L'apologia di Socrate

Materie:Altro
Categoria:Filosofia

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Testo

L’APOLOGIA DI SOCRATE
- Introduzione all’apologia -
L’apologia di Socrate è la descrizione del processo e della condanna del medesimo. Platone non intende riportare fedelmente tutto il processo, ma esalta la figura e la difesa del suo maestro, quindi l’apologia non è solo la discolpa davanti ai giudici, ma una presentazione di Socrate e del suo pensiero attraverso gli occhi di Platone.
Si può vedere la difesa di Socrate articolata in tre fasi principali:
• Socrate confuta tutte le accuse mosse contro di lui, partendo dalle più antiche, fino alle attuali.
• Assiste alla dichiarazione di colpevolezza e alla richiesta di pena di morte, e propone la sua possibile pena (secondo l’uso dell’epoca).
• Lancia un ultimo monito ai giudici proclamando di non temere la morte.
Il processo (399a.C.) era stato voluto da accusatori antichi (non sono nominati durante il processo se non da Socrate stesso) e da accusatori recenti (Meleto, Anito, Licone). Le accuse mosse erano di empietà, per aver rinnegato il culto degli dei della città, aver tentato di introdurne dei nuovi, e di corrompere i giovani facendo apparire migliore anche la ragione peggiore.
Socrate rimane molto impressionato dall’abilità oratoria dimostrata dai suoi accusatori, infatti esordisce nella sua difesa svilendo la propria. Spiega ai giudici di non essere dotato della retorica propria dei Sofisti e perciò di doversi limitare a perorare la propria difesa usando modesti mezzi linguistici, prega loro quindi di non badare allo stile, ma far fede alla sostanza e soprattutto alla verità di ciò che si appresta a dire.
- La ricerca di Socrate -

Platone racconta che le inimicizie nei confronti di Socrate ebbero inizio dopo la rivelazione dell’oracolo di Delfi: “Socrate è l’uomo più sapiente del mondo”. Il maestro era combattuto fra la consapevolezza di non sapere e la convinzione che il dio non poteva aver mentito; il desiderio di risolvere l’enigma che lo affliggeva lo spinse alla ricerca. Incominciò a cercare e a dialogare con gli uomini ritenuti più sapienti mettendo in pratica la brachilogia attraverso brevi ed incisive domande che richiedevano risposte precise ed immediate. Si accorse in questo modo che tutti coloro che sostenevano di possedere la conoscenza, almeno nel loro campo specifico, ne avevano soltanto la presunzione e venivano messi in crisi dalle domande del filosofo. Prima di ogni altro analizzò gli uomini politici e i poeti perché erano ritenuti i più colti. Dei primi disse che “usavano belle parole, ma che non ne sapevano il significato”, mentre dei secondi disse “poetano per predisposizione naturale e non per propria cultura”. La sua ricerca che non aveva riguardo verso nessuno (tanto meno verso chi detiene il potere) gli causò tutte le accuse future “E’ con questa indagine, cittadini ateniesi, che mi sono attirato l’ostilità più aspra e profonda di parecchia gente: donde poi sono nate le varie calunnie ...”.
Dopo aver concluso le sue indagini comprese il significato dell’oracolo: egli era sapiente non perché conosceva molto, ma era l’uomo più sapiente in quanto non sapeva, come tutti, ma, a differenza di tutti aveva la consapevolezza di non sapere.
- Accusatori antichi -
Socrate ritiene che le accuse mosse nel corso degli anni siano più gravi e pesanti perché c’è stato il tempo per diffonderle e inculcarle nella mente delle persone e perché sono mosse da interi gruppi di cittadini, m da nessuno in particolare.
Gli accusatori più antichi presentano Socrate come un filosofo naturalista (“indaga sulle cose celesti e su quelle che sono sotto terra”) e come un sofista (“rende migliori anche le ragioni peggiori e si fa pagare per i sui insegnamenti”). Il maestro però non sa nulla né tenta di indagare la physis, infatti ha abbandonato la metafisica per concentrarsi sull’uomo ( solo questo ha in comune con i Sofisti),tanto meno si fa pagare, ne è la prova la ristrettezza di costumi che ha caratterizzato la sua vita (anche se non disprezza i Sofisti per questo).
Socrate inizia la sua difesa proprio da queste antiche calunnie perché ritiene che le accuse che lo hanno condotto in tribunale non siano altro che la conseguenza di antiche ostilità.
- Accusatori recenti -
Gli accusatori recenti sono: Meleto, Anito e Licone. Tacciarono Socrate di corruzione dei giovani, di non riconoscere gli dei della città e di volerne introdurre di nuovi.
In questa seconda parte del discorso di difesa Socrate intesse una sorta di dialogo direttamente con il suo principale accusatore. Attraverso un fitto interrogatorio, che si avvale anche della brachilogia, Socrate smonta una ad una le accuse costringendo il suo avversario ad ammetterne indirettamente l’infondatezza.
La prima accusa da cui si difende è quella legata alla corruzione dei giovani; tale calunnia scaturisce dal fatto che durante i suoi dialoghi il maestro era seguito da molti giovani che desideravano carpire i suoi insegnamenti e cercavano di imitarlo. Socrate comincia col discutere intorno all’educazione dei giovani ed in particolare si chiede a chi debba essere affidato questo compito; con incalzanti domande costringe Meleto ad affermare che la formazione dei giovani sia compito di ogni ateniese, ma che l’unico che minacci la loro integrità sia proprio il filosofo. Aggiunge inoltre di non possedere alcuna verità da insegnare, non si definisce un maestro, perché ognuno ha in già in sé una propria verità; il suo compito è semplicemente quello di stimolare l’interlocutore per aiutarlo a ‘partorirla’.
L’imputazione di empietà si articola in due accuse: quella di ateismo, viene contraddetta e annullata dalla successiva legata all’introduzione di nuove divinità. È detto che Socrate non creda agli dei della città; in effetti la visione del maestro va molto oltre la rappresentazione antropomorfa degli dei; questo non fa di Socrate un ateo, infatti è il suo profondo senso del divino a portarlo oltre la concezione statica della religione tradizionale. Socrate raccontava di sentire dentro sé la voce di un demone che, da quando aveva accolto la rivelazione dell’oracolo, suggerisce e giudica le sue azioni. Il demone più che come un essere divino può essere interpretato come un embrionale e del tutto originale senso del trascendente, o più semplicemente l’espressione di una forte coscienza interiore. In ogni caso il ‘segno demoniaco’ che avverte Socrate è ben lungi dalla nuova divinità che voleva far credere Meleto.
Proprio in questa incongruenza Socrate attacca il suo accusatore; ironicamente paragona l’accusa alla situazione paradossale dell’essere figlio ma non avere un padre. In questo modo dimostra ai giudici che le ultime due accuse rappresentano una contraddizione in termini.
- L’ultimo monito di Socrate -
Alla lettura della sentenza Socrate, riconosciuto colpevole, lancia un ultimo monito. Il maestro spiega perché scelse di continuare la sua ricerca pur sapendo che lasciar perdere gli sarebbe valso la vita. Lo fece perché pensava che la vita lontana dalla strada indicatagli dal dio, sarebbe stata una vita non vissuta, quindi inutile. Continuò ad interrogare i suoi concittadini, a pungolarli per mostrare loro l’importanza della sua missione; continuò a mettere tutto in discussione, a non accettare nulla come verità definitiva restando coerente alla sua filosofia.
Platone pone in evidenza il fatto che Socrate che non sarà lui, con la propria morte, a rimetterci maggiormente, bensì i suoi concittadini. Con questo discorso Socrate vuole soltanto convincere i giudici della verità, infatti “l’importante non è indurre il giudice ad assolverci, ma persuaderlo della nostra innocenza, facendolo agire secondo giustizia”.
Socrate si dimostra fermamente convinto di questo, non cerca mai la pietà dei giudici; nei processi ad Atene era uso degli imputati portare in tribunale i propri figli, i familiari a piangere di fronte ai giudici per supplicare clemenza e spesso impietosire la corte poteva alleviare la pena e salvare la vita al condannato a morte. Socrate rifiuta di sottostare ad una simile consuetudine perché la considera offensiva per la propria persona e screditante per la dignità della città.
- La condanna di Socrate -
Al momento della votazione da cui dipenderà la sua vita Socrate si accorge del numero esiguo di voti a suo sfavore “…se trenta voti soltanto fossero caduti dall’altra parte sarei stato assolto…” .
Meleto chiede per Socrate la pena di morte (inizialmente non desiderava la sua morte, ma intendeva soltanto spingerlo alla fuga da Atene nei giorni che precedevano il processo) poi giudici, come era consuetudine, chiesero al condannato di proporre una pena adatta alla propria colpa.
Questi, dopo aver ragionato dichiarando di essere sempre vissuto per gli altri ed in funzione della città, afferma che non potrebbe proporre altro che una ricompensa; dice questo non senza una punta di ironia, infatti subito dopo passa in rassegna possibili pene che siano accettabili anche per i giudici. Potrebbe proporre di andare in esilio oppure di rinunciare ad ogni attività, ma ciò significherebbe per lui disubbidire all’oracolo e andare contro alla sua natura e a tutto ciò in cui crede. Per questo l’unica pena accettabile è una multa proporzionata alle sue disponibilità, oppure più congrua da pagare con l’aiuto dei suoi discepoli.
L’ultimo discorso di Socrate è rivolto a coloro che lo hanno giudicato colpevole. Il maestro dice che è stato condannato, non perché non avesse ragione o perché non avesse detto la verità, ma ciò è accaduto perché non aveva usato la sfacciataggine e l’impudenza dei suoi accusatori.
Platone sottolinea il senso di questo discorso “bisogna salvarsi dal male e non dalla morte”. A questo aggiunge un a sorta di predizione, dica che negli anni a venire altri percorreranno la sua strada e non sarà possibile eliminarli tutti, la giusta cosa per liberarsi da colui che rimprovera i comportamenti scorretti è comportarsi correttamente.
Le sue ultime parole furono “è un bene che io muoia in quanto anche dopo la morte continuerò nella mia ricerca senza il limite di essere condannato a morte”.
- Commento all’apologia -
Socrate fonda la sua difesa sul contrasto verità - falsità: la verità della sua difesa e la falsità delle accuse contro di lui.
Socrate non fa uso della retorica per convincere i giudici né vuole piangere e supplicare per essere accolto. Socrate , durante il processo, imposta la sua difesa sul metodo dialogico; infatti usa elementi ironici (prima fase del dialogo socratico) intrecciati ad affermazioni logicamente irreprensibili pere giungere al suo scopo: fare valere la verità.
L’intenzione di Socrate è sempre stata quella di rendere consapevoli le persone della propria ignoranza. Coloro che non sapevano, ma avevano la presunzione di sapere, attraverso la brachilogia, vedevano smontate le loro convinzioni ed erano portate alla contraddizione. Il filosofare socratico non è soltanto di tipo distruttivo; dopo aver sgretolato ogni presunzione Socrate aiuta l’interlocutore a tirare fuori la verità che ha in sé, sempre nella consapevolezza di non poter ambire alla verità assoluta. L’obiettivo che si pone è quello di far risaltare la cura della propria anima.
Durante il processo il maestro cerca di mettere in luce questo punto, afferma infatti di non temere la morte perché in vita si era comportato secondo il volere del dio, quindi era certo che le sua anima era salva. Inoltre il demone che sente parlare da dentro la sua anima non gli ha mai rivelato durante l’intero processo che stava agendo in modo sbagliato, quindi ha la certezza di essere nel giusto.
È evidente che le vere motivazioni della condanna a morte di Socrate vanno ricercate molto oltre le sole accuse di Meleto. Socrate nell’Atene del tempo, è una persona estremamente scomoda; la città stava tentando di ricostruire la democrazia dopo la terribile esperienza dei trenta tiranni, aveva bisogno di sicurezze e le cercava nelle istituzioni e nella religione tradizionale. Quando Atene necessitava di punti di riferimento solidi, Socrate metteva in discussione ogni cosa, non accettava alcuna verità assoluta e istigava gli altri a fare altrettanto.
Allo stesso modo si comportò anche riguardo alla politica di cui disse “non avrei potuto vivere fino a settanta anni se mi fossi occupato di politica” . Non è precisa questa affermazione in quanto è lui il primo ad instaurare una netta separazione tra politica e etica ed a rivendicare il potere e il diritto del cittadino di giudicare lo Stato ( gli accusatori più recenti non sono una chiara rappresentanza dello Stato, e con questo discorso Socrate alludeva a loro).
lettera settima
platone ai familiari e agli amici di dione
con l’augurio di star bene

La SETTIMA LETTERA è ritenuta una della più significative tra le tredici, è considerata un documento fondamentale per la vita ed il pensiero del filosofo. Platone ci da informazioni ampie e dettagliate circa i ripetuti viaggi e soggiorni in Sicilia, e parlando dei suoi rapporti con la politica e la tirannide siracusane, esplicita concetti importanti che svilupperà in seguito.
La lettera è impostata come risposta ad una precedente missiva indirizzata al filosofo dai familiari e dagli amici di Dione, che chiedono a Platone di consigliarli nel governo della città come avrebbe fatto con lo stesso Dione.
Questa corrispondenza si svolge in un momento posteriore a tutti i viaggi che Platone effettuò verso Siracusa, coglie quindi questa occasione per dare spiegazioni e chiarimenti riguardo i periodi che trascorse in Sicilia chiamato dall’amico Dione prima, dal tiranno Dionigi poi; motiva ampiamente anche il suo rifiuto di fare ritorno nell’isola.
Platone esprime la grande stima che ha verso Dione: è certo che, grazie alla sua grande sensibilità, riuscì a coltivare fin da giovane un ‘pensiero politico’: desiderava infatti che i siracusani fossero liberi e potessero avere leggi migliori.
Parlare della qualità del giovane Dione da la possibilità al filosofo di raccontare come nacque in lui, ancora ragazzo, il desiderio di impegnarsi politicamente per il bene della sua città. Platone si dilunga ampiamente descrivendo la situazione politica e sociale dell’Atene degradata e corrotta, che si trovò ad affrontare quando fu colto dal desiderio di dedicarsi alla vita politica. Il fallimento del governo dei Trenta, il decadimento morale delle classi dirigenti fecero perdere a Platone parte della fiducia nella giustizia degli ateniesi. Dalle parole di Platone emerge ancora vivo il turbamento che lo sconvolse dopo l’ingiusta condanna di Socrate: si coglie l’infinita ammirazione verso il maestro; di lui scrive “..un uomo che non esito a dire il più giusto del suo tempo..”. Dopo la delusione degli ateniesi che uccisero Socrate “accusandolo di un delitto nefandissimo, il più alieno dell’animo suo”, Platone osservava i politici e notava che era quasi impossibile mantenersi onesti in un tale ambiente.
• Platone meditò a lungo e concluse che solo la retta filosofia rende possibile la vera giustizia: quindi non è pensabile il risanamento dello stato se prima al potere politico non fossero pervenuti uomini veramente e schiettamente filosofi, o i capi politici delle città non fossero divenuti, per qualche sorte divina, veri filosofi.
Platone coltivò questa convinzione che Dione mostrò di condividere tanto da farsi suo discepolo; egli notò che per risanare la situazione di Siracusa, città corrotta, era necessario che il tiranno Dionisio si affidasse ai consigli del filosofo. Per questo Dione lo invitò a Siracusa, perché desse quelle indicazioni indispensabili per la vita serena nella città, che però furono seguite troppo poco dal tiranno, e che comunque Platone stesso tornerà a ripetere nel corso di questa lettera agli amici di Dione.
Platone racconta che fu molto combattuto quando dovette decidere di lasciare Atene per la Sicilia, ma fu convinto dal desiderio di tentare di tradurre in atto la mie dottrine sulle leggi sullo stato, ed in quel momento Siracusa rappresentava l’occasione più favorevole.
In seguito Platone si dilunga descrivendo la situazione che trovò nella città dove il contrasto tra Dione e Dionisio obbligò lui a lasciare Siracusa e l’amico Dione all’esilio.
Il filosofo ritornò una seconda volta in Sicilia richiamato da Dionisio spinto da ragioni che si prende cura di elencare e spiegare.
Dopo il primo invito di Dionisio Platone rifiutò di raggiungerlo poiché la sua speranza di rincontrare anche Dione era stata delusa; fu poi convinto da ripetute lettere inviategli da Archita e dallo stesso Dionisio che riuscirono a persuaderlo insistendo sulla sua amicizia con Dione. Inoltre le numerose missive esaltavano un’improvvisa conversione di Dionisio verso lo studio filosofico e il suo desiderio di mettere in pratica i consigli politici di Platone. Il filosofo, pur non essendo per nulla convinto del mutamento di Dionisio, si sentiva in dovere di sperimentare le sue intenzioni. Platone sapeva di poter riconoscere gli intenti di Dione mostrando quanta fatica comporta procedere nello studio filosofico: soltanto chi era un vero filosofo sarebbe stato disposto a mantenersi fedele alla filosofia con tutta la fatica e le restrizioni che comporta.
Platone si rese facilmente conto delle intenzioni poco veritiere di Dionisio, infatti il tiranno dimostrò di essere ben lungi dal pensiero e dall’atteggiamento filosofico platonico; inoltre si dimostrò poco onesto nei confronti del filosofo tentando di trattenerlo in ogni modo a Siracusa anche contro la sua stessa volontà.
Quando Platone parla dello studio filosofico, descrive abilmente in cosa consiste la virtù del filosofo che non può improvvisarsi tale : “..non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma si accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima”.
In seguito Platone spiega le fasi attraverso le quali si raggiunge la conoscenza delle cose: il nome, la definizione, l’immagine, la conoscenza, vale a dire l’intuizione e la retta opinione delle cose. La conoscenza è altra cosa rispetto ai primi tre elementi e rispetto alla natura delle cose, essa risiede infatti nelle anime; l’intuizione è, tra gli elementi, la più vicina alla conoscenza. Sulla conoscenza Platone si sofferma a lungo utilizzando esempi e miti per rendere chiaro il suo pensiero ai destinatari.
Il corpo centrale della lettera è costituito dai consigli e dalle critiche che Platone indirizza ai familiari ed agli amici di Dione che proprio per questo si sono rivolti a lui.
Prima di iniziare ad esaudire la richiesta premette che è assennato dare consigli a chi, governando rettamente una città, si trovi occasionalmente in dubbio; ma se una città è assolutamente lontana dal buon governo e sembra non volersene avvicinare, è da vili fare il consigliere a tali condizioni. Per esprimere ciò, Platone paragona tale città ad un malato che chiede rimedi per guarire senza voler rinunciare ai comportamenti scorretti che lo hanno portato a stare male. È giusto consigliare soltanto a chi è disposto ad accogliere ed a mettere in atto le indicazioni.
Detto questo Platone non fa altro che ripetere i consigli che, insieme a Dione, aveva già dato al tiranno: vale a dire di “essere temperante” , di farsi molti amici fedeli, sui quali poter fare affidamento che gli sarebbero stati di grande utilità in qualsiasi situazione, per difendersi o per espandere il suo dominio.
Il secondo consiglio che Platone vuole impartire entra nel merito del governo della città deplorando la tirannide sotto ogni punto di vista: “..non sia asservita la Sicilia, né alcuna altra città, ma vivano tutte sotto l’imperio delle leggi ... la tirannide non giova né agli oppressori, né agli oppressi ... è un’esperienza assolutamente rovinosa.”.
Purtroppo il tiranno Dionisio non accolse il consiglio a differenza di Dione che comprese anche l’importanza dell’anima, della quale si dovrà rendere conto, “.. s’ha da ritenere che le grandi colpe e le grandi ingiustizie sia un male minore subirle che farle.”.
Platone è convinto che se il potere fosse stato nelle mani di Dione avrebbe instaurato una forma di governo in grado di dare leggi migliori al fine di purificare la città, e magari di liberare la Sicilia dai ‘barbari’.
Platone ammira tanto Dione per il suo amore per la patria, che consiglia ai suoi amici di prendere esempio da lui per il bene della città; anche i popoli sottomessi dovranno essere sottoposti alle stesse leggi, severe ma giuste, che saranno fatte rispettare con due speci di costrizioni: la paura (facendo solo temere l’uso della forza), e il pudore dando i cittadini stessi l’esempio di rettitudine.
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