamento dei raccolti, delle innovazioni tecnologiche e del credito il cui utilizzo era sempre in crescita (con l’esito di aumentare considerevolmente la violenza delle fluttuazioni). Infine l’aspetto monetario, le variazioni nel ritmo della produzione dell’oro... etc.
Il ricco bagaglio letterario non aiutò i grandi economisti statunitensi (Irving Fischer, Charles E. Mitchell, Joseph S. Davis) a intuire l’approssimarsi della grave crisi (non mancò però chi, come Roger Babson, annuncio un crollo catastrofico).
La crisi si manifestò in maniera improvvisa ma non inattesa. Ancora alla fine dell’estate del 1929 la borsa di New York, nella quale poi esplose, attraversava una fase di grande euforia e speculazione. Giovedì 24 ottobre nonostante gli interventi, sia organizzati che spontanei, allestiti da gruppi bancari e finanziari per dare fiducia al mercato, il crollo delle azioni non incontrò argini.

3. Le cause storico-politiche della crisi
Il crollo della borsa, piuttosto che la causa della crisi, fu il segnale della depressione. La crisi esplosa sul finire dell’ottobre 1929 aveva origini lontane, vi aveva concorso seriamente lo sconvolgimento che nelle relazioni economiche, monetarie, e finanziarie internazionali aveva prodotto la prima guerra mondiale.
Alle gravi perdite di vite umane e di ricchezza provocate dalla guerra si erano aggiunti:
1) il collasso politico dell’Impero asburgico, con il sorgere dalle sue ceneri di numerosi altri stati (Jugoslavia, Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia), che non avevano tardato a imboccare la strada di politiche protezionistiche, e quindi limitatrici degli scambi internazionali;
2) la rivoluzione russa (con la conseguente esclusione dell’economia sovietica dai liberi traffici mondiali, nonché la nascita di altri Stati, come la Finlandia e le Repubbliche baltiche di Estonia, Lituania e Lettonia);
3) il collasso economico della Germania, cui il trattato di Versailles aveva imposto il fardello del riconoscimento dei debiti di guerra e del pagamento delle riparazioni.
In Inghilterra la guerra aveva frantumato l’equilibrio monetario raggiunto negli anni che precedettero la prima guerra mondiale. Durante la guerra gli Stati avevano ecceduto nelle emissioni di carta moneta ad eccezione degli Stati Uniti che riuscirono a mantenere inalterata la convertibilità in oro (Gold Standard) del dollaro. Fino alla guerra la Gran Bretagna era stata il «banchiere del mondo» e la sua moneta - la sterlina - era stata il pilastro del sistema monetario internazionale.
Le necessità della guerra avevano fatto trascurare l’aggiornamento tecnologico dell'apparato produttivo, e il Paese aveva anche trascurato parte dei mercati mondiali, lasciando maggiore spazio sia ad alcuni dei suoi Domini (India) sia a talune nazioni (Stati Uniti e il Giappone).
La fine della guerra trovò così l'Inghilterra indebolita sia sul piano produttivo che su quello finanziario e monetario; mentre gli Stati Uniti apparivano cresciuti economicamente e finanziariamente, e divenuti, da paese debitore, paese creditore dell’Europa.
Già nel 1920 la sterlina era svalutata rispetto al dollaro del 22%. Ma allo scopo di non affievolire il prestigio della City l’Inghilterra, invece di riconoscere il mutato rapporto della sterlina col dollaro, e stabilizzare il valore della sterlina alla nuova parità determinatasi, adottò una politica deflazionistica che le permise di ripristinare nel 1925 il rapporto con il dollaro alla parità prebellica. L’attuazione di questa politica deflazionistica, determinando una caduta dei prezzi interni e dei tassi di profitto e di interesse rispetto a quelli esteri, indebolì le esportazioni e favorì largamente le importazioni, contribuendo a precipitare l'economia britannica in una grave crisi.
Stati Uniti. Del tutto diversa la condizione degli Stati Uniti. Gli USA registrarono un boom ininterrotto fino all’ottobre 1929. A stimolare l’economia americana furono molti fattori:
- l'espansione dell’industria edilizia e delle industrie da questa indotte;
- una serie di innovazioni, basate sullo sfruttamento di nuovi prodotti (l’automobile, grazie all’adozione di nuovi sistemi di produzione) e delle industrie collegate (petrolifere, della gomma, dell’acciaio, delle costruzioni stradali, dei trasporti stradali, ecc.);
- lo sviluppo dell'industria elettrica, la cui produzione raddoppiò tra il 1923 e il 1929;
- l’impulso notevole alla razionalizzazione dei processi produttivi, con l’adozione, nelle industrie dei prodotti di massa, di un’organizzazione scientifica del lavoro, o «taylorismo», mirante ad eliminare i tempi morti, e a ridurre al minimo i movimenti inutili (un esempio per tutti fu l'adozione della catena di montaggio da parte della Ford agli inizi del secolo).
Il reddito nazionale aumentò. Questa maggiore disponibilità di capitali fece degli Stati Uniti il paese più prospero del mondo. E furono proprio queste abbondanti disponibilità che consentirono agli USA di concedere cospicui prestiti non solo all’Europa ma anche all’America latina, al Canada e ad alcuni paesi asiatici.

In Europa la Germania era stata il maggior beneficiario dei prestiti americani, e grazie a questi aveva potuto riprendersi rapidamente dal collasso del marco nel dopoguerra. Per fronteggiare le sue esigenze di sviluppo, la Germania aveva utilizzato molti dei prestiti americani a breve termine per investimenti a medio e a lungo termine, confidando che, dato il ritmo e l'intensità dello sviluppo dell'economia statunitense, questi prestiti non sarebbero stati rapidamente ritirati. E in quale migliore mercato investire se non proprio New York? Sempre più capitali a breve termine, l’hot money («moneta calda»), furono attratti pertanto dal boom della borsa di New York.
Ma l’aumento delle quotazioni alla borsa di New York non era collegato all’aumento dei dividendi delle azioni, cioè dei profitti delle corrispondenti società, bensì a un puro gioco di speculazioni. Dal momento che i prezzi crescevano appariva vantaggioso comprare per rivendere, senza preoccuparsi della bontà dei titoli. Per il possesso di questi titoli l’investitore piccolo come quello grosso ricorreva alle banche per ottenere i finanziamenti necessari al completamento dell’operazione. Fu così che tra il 1925 e il 1929 il numero dei valori scambiati raddoppiò (incurante dell’aumento del tasso di sconto del governo statunitense del 1924).
Nell’autunno del 1929 gli Stati Uniti, che tenevano in piedi e unito il sistema economico internazionale, cominciarono a richiamare drasticamente i capitali sottraendoli, quindi, alle attività in cui erano investiti. E la crisi si allargò a macchia d’olio.
4. Caratteri della crisi
La conseguenza diretta del crollo della borsa fu la caduta dei prezzi agricoli, delle materie prime e, poi (ma in misura minore), dei prodotti industriali e la rapida contrazione del commercio in tutto il mondo.
- i salari si ridussero ovunque
- i profitti industriali si contennero, ma non vennero eliminati completamente, grazie al processo di rapida concentrazione industriale che si era sviluppato dal dopoguerra

La crisi fu aggravata anche dalla politica economica seguita dagli Stati Uniti. Con le loro esportazioni di capitali, avevano contribuito a mantenere in equilibrio la bilancia internazionale dei pagamenti. Scoppiata la crisi, essi non accrebbero questa esportazione di capitali, anzi iniziarono il ritiro dall’estero dei capitali a breve termine. Il ritiro di questa «moneta calda», che già era cominciato nel 1928, si intensificò nel 1930 e nel 1931 e toccò gradualmente livelli mai registrati in passato.
Questa tendenza al ritiro dal mercato internazionale, specie europeo, fu rafforzata dalla politica doganale che gli Stati Uniti perseguirono. La tariffa doganale (la famosa Hawley-Smoot) che essi adottarono a partire dal giugno 1930,

La crisi mise in difficoltà molte banche. Compromesso dalla caduta delle vendite e dei prezzi, un numero crescente di imprese non fu in condizione di pagare i debiti alle scadenze, e intanto le banche erano premute dai loro depositanti che, spinti a loro volta da crescenti esigenze di liquidità, volevano la restituzione di tutto o parte delle somme depositate. Schiacciate tra l’incudine del mancato rientro dei prestiti e il martello dei depositanti che pretendevano la restituzione dei loro capitali, molte di queste banche furono costrette a chiudere i battenti trascinando nel fallimento altre banche collegate (e risparmiamo i numeri). Un esempio: nel dicembre 1930 fallì la Bank of the United States in New York city, che contava oltre 400.000 depositanti, ne fu danneggiato un terzo della popolazione di New York.
5. Primi rimedi e loro conseguenze
Il presidente Herbert Hoover:
- si oppose inizialmente a rigorose misure deflazionistiche;
- stimolando la spesa per opere pubbliche;
- facendo pressione sugli industriali perché non riducessero i salari;
- creò nel 1930 una Grain Stabilization Corporation e una Cotton Stabilization Corporation per sostenere i prezzi sia dei cereali che del cotone, in rapida caduta.
Però
- si rifiutò di porre mano a un piano di pubblica assistenza (solo 5 dollari alla settimana per famiglia);
- preferendo fare affidamento sulla carità privata e sull’azione dei governi locali.
Molte famiglie, senza più assistenza finanziaria, impossibilitate a pagare i mutui fondiari, si videro addirittura espropriate della loro casa, mentre altre si trasferivano in località dove speravano di trovare lavoro.

Fu in questo quadro che le elezioni presidenziali negli Stati Uniti del novembre 1932 portarono alla sconfitta di Hoover e alla vittoria di F. D. Roosevelt.
La sua riforma, attuata tra il 1933 e il 1938, consisteva in una politica inflazionistica che contribuì a risanare l’economia americana e a porre fine al regime di liberismo assoluto che aveva portato a quella catastrofica crisi.
Essa prese il nome di New Deal ed era basata su due principi fondamentali:
• Sostenere il mercato tramite il rilancio della domanda interna, ciò fu reso possibile grazie agli elevati interventi sociali sostenuti per ridurre la miseria e la disoccupazione.
• Mantenere sotto stretto controllo il sistema bancario e le grandi imprese per evitare una nuova eventuale ondata di speculazioni, che furono la causa principale della crisi.

I principali provvedimenti del New Deal furono:
• Lavori pubblici: Interventi straordinari (4 milioni di posti di lavoro) gestiti dal Corpo Civile per la Conservazione dell’Ambiente e dall’Ente per le Opere Civili.
• Assistenza sociale: Interventi eccezionali finanziati dalla Legge di Emergenza sull’assistenza federale a favore di disoccupati, malati, giovani, istituzione di un sistema pensionistico.
• Riforma del sistema finanziario: Legge di Emergenza sulle banche e Legge bancaria: le banche sono poste sotto l’autorità dei Governatori del Federal Riserve System.
• Politica agricola: Legge sull’assetto agricolo: per contrastare il crollo dei prezzi, promuove con sussidi governativi la riduzione della produzione di alcune derrate eccedenti, facilitazioni bancarie per i piccoli proprietari.
• Politica industriale: Legge per la ricostruzione dell’industria nazionale: permette alle associazioni imprenditoriali di stipulare accordi su produzione e prezzi soggetti ad approvazione presidenziale, stabilendo nel contempo la libertà di organizzazione sindacale e contrattazione collettiva, fissando precisi minimi salariali e massimi di orario lavorativo.
• Politica sindacale: Legge nazionale sui rapporti di lavoro: conferma le libertà d’associazione sindacale e contrattazione collettiva e il diritto di sciopero; istituisce organi di vigilanza in fabbrica e di arbitrato nei conflitti di lavoro.
• Pianificazione: Ente per lo sviluppo della valle del Tennessee, che interessa sette stati meridionali: detiene speciali poteri di governo in materia di programmazione, realizzazione e sfruttamento di opere pubbliche (dighe, centrali elettriche) e di promozione di iniziative industriali pubbliche.

Un gran numero di economisti diedero spiegazioni a questa crisi e cercarono di fornirvi una soluzione, ma ci fu un economista le cui teorie furono vitali per l’uscita dalla crisi e la successiva ripresa economica.
Il suo appoggio alle scelte di Roosvelt fu espresso in una lettera aperta passata alla storia, indirizzata allo stesso presidente; pubblicata il 31 dicembre 1933 sul “The New York Times”, recava la firma dell’economista inglese John Maynard Keynes.

. L'interpretazione keynesiana
Che cosa aveva ridotto così drasticamente la produzione di beni e di servizi? Le risorse naturali degli USA erano ancora abbondanti. Il paese possedeva un eguale numero di fabbriche, di attrezzature e di macchine. Il popolo possedeva le stesse capacità lavorative e voleva dispiegarle nel lavoro. E tuttavia milioni di lavoratori, con le loro famiglie, mendicavano, prendevano a prestito, rubavano, facevano la fila per ottenere magre porzioni della carità pubblica, mentre migliaia di fabbriche rimanevano inattive o lavoravano ben al di sotto della propria capacità.
La spiegazione sta nelle istituzioni del sistema capitalistico dell’economia di mercato. Le fabbriche avrebbero potuto essere aperte e gli uomini mantenuti al lavoro, ma non lo furono perché questo non avrebbe prodotto profitto. E, in un’economia capitalistica, le decisioni di produzione sono basate principalmente sul criterio del profitto e non sulle necessità della gente.
Il sistema economico capitalista parve essere sull’orlo di un completo collasso. Erano indispensabili provvedimenti drastici, ma prima di poter salvare il sistema era necessario comprendere meglio la malattia di questa depressione economica.
E questo compito fu assolto da uno fra i più brillanti economisti del secolo: John Maynard Keynes (1883-1946). Nel suo libro La teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta, Keynes cercò di far capire che cosa era successo al capitalismo, al fine di permetterne la conservazione.
La depressione nasce dal fatto che una riduzione nel volume degli investimenti che possono accadere ciclicamente o accidentalmente in un’economia, quale ne sia il motivo, si riflette in una riduzione della produzione dei beni strumentali nei quali detti investimenti si concretizzano. Da qui una riduzione nell’occupazione e nei consumi dei gruppi di percettori di reddito interessati in tale produzione. In conseguenza, peggiorano le prospettive di guadagno di altri gruppi di imprenditori e con esse diminuisce ulteriormente l’incentivo ad investire.
Cadono così ulteriormente i consumi, attraverso una serie di reazione a catena per effetto delle quali la situazione, in fatto di occupazione, produzione, prezzi e profitti, tende a peggiorare per così dire da se stessa. In particolare, gli imprenditori non hanno convenienza ad utilizzare in nuovi investimenti il risparmio monetario accumulato dai percettori di reddito.
Il nodo della crisi risiede proprio in questa discordanza tra le decisioni dei percettori di reddito, che ritengono conveniente non consumare, ma che non investono direttamente il danaro risparmiato, e le decisioni degli imprenditori, che non ritengono conveniente utilizzare tale denaro per aumentare i loro investimenti e, quindi, la domanda di beni strumentali.
Si pensa quindi che lo Stato debba cercare di arrestare il processo, per così dire, di perdita di velocità, da cui è investito il sistema economico per effetto del circolo vizioso: riduzione di investimenti - riduzione di consumi - di nuovo riduzione degli investimenti e via di seguito.
Ciò può ottenersi essenzialmente attraverso una qualificata spesa pubblica addizionale, che, se effettuata tempestivamente e in misura adeguata, può invertire la tendenza e ricondurre il sistema verso posizioni di pieno impiego, pur mantenendo una situazione di prezzi stabili. Dopo di che l’intervento statale ha termine, salvo prodursi con altre modalità nella situazione opposta in cui un processo di espansione dia luogo a una domanda di fattori produttivi che ecceda quella che può essere soddisfatta ai prezzi correnti.
In conclusione il Keynes sostiene che l’intervento dello Stato deve essere limitato nel tempo e basato su un programma di spesa pubblica mirante ad utilizzare i fattori inoperosi (politica anti-deflazionistica) oppure deve essere finalizzato a contenere la domanda nei limiti dei fattori disponibili (politica anti-inflazionistica).

Esempio



  


  1. carla

    una maschera di carnevale da mostro, per mio figlio