Kant e il criticismo

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Testo

IMMANUEL KANT

LA VITA
Immanuel Kant nacque a Königsberg, allora capoluogo della Prussia orientale, nel 1724. Kant studiò filosofia, matematica e teologia all’Università di Königsberg. Dopo gli studi universitari fu precettore privato in alcune case patrizie, poi libero docente presso l’Università di Königsberg e infine professore ordinario di logica e metafisica in quella Università. Kant occupò questo posto fino alla morte.
L’esistenza di Kant è priva di avvenimenti drammatici e di passioni, costellata di pochi affetti e amicizie, interamente concentrata in uno sforzo continuo di pensiero che si accompagnava ad uno stile di vita basato su rigide abitudini. Kant non fu però estraneo agli avvenimenti politici del suo tempo. Simpatizzò con gli Americani nella guerra d’indipendenza e con i Francesi nella Rivoluzione, che giudicava diretta a realizzare l’ideale della libertà politica. Il suo ideale politico era una costituzione repubblicana fondata sulla libertà, l’indipendenza e l’uguaglianza dei cittadini.
Negli ultimi anni Kant fu preso da una debolezza senile che lo privò gradualmente di tutte le sue facoltà. Morì nel 1804.

IL CRITICISMO
Il pensiero di Kant è detto “criticismo” perché, contrapponendosi all’atteggiamento mentale del “dogmatismo” – che consiste nell’accettare opinioni o dottrine senza interrogarsi preliminarmente sulla loro effettiva consistenza – fa della “critica” lo strumento per eccellenza della filosofia. “Criticare” per Kant significa infatti “giudicare”, “distinguere”, “valutare”, soppesare”, ecc., cioè interrogarsi circa il fondamento di determinate esperienze umane, chiarendone le possibilità (= le condizioni che ne permettono l’esistenza), la validità (= i titoli di legittimità o non-legittimità che le caratterizzano) e i limiti (= i confini di validità).
Nell’istanza critica di Kant risulta dunque centrale l’aspetto del “limite”. La “critica”, in senso kantiano, non nascerebbe affatto se non ci fossero, in ogni campo, dei limiti di validità da fissare. Pertanto, il criticismo si configura come una filosofia del limite, un’interpretazione dell’esistenza volta a stabilire, nei vari settori esperienziali, le “colonne d’Ercole dell’umano”, e quindi il carattere finito delle possibilità esistenziali, che non sono mai tali da garantire l’onniscienza e l’onnipotenza dell’individuo.
Il kantismo si inserisce nello specifico orizzonte storico del pensiero moderno e risulta definito da quelle due coordinate di base che sono la Rivoluzione scientifica da un lato e la crisi delle metafisiche tradizionali dall’altro. Questa situazione, scardinando la vecchia enciclopedia del sapere, aveva finito per ripercuotersi anche sull’etica, che veniva tradizionalmente dedotta dalla metafisica, facendo nascere il problema di una morale autonoma rispetto alle speculazione ontologiche. Nello stesso tempo, la riflessione sull’arte e sul “gusto”, nonché sulla sfera sentimentale dell’uomo, tendeva a produrre una serie di interrogativi circa la loro struttura e validità. Tutto ciò spiega come ad un certo momento dello sviluppo della filosofia moderna sia potuto sorgere il criticismo, che si interroga sui fondamenti del sapere, della morale e dell’esperienza estetica e sentimentale, concretizzandosi nei tre rispettivi capolavori di Kant: Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del Giudizio. Da questo punto di vista, il kantismo può essere considerato come la prosecuzione di quell’indirizzo critico che l’empirismo inglese aveva abbracciato fin da Locke, segnando i limiti della ragione e del mondo umano, e che l’Illuminismo aveva propagandato nel Settecento.
Tuttavia, il kantismo si distingue dall’empirismo non solo per il rifiuto dei suoi esiti scettici, ma anche per il suo spingere più a fondo l’analisi critica, cioè per un metodo di filosofare che, più che soffermarsi sulla descrizione dei meccanismi conoscitivi, etici, sentimentali, ecc., si sforza di fissarne le condizioni possibilitanti e il limiti di validità. E si distingue dall’Illuminismo per una maggiore radicalità d’intenti. Infatti, se l’Illuminismo aveva portato dinanzi al tribunale della ragione l’intero mondo dell’uomo, Kant si propone di portare dinanzi al tribunale della ragione la ragione stessa, per chiarirne in modo esauriente strutture e possibilità. Tuttavia Kant è pur sempre figlio dell’Illuminismo, in quanto ritiene che i confini della ragione possano essere tracciati soltanto dalla ragione stessa, che, essendo autonoma, non può assumere dall’esterno la guida del suo procedimento. Prova ne è che Kant combatte instancabilmente ogni tentativo di fissare i limiti della ragione in nome della fede o di qualsiasi esperienza extra-razionale. Per Kant i limiti della ragione tendono a coincidere con i limiti dell’uomo: di conseguenza, volerli varcare in nome di presunte capacità superiori alla ragione significa soltanto avventurarsi in sogni arbitrari o fantastici.

LA CRITICA DELLA RAGION PURA
La Critica della ragion pura è sostanzialmente un’analisi critica dei fondamenti del sapere. Poiché ai tempi di Kant l’universo del sapere si articolava in scienza e metafisica, il suo capolavoro prende la forma di un’indagine valutativa circa queste due attività conoscitive.
Agli occhi del filosofo la scienza e la metafisica si presentavano in modo diverso. Infatti, mentre la prima, grazie ai successi conseguiti da Galileo e da Newton, appariva come un sapere fondato e in continuo progresso, la seconda, con il suo voler procedere oltre l’esperienza, non sembrava affatto aver trovato il cammino sicuro della scienza.
Kant respinge lo scetticismo scientifico del filosofo scozzese Hume ritenendo il valore della scienza un fatto ormai acquisito. Egli ne condivide invece lo scetticismo metafisico. Di conseguenza, la ricerca di Kant prende la forma di uno studio teso a stabilire, da un lato, come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze, e dall’altro come sia possibile la metafisica in quanto scienza.
Tuttavia, osserva il filosofo, mentre nel caso della matematica e della fisica basta chiedersi come siano possibili, nel caso della metafisica occorre domandarsi se sia possibile come scienza.

I “GIUDIZI SINTETICI A PRIORI”
Kant apre il suo capolavoro con un’ipotesi gnoseologica di fondo: “benché ogni nostra conoscenza cominci con l’esperienza, da ciò non segue che essa derivi interamente dall’esperienza. Potrebbe infatti avvenire che la nostra stessa conoscenza empirica sia un composto di ciò che riceviamo mediante le impressioni e di ciò che la nostra facoltà conoscitiva vi aggiunge da sé sola (semplicemente stimolata dalle impressioni sensibili)”. Questa “ipotesi”, secondo Kant, risulta immediatamente convalidata dalla presenza dei giudizi sintetici a priori.
Kant è convinto che la conoscenza e in particolare la scienza offrano il tipico esempio di principi assoluti, ossia di verità universali e necessarie, che valgono ovunque e sempre allo stesso modo. Infatti, pur derivando in parte dall’esperienza, la scienza presuppone anche, alla propria base, taluni principi immutabili che ne fungono da pilastri.
Tali sono ad esempio le proposizioni: “Tutto ciò che accade ha una causa”. Kant denomina principi di questo tipo giudizi sintetici a priori: giudizi perché consistono nell’aggiungere un predicato ad un soggetto; sintetici perché il predicato dice qualcosa di nuovo e di più rispetto al soggetto; a priori perché, essendo universali e necessari, non possono derivare dall’esperienza, la quale non ci dice che ogni evento debba necessariamente, anche in futuro, dipendere da cause, ma che sinora, nel passato, così è stato.
Dal punto di vista di Kant, i giudizi fondamentali della scienza non sono quindi ne’ giudizi analitici a priori ne’ giudizi sintetici a posteriori. I primi sono giudizi che vengono enunciati a priori, senza bisogno di ricorrere all’esperienza, in quanto in essi il predicato non fa che esplicitare quanto è già implicitamente contenuto nel soggetto: ad esempio, “i corpi sono estesi”. Di conseguenza tali giudizi, pur essendo universali e necessari (= a priori), sono infecondi, perché non ampliano il nostro patrimonio conoscitivo.
I secondi sono giudizi in cui il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto, aggiungendosi o “sintetizzandosi” a quest’ultimo in virtù dell’esperienza, ovvero a posteriori: ad esempio, “i corpi sono pesanti”. Questi giudizi, pur essendo fecondi (= sintetici), sono privi di universalità e necessità poiché poggiano esclusivamente sull’esperienza.
Invece, i principi della scienza – i cosiddetti giudizi sintetici a priori – risultano al tempo stesso “sintetici”, ossia fecondi, e “a priori”, ossia universali e necessari, e quindi irriducibili alle due classi precedenti.
Questa teoria kantiana dei giudizi sottintende un confronto storico con le scuole filosofiche precedenti. I giudizi analitici a priori richiamano infatti la concezione razionalistica della scienza, che pretendeva di partire da taluni principi a priori per derivare da essi tutto lo scibile, delineando in tal modo il modello di un sapere universale e necessario, ma sterile. I giudizi sintetici a posteriori richiamano invece l’interpretazione empiristica della scienza, che pretendeva di fondare quest’ultima esclusivamente sull’esperienza, delineando così il modello di un sapere fecondo, ma privo di universalità e necessità. Kant ritiene invece, contro il razionalismo, che la scienza derivi dall’esperienza, ma ritiene anche, contro l’empirismo, che alla base dell’esperienza vi siano dei principi inderivabili dall’esperienza stessa.
In sintesi:
scienza = esperienza + principi sintetici a priori

I giudizi sintetici a priori rappresentano la spina dorsale della scienza, ovvero l’elemento che le conferisce stabilità e universalità e in mancanza del quale essa sarebbe costretta a muoversi nell’incerto e nel relativo. Infatti, senza taluni principi assoluti di fondo, la scienza non potrebbe sussistere. Lo scienziato kantiano è certo a priori di tali verità, anche se per sapere quali siano le cause che producono gli eventi ha bisogno di ricorrere alla testimonianza dell’esperienza.

LA “RIVOLUZIONE COPERNICANA”
Dopo aver messo in luce che il sapere poggia su giudizi sintetici a priori, Kant si trova di fronte al complesso problema di spiegare la provenienza di questi ultimi. Infatti, se non derivano dall’esperienza, da dove deriveranno i giudizi sintetici a priori?
Per rispondere a questo interrogativo egli elabora una nuova teoria della conoscenza, intesa come sintesi di materia e forma. Per materia della conoscenza si intende la molteplicità delle impressioni sensibili che provengono dall’esperienza (= elemento empirico o a posteriori). Per forma si intende l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente umana ordina tali impressioni (= elemento razionale o a priori). Kant ritiene infatti che la mente filtri i dati empirici attraverso forme che le sono innate e che risultano comuni ad ogni soggetto pensante. Come tali, queste forme sono a priori rispetto all’esperienza e sono fornite di validità universale e necessaria, in quanto tutti le possiedono e le applicano allo stesso modo.
Il fatto che in noi esistano determinate forme a priori universali e necessarie (che per Kant sono lo spazio e il tempo e le 12 categorie) attraverso cui “incapsuliamo” i dati della realtà, spiega perché si possano formulare dei giudizi sintetici a priori intorno ad essa senza timore di essere smentiti dall’esperienza.
Questa nuova impostazione del problema della conoscenza implica talune importanti conseguenze. In primo luogo, essa comporta quella “rivoluzione copernicana” che Kant si vantò di aver operato in filosofia. Come Copernico, per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i rapporti fra lo spettatore e le stelle, e quindi fra la Terra e il sole, così Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti fra soggetto e oggetto, affermando che non è la mente che si modella passivamente sulla realtà – nel qual caso non vi sarebbero conoscenze universali e necessarie – bensì la realtà che si modella sulle forme a priori attraverso cui la percepiamo. In secondo luogo, la nuova ipotesi gnoseologica comporta la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé. Il fenomeno è la realtà quale ci appare tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. La cosa in sé è la realtà considerata indipendentemente da noi e dalle forme a priori mediante cui la conosciamo.

LA FACOLTÀ DELLA CONOSCENZA
Kant articola la conoscenza in tre facoltà principali: “Ogni nostra conoscenza scaturisce dai sensi, da qui va all’intelletto, per finire nella ragione”. La sensibilità è la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e tramite le forme a priori di spazio e tempo. L’intelletto è la facoltà attraverso cui pensiamo i dati sensibili tramite i concetti puri o categorie. La ragione è la facoltà attraverso cui, procedendo verso l’esperienza, cerchiamo di spiegare la realtà mediante le tre idee di anima, mondo e Dio.
Su questa tripartizione della facoltà conoscitiva è sostanzialmente basata anche la divisione della Critica della ragion pura. Questa si biforca in due tronconi principali: la dottrina degli elementi, che si propone di scoprire, isolandoli, quegli elementi formali della conoscenza che Kant chiama puri o a priori, e la dottrina del metodo, che consiste nel determinare l’uso possibile degli elementi a priori della conoscenza, cioè il metodo della conoscenza medesima. La dottrina degli elementi si ramifica a sua volta in Estetica trascendentale e Logica trascendentale. L’Estetica trascendentale studia la sensibilità e le sue forme a priori di spazio e di tempo, mostrando come su essa si fondi la matematica. La Logica trascendentale si sdoppia a sua volta in Analitica trascendentale, che studia l’intelletto e le sue forme a priori – le 12 categorie – mostrando come su esse si fondi la fisica, e in Dialettica trascendentale, che studia la ragione e le sue tre idee di anima, mondo e Dio, mostrando come su esse si fondi la metafisica.
Per Kant il termine “trascendentale” sta ad indicare ogni conoscenza che si occupi non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori.
A questo punto siamo in grado di intendere compiutamente il titolo del capolavoro di Kant, che può essere interpretato nel seguente modo: “esame critico della validità e dei limiti che la ragione umana possiede in virtù dei suoi elementi puri o a priori”.

L’ESTETICA TRASCENDENTALE
Nell’Estetica Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori. Kant considera la sensibilità “recettiva” perché essa non genera i propri contenuti, ma li accoglie, per intuizione, dalla realtà esterna o dall’esperienza interna. Tuttavia, la sensibilità non è soltanto recettiva, ma anche attiva, in quanto organizza il materiale delle sensazioni (= le intuizioni empiriche) tramite lo spazio e il tempo, che costituiscono le forme a priori (= le intuizioni pure) della sensibilità.
Lo spazio è la forma del senso esterno, cioè quella “rappresentazione a priori, necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne” e del disporsi delle cose “l’una accanto all’altra”. Il tempo è la forma del senso interno, cioè quella rappresentazione a priori che sta a fondamento dei nostri stati interni e del loro disporsi l’uno dopo l’altro, ovvero secondo un ordine di successione. Tuttavia, poiché è unicamente attraverso il senso interno che ci giungono i dati del senso esterno, il tempo si configura anche come la forma del senso esterno, cioè come la maniera universale attraverso la quale percepiamo tutti gli oggetti.

L’ANALITICA TRASCENDENTALE
La seconda parte della Dottrina degli elementi è la Logica trascendentale, cioè un tipo di logica che ha come specifico oggetto di indagine le conoscenze a priori che sono proprie dell’intelletto (studiato nell’Analitica trascendentale) e della ragione (studiata nella Dialettica trascendentale).
Sensibilità e intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza, poiché “senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto [senza intuizioni] sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche”. Ma che cosa sono i concetti? Kant sostiene che le intuizioni sono delle affezioni (ossia qualcosa di passivo), mentre i concetti sono delle funzioni, ovvero delle operazioni attive, che consistono nell’ordinare o nell’unificare diverse rappresentazioni “sotto una rappresentazione comune”. Ad esempio, quello di corpo è un concetto in quanto sotto di esso si trovano raccolte altre rappresentazioni (v. quella di metallo). Ora, i concetti possono essere empirici, cioè costruiti con materiali ricavati dall’esperienza, o puri, cioè contenuti a priori nell’intelletto.
I concetti puri si identificano con le categorie (nel senso aristotelico del termine), cioè con quei concetti basilari della mente che rappresentano le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto. Tuttavia, a differenza delle categorie aristoteliche, che hanno un valore ontologico e gnoseologico al tempo stesso, essendo simultaneamente forme dell’essere e del pensiero, le categorie kantiane hanno una portata esclusivamente gnoseologico-trascendentale, in quanto rappresentano dei modi di funzionamento dell’intelletto che non valgono per la cosa in sé, ma solo per il fenomeno.
Kant formula il suo inventario sulla base del seguente “filo conduttore”: poiché pensare è giudicare [e giudicare significa attribuire un predicato ad un soggetto], ci saranno tante categorie [cioè tanti predicati primi] quante sono le modalità di giudizio [ovvero quante sono le maniere fondamentali tramite cui si attribuisce un predicato ad un soggetto]. E poiché la logica generale, secondo Kant, raggruppa i giudizi secondo la quantità, la qualità, la relazione e la modalità, fa corrispondere ad ogni tipo di giudizio un tipo di categoria.

LA DEDUZIONE TRASCENDENTALE
Formulata la tavola delle categorie, Kant si trova di fronte al problema della giustificazione della loro validità e del loro uso, problema che egli considera il “più difficile” della Critica e che denomina “deduzione trascendentale”.
Kant usa il termine “deduzione” non in senso logico-matematico, bensì in quello giuridico, nel quale significa la dimostrazione della legittimità di diritto di una pretesa di fatto. La “deduzione” delle categorie non consiste nella semplice prova che esse sono adoperate nella conoscenza scientifica, ma nella giustificazione che quest’uso è legittimo e quindi anche nella determinazione dei limiti di quest’uso, cioè del diritto della ragione ad impiegarle. Il problema della deduzione suona perciò in questo modo: perché le categorie, pur essendo forme soggettive della nostra mente, pretendono di valere anche per gli oggetti, ossia per una natura che, materialmente, non è l’intelletto a creare?
Nei confronti delle forme della sensibilità, cioè per lo spazio e per il tempo, tale problema non si affaccia. Infatti, un oggetto non può apparire all’uomo, cioè essere percepito lui, se non attraverso queste forme. Un oggetto che non è dato nello spazio e nel tempo non è un oggetto per noi, perché non è intuito. Invece, per quanto concerne le categorie, non è per nulla evidente che gli oggetti debbano sottostare ad esse.
La soluzione kantiana può essere articolata nei punti seguenti: 1) L’unificazione del molteplice non deriva dalla molteplicità stessa, che è sempre qualcosa di passivo, ma da un’attività sintetica che ha la sua sede nell’intelletto. 2) Distinguendo fra l’unificazione (= il processo tramite cui si attua la sintesi del molteplice) e l’unità stessa (= il principio in base a cui si realizza l’unificazione), Kant identifica la suprema unità fondatrice della conoscenza, che è qualcosa di diverso dalla semplice categoria di unità – con quel centro mentale unificatore che egli, per meglio sottolineare come esso non si identifichi con la psiche di questa o quella persona, ma con l’identica struttura mentale che accomuna gli uomini, denomina con il termine “io penso”, oppure con quelli affini di “appercezione” o “autocoscienza” trascendentale. Infatti, osserva il filosofo, senza tale autocoscienza le varie rappresentazioni non si configurerebbero come “mie” e quindi risulterebbero impossibili. 3) Ora, l’attività dell’“io penso” si attua tramite i giudizi, i quali sono i modi concreti con cui il molteplice dell’intuizione viene pensato. 4) Ma i giudizi si basano sulle categorie, che sono le diverse maniere di agire dell’“io penso”, ovvero le dodici funzioni unificatrici in cui si concretizza la sua attività sintetica. 5) Di conseguenza, gli oggetti non possono assolutamente venir pensati senza venir categorizzati. Il ragionamento kantiano consiste quindi nel mostrare che: a) poiché tutti i pensieri presuppongono l’“io penso” e b) poiché l’“io penso” pensa tramite le categorie, ne segue c) che tutti gli oggetti pensati presuppongono le categorie. Il che equivale a dire che la natura (fenomenica) obbedisce necessariamente alle forme (a priori) del nostro intelletto.
L’“io penso” rappresenta dunque ciò che rende possibile l’oggettività (= l’universalità e la necessità) del sapere. Infatti, senza l’“io penso”e le categorie tramite cui esso opera, saremmo chiusi nel cerchio della soggettività individuale.

GLI “SCHEMI TRASCENDENTALI”
Nell’Analitica dei principi Kant indaga il modo in cui le categorie si possono “applicare” ai fenomeni. Ciò avviene innanzitutto con la dottrina dello schematismo.
Con la deduzione trascendentale Kant ha mostrato come l’intelletto condizioni la realtà fenomenica tramite le categorie. Con la teoria dello schematismo mostra come ciò possa avvenire in concreto. Infatti, com’è possibile che l’intelletto condizioni effettivamente le intuizioni e quindi gli oggetti sensibili?
Kant risolve il problema affermando che l’intelletto, non potendo agire direttamente sugli oggetti della sensibilità, agisce indirettamente su essi tramite il tempo, che è il medium universale attraverso cui tutti gli oggetti sono percepiti. In altre parole, se il tempo condiziona gli oggetti, l’intelletto, condizionando il tempo, condizionerà gli oggetti. Ciò avviene perché l’intelletto, attraverso quella facoltà che Kant chiama “immaginazione produttiva”, determina la rete del tempo secondo gli “schemi” che corrispondono ognuno ad una delle categorie.
In generale, Kant intende per schema la rappresentazione intuitiva di un concetto. Come tale, lo schema, pur avendo una certa parentela con l’immagine, va distinto da essa. Per fare un esempio: lo schema di cane non coincide con l’immagine sensibile e particolare di questo o quel cane, ma si identifica con “una regola di base alla quale la mia immaginazione è posta in grado di delineare in generale la figura di un quadrupede, senza tuttavia chiudersi entro una particolare raffigurazione offertami dall’esperienza o in una qualsiasi immagine che io possa rappresentarmi in concreto”. La stessa cosa vale per gli schemi di triangolo, numero, ecc., e per quella specifica classe di schemi che corrispondono alle categorie e che Kant chiama schemi trascendentali.
Tali schemi trascendentali sono la prefigurazione intuitiva (= temporale) delle categorie, ovvero le regole attraverso cui l’intelletto condiziona il tempo in conformità ai propri concetti a priori. In altri termini, potremmo dire che gli schemi trascendentali sono le categorie “tradotte” nel linguaggio temporale.

AMBITI D’USO DELLE CATEGORIE E IL CONCETTO DI “NOUMENO”
L’originalità del copernicanesimo filosofico di Kant consiste non solo nel cercare la garanzia ultima della conoscenza nella mente stessa dell’uomo anziché negli oggetti o in Dio, ma anche nell’intendere il fondamento del sapere in termini di possibilità e di limiti, cioè conformemente al modo d’essere di quell’ente pensante finito che è l’uomo.
Le idee di Kant a questo proposito sono nette e inequivocabili: le categorie, essendo la facoltà logica di unificare il molteplice della sensibilità, funzionano solo in rapporto al materiale che esse organizzano, ossia in connessione con le intuizioni spazio-temporali cui si applicano. Considerate di per sé, cioè senza essere riempite di dati provenienti dal senso esterno o interno, sono “vuote”. Questo fa sì che esse risultino operanti solo in relazione al “fenomeno”, intendendo per quest’ultimo l’oggetto proprio della conoscenza umana, che è sempre sintesi di un elemento materiale e di uno formale. Di conseguenza, il conoscere, per Kant, non può estendersi al di là dell’esperienza, in quanto una conoscenza che non si riferisca ad un’esperienza possibile non è conoscenza, ma un vuoto pensiero che non conosce nulla. Questo principio esclude che le categorie abbiano, secondo la terminologia di Kant, un uso trascendentale, per il quale vengono riferite alle cose in generale e in se stesse; e implica che il loro unico uso possibile sia quello empirico, per il quale vengono riferite solo ai fenomeni, ossia agli oggetti di un’esperienza determinata.
La delimitazione della conoscenza al fenomeno – e quindi alla scienza, che è sempre conoscenza fenomenica – comporta un esplicito rimando alla nozione di “cosa in sé”, che pur essendo inconoscibile, costituisce il presupposto o il postulato immanente del discorso gnoseologico di Kant, il quale, nel momento stesso in cui afferma che l’essere si dà a noi attraverso delle forme a priori, è costretto a distinguere immediatamente tra fenomeno e cosa in sé.
A questo proposito, Kant ha sempre ribadito che l’ambito della conoscenza umana è rigorosamente limitato al fenomeno, poiché la cosa in sé – che egli, in contrapposizione al fenomeno (= l’apparenza sensibile), denomina con il termine greco noumeno (= la realtà pensabile, l’intelligibile puro) – non può divenire, per definizione, oggetto di un’esperienza possibile.

LA DIALETTICA TRASCENDENTALE
Nell’Estetica e nell’Analitica Kant ha portato a termine solo la prima parte del suo programma: la dimostrazione di come sia possibile il sapere scientifico. Nella Dialettica egli affronta la seconda parte di esso: il problema se la metafisica possa anch’essa costituirsi come scienza. Già il termine “dialettica” – assunto a significare l’arte sofistica di dare alla propria ignoranza l’aspetto della verità – lascia intuire la risposta negativa di Kant a tal proposito.
Per “Dialettica trascendentale” Kant intende l’analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica. La metafisica è un parto della ragione; questa, a sua volta, in partenza non è altro che l’intelletto stesso, il quale, essendo la facoltà logica di unificare i dati sensibili tramite le categorie, è inevitabilmente portato a voler pensare, anche senza dati.
Kant ritiene che questo voler procedere oltre i dati esperienziali derivi dalla nostra innata tendenza all’incondizionato e alla totalità. In altre parole, la nostra ragione, mai paga del mondo fenomenico, che è il campo del condizionato e del relativo, è irresistibilmente attratta verso il regno dell’assoluto e quindi verso una spiegazione globale di ciò che esiste. Spiegazione che fa leva sulle tre idee trascendentali che sono proprie della ragione. Infatti, quest’ultima è portata ad unificare i dati del senso interno mediante l’idea di anima, che è l’idea della totalità assoluta dei fenomeni interni, ad unificare i dati del senso esterno mediante l’idea di mondo, che è l’idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni; infine, ad unificare i dati interni ed esterni mediante l’idea di Dio, inteso come totalità di tutte le totalità e fondamento di tutto ciò che esiste.
L’errore della metafisica consiste nel trasformare queste tre esigenze (mentali) di unificazione dell’esperienza in altrettante realtà, dimenticando che noi non abbiamo mai a che fare con la cosa in sé, ma solo con la realtà non oltrepassabile del fenomeno.
La Dialettica trascendentale vuole appunto essere lo studio critico e la denuncia impietosa delle avventure e dei fallimenti del pensiero quando procede oltre gli orizzonti dell’esperienza possibile, guidato da un’illusione strutturale così forte che non cessa neppure quando di rende conto che essa è tale.

LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
La ragione non serve solo a dirigere la conoscenza, ma anche l’azione. Accanto alla ragione teoretica abbiamo quindi una ragione pratica. Mentre nella Critica della ragion pura Kant ha criticato le pretese della ragione teoretica (che rappresentano un eccesso) di valicare i limiti dell’esperienza, nella Critica della ragion pratica egli ha criticato invece le pretese opposte della ragion pratica (che rappresentano un difetto) di restar legata sempre e solo all’esperienza.
Il motivo che sta alla base della Critica della ragion pratica è la persuasione che esista, scolpita nell’uomo, una legge morale a priori valida per tutti e per sempre. In altri termini, come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall’idea dell’esistenza di conoscenze scientifiche universali e necessarie, nella Critica della ragion pratica muove dall’analogo convincimento dell’esistenza di una legge etica assoluta.
Che esista qualcosa come una legge morale assoluta o “incondizionata” (come la chiama testualmente Kant) è qualcosa su cui il filosofo non ha dubbi. Infatti, dal suo punto di vista, o la morale è una chimera, in quanto l’uomo agisce in virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste, risulta per forza incondizionata, presupponendo una ragion pratica “pura”, cioè capace di svincolarsi dalle inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo stabile. Di conseguenza, la tesi dell’assolutezza o incondizionatezza della morale implica, per Kant, due concetti di fondo strettamente legati fra loro: la libertà dell’agire e la validità universale e necessaria della legge. Infatti, essendo incondizionata, la morale implica la capacità umana di autodeterminarsi al di là delle sollecitazioni istintuali, facendo sì che la libertà si configuri come primo presupposto – o postulato, come Kant dirà in seguito – della vita etica. Essendo indipendente dagli impulsi del momento e da ogni condizione particolare, la legge risulterà anche, per definizione, universale e necessaria, ossia immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e luogo.
Per Kant la morale è absoluta, cioè sciolta dai condizionamenti istintuali, non nel senso che possa prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi rispetto ad essi. La morale gioca infatti all’interno di una tensione fra ragione e sensibilità. Se l’uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia impulso, è ovvio che essa non esisterebbe, perché l’individuo agirebbe sempre per istinto. Viceversa, se l’uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe ugualmente di senso, in quanto l’individuo sarebbe sempre in quella che Kant chiama “santità” etica, ovvero i una situazione di perfetta adeguazione alla legge.
Invece, la bidimensionalità dell’essere umano fa sì che per Kant l’agire morale prenda la forma severa del “dovere” e si concretizzi in una lotta permanente fra la ragione e gli impulsi egoistici. Da ciò la natura finita, ossia limitata e imperfetta, dell’uomo, che può agire secondo la legge, ma anche contro la legge.

LA “CATEGORICITÀ” DELL’IMPERATIVO MORALE
Kant distingue i “principi pratici” che regolano la nostra volontà in massime e imperativi. La massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida esclusivamente per l’individuo che la fa propria (ad esempio può essere una massima quella di vendicarsi di ogni offesa subita o di alzarsi presto al mattino per fare ginnastica). L’imperativo è una prescrizione di valore oggettivo, ossia che vale per chiunque.
Gli imperativi si dividono a loro volta in imperativi ipotetici e in imperativo categorico. Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini e hanno la forma del “se… devi” (ad esempio: se vuoi conseguire buoni risultati scolastici, devi impegnarti in modo costante). L’imperativo categorico ordina invece il dovere in modo incondizionato, ossia a prescindere da qualsiasi scopo, e non ha la forma del “se… devi”, ma del “devi” puro e semplice.
Ora, essendo la morale strutturalmente incondizionata, cioè indipendente dagli impulsi sensibili e dalle mutevoli circostanze, risulta evidente che essa non potrà risiedere negli imperativi ipotetici, che sono, per definizione, condizionati e variabili. Infatti, solo l’imperativo categorico, in quanto incondizionato, ha i connotati della legge, ovvero di un comando che vale in modo perentorio per tutte le persone e per tutte le circostanze. In conclusione, solo l’imperativo categorico, che ordina un “devi” assoluto, e quindi universale e necessario, ha in se stesso i contrassegni della moralità.
Posto che la legge etica assuma la forma di un “imperativo categorico”, che cosa comanda quest’ultimo? Kant risponde che esso, in quanto incondizionato – ossia non richiedente altro che il rispetto della legge in generale – consiste nell’elevare a legge l’esigenza stessa di una legge. E poiché dire legge è dire universalità, esso si concretizza nella prescrizione di agire secondo una massima che può valere per tutti. Da ciò la formula base dell’imperativo categorico: “Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale”. In altri termini, l’imperativo categorico – il quale si identifica con la ragione stessa, ovvero con la sua universalità elevata a legge – è quel comando che prescrive di tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda che un comportamento risulta morale solo se, e nella misura in cui, la sua massima appare universalizzabile.
Questa è l’unica formula che Kant presenta nella Critica della ragion pratica. Invece, nella Fondazione della metafisica dei costumi troviamo anche una seconda e una terza formula. La seconda afferma: “agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. In altri termini, rispetta la dignità umana che è in te e negli altri, evitando di ridurre il prossimo o te medesimo a semplice mezzo del tuo egoismo e delle tue passioni.
La terza formula prescrive di agire in modo tale che “la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice”. Questa formula ripete, in parte, la prima. Tuttavia, a differenza di essa, che puntualizza soprattutto la legge, quest’ultima sottolinea in modo particolare l’autonomia della volontà, chiarendo come il comando morale non sia un imperativo esterno e schiavizzante, ma il frutto spontaneo della volontà razionale, la quale, essendo legge a se medesima, fa sì che noi, sottomettendoci ad essa, non facciamo che obbedire a noi stessi.

I “POSTULATI” DELLA RAGION PRATICA
Se nella prima parte della Critica della ragion pratica Kant ha studiato il dovere, nella seconda parte prende in considerazione l’assoluto morale o sommo bene. Come sappiamo, la felicità non può mai erigersi a motivo del dovere, perché in tal caso metterebbe in forse l’incondizionatezza della legge etica. Tuttavia la virtù, pur essendo il “bene supremo”, non è ancora, secondo Kant, quel “sommo bene” cui tende irresistibilmente la nostra natura, che consiste nell’addizione di virtù e felicità.
Ma in questo mondo virtù e felicità non sono mai congiunte, in quanto lo sforzo di essere virtuosi e la ricerca della felicità sono due azioni distinte e per lo più opposte, dal momento che l’imperativo etico implica la sottomissione delle tendenze e l’umiliazione dell’egoismo. Di conseguenza, virtù e felicità costituiscono l’antinomia etica per eccellenza. Kant afferma che l’unico modo per uscire da tale antinomia è di “postulare” un mondo dell’aldilà in cui possa realizzarsi l’equazione virtù = felicità.
Kant trae il termine “postulato” dal linguaggio matematico. In matematica, mentre si dicono assiomi le verità fornite di auto-evidenza, si chiamano postulati quei principi che, pur essendo indimostrabili, vengono accolti per rendere possibili determinate verità geometriche. Analogamente, i postulati di Kant sono quelle proposizioni non dimostrabili che ineriscono alla legge morale come condizione della sua stessa esistenza, ovvero quelle esigenze della morale che vengono ammesse per rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che di per se stesse non possono venir dimostrate. I postulati tipici di Kant sono l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio.
Per quanto concerne il postulato dell’immortalità, Kant afferma che: a) poiché solo la santità, cioè la conformità completa della volontà alla legge, rende degni del sommo bene e b) poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, c) si deve per forza ammettere che l’uomo, oltre il tempo finito dell’esistenza, ossa disporre di un tempo infinito grazie a cui progredire verso la santità.
Se la realizzazione della prima condizione del sommo bene, ossia la santità, implica il postulato dell’immortalità dell’anima, la realizzazione del secondo elemento del sommo bene, cioè la felicità proporzionata alla virtù, comporta il postulato dell’esistenza di Dio, ossia la credenza in una “volontà santa ed onnipotente”, che faccia corrispondere la felicità al merito.
Accanto ai due postulati “religiosi” dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio, Kant pone un altro postulato: la libertà. Quest’ultima è infatti la condizione stessa dell’etica, che nel momento stesso in cui prescrive il dovere presuppone anche che si possa agire o meno in conformità ad esso e che quindi si sia sostanzialmente liberi.

LA CRITICA DEL GIUDIZIO
Come si è visto, dalla Critica della ragion pura emergeva una visione della realtà in termini meccanicistici, in quanto la natura, dal punto di vista fenomenico, appariva come una struttura causale e necessaria, entro la quale non trovava posto la libertà umana. Dalla Critica della ragion pratica affiorava invece una visione della realtà in termini finalistici, in quanto si postulava, come condizione della morale, la libertà dell’uomo e l’esistenza di Dio. In altre parole, da un lato campeggiava un mondo fenomenico e deterministico.
Nella Critica del giudizio, Kant studia il sentimento, così come nella Critica della ragion pura aveva analizzato la conoscenza e nella Critica della ragion pratica la morale. Procedendo oltre la bipartizione tradizionale delle facoltà, Kant fa del sentimento una “terza facoltà” e un campo di attività autonoma. Il sentimento di cui egli parla va però inteso come la peculiare facoltà mediante cui l’uomo fa esperienza di quella finalità del reale che la prima Critica escludeva sul piano fenomenico e la seconda postulava a livello noumenico.
Ciò non significa tuttavia, come talora si è interpretato, che la Critica del giudizio sia un superamento del dissidio fra le due opere precedenti. Infatti, sebbene il sentimento tenda a figurarsi il mondo fisico in termini di finalità e di libertà, esso rappresenta soltanto, secondo Kant, un’esigenza umana che, come tale, non ha un valore di tipo conoscitivo e teoretico. In altri termini il sentimento permette, nel soggetto, l’incontro tra i due mondi.
Per Kant i giudizi sentimentali costituiscono il campo dei giudizi riflettenti, in contrapposizione l campo dei giudizi determinanti. Questi ultimi sono i giudizi conoscitivi e scientifici studiati dalla Critica della ragion pura, cioè quei giudizi che “determinano” gli oggetti fenomenici mediante forme a priori universali (spazio, tempo e le 12 categorie). I giudizi riflettenti sono invece i giudizi sentimentali, che si limitano a “riflettere” su una natura già costituita mediante i giudizi determinanti e ad apprenderla attraverso le nostre esigenze universali di finalità e di armonia. Kant afferma che se nel primo caso l’universale è già dato dalle forme a priori, nel secondo caso l’universale – che in questo caso si identifica con il principio della finalità della natura – va “cercato” partendo dal particolare. Tuttavia, mentre i giudizi determinanti sono oggettivi e scientificamente validi, almeno per quanto concerne il fenomeno, i giudizi riflettenti esprimono più che altro un “bisogno”, che è tipico dell’uomo. La Critica del giudizio si configura dunque come un’analisi dei giudizi riflettenti, per cui la parola “Giudizio”, che compare nel titolo, assume il significato di una facoltà che Kant ritiene intermedia fra l’intelletto e la ragione, fra la conoscenza e la morale.
I due tipi fondamentali di giudizio riflettente sono quello estetico, che verte sulla bellezza, e quello teleologico, che riguarda il discorso sugli scopi della natura. Entrambi sono giudizi sentimentali puri, cioè derivanti a priori dalla nostra mente, anche se si distinguono fra loro per il diverso rimando al finalismo. Infatti, mentre nel giudizio estetico noi viviamo immediatamente o intuitivamente la finalità della natura (ad esempio, di fronte ad un bel paesaggio, lo avvertiamo in sintonia con le nostre esigenze spirituali), nel giudizio teleologico noi pensiamo concettualmente tale finalità mediante la nozione di scopo (ad esempio, riflettendo sullo scheletro, diciamo che esso è stato prodotto al fine di reggere l’animale). Nel primo caso, la finalità esprime un “venir incontro” dell’oggetto alle aspettative estetiche del soggetto, mentre nel secondo caso essa esprime un carattere proprio dell’oggetto.

IL SUBLIME
La forma più alta del giudizio estetico è l’osservazione del sublime. Kant definisce il sublime come un “concetto indefinito della ragione”. Esso si basa sull’emozione che provoca in noi il contatto con l’infinito e l’incommensurabile. Il sublime si divide in matematico e dinamico: il primo si ha quando uno spettacolo naturale (ad esempio il cielo stellato) o un pensiero (ad esempio la vita eterna) ci fanno porre a confronto la nostra finitezza con l’infinito e l’eterno; il secondo si ha quando l’osservazione di un fenomeno (ad esempio una tempesta) pone la nostra limitatezza di esseri umani al cospetto della forza e dell’immensità delle potenze naturali. Il sublime, nelle sue due forme, ridesta in noi il sentimento dell’infinito. Sia il bello sia il sublime ci fanno scoprire negli oggetti e nella natura un valore sovrasensibile che la scienza non può cogliere.

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