l'emancipazione femminile in italia

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Testo

Storia dell’emancipazione femminile in Italia
Adesso le donne, anche in Italia, sono cittadine di serie A, al pari degli uomini. Esse sono padrone di se stesse e godono dell’uguaglianza giuridica e di tutti gli stessi diritti degli uomini. Possono accedere a tutte le professioni e a tutti gli uffici. Ma, come si può ben immaginare, non è sempre stato così.
In passato la donna era un accessorio del capofamiglia.
Nel Codice di Famiglia del 1865 le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi né tanto meno quello ad essere ammesse ai pubblici uffici. Le donne, se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro perché ciò spettava al marito.
Alle donne veniva ancora chiesta “l’autorizzazione maritale” per donare, alienare beni immobili, sottoporli a ipoteca, contrarre mutui, cedere o riscuotere capitali; tale autorizzazione era necessaria anche per ottenere la separazione legale.
L’articolo 486 del Codice Penale prevedeva una pena detentiva da 3 mesi a 2 anni per la donna adultera mentre puniva il marito solo in caso di concubinato.
Nel periodo risorgimentale in Italia il dibattito sui diritti delle donne, la loro educazione ed emancipazione fu assai provinciale. Molti degli “illustri pensatori” del Risorgimento italiano si limitarono a ribadire la soggezione della donna.
Vincenzo Gioberti
Secondo Gioberti: “La donna insomma è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostenta da sé”.
Antonio Rosmini
Per Rosmini: “Compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie e sta bene essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata”.
Simili teorie furono alla base del Diritto di Famiglia dell’Italia Unita, riformato soltanto nel 1975.
Anche per quanto riguardava i diritti politici, il dibattito in Italia era stato assai poco acceso. Le stesse donne attive sulla scena politica erano uno sparuto gruppo di eccezioni.
Nel 1966 la contessa di Belgioioso, patriota e letterata, scriveva in proposito: “Quelle poche voci femminili che si innalzano chiedendo agli uomini il riconoscimento formale della loro uguaglianza, hanno più avversa la maggior parte delle donne che degli uomini stessi. […] Le donne che ambiscono ad un nuovo ordine di cose, debbono armarsi di pazienza e abnegazione, contentarsi di preparare il suolo, seminarlo, ma non pretendere di raccoglierne le messi”.
Infatti la Camera dei Deputati del Regno d’Italia respinse la proposta dell’on. Morelli volta a modificare la legge elettorale che escludeva dal voto politico e amministrativo le donne al pari degli analfabeti, interdetti e detenuti in espiazione di pena ed a concedere quindi alle donne tutti i diritti riconosciuti ai cittadini.
Nonostante Anna Maria Mozzoni avesse fondato nel 1879 una lega promotrice degli interessi femminili, le prime femministe italiane si interessarono molto di più delle questioni sociali anche per influenza del neo- nato Partito Socialista.
Effettivamente la condizione socio- economica delle donne tra fine ‘800 e inizio ‘900 era di drammatica disparità; quasi tutte le donne occupate nell’agricoltura non venivano riconosciute come lavoratrici a meno che non fossero titolari di una proprietà o di un contratto di affitto.
In ogni caso lo stipendio delle lavoratrici era in genere poco più della metà di quello dei lavoratori di sesso maschile.
Poiché anche il lavoro dei bambini era assai diffuso e sotto- pagato, prima della Prima Guerra Mondiale furono emanate alcune leggi per tutelare donne e fanciulli quali soggetti deboli e sfruttati.
La legge sul lavoro femminile del 1902 però finì per limitare ancora una volta i diritti delle donne: se da un alto essa concedeva 4 settimane di riposo- non pagato- alle puerpere, dall’altro vietava l’impiego di lavoratrici in alcuni lavori ritenuti pericolosi; i lavori pericolosi contenuti nel decreto attuativo erano in realtà lavori ideologicamente ritenuti incompatibili con le attitudini femminili.
Lo stato mostrava così di voler favorire al massimo il rientro delle donne in quella che riteneva essere la loro sede naturale: la casa.
D’altronde nell’enciclica papale Rerum Novarum di Leone XIII uscita in quegli anni era scritto: “ Certi lavori non si confanno alle donne, fatte da natura per i lavori domestici, i quali grandemente proteggono l’onestà del debole sesso”.
La legge del 1902 tradiva anche la speranza di ridurre il divario salariale con gli uomini: le lavoratrici fra i 16 e i 21 anni venivano equiparate in capacità e abilità ai lavoratori con meno di 15 anni.
Nel frattempo era emersa chiaramente l’ostilità della maggioranza dei lavoratori di sesso maschile a qualunque norma a favore delle lavoratrici nel timore che potesse aumentare la concorrenza del lavoro femminile; così anche il Partito Socialista e le sue organizzazioni sindacali non perorarono la causa della tutela del lavoro femminile.
Sul versante dei diritti civili e politici, erano nate frattanto l’Associazione Nazionale per la Donna a Roma nel 1897, l’Unione Femminile Nazionale a Milano nel 1899 e nel 1903 il Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, aderente al Consiglio Internazionale Femminile.
Sul fronte dell’istruzione venne permesso soltanto nel 1874 l’accesso delle donne ai licei e alle università anche se in realtà continuarono ad essere respinte le iscrizioni femminili.
Nel 1900 risultavano comunque iscritte all’università in Italia 250 donne, 287 ai licei, 267 alle scuole di magistero superiore, 1178 ai ginnasi e quasi 10.000 alle scuole professionali e commerciali; quattordici anni dopo le iscritte agli istituti di istruzione media saranno circa 100.000.
Nel 1903 venne convocato il primo Consiglio Nazionale delle Donne Italiane, articolato in vari settori sui diritti sociali, economici, civili e politici; negli anni seguenti nasceranno associazioni orientate verso il raggiungimento dei diritti civili e politici come l’Alleanza Femminile e il Comitato Nazionale Pro- Suffragio e associazioni legate a partiti e ideologie di altro tipo come l’UDACI (Unione Donne di Azione Cattolica Italiana), che si batteva contro la laicizzazione della scuola, e l’Unione Nazionale delle Donne Socialiste, che svolse interessanti inchieste sul lavoro femminile.
Maria Montessori
Nel 1906 la studiosa di pedagogia Maria Montessori si appellò alle donne italiane attraverso le pagine de “La Vita” affinché si iscrivessero alle liste elettorali; sulla stampa si scatenò un dibattito tra i fautori del voto alle donne e i contrari. Le corti di appello delle varie città respinsero però tali iscrizioni tranne la corte di Ancona dov’era presidente Ludovico Mortara ma anche questa sentenza venne annullata dalla Corte di Cassazione.
Nel frattempo però alcune donne riuscirono ad entrare in ambiti da cui fino ad allora erano escluse: nel 1907 Ernestina Prola fu la prima donna italiana ad ottenere la patente, nel 1908 Emma Strada si laureò in Ingegneria, nel 1912 Teresa Labriola si iscrisse all’Albo degli Avvocati e infine Argentina Altobelli e Carlotta Chierici vennero elette al consiglio superiore del lavoro.
Nel 1908 si era tenuto a Roma nel Campidoglio il primo Congresso delle donne italiane inaugurato dalla Regina Elena ed al quale erano presenti molte donne della nobiltà.
Le risoluzioni del congresso auspicavano una rigorosa applicazione sull’obbligo scolastico, la fondazione di casse di assistenza e previdenza per la maternità e la richiesta di poter esercitare gli uffici tutelari; tutte le mozioni vennero accettate a maggioranza, tranne una sull’insegnamento religioso che determinò la scissione delle donne cattoliche e la creazione dell’UDACI, poi chiamato Unione Femminile Cattolica.

Nel 1910 il Comitato Pro- Suffragio chiese al Partito Socialista di pronunciarsi sulla questione del suffragio femminile e Turati si pronunciò contro il voto delle donne.
Filippo Turati
Anna Kuliscioff, compagna di Turati, gli rispose dalle pagine di “Critica Sociale”, difendendo il suffragio femminile.
Anna Kuliscioff
Nel Maggio del 1912, durante la discussione del progetto di legge della riforma elettorale che avrebbe concesso il voto agli analfabeti maschi, i deputati Mirabelli, Treves e Sonnino proposero un emendamento per concedere il voto anche alle donne; Giolitti però si oppose strenuamente, definendolo un “salto nel buio”.
Con la Prima Guerra Mondiale i posti di lavoro persi dagli uomini chiamati al fronte vennero occupati dalle donne, nei campi ma soprattutto nelle fabbriche; con la fine della guerra però le donne furono accusate di rubare lavoro ai reduci e persero questi posti. Nel 1919 venne però abolita l’autorizzazione maritale dando così alle donne almeno l’emancipazione giuridica.
Il 6 Settembre del 1919 la Camera approvò la legge sul suffragio femminile con 174 voti favorevoli e 55 contrari; le Camere vennero però sciolte prima che anche il Senato potesse approvarla. L’anno successivo di nuovo la legge venne approvata dalla camera ma non fece in tempo ad essere approvata dal Senato perché vennero convocate le elezioni. Nel Marzo del 1922, venne presentata una semplice proposta di legge, il cui articolo unico recitava: “Le leggi vigenti sull’elettorato politico e amministrativo sono estese alle donne”; tale proposta ancora una volta non poté essere discussa ed in Ottobre vi fu la marcia su Roma.

Il fascismo, in verità, concesse il diritto di voto passivo ad alcune categorie di donne per le sole elezioni amministrative.
Benito Mussolini
Mussolini stesso, intervenendo al Congresso dell’Alleanza Internazionale Pro- Suffragio, aveva detto che il fascismo aveva intenzione di concedere il voto a molte categorie di donne; la legge Acerbo concedeva infatti il voto alle decorate, alle madri di caduti, a coloro che esercitassero la patria potestà, che avessero conseguito il diploma elementare, che sapessero leggere e scrivere e pagassero tasse comunali pari ad almeno 40 lire annue.
Il fascismo però subito dopo abolì quelle stesse elezioni amministrative a cui aveva ammesso le donne.
L’Associazione per la donna fu sciolta, mentre la nuova presidente del Consiglio Nazionale delle Donne Italiane fu nominata da Mussolini, segnando così la fine dell’associazione.
L’Unione Femminile Nazionale rimase in vita a lungo anche se priva di significato politico; sopravvisse insomma soltanto l’Unione Femminile cattolica allineata al fascismo e al ruolo di subordinazione della donna.
Nel frattempo il fascismo inaugurava una sua politica sul tema dei diritti delle donne: le donne vennero spinte per quanto possibile entro le mura domestiche secondo lo slogan: “la maternità sta alla donna come la guerra sta all’uomo”.
Le donne prolifiche venivano inoltre insignite di apposite medaglie.
Il controllo delle nascite era formalmente vietato dal Codice Rocco che lo considerava un “attentato all’integrità della stirpe”.
Per quanto riguardava il lavoro, i salari delle donne vennero fissati per legge alla metà di quelli corrispondenti degli uomini.
Inaugurando una strategia che poi sarebbe stata ripresa per la politica razziale, l’offensiva cominciò nella scuola dove fu formalmente vietato alle donne di insegnare lettere e filosofia nei licei e alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie; inoltre fu vietato loro di essere presidi di istituti, mentre le tasse scolastiche delle studentesse vennero raddoppiate.
Nel pubblico impiego le assunzioni di donne furono fortemente limitate, furono inoltre vietate loro la carriera e tutta una serie di posizioni prestigiose all’interno della pubblica amministrazione.
Il codice di Famiglia era già abbastanza retrivo ma venne lo stesse inasprito dal fascismo: le donne vennero poste in uno stato di totale sudditanza di fronte al marito, che poteva decidere autonomamente il luogo di residenza, al quale dovevano eterna fedeltà anche in caso di separazione.
Sul piano economico tutti i beni appartenevano al marito ed in caso di morte venivano ereditati dai figli, mentre alla donna spettava soltanto l’usufrutto.
Il nuovo Codice Penale inoltre confermò tutte le norme contrarie alle donne aggiungendo l’art. 587 che prevedeva la riduzione di un terzo della pena per chiunque uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere l’onor suo o della famiglia (il cosiddetto delitto d’onore).
Tuttavia, le donne partigiane durante il fascismo furono tutt’altro che poche.
Secondo il CNL- Italia le donne aderenti alla Resistenza furono: 75.000 appartenenti ai gruppi di difesa, 35.000 partigiane, 4563 tra arrestate, torturate e condannate, 623 fucilate e cadute, 2750 deportate, 512 commissarie di guerra e 15 decorate con medaglia d’oro; se si pensa che il numero complessivo di partigiani è valutato in circa 200.000 persone, si può vedere che le donne rappresentarono circa il 20% di essi.
Palmiro Togliatti Alcide de Gasperi
Il 1 Febbraio 1945 su proposta di Togliatti e de Gasperi venne infine concesso il voto alle donne. La Costituzione garantiva l’uguaglianza formale tra i due sessi anche se di fatto restavano in vigore tutte le discriminazioni legali vigenti durante il periodo precedente, in particolare quelle contenute nel Codice di famiglia e nel Codice Penale.
Nel 1959 uscì il libro di Gabriella Parca “Le italiane si confessano” suscitando un vero scandalo: per la prima volta donne di ogni strato sociale confessavano i rapporti con l’altro sesso, i ricatti subiti, le prevaricazioni ma anche i diffusi pregiudizi.
L’emancipazione comunque andava avanti anche se a piccoli passi.
Nel 1951 venne nominata la prima donna in un governo (la democristiana Angela Cingolani, sottosegretaria all’Industria e al Commercio).
Nel 1958 venne approvata la legge Merlin che aboliva lo sfruttamento statale della prostituzione e la minorazione dei diritti delle prostitute.
Nel 1959 nacque il Corpo di Polizia femminile con compiti sulle donne e su i minori.
Nel 1961 vennero aperte alle donne la carriera nel corpo diplomatico e in magistratura.
All’inizio del 1970 nell’ambito di un seminario organizzato dal Partito Radicale, nacque il Movimento di Liberazione della Donna (MDL) il quale, contrariamente ai suoi omologhi all’estero, ammetteva fra i suoi aderenti anche uomini.
Parallelamente all’MDL si costituì nel Settembre 1793 il Centro di Informazione, Sterilizzazione e Aborto (CISA) per iniziativa di Adele Faccio.
Nel 1974 partì la prima raccolta di firme per un referendum abrogativo che avrebbe legalizzato l’aborto, ma non vennero raggiunte le 500.000 firme necessarie.
Nel 1975 venne arrestato Giorgio Conciani per aver organizzato una clinica clandestina per gli aborti a Firenze; Gianfranco Spadaccia, Adele faccio e Emma Bonino del CISA si dichiararono corresponsabili e vennero arrestati nei mesi seguenti.
Nella primavera del 1975 vennero raccolte oltre 800.000 firme su un nuovo referendum abrogativo sull’aborto; prima però che i cittadini venissero chiamati a votare, il Parlamento approvò nel 1977 una legge sulla legalizzazione dell’aborto.
Frattanto nel 1970 era stato concesso il divorzio e nel 1975 era stato infine riformato il Diritto di Famiglia garantendo la parità legale fra i coniugi e la possibilità della comunione dei beni.
La società italiana era notevolmente cambiata e le leggi avevano in parte sancito tale cambiamento.
All’inizio del nuovo secolo è caduto anche l’ultimo baluardo di esclusione delle donne in ambito statale, quello militare.
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