Apologia di Socrate

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Categoria:Filosofia

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Testo

L’Apologia di Socrate (Platone)analizzata in 40 punti ,con riassunto
1. L'Apologia di Socrate è stata composta da Platone, che aveva assistito, come viene ricordato successivamente nel testo, al processo per empietà intentato a Socrate. La sua attendibilità è paragonabile a quella dei discorsi che Tucidide mette in bocca ai suoi personaggi. Platone, cioè, non aveva la possibilità di registrare quanto detto da Socrate, ma, avendo avuto la fortuna di essere presente al processo, l'ha ricostruito aiutandosi con la sua memoria e con l'immagine di Socrate che vi era impressa. L'intento di Platone non è quello di un cronista, ma di un filosofo coinvolto nella vicenda che intende narrare, il quale riporta le idee essenziali che - per lui - meritano di essere ricordate.
Gli Ateniesi hanno sottoposto Socrate a un processo pubblico, dandogli la possibilità di difendersi. Questo è un carattere notevole della "libertà degli antichi": condanne e ostracismi non vengono pronunciate informalmente, in base alla semplice opinione pubblica come aggregato delle opinioni dei privati, o dei privati che hanno accesso ai mezzi di comunicazione, ma - perfino nel caso di una persona fastidiosa come Socrate - vengono discusse e deliberate pubblicamente. Questo, peraltro, non esime Socrate dal "combattimento con le ombre", vale a dire dal compito di confutare la (cattiva) fama che gli avevano procurato le Nuvole di Aristofane.
2. Socrate sta parlando in sua difesa, dopo che gli accusatori hanno esposto le loro ragioni davanti al tribunale popolare.
3. Socrate distingue fra l'argomentazione strumentale, sofistica, finalizzata a prevalere sull'interlocutore, e l'argomentazione volta a cercare la verità. Si tratta di una distinzione morale, che dipende dalle intenzioni dell'oratore. Ma queste intenzioni hanno una ricaduta anche sulle modalità di discussione e di comunicazione del sapere.
L'aggettivo deinos, con il quale viene designato Socrate nella sua qualità di oratore, ha un significato più ampio di "abile", in quanto indica ciò che è "terribile", sia in senso positivo, sia in senso negativo. Socrate, a ben guardare, sta suggerendo, con una forma di ironia complessa, di essere effettivamente deinos - senza essere un esperto di retorica - ma agli occhi di chi considera "terribile" la verità.
4. Socrate continua a ironizzare contro lo stile sofistico, sminuendo le proprie doti retoriche. Possiamo vedere anche questo come un'ironia complessa: lo stile argomentativo di Socrate, così diverso da quello dei sofisti e degli oratori, lo porterà a perdere il processo, ma, in un senso più profondo, ad accertare la verità. In primo luogo quella su se stesso, secondo la massima delfica gnothi sauton (conosci te stesso) - massima, questa, molto diversa dal culto dell'"autostima" diffuso nel nostro tempo. Nei dialoghi giovanili di Platone, Socrate mette a mal partito l'autostima degli interlocutori, sedicenti sapienti. Ma la durezza e l'ironia della confutazione elenctica possono diventare - per chi sa coglierne la complessità - il punto di partenza di un percorso di consapevolezza che conduce al di là del conformismo della società civile.
5. I banchi dei trapeziti, che svolgevano più o meno le funzioni dei banchieri attuali, si trovavano nella parte più affollata dell'agorà, la piazza del mercato e il cuore della vita cittadina.
6. La "maniera" di Socrate è l'élenchos, cioè la confutazione di tesi affermate da altri. Le sole limitazioni che Socrate - il Socrate dei dialoghi giovanili di Platone - pone ai suoi interlocutori sono quella di dire solo ciò che credono, cioè di esporre le loro vere opinioni, e di farlo brevemente. Questa "maniera" comporta la rinuncia alla certezza assoluta, a favore di una ricerca morale della verità che ha bisogno del convincimento delle persone con cui si discute, come si può vedere dal Gorgia. E ha come presupposto non espresso l'idea che in ciascuno ci sia un germe di verità tale da poter essere portato alla luce mostrando che le opinioni false presenti in tutti sono in contraddizione non solo fra loro, ma con la persona che ne è portatrice.
Socrate designa il suo modo di parlare col termine lexis o modo di esprimersi: una parola che ritorna nel III libro della Repubblica per indicare le attività dei poeti e i generi letterari: nella comunicazione, forma e contenuto sono interdipendenti e reciprocamente connessi. Anche per questo, all'inizio dell'Apologia, Socrate dichiara di saper e voler parlare soltanto a modo suo.
Socrate, dicendosi un oratore modesto, sta tentando di trascinare il pubblico sul suo terreno abituale. Ma nel contesto giudiziario, occorre convincere i giurati e non cercare la verità a partire da quello che si crede: questo, anzi, è il capo d'accusa da cui Socrate dovrebbe scagionarsi. L'Apologia di Socrate, nella sua interezza, è un esempio di ironia complessa, ad opera e spese del suo protagonista: Socrate si difende, ma la sua stessa autodifesa è una rappresentazione esemplare della sua colpevolezza filosofica.
E' significativo che Socrate si dica xenos (straniero), appena poche righe dopo essersi collocato fisicamente nel cuore della vita dell'agorà. Socrate è nello stesso tempo in Atene e lontanissimo da essa.
7. "Tous amphi Anyton": l'entourage di Anito. Accusatore ufficiale è in realtà Meleto: Socrate si mostra consapevole che dietro di lui c'è Anito, importante esponente della parte democratica.
8. Il testo dell'Apologia (ta te meteora phrontistes kai ta upo ge panta...) riprende anche nei termini quello che Aristofane aveva derisoriamente messo in bocca a Socrate nella sua commedia del 423 a.C., intitolata Nuvole (vv. 264-266). Questa commedia rappresenta Socrate come sofista e filosofo naturale, che vive in una casa chiamata phronisterion (pensatoio) e insegna al "discorso ingiusto" a prevalere sul "discorso giusto". Non a caso, nel dibattito aristofaneo fra il Discorso giusto e il Discorso ingiusto, personificati e portati sulla scena, quest'ultimo mette in dubbio la morale tradizionale valendosi di un topos usato anche da Socrate nell'Eutifrone: perfino il rispetto dei padri è un valore relativo, visto che lo stesso Zeus si è ribellato al padre Chronos. Socrate tuttavia aveva un rapporto amichevole con il poeta comico, a voler credere al Simposio di Platone.
9. Ma, riferisce Socrate, questa sua immagine - espressa da Aristofane con geniale efficacia comica - era dovuta a una serie di dicerie diffuse, e per questo cercare di smentirla è come "combattere con l'ombra" (schiamachein).
Socrate è nel cuore della città quando si tratta di discutere con le persone, per scuoterle delle loro certezze acritiche, ma le è estraneo quando non ha nessuno con cui dialogare: quando, cioè, le certezze diffuse, per la loro impersonalità, non hanno un vero e proprio rappresentante individuale.
10. Socrate è un filosofo morale e non un filosofo naturale, per quanto non disprezzi la filosofia della natura, e per quanto, a voler credere ad Aristotele e al Fedone platonico, si sia in gioventù dedicato a poco soddisfacenti ricerche naturalistiche. Vale però la pena sottolineare che, nell'Apologia, Socrate non dichiara mai di credere negli dei della città.
I dialoghi platonici giovanili ci riportano un Socrate intento a indagare su questioni morali, che non si occupa mai di metafisica. La teoria delle idee e l'interesse per la matematica si trovano nei dialoghi della maturità di Platone e non sono proprie di Socrate, per il quale l'idea è semplicemente l'"universale", vale a dire ciò che rimane uguale ed è presente in tutte le cose di cui si dice che godono la proprietà F. Non si fa menzione di una esistenza autonoma delle idee, se non quando, a partire dal Menone, Socrate diventa portavoce di Platone - e, significativamente, tende ad abbandonare l'élenchos.
11. Perché i giovani preferiscono pagare i sofisti, anziché farsi istruire gratis dai concittadini? Il mercato dei sofisti sembra denunciare l'incapacità della città e dei cittadini di fornire un sapere gratuito, per quanto la polis democratica intendesse se stessa come spazio comune di educazione. Agli occhi dei conservatori ateniesi, la sofistica era causa di corruzione; ma l'osservazione di Socrate ci suggerisce che è possibile vederla, piuttosto, come un sintomo. Il mercato del sapere si fonda sull'ignoranza.
Quando Socrate parla dell'educazione basata sul synienai, cioè sul semplice stare insieme con i concittadini, fa riferimento ad un modello di istruzione tradizionale e informale, cui si contrappone la sofistica, che "inventa" l'educazione formale, impartita in ambienti artificiali, distinti dalla vita quotidiana della città.
12. Callia è il proprietario della casa ove era ospite il sofista Protagora di Abdera, nel dialogo omonimo. In questo dialogo, Platone ricrea un episodio svoltosi in un periodo in cui non era ancora nato: Alcibiade (450-404), vi è descritto come un adolescente che sta diventando uomo, e dunque la conversazione di Socrate con Protagora deve essersi svolta in occasione della visita del sofista ad Atene attorno al 432.
13. A ben guardare, il non saper insegnare di Socrate è la sua dote più pericolosa e più scomoda. Vendere e comprare conoscenze, come se fossero oggetti commerciabili, è qualcosa di rassicurante, così come sono rassicuranti i contratti e gli scambi basati sul do ut des. Non solo ci si può nutrire dell'illusione di acquistare conoscenza semplicemente pagando, senza l'itinerario personale di sofferenza che il tragico Eschilo, per esempio, connetteva all'apprendimento (pathei mathos); ma soprattutto ci si può cullare nell'idea che lo stesso sapere sia inserito in un sistema, il mercato, che sceglie e determina i valori per noi, e che ci esonera dal pericolo delle relazioni e delle discussioni faccia-a-faccia.
In questa prospettiva, Socrate è fastidioso sia perché rifiuta di vendere la sua conoscenza, e dunque di entrare nel sistema, sia perché prende tanto sul serio i propri interlocutori da mettere in discussione le loro certezze acquisite con la durezza imbarazzante della prova elenctica.
14. Socrate ricorda la testimonianza dell'oracolo di Delfi sulla sua sapienza poche righe dopo aver dichiarato che la sua sapienza è soltanto umana. Dobbiamo dunque credere che il richiamo delle parole della Pizia - la sacerdotessa che vaticinava a Delfi - sia solo un espediente retorico ad uso di un pubblico superstizioso?
15. Socrate non prende il responso dell'oracolo per buono, come avrebbe fatto un credente, ma cerca di capirne il senso, usando la propria capacità di indagine. Quello che dice il dio può - e deve - essere vero, ma per noi non ha nessun significato se non riusciamo a rendercene conto razionalmente.
16. Il vaglio della ragione comporta anche la possibilità di confutare (elencho) il responso dell'oracolo. Socrate ha con il divino un rapporto diverso da quello tipico del mondo antico, che comportava un do ut des con divinità capricciose ed iraconde. Egli non può essere neppure paragonato ad Abramo, disposto a sacrificare il figlio per ordine di Dio, perché si permette di discutere non già di un ordine, ma di un elogio dell'oracolo.
17. Il dio di Socrate è un attivatore dell'indagine razionale, un nemico della ragione pigra o asservita, e gli impone un compito durissimo. quello di obbedire a lui piuttosto che agli uomini. La conoscenza che cerca Socrate è un sapere completamente liberato dal potere, che inizia, non a caso, con una fortissima confessione di debolezza, cioè con una professione di ignoranza senza compromessi.
18. Il poeta, nella tradizione orale, non ha la funzione di creare o di conoscere per proprio conto, ma quella di ricordare: di comporre, dunque, sotto dettatura, per ricevere una sapienza diffusa e impersonale. Non a caso le divinità ispiratrici dei poeti sono le Muse, figlie di Apollo e di Mnemosyne, dea della memoria. Per Socrate, di contro, i segni dell'oracolo non trasmettono un dettato divino, ma impongono un compito enigmatico, che chiama in causa l'indagine critica.
La sophia di Socrate, che si acquisisce tramite un percorso e un impegno personale - perfino quando si ha a che fare con oracoli - è completamente diversa dalla physis e dall'enthousiamos del mondo dei poeti, che presuppone moralmente, socialmente e cognitivamente, passività e predeterminazione.
19. Con la parola cheirotechnes si intende chi esercita un'arte o una tecnica manuale.Teche,infatti, copre lo spettro semantico sia della nostra "arte" sia della nostra "tecnica", che non sono distinte: lavoro manuale, lavoro ingegneristico e lavoro artistico convivono in un solo concetto. Socrate riconosce, nel cheirotechnes, una sapienza di settore, che però rischia di diventare presunzione quando pretende di ergersi a sapienza complessiva.
I tecnici/artisti fanno, nella disamina socratica, la figura migliore. Ma il ragionamento nel suo complesso non corrobora affatto, almeno qui, l'interpretazione di scuola heideggeriana, per la quale il platonismo ha compiuto il peccato originale di asservire il mondo alla teoria e di manipolarlo ingegneristicamente. La techne di cui parla Socrate, consapevole del suo carattere di sapere parziale, è a un tempo manualità, arte e tecnica, e non cieca esecuzione di progetti teorici; è, dunque, una modalità di relazione con il mondo che presuppone una consapevolezza critica del tutto assente nei poeti, per esempio, e che ha la sua dignità. Che un lavoro manuale possa avere una dignità, è, peraltro, un'idea piuttosto originale nel mondo antico.
20. Dopo quasi due millenni di cristianesimo, l'idea che la sapienza degli uomini sia nulla davanti a Dio potrebbe sembrare un semplice pensiero edificante, ma in mano a Socrate non comporta né una devozione quietistica né un fatalistico "lasciar essere l'essere", bensì un impegno etico: nessun sapere è tale quando è acquisito e condiviso, ma solo quando è esaminato e discusso. Questo impegno rende Socrate odioso ai suoi concittadini: è facile essere amici di chi condivide le nostre opinioni; meno facile condividere, in luogo delle opinioni, la ricerca.
21. "Daimonia kainà" significa letteralmente "nuove [creature] divine". Il daimonion di cui si parla nell'Apologia è l'aggettivo neutro che viene da daimon (da daiomai: dispenso, do in sorte) , una creatura divina non necessariamente malevola, che presiede alle sorti degli uomini. Un daimon è contenuto nella parola eudaimonia (felicità), che significa, etimologicamente qualcosa come: "un buon daimon governa il mio destino".
22. Socrate non crede nell'impersonalità delle leggi. Il governo delle leggi può essere sensatamente posto come problema e come obiettivo solo perché governano gli uomini, e non dei pastori divini, ci dirà Platone nel Politico.
23. Nella democrazia diretta ateniese, l'Ecclesia era l'assemblea generale dei cittadini e la Bulé o consiglio dei cinquecento era un comitato ristretto permanente che governava in nome dell'ecclesia.
24. Socrate afferma che, se corrompe i giovani, non è possibile che lo faccia volontariamente: corrompere le persone significa renderle malvagie, e dunque esporsi al rischio di venirne danneggiati. Tutt'al più, una simile azione può essere compiuta involontariamente, e dunque non può essere sanzionata penalmente. La sanzione penale, infatti, ha senso solo per le azioni volontarie, ma non serve a render consapevole chi sbaglia involontariamente delle ragioni del suo errore.
L'argomento di Socrate è un corollario della sua equiparazione della virtù a conoscenza: chi sbaglia lo fa senza consapevolezza, e dunque senza intenzione di sbagliare. Perciò, non ha senso punirlo, quando si dovrebbe piuttosto discutere con lui, per renderlo avvertito del suo errore.
Questa tesi impone di escludere dall'ambito del diritto penale i cosiddetti "reati d'opinione", ma - coerentemente applicata - rende problematico il diritto penale nel suo complesso. Se chi sbaglia lo fa per difetto di razionalità pratica, cioè di consapevolezza, che senso ha la punizione in generale?
Non serve per emendare il colpevole, col quale sarebbe più indicato un serio confronto elenctico. Protagora, nel dialogo platonico, suggerisce che la punizione serva per dissuadere il colpevole e gli altri dal ricadere nello stesso comportamento. Ma se è vero che si sbaglia solo per ignoranza, come si può pretendere che la punizione possa avere una effettiva funzione informativa? Dissuadere non significa persuadere - soprattutto se la dissuasione è compiuta tramite una minaccia o tramite l'irrogazione di una sanzione, e non con una argomentazione. Socrate sostiene anche, nel Gorgia e nel Critone, che non si deve restituire il male col male; ma questo mette fuori causa anche la funzione retributiva della punizione.
Possiamo uscire dal vicolo cieco sostenendo, modernamente, che la sanzione penale non mira all'educazione dei cittadini, ma semplicemente ad impedire, con la dissuasione, che essi tengano certi comportamenti. Ma a questa tesi Socrate e Protagora replicherebbero a una voce che un diritto così giustificato trasformerebbe la comunità della polis in una società di schiavi, manipolati dal potere secondo logiche cui non importa che partecipino. Ci troviamo in un vicolo cieco: se vogliamo giustificare eticamente il diritto penale, dobbiamo riconoscere, con Socrate, che le punizioni non sono lo strumento più adatto per la correzione morale; se lo vogliamo legittimare in base ad uno scopo differente da quello educativo, dobbiamo trovare un sistema per spiegare in che modo la sanzione penale non è manipolazione; o, se è manipolazione, che cosa la giustifica.
25. Luogo dell'agorà di Atene. Quanto dice Socrate testimonia della diffusione del testo scritto come strumento di comunicazione del sapere nel V secolo. Secondo gli studi più recenti, tuttavia, i libri di cui si parla si riducevano a pochi fogli di papiro che contenevano soltanto delle sintesi.
26. Cioè rispettivamente daimonia e daimonas, sempre nel senso di esseri divini. Va sottolineato che Socrate fa cadere in contraddizione l'accusatore, ma non dice se la divinità in cui crede sia o no identica agli dei della città.
27. Socrate, plebeo, paragonandosi all'Achille omerico, sta facendo qualcosa di oltraggioso. Per essersi comportato come Achille, il plebeo Tersite era stato malmenato nell'assemblea dei guerrieri.
Il paragone con Achille si vale dell'eroe per eccellenza della cultura greca per mettere del vino nuovo in otri vecchi. Achille trovava la morte nella competizione per la time, cioè per il riconoscimento di una arete che si identificava col successo sociale dell'aristocratico; Socrate affronta la morte perché ritiene che componente essenziale della virtù sia una capacità personale, la conoscenza: senza questa componente essenziale, ogni altro valore della vita, e ogni genere di riconoscimento sociale, è secondario.
La religione tradizionale si basava su un rapporto di do ut des con le divinità; quella di Socrate - del miscredente Socrate - tratta l'esercizio della legge morale come un servizio reso, gratuitamente, a un dio il cui volere diviene prescrizione solo per mezzo dell'interpretazione che ne dà Socrate.
Socrate, con queste parole, si sta riconoscendo colpevole: la sua religione e la sua morale non sono più la religione commerciale e il moralismo impregnato di conformismo e di coercizione propri della città.
28. Vivere amando la sapienza, ed esaminando se stessi e gli altri mette Socrate al di sopra di qualsiasi manipolazione esterna: ma in una città in cui la convivenza è assicurata dagli interessi e dalla paura del giudizio degli altri, una persona che non è manipolabile è un cittadino cattivo e pericoloso. Anche perché l'attività di Socrate non è tale che si possa esercitare, come vorrebbero certi liberali moderni, un una zona privata, ma è per sua natura pubblica e dialogica. Un impegno alla conoscenza e all'esame critico che si ponga dei confini tradisce, semplicemente, se stesso. Per questo Socrate deve dichiararsi non solo colpevole, ma intenzionato a perseverare nel suo comportamento.
29. Socrate, qui, non ha una teoria metafisica dell'immortalità dell'anima: sta solo dicendo che, dovendo scegliere fra un male non morale di statuto incerto (la morte) e un male morale certo (l'ingiustizia), preferisce il primo corno del dilemma.
30. Si tratta dello stesso conflitto fra doveri dell'Antigone di Sofocle; conflitto che in un libro del Nuovo Testamento è espresso quasi con le stesse parole usate da Socrate, "Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini" (Atti degli Apostoli, V, 29). Il dio di Socrate non ha nulla a che vedere con gli dei della città, anzi, in quanto è riconosciuto e incluso nel libero esame socratico, è il suo nemico più radicale, perché induce a sfidare la morte e a non piegarsi alla legge.
Dietro l'autodifesa di Socrate, con il suo rifiuto di sottomettersi alle pressioni della collettività, c'è un problema filosofico-politico radicale: è possibile pensare a una comunità politica priva di coercizione? Il problema della coercizione pubblica è presente anche nella democrazia diretta ateniese, dominata, come dice successivamente Socrate, dalla tirannide delle assemblee.
31. Socrate, da come descrive il suo rapporto con la città di Atene, non è un pensatore antidemocratico: sembra piuttosto pensare che una democrazia che non pratichi l'autocritica e che tratti il sapere come un bene commerciabile, riservato a pochi, è una democrazia che sonnecchia. La scelta di povertà compiuta da Socrate, il suo offrire gratis un sapere che altri vendevano a caro prezzo, non è né un elemento marginale né una captatio benevolentiae; è un porsi consapevolmente nell'agorà, ma "fuori mercato".
32. "Theion ti kai daimonion": qualcosa di divino o di "demonico". La traduzione "soprannaturale" (Vito Stazzone) non è felicissima perché il mondo antico mancava dell'idea (cristiana) della trascendenza. La religione popolare poteva essere paragonata a un complesso di pratiche di magia bianca. indirizzate a forze mondane. Anassimandro e Democrito vedevano il divino nel mondo come kosmos, cioè come ordine necessario e omnicomprensivo. Socrate, filosofo morale, è in contatto con un divino che, contro la teologia popolare, viene pensato come perfettamente morale. La voce di questo divino non ha un contenuto, ma funge da stimolo ad una autonoma indagine morale razionale. E Socrate, nelle discussioni, si vale di questa indagine e non della sua voce interiore, che non gli dai mai, in positivo, ordini.
Quarant'anni prima il filosofo naturale Anassagora era stato processato per empietà e bandito da Atene, in quanto sosteneva che i corpi celesti erano oggetti fisici e non divinità. Ma vale la pena sottolineare che l'ateismo nel mondo antico non si configura come negazione del soprannaturale, ma come rifiuto di prestare omaggio agli dei della città: se non esisteva, infatti, un vero e proprio concetto di soprannaturale, alla maniera cristiana, c'erano concrete religioni civiche, che esigevano dai cittadini una lealtà politica, prima che religiosa.
33. Dal momento che i processi ateniesi si svolgevano davanti a una giuria popolare, l'appello alla pietà dei giudici era un espediente avvocatesco diffuso e accettato. In particolare, spettava ai giudici definire, di volta in volta, che cosa si dovesse intendere per empietà. Una difesa accorta avrebbe dovuto cercare di rendere ben disposti giudici con un così alto potenziale di arbitrio, manipolandoli emotivamente.
Socrate si rifiuta di farlo, adducendo la sua fede negli dei. In questo modo, però, dimostra una volta di più che i suoi dei non sono gli stessi dei della città. La religione della città era un complesso di pratiche per impietosire gli dei e renderseli amici, più o meno come facevano, senza scandalizzare nessuno, gli imputati con i giudici popolari.
34. Dunque Melèto, l'accusatore ufficiale di Socrate, ha ottenuto, grazie all'appoggio politico di Anito e Licone, 280 voti su 500.
35. Il Pritaneo era la sede di pritani; essere mantenuti a vita nel Pritaneo era un'onoreficenza accordata a cittadini particolarmente meritevoli (generali vittoriosi, olimpionici etc.). Socrate non rinuncia ad essere ironico, per quanto consapevole che la sua ironia gli costerà la vita. Aveva infatti facoltà di proporre una pena alternativa a quella suggerita dal suo accusatore, ma egli, dicendosi al massimo disposto a pagare una ammenda, si rifiuta di proporre una opzione praticabile per giudici intenzionati a metterlo a tacere.
36. L'idea che una vita senza esame non meriti di essere vissuta è il lato forte della professione di ignoranza socratica: Socrate è ignorante nel senso che non ha certezze teoriche che si possano dare per acquisite, ma non lo è, nel senso che possiede una certezza pratica incrollabile, l'impegno ad esaminare rigorosamente e personalmente ogni nozione e ogni valore. Questo distingue l'ignoranza socratica - per la quale si può affrontare serenamente la morte - dal semplice scetticismo.
37. Gli Ateniesi che hanno condannato Socrate hanno fatto ricorso al diffuso espediente di esorcizzare un problema morale diffamando ed eliminando la persona che lo pone. Socrate fa notare che sopprimere lui per non dover più fare i conti con i suoi argomenti, non sopprime affatto i suoi argomenti, né ne indebolisce la forza.
38. Anche qui Socrate non usa il sostantivo, ma l'aggettivo (tou daimoniou), che si si può meglio rendere con "qualcosa di divino", piuttosto che con la nozione di un vero e proprio daimon personale. La voce non dà mai ordini in positivo, ma tutt'al più trattiene e invita a riflettere.
39. Socrate non sa con certezza che cosa sarà di lui dopo la morte. Ma l'aspetto interessante dell'ipotesi alternativa alla dissoluzione è che l'oltretomba appare, rispetto alla vita, come il luogo della verità e non come il tradizionale regno delle ombre, di vacue ed evanescenti parvenze di una vita perduta. I morti, essendo al di là di ogni timore, non sono manipolabili dalla comunità politica, dall'opinione pubblica e dalle convenzioni sociali. Questo tema viene ripreso nei due grandi miti che concludono, rispettivamente, il Gorgia e la Repubblica: il giudizio dei morti e il racconto di Er.
Per questo, possono essere inclusi nella conversazione filosofica anche soggetti - come le donne - che l'Atene dei vivi escludeva. Socrate non può discutere con le donne nell'Atene dei vivi, che le teneva segregate, ma non esclude di poterlo fare nel regno dei morti.
L'uso della metafora della morte ha un senso morale: contro la posizione tradizionale, che identificava le persone e la loro moralità sulla base di ciò che diceva la gente (demou fatis) e su ciò che autorevolmente narravano i poeti, Socrate crede che la personalità morale, cioè la capacità di fare scelte autonome, non possa essere una funzione della società e della comunicazione, ma vada pensata come capacità di andare oltre ciò che è e ciò che si dice - cioè come capacità di morire, di diventare altro, in senso metaforico prima che in senso proprio. Il soggetto morale è, rispetto alla tradizione, un soggetto rivoluzionario.
40. Il congedo di Socrate dal mondo dei vivi è fortemente antitragico. L'eroe tragico muore solo, e soffrendo per il suo isolamento dalla comunità, dalla quale si distingue in quanto eroe. Socrate si accomiata serenamente, lasciando chi rimane al mondo nel dubbio: senza la conoscenza, la stessa vita non ha valore, e si può abbandonare senza troppi rimpianti. Il filosofo ha bisogno della città, perché la sua ricerca non è autosufficiente, bensì ha luogo in una comunità; ma non può vivere in una città che non accetti questa ricerca.
L'ironia, nel suo senso primario di dissimulazione (nel greco del V secolo), era una figura retorica di cui erano vittime predilette gli eroi tragici. Essi venivano ingannati da situazioni di cui non avevano il controllo e da cui rimanevano schiacciati: Edipo, per esempio, cerca con zelo il colpevole dell'assassinio del padre Laio, senza sapere che sta cercando se stesso. In mano a Socrate, l'ironia diventa una figura non dell'impotenza, ma della sophrosyne: conosco tanto bene me stesso da non vantarmi di un sapere che non possiedo, ma la mia "ignoranza" è così forte da permettermi di affrontare la morte, e di farlo serenamente
La richiesta della pena

Non mi senta irritato, cittadini ateniesi, da quanto è avvenuto - avete votato a mio sfavore - per molte ragioni insieme, e specialmente perché non è accaduto inaspettatamente: anzi, mi meraviglio molto più del numero di voti di ciascuna delle due parti. Io personalmente pensavo che la differenza sarebbe stata ampia, e non così piccola. Ma ora, a quanto pare, se soltanto trenta voti fossero migrati dall'altra parte, io sarei stato assolto. In ogni caso, a me sembra di essere stato assolto dall'accusa di Meleto anche così, e non soltanto assolto: è chiaro che se non fossero sopraggiunti Anito e Licone ad accusarmi, avrebbe anche dovuto pagare la multa di mille dracme, non avendo ottenuto un quinto dei voti.

Dunque quest'uomo propone per me la pena di morte. Va bene: e quale pena dovrò offrire come controproposta, cittadini ateniesi? Chiaramente quella che merito, non è vero? Quale allora? Che cosa merito di subire o di pagare, perché nella mia vita non me ne sono stato tranquillo a studiare, ma trascurando ciò di cui si interessano i più - fare soldi, amministrare la casa, aspirare a comandi militari, a ruoli pubblici di oratore e ad altre cariche, partecipare alle associazioni politiche e alle lotte intestine della città - e ritenendomi troppo onesto per sopravvivere in quegli ambiti, non andavo dove non sarei stato certo utile a voi e a me, ma vi facevo un grandissimo servizio rivolgendomi a ciascuno di voi in privato? Questo facevo - dico - cercando di convincere ciascuno di voi a non prendersi cura di nessuno dei propri affari prima che di se stesso, per diventare il più possibile eccellente e saggio, né a curarsi degli affari della città prima che della città stessa, e analogamente per il resto - allora, che cosa merito di patire perché sono così? Qualcosa di buono, cittadini ateniesi, se in verità si deve ricompensare secondo il merito; e qualcosa di buono che mi si addica. Che cosa si addice a un uomo povero che vi ha fatto del bene e che ha bisogno di tempo libero per la vostra istruzione? Non c'è nulla che si addica di più, cittadini ateniesi, di una pensione nel Pritaneo; [e si addice] molto di più a lui che a chi di voi abbia vinto alle Olimpiadi con cavallo, biga o carro da corsa; perché quest'ultimo vi fa credere felici, mentre io vi faccio esserlo veramente, e lui non ha bisogno di sostentamento, mentre io sì. Se dunque devo chiedere quello che merito secondo giustizia, mi sia assegnata questa pena: mangiare nel Pritaneo.

Forse anche dicendo queste cose vi sembro parlare con arroganza, come avrei fatto a proposito del suscitare compassione e del supplicare. Non è così, cittadini ateniesi. Io sono convinto, piuttosto, di non aver fatto volontariamente ingiustizia a nessuno, ma non convinco voi: abbiamo avuto poco tempo per discutere insieme. E se - penso - da voi vigesse, come fra altri, la consuetudine (nomos) di non decidere su una condanna a morte in un giorno solo, ma in più, verreste persuasi, ma ora non è facile sciogliersi da calunnie così grandi in un tempo così piccolo. Io sono convinto di non aver fatto ingiustizia a nessuno e perciò non voglio fare ingiustizia a me stesso dicendo contro me stesso che merito del male e proponendo qualcosa del genere come pena. E per paura di che? Forse per paura di subire la pena proposta da Meleto, della quale dico di non sapere se è un bene o un male? E in luogo di quella dovrei scegliere cose che so bene essere mali, e proporle come pene? E che cosa dovrei proporre? La prigione? E perché dovrei vivere in carcere, da schiavo della perenne istituzione degli Undici? Oppure una pena pecuniaria e la detenzione finché non l'avrò pagata? Ma per me sarebbe la stessa cosa, perché non ho i soldi per pagarla. Dovrei invece proporre l'esilio? Forse questa pena la considerereste adatta a me. Ma, cittadini ateniesi, dovrei davvero essere posseduto da una gran voglia di vivere, se fossi così sconsiderato da non saper considerare che voi, pur essendo miei concittadini, non siete riusciti a sopportare il mio modo di vivere e i miei discorsi e vi sono diventati tanto oppressivi ed odiosi che ora cercate di liberarvene: altri, forse, li sopporteranno facilmente? Tutt'altro, cittadini ateniesi. Avrei proprio una bella vita, in esilio alla mia età, passando di città in città, scacciato da ogni parte. Perché so bene che, dovunque vada, i giovani verranno ad ascoltarmi come qui; e se li mando via, loro stessi convinceranno i più anziani ad espellermi; se non lo faccio, i loro padri e familiari mi espelleranno a causa loro.

Allora qualcuno potrebbe dire: - Socrate, ma non riuscirai a vivere stando zitto e tranquillo, una volta allontanatoti da noi? - Convincere qualcuno di voi su questo è la cosa più difficile di tutte. Perché se vi dico che un simile comportamento è disubbidienza al dio e perciò è impossibile, voi non mi credete e pensate che faccia finta (eironeoumeno); e se vi dico ancora che il più gran bene che può capitare a una persona è discorrere ogni giorno della virtù e del resto, di cui mi sentite discutere e indagare me stesso e gli altri - una vita senza indagine non è degna di essere vissuta - voi mi credete ancor meno. Ma è così come dico, cittadini, per quanto non sia facile convincervene. E inoltre non sono abituato a pensare me stesso come meritevole di qualcosa di male. Se avessi avuto soldi, avrei proposto una pena pecuniaria, nella misura delle mie possibilità di pagamento, e non ne sarei stato per nulla danneggiato. Ma ora non ho soldi, a meno che non vogliate multarvi di quel poco che potrei pagare. Forse potrei pagarvi una mina d'argento all'incirca: e questa multa propongo come pena.
Ma, cittadini ateniesi, Platone, che è qui, e Critone, e Critobulo, e Apollodoro, insistono perché proponga una pena pecuniaria di trenta mine e per darne loro stessi garanzia. Mi multo allora di tanto. E ne saranno garanti per voi questi qui, con la corrispondente quantità di denaro.
La giuria delibera sulla pena; la maggioranza vota favore della condanna a morte, proposta da Meleto.
Il congedo di Socrate
Cittadini ateniesi, riceverete, da parte chi vuole insultare la città, la fama e la colpa di aver ucciso Socrate, uomo sapiente - perché chi vi vuole offendere dice che sono sapiente, anche se non lo sono - per guadagnare non molto tempo davvero: se aveste aspettato un poco, la cosa sarebbe avvenuta da sé. Vedete la mia età, già avanti nella vita, e anzi vicina alla morte. Questo non lo dico a tutti voi, ma a quelli che hanno votato per la mia condanna a morte. E a loro dico anche questo: voi forse credete, cittadini ateniesi, di avermi colto in difetto di discorsi con cui convincervi, se avessi ritenuto indispensabile fare e dire di tutto pur di sfuggire alla condanna. Ma non è così. Sono stato colto in difetto, ma non certo di discorsi, bensì di sfrontatezza e spudoratezza, e di voglia di dirvi quello che avreste ascoltato con più piacere: lamenti, pianti e molte altre azioni e parole indegne di me - dico - ma che voi siete abituati a sentire dagli altri. Tuttavia, io non ritenni allora doveroso comportarmi in modo indegno di un uomo libero per paura del pericolo, e non mi pento ora di essermi difeso così, ma preferisco di gran lunga morire con questa autodifesa che vivere in quel modo. Perché né in tribunale, né in guerra, né altrove, nessuno deve ricorrere a espedienti di quel genere per sfuggire in tutti i modi alla morte. Anche nelle battaglie spesso si rende chiaro che qualcuno potrebbe evitare di morire gettando le armi e voltandosi a supplicare chi lo insegue; e in tutti i pericoli ci sono molti altri espedienti per sfuggire alla morte, se non ci si fa scrupolo di fare e dire qualunque cosa. Ma, cittadini, forse evitare la morte non è difficile, ed è molto più difficile evitare la malvagità, perché corre più veloce della morte. E ora io, che sono così lento e vecchio, sono stato catturato dalla più lenta, mentre i miei accusatori, che sono così bravi e svelti, li ha presi la più veloce, la cattiveria. E ora me ne vado, io condannato a morte da voi, loro condannati alla malvagità e all'ingiustizia dalla verità. Io mantengo la mia pena, loro alla loro. Forse era in qualche modo necessario che fosse così; e io penso che sia secondo la giusta misura.

Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione [elenchon didonai], ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi perché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione, non è possibile, non è bella, ma quella, bellissima e facilissima, di non reprimere gli altri, ma preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. Con questo vaticinio per voi che avete votato contro di me prendo congedo.

Mi piacerebbe discutere su quello che è accaduto con chi ha votato per la mia assoluzione, mentre i magistrati sono occupati e non vado ancora dove bisogna morire. State con me, cittadini, per questo tempo: niente impedisce che conversiamo fra di noi, finché è permesso. A voi, perché mi siete amici, ho voglia di far vedere qual è il senso di quello che mi è successo oggi. Perché a me, giudici - e chiamandovi giudici credo di chiamarvi correttamente - è accaduto qualcosa di meraviglioso. La solita voce oracolare - la voce di qualcosa di demonico - prima mi era continuamente vicina e si opponeva sempre, anche su cose di poco conto, se stavo per fare qualcosa di non giusto. Ora mi è successo - lo vedete da voi - questo, che qualcuno potrebbe considerare un male estremo e che è creduto tale. Ma il segno del dio non mi ha trattenuto né la mattina presto, mentre uscivo di casa, né quando salivo qui in tribunale, né in nessun punto del discorso, mentre stavo per dire qualcosa. Eppure molte volte, in altri discorsi, mi ha addirittura interrotto; oggi, invece, non mi si è mai opposto in nulla di quello che facevo e dicevo. Quale suppongo ne sia la causa? Ve lo dirò: quello che è successo ha l'aria di essere stato un bene e non è possibile che abbia ragione chi di noi pensa che morire sia un male. Ne ho avuto una grande prova: se quello che stavo per fare non fosse stato un bene, il segno consueto non avrebbe mancato di trattenermi.

Ma consideriamo per quale altro motivo sia così grande la speranza che morire sia un bene. Morire è una di queste due cose: o chi è morto non è e non ha percezione di nulla, oppure morire, come si dice, può essere per l'anima una specie di trasformazione (metabolé) e di trasmigrazione (metoikesis) da qui a un altro luogo. E se è assenza di percezione come un sonno, quando dormendo non si vede niente, neanche un sogno, allora la morte sarebbe un meraviglioso guadagno - perché io penso che se qualcuno, dopo aver scelto quella notte in cui si dormì così profondamente da non vedere neppure un sogno, e paragonato a questa le altre notti e giorni della sua vita, dovesse dire, tutto considerato, quanti giorni e quante notti abbia vissuto meglio e più dolcemente di quella notte, penso che non solo un qualsiasi privato, ma lo stesso Gran Re troverebbe, rispetto agli altri, questi giorni e queste notti facili da contare - se dunque è questa la morte, io dico che è un guadagno; anche perché così il tempo tutto intero non sembra più di una notte sola. Se d'altra parte la morte è un emigrare (apodemesai) da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che dunque tutti i morti sono là, o giudici, che bene ci può essere più grande di questo? Perché se qualcuno, arrivato all'Ade, liberatosi dai sedicenti giudici di qui, troverà quelli che sono giudici veramente, che appunto si dice giudichino là, Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e tutti gli altri semidei che furono giusti nella loro vita, potrà forse essere, questa, una migrazione da nulla? O ancora per stare con Orfeo e con Museo, con Esiodo e con Omero, quanto ciascuno di voi accetterebbe di pagare? Se questo è vero, da parte mia sono disposto a morire più volte. Oltretutto, per l'appunto, là io avrei davvero un passatempo straordinario, se m'imbattessi in Palamede, in Aiace Telamonio o in qualcun altro degli antichi morto per un giudizio ingiusto, paragonando le mie esperienze alle loro - non credo che sarebbe spiacevole - e soprattutto non sarebbe spiacevole continuare ad esaminare ed interrogare quelli di là come quelli di qua, per capire chi di loro è sapiente e chi crede di esserlo, ma non lo è. Quanto sarebbe disposto a pagare chiunque di voi, giudici, per mettere sotto esame chi condusse contro Troia il grande esercito, o Odisseo, o Sisifo, o gli innumerevoli altri di cui si potrebbe dire, uomini e donne? Discutere con loro e starci insieme e metterli sotto esame non sarebbe una inconcepibile felicità? In ogni caso la gente di là non mi può certo far morire per questo: se quanto si dice è vero, quelli di là sono più felici di quelli di qua anche per altro e sono già immortali per il tempo che rimane.

Ma bisogna, giudici, che anche voi speriate bene davanti alla morte e teniate in mente questa verità, che non può esserci male per un uomo buono, né da vivo né da morto, e niente di quanto lo riguarda è trascurato dagli dei; anche le mie vicende d'ora non sono avvenute da sé, ma mi è chiaro che ormai per me morire ed esser liberato dal peso dell'azione era la cosa migliore. Per questo anche il segno non è mai intervenuto a distogliermi ed io personalmente non provo nessun rancore verso chi mi ha votato contro e chi mi ha accusato. A dire il vero, non mi hanno votato contro ed accusato con questa intenzione, ma pensando di danneggiarmi, e perciò meritano di essere biasimati. Tuttavia, a loro faccio questa preghiera: i miei figli, una volta cresciuti, puniteli ,cittadini, tormentandoli come io tormentavo voi, se vi sembra che si preoccupino dei soldi e d'altro prima che delle virtù; e se fanno finta di essere qualcosa ma non sono nulla, svergognateli come io facevo con voi, perché non si prendono cura di ciò di cui occorre curarsi e pensano di essere qualcosa senza valer nulla. E se farete così, io sarò trattato giustamente da voi, ed anche i miei figli.
Ma è già l'ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi dei due però vada verso il meglio, è cosa oscura a tutti, meno che al dio.

Il documento più ricco, dal quale possiamo attingere notizie sul processo contro Socrate, è appunto l’Apologia di Socrate, scritta qualche anno dopo la causa da Platone. Non possiamo però considerare questo libro come una fonte oggettiva, perché Platone si propone di celebrare Socrate, essendo stato suo discepolo.
Le accuse rivolte a Socrate sono varie, ma sostanzialmente se ne ricavano due:
Perde tempo a indagare sul cielo e sulla terra.
Corrompe i giovani e crede a divinità nuove introdotte da lui.
Quella che si ritiene ufficiale è la seconda, perché presentata dagli accusatori.
Socrate comincia la sua difesa dichiarando che nonostante i suoi accusatori abbiano parlato in modo pomposo e appariscente, non è detto che dicano la verità. Al contrario lui parlando semplicemente dirà sicuramente cose vere, come si addice ad un buon oratore. Poi si rivolge ai giudici esortandoli a non far caso a come si parli, ma a cosa si dica.
Egli si presenta alla difesa negando di fare ricerche naturalistiche, che per alcuni apparivano come mancanza di fede negli dei e quindi contrarie ai principi della polis, ma di cercare di verificare, attraverso molte indagini presso politici, poeti e artigiani, la tesi dell’oracolo di Delfi, secondo la quale lui era il più sapiente. Interrogando queste persone ritenute sapienti - utilizzando la propria ironia e l’arte della maieutica - capisce che costoro non sono affatto saggi. Così egli scopre il significato dell’oracolo: lui era sapiente perché si era reso conto di non sapere. L’odio contro Socrate accresce anche perché i suoi discepoli continuano questa ricerca tra coloro che si sentivano saggi, smascherandoli e sminuendoli.
Difendendosi dall’accusa di corrompere i giovani, fattagli da Melèto, incolpa il suo accusatore di non sapere cosa sia l’educazione dei ragazzi e che comunque non li corrompe, ma se lo facesse, lo fa involontariamente.
Quindi dice che, prima di lui, le teorie sul cielo e sulla luna erano state pronunciate da Anassagora e che i demoni, ai quali secondo loro crede, sono comunque figli degli dei.
Cercando di discolparsi, reputa un grosso errore la sua eventuale condanna a morte, in quanto lui è un dono di Dio, essenziale agli Ateniesi per stimolarli, come fa un cavaliere con un pigro cavallo, e uccidendolo faranno un’offesa allo stesso Dio.
Dice che non entra in politica perché chi combatte per la giustizia deve essere un privato cittadino.
Continua sostenendo che non ha mai impedito a nessuno di ascoltarlo, non ha mai chiesto denaro per parlare e che, se quelli che lo hanno interrogato o ascoltato sono diventati ingiusti, non è stato di certo per colpa sua, perché non ha mai promesso di insegnare e mai ha insegnato.
Continua la sua difesa interrogando retoricamente i giudici sul perché quelli che sono stati corrotti - secondo gli accusatori - da lui, non si sono ribellati.
Socrate si è rifiutato di impietosire i giudici perché non sarebbe stato onorevole né per sé, né per la città e la sua grande lealtà lo porta addirittura a invitare i giudici a giudicare sempre secondo legge e non secondo pietà.
Dopo l’autodifesa, Socrate viene giudicato colpevole e condannato a morte. Come prevede la prassi gli chiedono come voglia essere punito, ma lui, un po’ ironicamente, risponde con una ricompensa: essere mantenuto dallo Stato, in quanto benefattore dei cittadini. Poi si rivolge a quelli che l’hanno condannato e dice loro che gli capiterà una cosa molto più grave di quello che hanno fatto a lui. Infine si rivolge a coloro che hanno votato per l’assoluzione dicendogli di confortarsi perché per lui la morte è un bene e così è per tutti coloro che fanno del bene in quanto gli dei si prenderanno cura di quello.
In verità la questione per cui venne condannato è molto complessa. La polis si fondava sulla democrazia, sull’eguaglianza e sulla libertà di tutti a partecipare alla vita politica. Invece Socrate vedeva questa come una forma di dominio di incompetenti. Egli aspirava ad una classe preparata intellettualmente e moralmente selezionata che potesse guidare lo Stato. Probabilmente le accuse rivoltegli nascondevano uno stratagemma per far soccombere le sue idee che incutevano una paura non indifferente.
Mi ha molto colpito la sua morte: non ha mai chiesto pietà, è rimasto sempre sereno e anche se poteva scappare o andare in esilio non l’ha fatto. Infatti voleva portare rispetto per le leggi della polis, non voleva fare cose moralmente scorrette e prima di tutto non voleva tradire la propria coscienza.

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