Estetismo e edonismo

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Testo

INTRODUZIONE

Lo scopo che mi sono prefisso con lo sviluppo di questa traccia e` di mettere in evidenza, per quanto esaurientemente mi riesce, un particolare modo di “fare arte” e di concepire l’esistenza che si diffuse all’interno del Decadentismo europeo. Mi e` sembrato interessante scoprire come vi fosse una sostanziale osmosi tra gli esponenti delle culture dei vari paesi europei: non solo essi attingevano all’opera altrui rielaborando idee comuni, trasponevano esperienze all’interno della propria vicenda umana, prendevano a modello e declamavano la produzione e lo spirito di una personalità che ritenevano originale, ma intraprendevano anche delle relazioni di amicizia, di collaborazione e di più semplice confronto.
Ho inoltre creduto affascinante approfondire il rapporto tra culto del bello, raffinatezza e ricerca dell’esotico con il senso di decadenza e morte insito nell’animo dell’esteta, figura emblematica del malessere psicologico e spirituale, che tuttavia rifiuta di ammettere la crisi del proprio “io”. Concentrarsi esclusivamente sull’esteriorità dell’essere e` un segno di profonda lacerazione interiore, e proclamare ostentatamente la superiorità della forma rispetto al contenuto, in arte, letteratura e vita lascia supporre un enorme vuoto della persona. La certezza di essere giunto all’apice delle proprie capacita` e di aver dato il meglio di se` produce nell’uomo, oltre che un’ineffabile gaiezza, anche il presagio che tutto ciò che ci sarà nel suo futuro non potrà essere che peggiore.
Il disagio provato dall’uomo decadente deriva in parte anche dal dilagare delle idee democratiche, che, nella sua ottica innegabilmente egocentrica, che risente dell’influsso del “Superuomo” di
Nietzsche, gli appaiono un meschino tentativo di abbattere l’individualità del singolo a favore di un principio di ugualitarismo a lui incomprensibile.
La ricerca del piacere sensuale e` un altro topos ricorrente nell’arte di questo periodo che ha suscitato in me curiosità, ed e` un’altra spia della superficialità, molto spesso ben nascosta, dell’esteta.
Anche l’originalità del linguaggio dell’arte e della letteratura decadente mi ha spinto ad un simile approfondimento: tutto e` decisamente innovativo: il messaggio trasmesso al pubblico non pretende di essere educativo, ne` mira ad essere condiviso. Il lettore, o lo spettatore, deve provare emozione di fronte all’opera d’arte, e a tal fine è fondamentale la ricerca stilistica, che assurge a componente principale.
Il punto di partenza da me scelto potrebbe sembrare cronologicamente precoce, dovendo io occuparmi del nostro secolo. In realtà, la ricerca delle radici delle correnti culturali di inizio secolo mi hanno inevitabilmente riportato indietro di alcuni anni. In verità io ritengo che per comprendere appieno l’essenza di una qualsiasi realtà socio - culturale bisogna prescindere da limitazioni temporali o geografiche. Dunque, quando parliamo di primo Novecento, non possiamo non considerare gli ultimi decenni dello scorso secolo come un fenomeno ad esso unitario.
Con l'approssimarsi del XX secolo in Italia va configurandosi una profonda crisi, che coinvolge le istituzioni politiche, le arti figurative e la letteratura.
In ambito politico si assiste a un progressivo venir meno delle aspirazioni democratiche. La pratica del trasformismo comporto` una sostanziale impossibilita` di alternanza del potere, che fondamentalmente rimaneva nelle mani del ceto borghese. Inoltre, in ambito economico, essa pose un freno al processo di apertura del mercato nazionale, che era sembrato una passo avanti nella soluzioni di gravi disagi, quali arretratezza tecnica, latifondismo e squilibrio tra le varie regioni.
Si diffuse, specialmente tra le nuove generazioni, un senso di sfiducia e disgusto per la mediocre democrazia instauratasi, che genero` non poche invocazioni di regimi autoritari da parte della classe dirigente. Dall’altra parte, le masse contadine e operaie, che fino allora avevano sostenuto gli ideali democratici, contestavano lo stato liberale di matrice borghese, proponendo ben altre soluzioni di stampo marxista. Le risposte fornite dal ceto dominante alle istanze dettate dalla nuova coscienza della gente non lasciavano sperare in un miglioramento: i conflitti sociali venivano sanati con pesanti repressioni.
Bisogna ricercare nel clima di generale sfiducia nella politica la tendenza, manifestatasi nella maggior parte degli artisti e letterati degli ultimi due decenni del secolo scorso, a fuggire dal reale, a ricercare un rifugio dal “grigio diluvio democratico”, a difendere gelosamente la propria appartenenza di classe. L’aristocratica chiusura dell’intellettuale nella sua torre d’avorio non era un fenomeno nuovo, ne` tanto meno esclusivamente italiano. L’ondata antidemocratica aveva già travolto gran parte d’Europa, e numerose opere letterarie contribuirono a diffondere tali posizioni. Si registrano diversi tipi di reazione, che sono tuttavia accomunati da forti correnti irrazionalistiche. La più chiara espressione di questo modo di sentire si trova nella polemica contro il Positivismo, che mirava a demistificare la fiducia riposta nel potere della scienza. La fede nel progresso scientifico era, inoltre, uno dei presupposti ideologici della borghesia che aveva scalato i piani del potere e, conseguentemente, costituiva un motivo di avversione in più degli intellettuali nei confronti di tale dottrina. Ecco cosi` spiegato come trovano terreno fertile le idee nazionalistiche di Corradini e quelle pragmatiche di Papini.
Ma tra i fenomeni artistici di questo intervallo storico - culturale, che va sotto il nome di “Decadentismo”, e` senza dubbio l’estetismo uno dei più rilevanti.
UN NUOVO “TIPO UMANO”
L’esteta uomo e letterato è una figura complessa e molto intrigante. Lo scrittore si propone, con ogni mezzo, di suscitare nel lettore emozioni rare, forti e sconvolgenti. La letteratura degna si distingue soprattutto in base alla forma: la parola poetica è una rivelazione delle energie interne e ha la funzione di eccitare l’animo del lettore, di accarezzare l’orecchio con la sua musicalità, di comunicare immagini attraverso il suono. Il verso, la rima, la ricercatezza stilistica sono spesso il fine stesso del comporre, che presuppone una sensibilità e un gusto del tutto eccezionali.
E fuori dal comune, superlativo e brillante deve essere l’artista, che anela a raggiungere e a identificarsi con il bello.
L’uso di stupefacenti non è disdegnato: l’alcool e l’oppio sono certamente dei vizi, ma esistono per ragioni estetiche. Egli è convinto che il senso della vita non è nella realtà, ma nell’immaginarla; il sogno è più bello di qualsiasi realtà banale e mediocre, essendo la bellezza non intrinseca all’oggetto, ma all’immagine che ci colpisce e che ci trasmette emozioni. Di qui nasce la ricerca del piacere e la convinzione dell’esteta che la sua salvezza risieda proprio nel vizio.
Egli intraprende una lotta contro la virtù, non quella vera, ma quella che appare tale, che si fa credere e lodare come virtù: combatte il fariseo, l’ipocrita, l’ingiusto che sembra giusto. Non gli resta che contrapporre alla società della falsa virtù il peccato vero, eccezionale, eroico, che s’imponga all’attenzione dei falsi benpensanti e moralisti.
Si possono distinguere due forme diverse di intendere l’estetismo: la vita come piacere e la vita come bellezza. Entrambi richiedono una sensibilità raffinata e molto acuta, ma proprio le sensazioni più complicate sono quelle migliori.
Alla bellezza, per essere tale, è necessario il vizio, il ripugnante, l’orrido. Amare la vita significa renderla unica, perfetta, sovrumana, fino all’esasperazione delle perversioni sadiche che procurano l’estremo e crudele piacere.
Per l’edonista il piacere estetico e quello sensuale sono la realizzazione dell’uomo, ma pochissimi individui sono capaci di raggiungere l’ideale. Esteta non è colui che gode semplicemente delle situazioni della vita, ma chi è in continua ricerca di sensazioni ed esperienze nuove. Egli s’innamora di tutto ciò che passa e non dura, ed è proprio il passare di quel di cui s’innamora che gli garantisce la sua libertà: quando si attacca a qualcosa non vuole compromettersi.
La donna, che tanta parte ha nei suoi pensieri, spesso non è altro che cavia di esperimento, una fonte di piacere mutevole e di sensazioni straordinarie. Quando la sua bellezza è sfiorita, o ha perduto qualcosa, egli procederà ad una sostituzione di persona. Il matrimonio non può essere accettato, in quanto è antiestetico: è un impegno deprecabile che uccide la bellezza e il piacere, un rifugio per i deboli, una condanna al tedio.
Edonista, colto, amorale, insoddisfatto ed egoista: così si presenta l’esteta, che in fin dei conti non fa altro che evadere dalla vita per rifugiarsi in un’inerzia e in un disimpegno dalla politica, dagli affari, dal mondo. È anche questo un modo di protestare contro la società capitalista, industriale e commerciale dell’Ottocento: egli è convinto che il mondo degli affari e delle macchine, della produzione e del denaro sia brutto, mentre ritiene quello delle lotte politiche e sociali ottuso e avvilente. Egli pertanto se ne disinteressa e se ne sta col suo ideale di arte e di bellezza, per il quale è pronto a sacrificare la vita. A nulla valgono la fede scientifica e gli imperativi della morale, né tanto meno va presa in considerazione l’ipocrisia della religione.
La sua è una nobiltà che spesso trova la sua legittimazione nell’autoconservazione più che nella genealogia, che si manifesta in primo luogo con l’eccentricità nel vestire, nell’atteggiarsi e nello spirito di provocazione, ovvero nel dandysmo.
Tuttavia questo modo di vivere presenta dei limiti: l’incompatibilità del suo modo di sentire e il passare di tutte le cose che catalizzano la sua attenzione proiettano questo tipo umano nella più profonda e irrimediabile solitudine. Il concentrarsi esclusivamente sull’attimo, sul piacere immediato fa si che l’impossibilità di rivivere le situazioni passate si trasformi in un insolubile problema esistenziale. Il dramma dell’esteta sta appunto nell’invecchiare, nel perdere il prestigio e la considerazione conseguiti nella sua tumultuosa e sregolata giovane età.

ARTE E LETTERATURA INGLESE
Una svolta nel gusto letterario e artistico in senso estetizzante si ebbe già nell’Inghilterra vittoriana, dove la confraternita preraffaellita, fondata nel 1848 da Dante Gabriel Rossetti (1828-1882), assorbendo le idee di John Ruskin (1819-1900), predicava un ritorno alla natura inteso in forma quasi mistica, rifiutando in blocco il materialismo e il realismo convenzionale, che avevano dato forma all’arte in quell’epoca di forte sviluppo industriale.
La fondazione della confraternita risale al 1848. Alcuni giovani artisti e letterati inglesi si riunirono in questa società che rivoluziono` l’arte estendendo la propria influenza sino alla fine del XIX secolo. I membri, di cui i più rilevanti sono Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt e John Everett Millais, dichiaravano le loro inclinazioni artistiche espressamente modellate sull’arte italiana del XV secolo, sui precedenti, appunto, di Raffaello. Prediligevano la produzione di quell’epoca perché era espressamente anticlassicista, semplice, naturalista.
I dipinti di questi giovani destarono scandalo nel tranquillo pubblico vittoriano, sollevando una furiosa polemica e un’ondata di proteste. Essi avevano infatti il gusto di trattare temi religiosi, come la vita di Cristo e dei santi, calandoli in panni indecentemente dimessi e quotidiani, abbandonando ogni decoro di forme e ogni magniloquenza. Per quanto riguarda i soggetti soggetti storici, assunsero un atteggiamento vicino a quello romantico, rifiutando la mitologia greca e romana e prediligendo il periodo medievale, di cui accentuarono i toni romanzi. Esaltavano la natura paesaggistica, contro ogni accademismo e manierismo, ma anche differentemente rispetto ai naturalisti francesi. Vi erano notevoli ambiguità nella loro arte: curavano gli elementi pittorici con meticolosità e pulizia; lodavano la semplicità d’animo ma ogni loro scena si caricava di eleganza e di raffinatezza. Fecero, a detta di critici come M. Vinciguerra, degli errori di valutazione: interpretarono le ingenuità tecniche dei “primitivi”, quali la deficienza di prospettiva o la pittura “per sezioni”, come delle geniali intuizioni; trasportarono delle tecniche di pittura di affreschi sulla tela; rifiutarono gli sfondi scuri comuni nel diciottesimo secolo e scelsero le tinte fondamentali, cosicché il quadro preraffaellita si presentava come una giustapposizione di tinte elementari.
Il movimento preraffaellita si appellava alla categoria di un “dover essere” ideale nel tentativo di ridefinire il volto di una rigenerata società moderna dove possano convivere una componente quotidiana, naturalistica, e un’altra idealizzante-nobilitante. Bisognava, dunque, accettare lo stato sociale circostante senza sottoporlo a verifiche, ma piuttosto procedendo ad idealizzarlo, riflettendone un’immagine particolarmente decorosa. Si trattava, allora, di curare l’aspetto esteriore della realtà, correggendolo laddove presentava dei difetti o dei tratti esteticamente non belli.
La figura di Ruskin e` essenziale per comprendere soprattutto il background dal quale origino` la confraternita.
“John Ruskin e` il padre del Preraffaellismo perché egli inondo` l’Inghilterra del suo spirito rivoluzionario in arte, additando nuovi e più vasti orizzonti.[...] Egli non provoco` , ma corroborò l’opera dei Preraffaelliti. Anch’egli, in quell’inesauribile pozzo dell’arte che e` l’Italia, attinse, e fucino` quelle teorie che costruirono la base della nuova Critica Estetica Inglese”(L. Luxardo).
Egli, a differenza dei giovani che successivamente lo presero a modello, sentiva un parallelismo indissolubile tra la vita artistica e quella morale. “La sua idea dominante era che ogni arte elevata e` il prodotto di un’epoca virtuosa e fedele alla sua religione e alla sua patria; che la religione, la giustizia, l’ordine e la grandezza morale sono le radici di un albero maestoso, di cui le arti belle sono il fiore”(A. Guidetti).
Questa sua maniera di intendere il rapporto arte - vita lo porto` alla polemica con James Whistler, il quale propugnava delle teorie che esaltavano il fattore estetico rispetto a quello etico.
Tuttavia i Preraffaelliti non erano che gli iniziatori di una corrente che avrebbe avuto in seguito uno sviluppo davvero di grande portata. I massimi esponenti dell’estetismo decadente inglese si spinsero ben oltre di loro. Non bisogna inoltre scordare l’apporto fornito in questo periodo proprio da James Abbott MacNeill Whistler (1834-1903), incisore e pittore nordamericano, che seguì un altro percorso verso la realizzazione di un’arte di notevole gusto estetico.
Nella sua vita trascorsa tra Londra e Parigi, Whistler, in stretto contatto con gli impressionisti, persegui` degli ideali artistici che mai, prima di allora, nessuno aveva osato concepire. Egli voleva, infatti, che i suoi quadri fossero apprezzati solo in virtù delle loro qualità formali. Si fece accanito sostenitore del motto “Art for Art’s sake”(l’arte per l’arte), che lo differenziava sostanzialmente dagli impressionisti e dai preraffaelliti, rispetto ai quali dimostro` un gusto più marcatamente esotico ed estetico. Ripudiava ogni pittura ufficiale, accademica e romantica, ammirando Manet ed appassionandosi alla nuova esotica impaginazione delle stampe giapponesi. Egli considerava i suoi quadri, scarsamente figurativi, opere simili a brani musicali, e perciò li definiva “notturni” o “sinfonie”. Si dedico` essenzialmente all’estrema raffinatezza del colore e all’abile variazione dei rapporti tonali, che divenivano i veri soggetti. I suoi dipinti, sempre di preziosa impaginazione, mirano a farsi “invitanti” da contemplare, melodiosi, armonici. Old Battersea Bridge presenta giochi cromatici in blu e oro, The White Girl e` una sinfonia totale in bianco. La tela Notturno in nero o oro: il razzo cadente e` probabilmente la piu`significativa dell’osmosi concettuale tra pittura e musica, e fu proprio questo dipinto a fare scaturire la polemica di Ruskin, che rinfaccio` apertamente all’americano di aver “scagliato un vaso di colori in faccia al pubblico”. La reazione di Whistler non si fece attendere, e lo statunitense inoltro` una causa per diffamazione contro l’autorevole critico, mostrando la sua proverbiale propensione allo scandalo e alla polemica.
E` Algernon Charles Swinburne (1837-1909) il primo poeta a raccogliere il messaggio dei Preraffaelliti e ad elaborarlo, realizzando ad un’estesissima produzione che si gravita al di fuori delle limitazioni imposte dai tabù del tempo. Forte della sua concezione dell' “arte per l’arte”, fondamento teorico comune a tutti gli estetizzanti e decadenti, suscito` scandalo con la raccolta Poems and Ballads (1866), in cui si esaltavano sadismo, maledettismo alla Baudelaire e una sensualità perversa. Difendendosi dalle accuse lanciategli, Swinburne rispose che l’arte, per essere tale, deve sentirsi indipendente. Riprendendo questa teoria dai francesi Gautier e Baudelaire, egli si affermo` come primo caposcuola dell’estetismo inglese. La trasgressione diviene regola nella vita di Swinburne, la cui giovinezza e` costellata di episodi che danno saggio del suo temperamento ribelle ed insofferente. Il poeta, che in sede politica nutriva un’ammirazione sconfinata per Whitman e Mazzini, trovo` che il modo migliore per imporre le proprie idee era quello di provocare il moralismo borghese, di far tremare i capisaldi della puritana e falsa societa` vittoriana. Basti citare, come esempio, la sua decisione di affidare una sua opera, dopo che era stata rifiutata dall’editore Moxon, ad un editore di testi pornografici.
Egli usava assumere gli attteggiamenti del tempo e riprodurli nel gusto e nello stile, ma deviandoli quel tanto che bastava per intravvederne alcune caratteristiche inattese e sorprendenti. Egli attinse al mondo quotidiano preraffaellita per esprimere la molteplicità delle sensazioni che animavano il suo intimo, condividendo esperienze con gli artisti della confraternita. Le sue appassionate frequentazioni furono motivo di scandalo: modelle, mogli, amanti, bellissime donne come Lizzie Siddall o Jane Morris, che egli impiegherà per indagare le profondità dell’eros.
In questo ambito vengono alla luce la maggior parte delle sue opere, che, tuttavia, vanno ben oltre la provocatorietà e la semplice “rhythmical creation of beauty” di Edgar Allan Poe. L’inglese fa coincidere la bellezza con la vita dei sensi e con la passione, che non e` mai priva di una certa componente di perversione. Senza esitazioni Swinburne si getta nell’esplorazione di “zone proibite”, dei misteri del sesso, il quale e` spesso per lui un’esperienza lacerante, che gli crea una serie di sensazioni dolorose. Piacere e dolore divengono due volti dello stesso modo di sentire, che e` portato al limite delle possibilità umane. Egli sa benissimo che dietro alla facciata di perbenismo dell’alta società e della borghesia dell’epoca si celano omosessualità, algolagnia e pedofilia, e descrive senza scrupoli i modi in cui la passione sconvolge i percorsi del desiderio in maniera atroce e paradossale. Swinburne scopre il lato oscuro della bellezza, il male nel bello. Ciò deriva, appunto, dall’esasperazione della percezione sensoriale al punto che diviene tutt’una col dolore. Il poeta oppone la dimensione dell’eros a quella dell’ethos, ovvero la mortificazione della carne: il Paganesimo e` opposto al Cristianesimo. E` opportuno citare alcuni versi dell’Hymn to Proserpine, dove un pagano esalta la felicita` mortale della vita dei sensi, dopo l’editto di Milano del 313, che ammetteva l’uguaglianza della religione cristiana alle altre fedi di fronte alla legge:
Vuoi dunque prenderti tutto, Galileo? Ma queste cose non ti prenderai,
Il lauro, le palme, il peana, i seni delle ninfe del boschetto;
Seni più teneri di quelli di una colomba, tremanti per un più tenero respiro;
E tutte le ali degli amoretti, e tutte le gioie prima della morte;
Tutti i piedi delle ore che risuonano come una sola lira,
Caduta nel folto dei fiori, le corde tremule come lingue di fuoco.
E tu darai più di queste, cose più belle di queste?
Swinburne tenta in ogni poesia di possedere la bellezza, che sempre e` irraggiungibile. Questa lontananza produce dei vagheggiamenti sensuali e desiderio di possesso quasi ossessivo, trattenuto dolorosamente. L’esplorazione artistica del bello ha luogo con la creazione di un linguaggio consono all’intensità delle situazioni. Vi e` un’estrema attenzione alla qualità della parola, al suo suono, alla sua pesantezza, alla sua potenzialità visiva. Addirittura spesso la parola sfuma di significato per realizzare col suono la massima chiarezza espressiva. Il saggio più significante ci e` fornito dall’“Itylus”, dove la materia, tratta dalle “Metamorfosi” di Ovidio, non e` altro che cornice all’imponente impalcatura musicale:
Swallow, my sister, o sister swallow,
How can thine heart be full of the spring?
A thousand summers are over and dead.
What hast thou found in the spring to follow?
What hast thou found in thine heart to sing?
What wilt thou do when the summer is shed?
La musicalità del verso è per Swinburne più che un semplice ornamento: e` un mezzo per acquietare il tumulto dei sentimenti che lo pervade, il pensiero della morte da cui e` spesso attratto. Nella “Ballata della Morte” leggiamo:
Ora, ballata mia, [......]
Va’, trova la morte prima che muti la luce,
E di’: “Il mio padrone che già fu schiavo d’Amore
E` divenuto schiavo della Morte”.
Inchinati dinanzi a lei, ballata, sospira e gemi,
Ma non soffermarti nel tornare;
Pio che può forse accadere
Che quando il tuo piede fa ritorno a sera
con te la Morte si accompagni.
Questa stessa concezione trova una felice formulazione nelle opere di Walter Pater (1839-1894), che nelle conclusioni del saggio critico Il Rinascimento (1873) teorizzo` la figura dell’esteta raffinato, che persegue il culto della bellezza, la cui filosofia di vita e` comprensibile solo agli animi eletti. Pater sembra aver qui raggiunto la suprema verità dell’esistenza, ed esorta il lettore a liberarsi dagli schematismi mentali al fine di raggiungere il perfetto equilibrio vitale. L’impegno principale sta nel discernere l’originale dal feticcio, nel cogliere l’aspetto nobile e puro di ogni istante di vita. L’animo eletto sarà quello che saprà, in nome dell’arte, eliminare il rozzo e il volgare, ricercando ovunque la bellezza.
“Arder sempre di questa salda fiamma gemmea, mantener quest’estasi, e` il successo della vita. In un certo senso potrebbe dirsi anche che il nostro fallimento sta nel formare abitudini: poiché, dopotutto, l’abitudine corrisponde a un mondo stereotipato, e intanto e` solo la grossolanità dell’occhio che fa che due persone, cose, situazioni sembrino simili. Mentre tutto si scioglie sotto i nostri piedi, ben possiamo cercar d’afferrare qualunque passione squisita, qualunque contributo alla conoscenza che collo schiarirsi d’un orizzonte sembri mettere lo spirito in libertà per un momento, o qualunque eccitazione dei sensi, strane tinte, strani colori e odori curiosi, o opera di mano d’artista, o il volto della persona amica. Rinunziare a discriminare ad ogni istante qualche atteggiamento appassionato in coloro che ci stanno intorno, [...], significa dormire innanzi sera in questo breve giorno di gelo e di sole”. [...]
“Taluni spendono quest'intervallo nel languore, taluni in ardenti passioni, i più saggi, almeno tra i “figli di questo mondo”, nell'arte e nel canto. Che` l'unica nostra opportunità sta nell’ampliare quell'intervallo; nel far entrare il maggior numero di pulsazioni possibile nel dato tempo. Grandi passioni possono darci questo accelerato senso della vita, l'estasi e l'affanno d'amore, le vane forme dell’attività entusiastica, disinteressata o meno, che prendono naturalmente molti di noi. Assicuratevi solo che si tratta di passione che effettivamente vi da' questo frutto d' una coscienza accelerata, moltiplicata. Di tale saggezza, la passione poetica, il desiderio della bellezza, l'amore dell'arte per l'arte, ha il massimo. Poiché l'arte viene a voi proponendovi francamente di non dare altro che la quantità più eletta al vostri momenti mentre passano, e non avendo di mira che quei momenti”.
In opere di raffinata elaborazione stilistica come i Ritratti Immaginari(1887), Mario l’Epicureo(1885) e Il fanciullo nella casa(1894), si sofferma compiaciuto sullo sfiorire delle cose belle, degli oggetti, degli edifici, ma anche dei personaggi, che egli ritrae pervasi da un senso di languore, ambigui, enigmatici.
Mario l’epicureo si presenta più sotto forma di saggio storico - filosofico che romanzo. Ambientato nell’epoca del regno di Marco Aurelio, il racconto descrive il peregrinare del complesso spirito di Mario attraverso le più note filosofie greche del tempo. Dall’antica religione romana Mario non trae sufficiente conforto quando la morte dei suoi cari lo pone di fronte alle incertezze e alle difficoltà della vita, e si dedica allora all’epicureismo. Questa dottrina limita l’orizzonte del suo credere a vane speculazioni metafisiche, e perciò per un periodo fa propria la dottrina del nuovo cirenaismo, che lo spinge a concentrarsi esclusivamente al godimento che si può trarre dalle sensazioni, dal presente. Né Eraclito né Aristippo riescono ad appagare le sue esigenze spirituali, né tanto meno può seguire le rinunce e l’autocontrollo dello stoicismo, a cui è iniziato da Marco Aurelio. L’atarassia e l’accettazione passiva del dolore non lo aiutano a spiegare i problemi a lui fondamentali e a consolarlo di fronte al male. È cosi che giunge ad intraprendere la via della semplicità cristiana. Il cristianesimo lo sorprende perché propone un tipo di umanità dotata di quelle qualità morali di cui il paganesimo è privo, e perché non rinnega l’amore per la bellezza. A parte l’eco estetizzante del messaggio di Mario, è lo stile a dover essere considerato per la sua estrema cura formale. La forma espressiva è ricca, adorna, ma precisa, minuziosa e raffinata, ricercata, preziosa. Sembrerebbe un lavoro di cesellatura più che uno scritto: opinioni, sfumature di pensiero, immagini sono trattate con un’assidua cura e pazienza, e fu proprio per queste sue proprietà che lo stile di Pater fu preso a modello dagli autori dell’estetismo decadente.
“Nel passato, aveva pensato tante volte che morire in una giornata non oscura o piovosa, sarebbe stata una grazia, una dolcezza, un sollievo per lui. Le persone attorno al suo letto pregavano con fervore: Abi! Abi! Anima christiana! Nei momenti di estrema prostrazione gli avevano posto il loro pane mistico tra le labbra, ed era disceso come un fiocco di neve dal cielo. Dita delicate avevano imposto, sulle mani, sui piedi, su tutti quei veicoli dei sensi attraverso i quali il mondo era entrato ed era uscito per lui, e che ora erano tanto spenti e ostruiti, un olio balsamico. Furono le stesse persone che al crepuscolo grigio e severo di quel giorno raccolsero i suoi resti e li seppellirono segretamente, con le preghiere consuete; con un senso di gioia, ritenendo che la sua morte, secondo la loro generosa credenza, avesse avuto il carattere di un martirio; e il martirio, come la Chiesa ha sempre affermato, equivale a un sacramento che conferisce grazia plenaria”.
Ne Il Fanciullo nella casa, saggio autobiografico, Pater si sofferma sulla fugacità delle cose belle ed esorta a fruirne finché si è in tempo. Bisogna concentrarsi sul presente, e godere della materialità degli oggetti che amiamo, senza sperare in gioie future. Ecco come viene descritto il maturare di questa consapevolezza nel protagonista Florian, che vive in un’antica casa abbellita da oggetti d’arte:
“Allora, per la prima volta, gli parve pure di provare un sentimento appassionato nella sua relazione a begli oggetti esteriori, un'eccitazione inesplicabile alla loro presenza, che lo turbava, e da cui quasi desiderava d'essere libero. Un'ombra di rammarico o di desiderio Si mescolo' tutta la notte con la ricordata presenza del fiori rossi, e col loro profumo nella tenebra intorno a lui, e la brama di possederli interamente, in qualche modo non pur divinato, fu per lui il principio d'una rivelazione, che si fece più chiara, con l'avvento della graziosa assisa estiva dei campi, degli alberi e delle persone, ogni anno che si succedeva, la rivelazione di un certo predominio nel suoi interessi, che talora pareva esclusivo di belle cose fisiche, una sorta di tirannia che i sensi esercitavano su di lui".
Il momento del distacco dagli oggetti belli, dai luoghi che sono significativi all’interno della sua vita giunge per Florian, che deve abbandonare l’antica e cara residenza per trasferirsi con la famiglia in una nuova. Si rende conto soltanto allora, quando ritorna nella casa vuota per prendere l’uccellino che si era dimenticato, di come il mondo di sentimenti che aveva lasciato sia andato definitivamente perduto.
“Ma mentr'egli l'andava cercando da una all'altra delle stanze che giacevano cosi` pallide, con un'aria di umi1ta` nella loro denudazione, e alla fine attraverso a quella bianca cameretta spoglia, l'aspetto del luogo lo commosse come la faccia d'un morto; e fu assalito da un attaccamento ad esso cosi` intenso che egli conobbe che sarebbe durato a lungo, e avrebbe sciupato tutto il piacere del compiersi d'una cosa che egli aveva auspicato cosi ardentemente. E cosi`, con l'uccellino ritrovato, ma soffrendo lui stesso l’inferno della nostalgia che gli era nata dentro cosi` capricciosamente, fu portato via in fretta, lontano per la rurale distanza, che tanto aveva accarezzata col pensiero, di quella favorita strada di campagna”.
Si percepiscono le tracce del nuovo credo anche in George Moore(1853-1933), scrittore di fama, forse immeritatamente, minore. Nel romanzo autobiografico Confessioni di un giovane(1888) egli, riprendendo gli atteggiamenti di Rossetti e di Swinburne, mostra come egli senta la giovinezza in modo “esteriore e paneggiante”(G. D’Auli), e non riesce a nascondere, nonostante le pagine blande e spregiudicate, la propria tristezza nell’abbandonare una fase cosi` tumultuosa della propria vita. Il decadentismo di Moore e` pregno di quell’ambiente letterario parigino che lo ha formato, ancora cosi` ricco di fermenti. Egli stesso proclama la sua volubilità nell’abbracciare le correnti culturali e i gusti più svariati, che nella capitale francese di certo non erano assenti.
Nelle Confessioni trovano spazio, oltre che la narrazione autobiografica di Moore, numerose dissertazioni in campo artistico e letterario, dove l’autore si erige a critico dei più noti artisti del suo tempo o degli anni immediatamente precedenti e da` dei precetti personali. Il suo gusto raffinato lo porta ad esaltare pittori lontani dal realismo e a stroncare degli scrittori ormai consolidati, a ripudiare ogni accademismo e l’ipocrisia borghese. Tra i pittori predilige, come appare dalle seguenti riflessioni, James Whistler.
”Whistler ha ragione. L'arte non e' la natura. L'arte e` la natura digerita: Un sublime escremento. Dei Zola o dei Goncourt non potranno o non vorranno capire che lo stomaco artistico deve esser lasciato libero di lavorare alla sua misteriosa maniera. II vero artista si ricorderà del necessario, e oblierà il superfluo: ma se prende degli appunti non può che interrompere l’artistica digestione; e il risultato non sarà che una serie di frammenti sconnessi, senza l'elegante ritmo della sintesi”.
Tra gli scrittori, e` evidente il singolare apprezzamento che Moore ha per Walter Pater, che scrisse anche la prefazione a un’edizione delle Confessioni. Costui viene apprezzato soprattutto per forma dello scrivere cosi` brillante e ricca.
“Ma Marius the Epicurean rappresentava per me qualche cosa di più che una pura efficacia emotiva, per quanto rara e preziosa essa fosse: quello era il primo libro di prosa inglese che mi desse un piacere non dubbio, per le qualità stesse dello stile e per le varie combinazioni delle parole: una musica d'argento o d'oro, una cadenza che esce dalle convenzioni e tutti i significati nascosti e sottintesi e quel dissolversi dell'ispirazione come l'odore delle rose morte e quelle parole sapide per qualche antico aroma e come disusate da tempo”.
In Moore trovano spazio una molteplicità di stati d’animo apparentemente inconciliabili: malinconia e noncuranza, ardita` sensuale e spirituale, baldanza, disperazione, noia. Lo spirito volubile, la ricerca del piacere smodato, la concezione aristocratica dell’arte e della società e l’anticonformismo fanno di lui un esteta, che tuttavia non raggiunge il grado di depravazione che ci vuole far pensare. (“Io sono effemminato, malaticcio, perverso: soprattutto perverso. Quasi tutto quello che e` perverso mi interessa e m’incanta”). La sensazione e` che egli voglia adeguarsi alla tendenza artistica e alla moda del tempo, e che voglia dare una rappresentazione di se` peggiore di quanto lo sia veramente. In fondo, le trasgressioni che vedono il giovane protagonista non sono altro che episodi, decisamente più accesi e irregolari, di vita mondana. Ecco come viene descritto il tipo di vita condotto a Londra dal giovane Moore:
“Ma la vita io l'amavo quanto i libri, e i miei studi andavano stranamente insieme ai miei piaceri. Quale variopinto pasticcio di letteratura e di libertinaggio! Mentre aspettavo il mio coach per condurre delle cocottes e dei giovinastri al Derby, leggevo un capitolo di Kant: mi capitava di partire col volume in tasca. Coltivavo accuratamente una relazione con un tale che aveva preso in affitto il teatro del Globe per farvi eseguire le opere di Offembach. Fiori, gioielli, palchi di teatro, mi davano gioia. Non ero quello che si dice un dissipato, ma mi dilettavo di cose un po' fuori del normale. Mi piaceva di spendere in profumi e gingilli, una somma sufficiente forse a far star bene una povera famiglia per dieci mesi: sorridevo nella luce di una certa ora alla moda nel Parco, mentre fra la polvere sfilavano i cocchi: mi piaceva anche di scandalizzare i miei amici, salutando le cocottes. Ma quella vita a luce di gas, con vesti sontuose che sfioravano muri bianchi di calce, vita burlescamente lirica, ritmata al ron-ron di valzer e di polche banali, m'interessava al di la' di ogni legittima misura, tanto mi sembrava curiosa e strana! Avevo una mia casa, ma ogni giorno andavo a mangiare in un ristorante alla moda: alle Otto e mezza ero a teatro. Con un famigliare cenno della testa al portiere, traversavo il lungo corridoio che portava in palcoscenico. Poi la cena: Cremorne e Argyle Rooms erano i miei luoghi prediletti.[...] Non giocavo e non bevevo: non mi impelagavo in debiti ne' in relazioni segrete e... definitive: dal punto di vista mondano, ero proprio un giovane modello. E quando tornavo a casa, verso le quattro del mattino, guardavo il tramonto della pallida luna, e ripetendo qualche verso di Shelley fantasticavo sul modo di raggiungere Parigi appena fossi maggiorenne e di studiare la` la pittura”.
Ma Le Confessioni sono soprattutto un inno alla giovinezza, tempo di dominio e di splendore, capriccioso ed ironico. Al declino di essa si conquista, senza dubbio, una serenità interiore, che pero` non può essere paragonata a quel liberarsi di forze che non ubbidiscono a nessun comando e a nessuna imposizione.
I toni baldanzosi e spregiudicati del romanzo e i forti accenti di cinismo delle ultime pagine, indirizzate al pubblico giovane e non al “lettore ipocrita”, non riescono a nascondere, tuttavia, la profonda tristezza del Moore nell’abbandonare un’età cosi` felice e cosi` breve.
“Addio! Cedo il posto: siate giovani come lo ero io, amate la giovinezza come io l’ho amata, ricordatevi che siete gli esseri più interessanti che vivano sotto il cielo: per voi ogni sacrificio sarà fatto; sarete festeggiati e adorati, a condizione che restiate giovani”.
Nel solco tracciato da Ruskin e Pater si colloca anche Oscar Wilde (1854-1900), il più noto dei decadenti anglosassoni. Il dublinese da giovane frequentò il Magdalen College di Oxford, dove poté seguire le lezioni del Ruskin e le conferenze di Pater. Egli abbraccio` il nuovo credo estetico, e lo interpretò assumendo degli atteggiamenti strani e bizzarri che attraevano l’attenzione generale. Al termine degli studi si recò a Londra, dove la sua fama lo aveva già preceduto. Si presentava in pubblico in insolite pose, con i capelli lunghi, l’orchidea all’occhiello, un fiore di girasole portato in strada, e fu proprio questa sua immagine a procurargli i primi successi letterari. Nella capitale inglese conobbe l’americano Whistler, per il quale provò sempre una particolare ammirazione. Egli ne imitava lo stile di vita e le pose e amava la componente spiritosa e ironica della sua personalità. Nello studio del pittore, inoltre, ebbe l’opportunità di entrare in contatto con Rossetti e Swinburne, che non poca influenza ebbero nella sua arte.
Wilde non solo fu uno dei principali rappresentanti dell’estetismo decadente, ma ebbe lui stesso un ruolo di primo piano nel creare e diffondere quel particolare culto della bellezza. Si eresse ad arbitro di mode e allo stesso tempo riformò l’abbigliamento e lanciò nuovi stili di arredamento; si faceva pubblicità in America ed andava in vacanza nei paesi mediterranei; frequentava il gran mondo e non accettava gli fossero lanciate accuse, seppure fondate, di omosessualità. Dire che fosse eclettico è limitativo: era presente in tutti gli ambienti più in vista della società e amava mettersi in mostra davanti al grande pubblico. L’uso che fece dell’estetismo fu magistralmente programmato al fine di garantirgli la popolarità e il successo personale. Bisogna dunque registrare la contraddittorietà tra le istanze aristocratiche presenti in molte delle sue opere e le proporzioni “di massa” della sua carriera.
Probabilmente fu proprio l’eccessiva popolarità che condusse Wilde in rovina. Egli fu travolto da uno scandalo per la relazione intrecciata con Lord Alfred Douglas, poeta e atleta amatissimo, rampollo di una delle famiglie aristocratiche più note. Rimase preda della trappola tesa dal padre di Lord Douglas, che sfruttò la causa per diffamazione inoltrata dal dandy per demolire la sua immagine pubblica e procurargli due anni di lavori forzati. La reclusione segnerà la fine del periodo estetizzante dell’autore, che d’ora in poi non avrà più la forza di affrontare l’ostilità del pubblico e per imporsi come artista, ne` di fornire agli altri un’immagine rigenerata di sé stesso. Vagabonderà per l’Europa fino all'ultimo, la quale troverà un vecchio uomo lontano da quella presunzione e quella sfrontatezza che avevano reso celebre. Il suo nome, dal punto di vista letterario, e` legato principalmente al romanzo Il ritratto di Dorian Gray (1891), concentrato di motivi ricorrenti dell’estetismo europeo: il vizio, la depravazione, l’eterna giovinezza, l’edonismo, la libertà di costumi.
La trama del Ritratto è notissima: il pittore Basil Hallward ritrae con eccezionale maestria il giovane e bellissimo Dorian Gray, che è sotto l’influenza dell’eccentrico Lord Henry Wotton, il quale lo istruisce con precetti paradossali e amorali. Ossessionato dall’idea di invecchiare e perdere le sue graziose forme, Dorian invoca e ottiene un sortilegio in base al quale ogni segno del tempo comparirà sul ritratto e non sul suo corpo. Intraprende allora una vita di piaceri, crimini ed eccessi, senza che il suo aspetto fisico risenta delle angosce della coscienza. Nel corso degli anni, invece, l’immagine dipinta diventa sempre più ripugnante e impressionante. In un attimo di disperazione, colto dall’ira e, forse, dal rimorso, Dorian squarcia la tela maledetta con un pugnale, credendo di liberarsi dalla maledizione che incombe su di lui, ma è proprio l’esteta a perire. Il ritratto ritorna alle sembianze originali, mentre a terra giace insanguinato un disgustoso vecchio dal volto perverso.
Dorian è l’impersonificazione del contrasto arte - vita, che si risolve col prevalere della prima rispetto alla seconda. La vita, come appare dai frequenti aforismi di Lord Henry, ha senso solo se si realizza in senso estetico, se si persegue il culto della bellezza in moduli raffinati e inimitabili. Bene e male hanno un valore del tutto superfluo. Ecco alcuni esempi disarmanti di riflessioni sulla vita e sull’arte portate fino al paradosso:
“Ogni impulso che cerchiamo di soffocare fermenta nella nostra menta e ci avvelena. Il corpo pecca una sola volta e supera subito il peccato, perché l’azione è un modo per purificarsi. Allora non rimane più nulla, salvo il ricordo del piacere, o il lusso di un rimpianto. L’unico modo per liberarsi di una tentazione è abbandonarvisi”.
“Per me la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Solo la gente mediocre non giudica dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l’invisibile....”.
“Giovinezza! Giovinezza! Non c’è per me assolutamente nulla al mondo, fuorché la giovinezza”.
“Il modo di vestire del diciannovesimo secolo è detestabile. È così scialbo, così deprimente. L’unico elemento di colore che sia rimasto nella vita moderna è il peccato”.
“Quando si è innamorati, si incomincia sempre ingannando se stessi e si finisce sempre ingannando gli altri. È quello che il mondo chiama sentimentalismo”.
“Temo che le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà brutale, più di ogni altra cosa. Hanno istinti meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma loro rimangono egualmente schiave alla ricerca del padrone. Amano essere dominate”.

In effetti è Lord Henry il vero colpevole della depravazione di Dorian. Lui è l’elaboratore delle teorie che successivamente vengono attuate dal giovane Gray, che raggiungerà dei vertici di immoralità che superano le previsioni del maestro. Dorian si fa portatore di ideali antidemocratici e atei, accetta il fardello di una moralità infangata come prezzo dell’eterna bellezza, esalta il sensibile e disprezza il volgare. Si ritiene addirittura il messia di un’attesa età di purificazione, perdendo di vista ogni punto di riferimento, ritenendosi al di sopra di comuni legislazioni e convenzioni.
“L'adorazione dei sensi spesso e molto giustamente è caduta in discredito perché gli uomini provano un istintivo terrore verso le sensazioni e le passioni più forti di loro che sanno di dividere con forme di esistenza meno organizzate. Ma a Dorian Gray pareva che nessuno avesse mai compreso la vera natura dei propri sensi e che essi fossero rimasti animaleschi e selvaggi Solo perché l’umanità aveva tentato di soggiogarli o di mortificarli attraverso la sofferenza invece di proporsi di farne elementi di nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante avrebbe dovuto essere un raffinato istinto del bello. Quando si voltava a guardare il cammino dell'uomo nella storia, un senso di perdita lo ossessionava. A quante cose si era rinunciato! E per un cosi misero fine! Si erano viste folli rinunce dettate dall'ostinazione, forme mostruose di autopunizione e di abnegazione nate dalla paura e finite in forme di degradazione infinitamente più terribili di tutte quelle presunte degradazioni da cui, nella loro ignoranza, gli nomini avevano cercato di fuggire. La natura, nella sua meravigliosa ironia, spingeva l'anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del deserto e dava come compagni all'eremita gli animali dei campi.
Sì, come aveva preannunciato Lord Henry, sarebbe sorto un nuovo edonismo che avrebbe creato la vita e l'avrebbe salvata dal duro e sgradevole puritanesimo che ai giorni nostri conosce un singolare risveglio. Questo edonismo avrebbe dovuto certamente appoggiarsi all’intelletto ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi implicanti la rinuncia a qualunque esperienza emotiva. Suo scopo infatti avrebbe dovuto essere l'esperienza stessa e non i suoi frutti dolci o amari che fossero. Avrebbe ignorato sia l'ascetismo che mistifica i sensi, sia la volgare dissolutezza che li assopisce. Avrebbe invece insegnato agli uomini a concentrarsi negli attimi di una vita che e essa stessa solo un attimo”.
Nella vita Wilde impersonificò il classico dandy londinese, che ritiene di dover sovvertire lo schema di valori della società borghese, da lui disprezzata, e viceversa esalta le cose più futili. Wilde compendia nelle Intenzioni (1891) le sue concezioni dell’arte e della vita. Spicca nelle Intenzioni il saggio Il Critico come artista. In un dialogo brillante, tenuto “nella libreria d’una casa in Piccadilly”, Gilberto ed Ernesto discutono dell’importanza del ruolo del critico d’arte. Grazie alla conversazione Gilberto riesce a persuadere Ernesto, dapprima refrattario alle tesi dell’amico, che il Critico è addirittura superiore all’artista e che in un certo senso il creatore, limitato dalla sua personale, spesso razionale, concezione dell’arte, è un critico inferiore. Serva a comprendere meglio tutto ciò il seguente scambio di battute tra i due:
“ERNESTO.- Ma mio caro, - scusami per l’interruzione - mi sembra che dalla tua passione per la critica tu ti lasci condurre d’assai troppo lontano. Poiché, dopo tutto, ammetterai che è assai più difficile fare una cosa che parlarne.
GILBERTO.- Più difficile fare una cosa che parlarne? Nient’affatto. Questo è un grossolano errore popolare. È assai più difficile parlare d’una cosa che farla.[...]
ERNESTO.- Il vero critico sarà razionale, ad ogni modo, non è vero?
GILBERTO.- Razionale? Vi sono due modi di odiare l’arte, Ernesto. L’uno è, d’odiarla; l’altro, come Platone seppe, e non senza rincrescimento, crea nell’ascoltatore e nello spettatore una forma di divina follia[...]”

Da ciò deriva come conseguenza, nella discussione dei due intellettuali, che la forma importa più dell’idea che la sorregge. L’arte nella vita è tutto, ma il perfetto artista non creerà nulla, ma farà, invece, della propria vita un’opera sublime. Egli proverà, inoltre, il massimo godimento estetico in ogni situazione, cercherà il peccato, perché esso è uno stimolo necessario per formare una vita armoniosa. L’arte stessa è, secondo Wilde, che si cela dietro le parole di Gilberto, lontana da ogni legge morale. La società non fa altro che limitare, coi suoi assurdi pregiudizi, l’agire e il pensare umano:
“GILBERTO.- Ogni arte è immorale.
ERNESTO.- Ogni arte?
GILBERTO.- Sì. Poiché l’emozione per amore dell’emozione è lo scopo dell’arte, e l’emozione per amore dell’azione è lo scopo della vita, e di quella organizzazione pratica della vita che chiamiamo società.[...] La società spesso perdona al delinquente; non perdona mai al sognatore. Le belle emozioni sterili, che l’arte eccita in noi, sono odiose ai suoi occhi, e la gente è così compiutamente dominata dalla tirannia di questo spaventevole ideale sociale, che sempre si presenta in visite private o in altri luoghi aperti al pubblico a dirti con alta voce stentorea: “Che fai?”, mentre: “Che pensi?”, è la sola domanda che qualunque essere civile possa permettersi di rivolgere a un altro.”
L’ideale estetizzante trova una successiva espressione in alcune commedie, tra le quali L’importanza di chiamarsi Ernesto (1895), che rappresentava il ricapovolgimento dei valori tradizionali, esaltando l’anticonformismo, la frivolezza, la bellezza. The Importance of Being Earnest è ritenuta la più bella commedia di Wilde, la più divertente e briosa. La trama è decisamente poco impegnata e si posa tutta sul gioco di parole tra il nome proprio Ernest e l’aggettivo earnest (serio). Algernon Moncrieff, un giovane gentleman londinese, accoglie per il tè l’amico John Worthing, che viene dalla campagna. In una sagace conversazione emergono i segreti che ciascuno dei due ha sempre celato all’altro: Algernon di tanto in tanto finge di andare a trovare un amico ammalato per mascherare le sue scappatelle, mentre John, che si fa chiamare Ernest in città, nasconde una giovane pupilla diciottenne di campagna, alla quale spiega le sue assenze inventandosi delle visite ad un fantomatico e scapestrato fratello, Ernest, appunto. La scena si anima quando, nella residenza di Cecily, la pupilla di John, si presenta Algy fingendo di essere Ernesto. Gli strali del caso fanno si che John giunga sul posto, e così anche la sua amata Gwendolen, con la quale non si può fidanzare per un severo veto della sua tutrice, Lady Bracknell. Comincia qui la saga dei malintesi, che si risolvono tutti con la comparsa chiarificatrice di Miss Prism, governante di Cecily e una volta di Lady Bracknell: l’incolta nutrice rivela svela il mistero che riguarda i natali di John, che impediva il matrimonio tra gli innamorati. Ernest-John ritira il veto che aveva gettato sul fidanzamento di Cecily con Algernon, che scopre essere suo fratello. Ecco che si capisce quale sia nella vita l’importanza di essere Earnest.
I personaggi che più rappresentano il tipo umano dell’esteta sono senza dubbio Algernon e Lady Bracknell. Il primo è scanzonato, cinico, brillante nella conversazione, ricorda Lord Henry del Ritratto. Stupisce per i suoi aforismi, che hanno l’unico scopo di meravigliare e provocare il pubblico, pur rasentando il nonsense. Algy è pigro, goloso, egoista, dissipatore: assomma in sé, dunque, tutti i vizi possibili, che però, se cosparsi del tipico humour e aristocratismo anglosassoni, diventano delle virtù.
“Tutte le figlie femmine diventano come la loro madre. Questa è la tragedia delle donne. Nessun maschio lo diventa: e questa è la tragedia degli uomini”.
“È un duro lavoro non far niente. Comunque, non è che lavorar duro mi dispiaccia, purché la cosa non abbia nessun scopo pratico”.
“Se mi capita a volte di essere ultra - ricercato nel vestire, compenso il fatto con l’essere sempre ultra - raffinato in tutto”.
L’anziana Lady si dimostra, invece, smisuratamente interessata al denaro, e non si cura di camuffare la sua materialità con ipocrite finzioni. Ella bada solo a far rispettare l’esteriorità, non le buone maniere, ma quelle che si convengono per le persone di un certo rango, ovvero l’antitesi del moralismo borghese.
“Per dire la verità, io sono contraria ai fidanzamenti troppo lunghi. Danno alla gente l’occasione di scoprire il carattere l’uno dell’altro prima del matrimonio, cosa che non è mai consigliabile”.
“[...] Algernon è un ottimo partito: e lo è in modo evidente, addirittura ostentato. Non ha niente, ma sembra tutto. Che cosa si può desiderare di più ?”.
“[...] Centotrentamila sterline! In buoni del tesoro! La signorina Cardew mi sembra veramente deliziosa, ora che la guardo. Non sono molte le ragazze, al giorno d’oggi che possono vantare solide qualità, di quelle qualità durature, che migliorano per giunta col tempo [...]”.
Lo stile di Wilde è efficace e pregevole: il suo merito sta nel far apparire allo spettatore un mondo fondato sui paradossi come qualcosa di assolutamente naturale. La stravaganza, si sa, è con lui all’ordine del giorno, ma il ritmo incalzante degli epigrammi, delle battute e dei colpi di scena è in questo caso straordinario.
IL BIANCO E NERO DI BEARDSLEY
La breve vita di Beardsley , verso la fine dell'era vittoriana, sembra opporsi allo spirito e alla morale di una società ipocrita e conformista, che lo condannava per la spregiudicata indipendenza dagli schemi tradizionali del costume britannico e per l'ardita affermazione di un nuovo stile grafico, rifiutato dai più, e che doveva invece rappresentare, in seguito, una delle espressioni più tipiche dell'arte « fin de siècle ».
L'ironia, il sarcasmo, il disprezzo erano le armi di Beardsley, che si calava nella parte del dandy alla Oscar Wilde, e che nel dandysmo aveva trovato una propria etica e una propria estetica, che furono espressione delle inquietudini e delle ribellioni del tempo.
L'arte decadente, nella vasta opera grafica di Beardsley, si configura, alle soglie del nuovo secolo, in una specie di bizantinismo raffinato e nevrotico, in cui i grandi temi della poesia, della letteratura, delle arti figurative si corrompono nelle forme spesso perverse e nelle eleganza stilistica del simbolismo e dell'« Art Nouveau ».
Beardsley, nato da in una famiglia piccolo borghese, da giovane impiegato in una società di assicurazioni, di una sensibilità acuta in un corpo reso fragile dalla malattia, reagisce con una volontà forte e disperata alla condizione sociale che minacciava di relegarlo nell'ombra di un ambiente mediocre, e scopre la sua vera vocazione di artista e di letterato, cercandosi poi da solo i propri maestri e i propri mezzi di espressione.
I suoi maestri furono Burne-Jones, Morris e Gustave Moreau, i preraffaelliti e i simbolisti. Beardsley era un uomo capace di dominarsi, di chiudersi, coi propri insuperabili complessi, dietro la maschera di un personaggio crudele e indifferente. Mentre Baudelaire era dovuto discendere negli abissi del satanismo, sotto l'azione dell'assenzio e delle droghe, per sottrarsi alla responsabilità di una vita normale, Beardsley, invece, ormai incapace di vincere la malattia che lo annientava, combattuto fra l'erotismo e il sadismo, aveva accettato anche lo sfacelo morale, l'incesto, le ambigue esperienze sessuali, come pretesti necessari alla sua tormentata ispirazione artistica e al raggiungimento di una impassibilita' esteriore marmorea e ipocrita. Nel giro di pochi anni, il piccolo borghese si era trasformato in un aristocratico, in un eletto dei sensi e dello spirito.
È proprio questo che differenzia Beardsley dal dandysmo di Oscar Wilde, più estroverso e afflitto dalla sua immagine pubblica, dominatore di salotti mondani con la verve di una conversazione brillante, costellata d'innumerevoli paradossi. La relazione tra Beardsley e Wilde si deve a Salomé, tragedia tradotta in inglese da lord Alfred Douglas, il protagonista della vicenda giudiziaria, che portò l'incauto accusatore sul banco degli accusati e alla condanna a due anni di prigione nel carcere di Reading. L’artista contribuì alla realizzazione dell’opera fornendo i disegni che dovevano abbellire le pagine. L'interpretazione di Beardsley di tale figura si mantiene nei termini di quella ambiguità, che non trova origine soltanto nella misoginia dell'artista. Salomè rappresenta il trionfo dell'estetismo, spinto all'eccesso da una contemplazione morbosa, da voyeur. Beardsley, da intellettuale snob orgoglioso, non esita a tradurre la testa tagliata del Battista nei modi più sconcertanti dell’estetismo figurativo. Siamo qui oltre i semplici decorativismi formali di Whistler: sembra che nei suoi bianchi e neri sia racchiuso il segreto dell’arte, della letteratura e del costume del tempo. Il tragico si veste spesso d’ironia, e diviene grottesco. Ed è questo gusto per la deformazione, l’inquietudine placata dal formalismo da dandy, la concezione pessimistica della vita che colloca Beardsley nel decadentismo.

HUYSMANS: IL MAESTRO.
L’eroe vanitoso, lussurioso, perverso di Wilde trova dei corrispettivi all’interno della letteratura francese (da me non approfondita) con Joris-Karl Huysmans (1848-1907) nel romanzo Controcorrente (1884), in cui il protagonista Des Esseintes, disgustato dalla ridicola e mediocre realtà borghese, si ritira in un mondo artificioso, fatto di profumi esotici, cibi prelibati, gioielli raffinati, a cui dovrà infine rinunciare per colpa di violente psicosi. Il romanzo costituisce una vera e propria “bibbia” dell’esteta: all’interno di esso trovano spazio capitoli dedicati unicamente a delle rivisitazioni critiche di letterature, disquisizioni in materia artistica, saggi sulle pietre preziose, consigli per l’arredamento, e cosi` via. Non stupisce, perciò, che quest’opera abbia per tanta parte influito sulle produzioni successive.
Á rebours non ha praticamente una trama: si incentra sulla figura del protagonista Jean Floressas Des Esseintes, ultimo discendente di una ricca e antica famiglia. Egli si ritira in una casa fuori Parigi, esatto specchio dei suoi gusti eccentrici e raffinati. Qui attua il progetto di un’esistenza controcorrente, che rovescia i criteri della morale comune. Diversamente dagli altri dandy di fine ‘800 - inizio ‘900, non è un cultore della vita di società, e reagisce al suo disadattamento in maniera ancor più forte, chiudendosi, anche concretamente, nella sua turris eburnea fuori dal tempo. Nel romanzo veniamo a conoscenza della personalità di Des Esseintes attraverso i suoi oggetti e le sue preferenze estetiche e letterarie. Egli arriva ad una sistematica negazione della regola in ogni campo dell’esistenza, e i risultati che ottiene sono del tutto artificiosi, innaturali. È convinto della superiorità dell’uomo rispetto alla natura, ed esalta qualsiasi cosa che possa sostituire l’elemento naturale. Cerca di ricreare i profumi e i benefici del mare con bagni di sale aromatizzati con frammenti di vecchie reti da pesca, ricostruisce nella propria abitazione ambienti, come la cabina di una nave, che gli danno l’impressione del viaggio, si circonda di quadri che possano garantirgli vedute migliori di quelle di cui si gode all’aria aperta. Fra i libri prediletti ci sono quelli della tarda latinità decadente e gli autori francesi, dai maledetti come Baudelaire agli estetizzanti Verlaine e Mallarmé. Fra i pittori ama Odillon Redon e soprattutto Gustave Moreau, autore di due ritratti di Salomè che lo ossessionano fino all’estasi. Non a caso questi dipinti colpiscono l’immaginazione del Francese, poiché essi, sia per lo stile antinaturalista, sia per il messaggio così dissacrante, sono molto in sintonia con le istanze dell’esteta.

“Fra tutti, Un artista esisteva che lo gettava in lunghe estasi e del quale aveva acquistato ambedue i capolavori: Gustave Moreau.
Della sua tela che rappresentava Salomé, Des Esseintes indugiava in contemplazione intere notti.
Simile all'altar maggiore d'una cattedrale, Un trono s'ergeva sotto una fuga a perdita d'occhio di volte, in cui si placava l'impeto di colonne, tozze come pilastri romani; colonne smaltate di piastrelle policrome, incastonate di mosaici, incrostate di lapislazzuli e di sardoniche - dentro Un palagio simile ad una basilica, d'una architettura musulmana e al tempo stesso bizantina.[...]
I seni ondeggiano; stuzzicati dalle collane che vorticano, i capezzoli s'ergono; nel madore della pelle, i diamanti scintillano; sulla veste trionfale, rabescata d'argento, laminata d'oro, dalle costure di perle, il busto, preso in una maglia di gemme, entra in combustione, dardeggia serpentelli di fuoco, brulica sulle carni compatte, sul rosa tea della pelle, simile ad un visibilio d'insetti dalle elitre abbaglianti, marmorizzate di carminio, punteggiate di giallo aurora, screziate di blu acciaio, striate di verde pavone.
La figura di Salomé, cosi tentatrice per gli artisti e i poeti, ossessionava da anni Des Esseintes.[...]
Nell'opera di Gustave Moreau, concepita al di fuori di tutti i dati del Testamento, Des Esseintes vedeva finalmente realizzata l'insolita e sovrumana Salomé che aveva vagheggiato.
Essa non era più soltanto la danzatrice che strappa ad un vecchio, con una contorsione lasciva di reni, un grido di desiderio e di foia; che spezza l’energia, piega la volontà d'un re, turbinando i seni, scotendo il ventre, vibrando la coscia; essa diventava per cosi dire il simbolo indiano della insopprimibile Lussuria, la dea dell'immortale Isteria; la Beltà maledetta, eletta tra tutte dalla Catalessi che le fa di marmo le carni, di ferro i muscoli; la Bestia mostruosa, indifferente, irresponsabile, che come Elena di Troia avvelena tutto ciò che accosta, tutto ciò che vede, tutto ciò che tocca”.
Des Esseintes si dimostra un profondo intenditore, oltre che di liquori e profumi, anche di gioielli e pietre preziose. Egli ritiene di possedere un gusto superiore agli altri nello scegliere e accostare le gemme. Ha occasione di mettere in pratica le sue conoscenze quando decide di decorare il guscio della tartaruga ch’egli possiede come animale domestico:
“Le difficoltà cominciarono quando si trattò di scegliere le pietre. Diamanti? Ormai non c’è pizzicagnolo che non ne ostenti uno al mignolo. Meno avviliti, lo smeraldo ed il rubino d'Oriente, che sprizza lampi d'un rosso brillante; sennonché' ricordavano troppo i fanaletti, verdi e rossi appunto, che certi omnibus recano ai lati. Quanto ai topazi, bruciati o crudi, sono pietre a buon mercato, care alla piccola borghesia che ci tiene a chiudere a chiave nell'armadio a specchi il suo bravo scrigno. D'altra parte, sebbene la Chiesa abbia conservato all'ametista un carattere sacerdotale, grave e untuoso insieme, il pararsene che ne fanno le macellaie, pur d'appendere senza troppa spesa alle orecchie color bistecca ed infilare ai salsicciotti delle dita gioie autentiche e che pesino, ha discreditato anche questa pietra.
Dalla stupidita' dei commercianti e degli abbienti, solo lo zaffiro ha saputo serbare immacolato il suo fuoco. Il crepitare delle sue faville su acqua tersa e fredda, ha, chi sa come, preservato da ogni macchia la sua nobiltà' discreta e altera. Ma purtroppo, alla luce artificiale il suo limpido fuoco non scoppietta più; l'acqua azzurra rientra in se', pare cada in sonno, per risvegliarsi crepitando solo al primo accenno del giorno. No, nessuna di quelle pietre, d'altronde troppo civilizzate e troppo note, poteva accontentare Des Esseintes.”
È significativo che il tentativo di staccarsi dalla realtà volgare si concluda con l’ammissione del fallimento. L’impotenza che costringe il protagonista a rinunciare a ciò che una volta per lui rappresentava una componente fondamentale della vita produce un senso di costante insoddisfazione, che non può essere colmato da artifizi. Il suo malessere psicologico lo fa vacillare tra vocazioni mistiche e perversioni , creando in lui una fortissima nevrosi. Del resto, come compagnia, o meglio, come spettatori, ha solo i servi muti che lo assecondano in ogni suo capriccio. Il matrimonio? Neanche per idea: è una banale convenzione borghese.
La prescrizione medica è di rientrare in città, ma come può sperare di vivere meglio un animo così elevato e diverso come il suo? È uno sfogo violento quello che ha verso la società costituita. Ecco che, stomacato, riversa il propria disgusto per il mondo che lo circonda:
“Ormai era cosa fatta. Ormai che il servizio lo aveva reso, la plebe era stata salassata per misura d'igiene sino all'ultima goccia; e il borghese rassicurato spadroneggiava allegramente, armato del suo danaro, forte della sua contagiosa stupidità. Conseguenza della salita al potere, era stata la mortificazione d'ogni intelligenza, la fine di ogni probità, la morte d'ogni arte. Gli artisti umiliati, s'eran buttati ginocchioni a divorar di baci i fetidi piedi dei grandi sensali e dei vili satrapi, delle cui elemosine campavano.
Nella pittura, era un dilagare d'invertebrate scempiaggini; nella letteratura, il trionfo dello stile più piatto, delle idee più evirate. Come avrebbe infatti potuto fare a meno d'onorabilità l'affarista imbroglione? di virtù, il filibustiere che dava la caccia ad una dote pel figlio, mentre si rifiutava di sborsare quella della figlia di amor celeste, il volterriano che accusava il clero di violenze carnali, mentre lui andava in stanze equivoche ad annusare, ipocritamente, stupidamente acqua sporca di catinelle, sciapo pepe di sottane sporche?
Era insomma la galera in grande dell'America trapiantata nel nostro continente; era l'inguaribile incommensurabile pacchianeria del finanziere e del nuovo arrivato che splendeva, abbietto sole, sulla citta' idolatra che vomitava, ventre a terra, laidi cantici davanti al 1'empio tabernacolo delle banche.
E crolla dunque una buona volta, Societa'! Crepa dunque, barbogio mondo! » uscì a gridare Des Esseintes, stomacato dallo spettacolo che evocava”.

LETTERATURA ITALIANA

In Italia, Gabriele d’Annunzio (1863-1938) e` il portavoce principale della cultura estetizzante. Personaggio di indiscutibile fama, patriota, scrittore, uomo di società, egli miro` a realizzare uno stile di vita del tutto eccezionale, libero da costrizioni e vincoli, fastoso, raffinato, sensuale, ricco di tensioni erotiche, forte di ideali eroici.
Sul personaggio D’Annunzio è stata scritta una mole innumerevole di biografie, saggi, critiche, ed è stato detto tutto e il contrario di tutto. Ciò fa comprendere quale importanza abbia avuto il poeta all’interno del panorama letterario, della società ed dell’immaginario popolare nazionale. Sarebbe dunque arduo, se non inopportuno in questa sede, tentare di fornire una descrizione completa della sua vita. Per personalità, opere letterarie ed imprese si inserisce all’interno della corrente culturale estetico - decadente.
La sua influenza si esercitò, oltre che in ambito propriamente letterario, sul costume e sulla società italiana per parecchi anni, almeno sino al primo conflitto mondiale. Egli era per milioni di persone un modello di comportamento e di gusti, oltre che un fervido creatore di mode e atteggiamenti e un ispiratore di ideali. Incarna ed esalta, non senza travisarne il significato, il superuomo di Nietzsche, dominatore della natura, vigoroso, ardito. Fu uno dei più accesi sostenitori dell’interventismo nella Grande Guerra; si fregiò di numerose imprese eroiche, come la conquista di Fiume e il leggendario volo su Vienna.
Egli è impegnato a più livelli nel contesto letterario. Scrive cronache della società del tempo, specialmente della vita mondana di quella Roma della Belle Époque che tanto ama: con assidua dovizia di particolari e tono maliziosamente ironico descrive gli abiti delle dame, le feste, i concerti, i pranzi cui agli partecipa coma convitato, sempre e dovunque graditissimo. Collabora anche con le riviste culturali più autorevoli, quali la Cronaca Bizantina, il Convito e il Marzocco, dei quali fu co-fondatore.
Il Convito, nei sui dodici anni di pubblicazione (1895-1907), rappresentò un luogo d’incontro di tutte le tendenze che confluivano nell’estetismo. Primario fu il ruolo del direttore e fondatore Adolfo de Bosis, che fu inoltre poeta affermato di credo estetico e mecenate di vari scrittori. Questi autori, non potendosi integrare in una società e in una vita nazionale, cercavano di proiettarsi in un pubblico che somigliasse a loro e che fosse disposto ad accogliere il loro messaggio ideologico. Alla fondazione parteciparono anche Gabriele D’Annunzio e il critico d’arte Angelo Conti. Al periodico, che si presentava in lussuosa veste tipografica, collaborarono molti autori estetizzanti come Enrico Nencioni, Enrico Panzacchi e Giovanni Pascoli. Le illustrazioni erano opere di Aristide Sartorio, di Paolo Michetti, pitture preraffaellite, figure enigmatiche, chimeriche, raffiguranti sogni e visioni sublimi. Vi era un’integrazione tra letteratura e arte figurativa.
Il Convito risentì molto dell’influsso delle teorie di Conti, il quale ne La beata riva: trattato dall’oblio proclamava che “per conoscere l’essenza dell’arte è necessario conoscere l’essenza della vita[...]. Il problema estetico è nel medesimo tempo un problema morale e un problema metafisico; e basta risolverlo sotto una qualunque di queste tre forme per poter dire di averlo risolto tutto intero”. Conti in quest’opera propone una vera e propria teorizzazione dell’estetismo; parte da considerazioni in campo delle arti figurative per poi estendere il proprio discorso a un livello più generale. La presentazione è opera di D’Annunzio, il quale, tra le sue enunciazioni afferma:
“Lo stile, essendo il segno dell’idea è l’unico mezzo che l’artefice abbia per manifestar quella nella sua opera.[...] Soltanto lo stile può rendere le forme di un’opera d’arte superiore alle forme della natura e fissarle per l’eternità”.
Il Conti segue la via aperta dal poeta, e, attraverso profonde riflessioni, giunge a delle conclusioni che da molti saranno seguite e condivise:
“L’artista è come un fanciullo a cui tutte le cose producono un senso di meraviglia”.
“Il cielo è, come il sogno e come la morte, uno fra i misteri più vicini all’uomo. [...] Lo scienziato ne sa meno di tutti, il quale ignora d’accumulare, con la matematica, l’ottica, con la spettroscopia, misteri sopra misteri”.
“Per vivere bene è necessario favorire in ogni modo lo sviluppo delle nostre passioni, e non reprimerle mai”.
‘Nel mondo dell’arte non esiste il passato, non esistono le età remote; esiste solamente la vita”.
Già dal primo numero la rivista mostra di essere in linea con i diffusi atteggiamenti autoritari e crispini, antiborghesi e antidemocratici. Il Proemio, scritto da D’Annunzio, propugna una lotto non solo intellettuale ma anche pratica contro la barbarie, la volgarità e l’industrialismo. La bellezza e la raffinatezza devono uscire dall’oscurità, per snobbare l’affarismo della “moltitudine ignobile” immersa in una “melma spessa e grigia”.
“Alcuni artisti, scrittori e pittori, accomunati da uno stesso culto sincero e fervente per tutte le più nobili forme dell'Arte, si propongono di pubblicare ogni mese in Roma - dal gennaio al dicembre di questo anno - una loro raccolta di prose, di poesie e di disegni composta con insolita severità e stampata con quella eleganza semplice che aggiunge decoro alle belle immagini e ai chiari pensieri (...). C'è ancora qualcuno che in mezzo a tanta miseria e a tanta abjezione italiana serba la fede nella virtù occulta della stirpe, nella forza ascendente delle idealità trasmesseci dai padri, nel potere indistruttibile della Bellezza, nella sovrana dignità dello spirito, nella necessità delle gerarchie intellettuali, a tutti gli altri valori che oggi dal popolo d’Italia sono tenuti a vile, e specialmente nell'efficacia della parola (...). In questa Roma ora tanto triste (...) noi vorremmo portare in trionfo un simulacro di Bellezza così grande che la forza superba della forma - quella VIS SUPERBA FORMAE esaltata da un poeta umanista - soggiacesse agli animi abbrutiti. Non è più il tempo del sogno solitario all'ombra del lauro o del mirto. GI'intellettuali raccogliendo tutte le loro energie debbono sostenere militarmente la causa dell'Intelligenza contro i Barbari, se in loro non è addormentato l'istinto profondo della vita...”.
“Intendiamo opporci con tutte le nostre forze a quella produzione d’opere letterarie ed artistiche in generale che hanno le loro origini fuori della pura bellezza [...]”.

Così si esprimono Giuseppe Saverio Gargano e Gabriele D’Annunzio nel manifesto de Il Marzocco, settimanale fiorentino di letteratura ed arte. Le pubblicazioni, partite nel 1896 sotto la direzione di Enrico Corradini, avevano evidenti caratteri di estetismo antipositivista. I quattro fogli eleganti della rivista , arricchiti di decorazioni, incisioni e fotografie, riproponevano il culto dell’arte per l’arte, al quale si erano votati già in molti. Soltanto i primi numeri furono caratterizzati da questa tendenza, che successivamente fu trascurata per dare spazio a un’arte che esula da quella “pura” e a spiriti nazionalisti e interventisti.
L’adorazione della bellezza come ideale continua in altre riviste, molto simili tra di loro, quali Leonardo (1903) e Hermes (1904), compilati principalmente da Giovanni Papini, Adolfo de Karolis e Giuseppe Prezzolini. Nel programma del primo emergono le qualità degli appartenenti al movimento estetico:

“Nella VITA son pagani e individualisti - amanti della bellezza e dell'intelligenza, adoratori della profonda natura e della vita piena, nemici di ogni forma di pecorismo nazareno e di servitù plebe.
Nel PENSIERO son personalisti e idealisti, cioè superiori ad ogni sistema e ad ogni limite, convinti che ogni filosofia non è che un personal modo di vita - negatori di ogni altra esistenza di fuor dal pensiero.
Nell'ARTE amano la trasfigurazione ideale della vita e ne combattono le forme inferiori, aspirano alla bellezza come suggestiva figurazione e rivelazione di una vita profonda e serena” .
Nelle intenzioni del secondo appaiono soprattutto una rinata considerazione e una difesa di D’Annunzio, che ispirò, dunque, la linea del periodico.
Il gusto estetico e la ricerca del piacere fanno da temi conduttori a gran parte della sua sterminata produzione, ma si concentrano soprattutto nel romanzo che più si avvicina anche alle posizioni di Wilde e Huysmans: Il Piacere (1889), storia del conte Andrea Sperelli Fieschi d’Ugenta, il tipo di giovane intellettuale italiano di fine secolo, tutto impregnato d'arte, conservatore, antidemocratico, elegante, gentiluomo, che da` la precedenza alla forza sensitiva rispetto a quella morale.
Il protagonista de Il Piacere corrisponde quasi autobiograficamente all’autore: Andrea, raffinato e depravato uomo di mondo, che persegue il culto sfrenato dei sensi e dell’arte, riassume in sé tutte le qualità dell’esteta. Egli si fa forte, innanzitutto, della sua concezione decisamente aristocratica della società. Disprezza tutto ciò che sia collegato alla neonata coscienza democratica del paese, e ritiene disgustosi gli effetti prodotti nell’arte da questa nuova realtà. La cultura deve mantenersi asettica da ogni possibile contaminazione dei ceti così rozzi e incolti quali quello borghese.
“Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose e rare sommerge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte. A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. L'urbanità, l'atticismo, l'amore delle delicatezze; la predilezione per gli studii insoliti, la curiosità estetica, la mania archeologica, la galanteria raffinata erano nella casa degli SpereIIi qualità ereditarie”.
Quella di Andrea Sperelli è una vita all’insegna della ricerca del piacere e della bellezza artistica: “La vita come un’opera d’arte” è anche il suo principio ispiratore. Dopo aver intrapreso una focosa relazione con la nobildonna Elena Muti, la cui fine incide profondamente nella suo spirito solitario, si tuffa in una serie di avventure che lo lasciano insoddisfatto, finchè non conosce Maria Ferres, moglie del ministro del Guatemala, donna casta e sensibile. Si dibatte, allora, tra l’illusione di poter vivere un amore spirituale e il desiderio di riaccendere la passione con l’antica amante. Ma, nelle sue “scorribande” sentimentali Andrea non riesce a trovare un equilibrio interiore, un momento di conforto e di pace dei sensi, ed è reso schiavo dallo stile di vita che ha sempre condotto. I suoi propositi di una nuova esistenza rimangono tali: troppo sublime è la sensazione dei baci e delle carezze d’Elena, troppo alta è l’adorazione per Maria, troppo accattivante è la vita mondana.
“Così, d'un balzo, Andrea Sperelli si rituffò nel Piacere. Per quindici giorni io occuparono Giulia Arici e Clara Green. Poi partì per Parigi e per Londra, in compagnia del Musèllaro. Tornò a Roma verso la metà di dicembre; trovò la vita invernale già molto mossa; fu sùbito ripreso nel gran cerchio mondano.
Ma egli non s'era mai trovato in una disposizion di spirito più inquieta, più incerta, più confusa; non aveva mai provato dentro di sé uno scontento più molesto, un malessere più importuno; né aveva provato contro di sé medesimo impeti d’ira e moti di disgusto più crudeli. Talvolta, in qualche stanca ora di solitudine, egli si sentiva salire dalle profonde viscere l'amarezza, come una nausea improvvisa; e rimaneva là ad assaporarla, torpidamente, senza aver la forza di cacciarla fuori, con una specie di rassegnazione cupa, come un malato che abbia perduto ogni fiducia di guarire e sia disposto a vivere del suo proprio male, a raccogliersi nella sua sofferenza, a profondarsi nella sua miseria mortale. [...] sacrificò per sempre quel che gli rimaneva di fede e di idealità; si gittò nella vita, come in una grande avventura senza scopo, alla ricerca del godimento, dell’occasione, dell’attimo felice. Affidandosi al destino, alle vicende del caso, all’accozzo fortuito delle cagioni”.
La casa di Sperelli è una vistosa scenografia del desiderio. È adornata con oggetti che rivelano il gusto per l’esotico, il particolare e allo stesso tempo la perversione del protagonista, che finisce per rendere l’ambiente in cui vive una struttura attiva del suo comportamento. Si instaura tra persona e oggetto una singolare corrispondenza: l’uomo si appropria degli oggetti che gli piacciono, li sottrae alla loro estraneità, e conferisce loro dei connotati più familiari.
“Andrea vide nell’aspetto delle cose intorno riflessa l’ansietà sua”.
“Tutti quegli oggetti, in mezzo a’ quelli egli aveva tante volte goduto e sofferto, avevano per lui acquistato qualche cosa della sua sensibilità.[...] Certi oggetti conservavano pur qualche vaga parte dell’amore onde li aveva illuminati e penetrati quel fantastico amante”.
Gli oggetti estetici sono tali per la loro rarità, per le tecniche e le condizioni di produzione, per l’importanza sociale che rivestono, che è legata alla loro fruizione. Le loro proprietà essenziali non stanno più, però, nella materialità, ma bensì nella loro idealità, nel mondo percettivo di cui fanno parte. Soggettivo è dunque il modo di sentire la loro importanza, e in questo aspetto, oltre che in innumerevoli altri, Sperelli si accomuna a Des Esseintes. Infatti la vanità, la ricerca dell’inimitabile, la profonda conoscenza della storia, il gusto per l’arte, la frammentazione dell’ “io” sono tutti tratti comuni alle due figure, che si distinguono soprattutto per l’amore per la letteratura.
“Il verso è tutto. Nella imitazione della Natura nessuno istrumento d'arte è più vivo, agile, acuto, vario, multiforme, plastico, obbediente, sensibile, fedele. Più compatto del marmo, più malleabile della cera, più sottile d'un fluido, più vibrante d'una corda, più luminoso d'una gemma, più fragrante d'un fiore, più tagliente d'una spada, più flessibile d'un virgulto, più carezzevole d'un murmure, più terribile d'un tuono, il verso è tutto e può tutto. Può rendere i minimi moti del sentimento e i minimi moti della sensazione; può definire l'indefinibile e dire l'ineffabile; può abbracciare l'illimitato e penetrare l'abisso; può avere dimensioni d'eternità; può rappresentare il sopraumano, il soprannaturale, l'oltramirabile; può inebriare come un vino, rapire come un'estasi; può nel tempo medesimo possedere il nostro intelletto, il nostro spirito, il nostro corpo; può infine, raggiungere l'Assoluto.
[...]Quando il poeta è prossimo alla scoperta d'uno di tali versi eterni, è avvertito da un divino torrente di gioia che gli invade d'improvviso tutto l'essere.
[...]Quale gioia è più forte? Andrea socchiuse un poco gli occhi, quasi per prolungare quel particolare brivido ch'era in lui foriero della inspirazione quando il suo spirito si disponeva all'opera d'arte, specialmente al poetare. Poi, pieno d'un diletto non mai provato, si mise a trovar rime con la esile matita su le brevi pagine bianche del taccuino [...]”.

Ne Il Fuoco (1900) D’Annunzio apre al pubblico il suo universo privato, riportando anche i particolari più scabrosi di quelli che erano stati i suoi rapporti con l’attrice Eleonora Duse. Nel romanzo compaiono pienamente i tratti indicativi dell’ideale d’artista secondo l’autore: l’estetismo, ovviamente, la vita come creazione, il godimento della bellezza. Il poeta e` un essere superiore, in perenne fieri, esaltatore della propria potenza.
Stelio Effrena e Foscarina, ovvero l’autore e l’attrice, intrecciano una storia d’amore nella Venezia di fine secolo, che offre, come anche confermerà l’opera di Thomas Mann, uno spettacolo di una bellezza sfiorita, di decadenza e morte.
La donna, pur avvertendo il pericolo insito nel compromettersi con un uomo più giovane, non può fare a meno di abbandonarsi alla vitalità e al fascino dell’amante. Tutto inizia ad un ricevimento dato dalla Foscarina in onore di Stelio, intellettuale e poeta tragico, che avverte attrazione per l’attrice, già irretita. Durante un discorso pronunciato a Palazzo Ducale e il successivo ricevimento, il giovane si dimostra un magnifico oratore, un profondo conoscitore dell’arte e un incomparabile trascinatore di folle. Daniele Glauro, uno dei convitati e interlocutore privilegiato di Stelio, segue con attenzione le sue disquisizioni su Wagner e il genio musicale latino. L’amore sbocciato in questa occasione continua nei mesi successivi, e vede Stelio abbandonarsi a tenerezze e effusioni di sentimento, mentre la Foscarina soffre per il senso di colpa che prova per essersi lasciata andare alla passione. La donna è anche gelosa di una sua amica cantante che trova spazio nella fantasia di Stelio. Ma è proprio questa possesività della Foscarina che convince il giovane della sincerità dei suoi sentimenti. La coppia, ricongiuntasi in armonia, apprende un giorno, al ritorno di una gita tra le isole della laguna, della morte di Wagner. I funerali del maestro chiudono il romanzo: Stelio, con alcuni fedeli amici, trasporta la bara del grande compositore, in un solenne momento di commozione.
Stelio è un amante focoso, un artista della parola, un intenditore d’arte: assomma in sé molte delle caratteristiche dello Sperelli, rispetto al quale, però, si dimostra meno volubile e meno cinico. È viva anche in quest’opera la consapevolezza dello sfiorire degli attimi di piacere e delle cose belle. Ecco che Stelio, dunque, cerca di cogliere ogni momento nella sua pienezza, di consumare la passione ardentemente, senza indugi. La componente erotica è fondamentale nell’economia del romanzo, che è imperniato sulla vicenda amorosa che separa e riunisce i due amanti. Il tono si fa più concitato e affannoso quando le parole d’amore lasciano il posto al linguaggio dei corpi, che vivono in simbiosi di spirito degli attimi focosi. L’amore si manifesta in Stelio con delle accezioni di perversione e mostruosità; quella di Foscarina è un timido pudore che cede di fronte all’eccitazione.
“Di lontano, di lontano gli veniva quel torbido ardore, dalle più remote origini, dalla primitiva bestialità delle mescolanze subitanee, dall’antico mistero delle libidini sacre. [...] Ed egli desiderò nella donna sapiente e disperata colei che era premuta dall’eterna servitù della sua natura, colei che era destinata a soggiacere nelle improvvise convulsioni del suo sesso, colei che placava la lucida febbre della scena nella voluttà oscura e sonnifera, l’attrice ardente che passava dalla frenesia della folla alla forza del maschio, la creatura dionisiaca che con l’atto di vita coronava il rito misterioso come nell’Orgia.
“Ella tremava; le tremavano i denti in bocca. Un fiume escito da un ghiacciaio la sommergeva, le passava sopra, le assiderava dalle radici dei capelli all’estremità delle dita. Tutte le giunture delle membra le dolevano, e pareva che fossero per dislegarsi, e le mascelle irrigidite le mutavano la voce nel terrore. Ed ella voleva morire, e voleva essere presa ed abbattuta all’improvviso da quella violenza maschia”.
Riccardo Wagner rappresenta con la sua musica un vero e proprio ideale di perfezione, possenza e vitalità. I suoi funerali vengono celebrati in maniera solenne: Stelio e i suoi amici sono consapevoli di una così grande perdita. Ecco come il linguaggio di fa più alto, addirittura aulico, nella descrizione di una sobria cerimonia funebre:
“Il mondo pareva diminuito di valore. Attendevano senza parlare e senza guardarsi, ciascuno essendo vinto dal palpito del suo proprio cuore. [...] Tutti erano fissi all’eletto della Vita e della Morte. Un infinito sorriso illuminava la faccia dell’eroe prosteso: infinito e distante come l’iride dei ghiacciai, come il bagliore dei mari, come l’alone degli astri. Gli occhi non potevano sostenerlo; ma i cuori, con una meraviglia e con uno spavento che li faceva religiosi, credettero di ricevere la rivelazione di un segreto divino”.

LETTERATURA TEDESCA

In Germania l’estetismo non nacque come reazione al naturalismo: i due movimenti culturali si svilupparono contemporaneamente e presero sin dall’inizio due cammini diversi. L’estetismo tedesco va sotto il nome di simbolismo. Tra i nomi più significativi di tale corrente vi è senza dubbio Stefan George (1868-1933), che fu iniziato all’arte esoterica a Parigi presso il cenacolo di Mallarmé . Importò in patria proprio quegli ideali della bellezza pura e li diffuse tra alcuni discepoli, mantenendo dapprima un carattere molto riservato. George da giovane condusse una vita da dandy, da esteta indipendente sul piano economico, da “aristocratico dell’anima”. La rivoluzione avviata da George sembrava mostrare nuove vie, dato il suo totale rifiuto della realtà impoetica del presente, ma in verità riproponeva il passato stilizzandolo in maniera raffinata, reso perfetto dai suoi versi immobili, ieratici. La parola è, nei suoi lavori, isolata il più possibile, al fine di renderla musicale, densa, pura. La sua poesia non è stata a caso definita “decorativa”, poiché è realizzata con la cura di un preciso artigiano, che ritocca le parti della propria opera, non molto significative di per sé, ma ammirevoli nell’insieme. Eliogabalo (1892) è un ciclo di poesie caratterizzato da un’attentissima rielaborazione di una vicenda storica in chiave estetica. Eliogabalo, il giovane imperatore romano, vive tra giardini esotici e stanze lussuose, circondato da pietre preziose, marmi e profumi inebrianti. Si è creato un proprio mondo sotterraneo dove elimina tutto ciò che non si adatta alla sua idea di fredda, ricercata bellezza. La vista del mondo comune affatica troppo il suo occhio, e si ritira dunque in freschi cortili di basalto dove può nutrire i suoi colombi. Bizantineggiante è l’atmosfera piena d'oscuro splendore in cui incede perfido e innocente, sofferente Algabal che non è tanto rievocazione d'Eliogabalo, tiranno e sacerdote entro il quadro della romanità decadente, quanto travestimento e confessione del poeta in un’idealizzata atmosfera di sogno. Se Algabal, l'esteta, potrà, in difesa d'un istante di bellezza, far trafiggere lo schiavo che spaventò le sue colombe - e il sangue del fratello ucciso non gli suggerirà che di sollevare il manto di porpora per non bruttarsi - egli saprà anche respingere la vestale rapita per amore che a un tratto più non risponde alla sua tormentosa richiesta di regalità, poiché ha un neo sulla spalla. Superuomo nell'assenza d'ogni vincolo esteriore, Algabal è però schiavo e vittima della sua stessa legge. Asceta per esigenze di selezione, ozioso per sdegno delle basse faccende umane, inappagato per desiderio di compagnie alla sua altezza, il suo universo è solitudine. Ecco come, in raffinati versi, George narra la vicenda dell’immorale esteta:

“Quando a cupole rogge a guglia e spalto “Wenn um der zinnen kupferglühe hauben
muove ondeggiando il sole e fredda incombe Um alle giebel erst die sonne wallt
l'ombra ancora negli atrii di basalto, Und kühlung noch in höfen von basalt
l'imperatore aspettan le colombe. Dann warten auf den kaiser seine tauben.
L'azzurra veste serica riarde Er trägt ein kleid aus blauer Serer-seide
orlata in giro d'ovuli d'argento, Auf sardern und saffiren übersät
seminata di zaffiri e di sarde: In silberhülsen sümmend aufgenäht
ma splende il braccio nudo d'ornamento. Doch an den armen hat er kein geschmeide
Sorride, e dal bacino d'oro versa Er lächelte, sein weisser finger schenkte
chicchi di miglio la candida mano. Die hirsekörner aus dein goldnen trog
Dalle colonne muto un Lidio emerso Als leis ein Lyder aus den säulen bog
curva la fronte ai piedi del sovrano. Und an des herren fuss die stirne senkte.
Svolano ansiose le colombe al tetto. Die tauben flattern ängstig nach dem dache
“Muoio lieto che Cesare ha tremato.” >Ich sterbe gern weil mein gebieter schrak

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