Caligola di Albert Camus

Materie:Tesina
Categoria:Letteratura

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Testo

1\“non è ancora tornato?”
“no”

Il sipario si apre e le luci illuminano il palcoscenico.
Le prime battute sembrerebbero ricordare l’esordio dell’Amleto shakespiriano * : l’autore lascia che ad iniziare l’opera siano due personaggi secondari ai quali non si preoccupa di dare nome; gli uni sentinelle di guardia, gli altri senatori. Il dialogo tra i due delinea un’atmosfera di incertezza e sospetto e si protrae ruotando attorno ad un soggetto, sottinteso per i senatori ma sconosciuto al pubblico, tardiva rivelazione della seconda scena : Caligola.
“E se torna di cattivo umore?......E se non intende ragioni?...Allora?....Allora?”

Controversa ed enigmatica figura di cui Albert Camus studiò la storia nel IV libro de “La vita dei Cesari” di Svetonio Tranquillo, l’imperatore Caligola è protagonista assoluto di quest’opera che presenta l’essenzialità strutturale dell’antica tragedia greca: tre i personaggi principali, uno il dramma-perno dell’intreccio.
Nel quadro storico di Roma, la vicenda si localizza tra il 37 e il 41; Caligola succede a Tiberio con l’appoggio di tutte le componenti sociali: senato, esercito e popolo. Lo favoriscono la popolarità del padre, la lunghezza del regno del predecessore e la giovane età che lo faceva probabilmente apparire ancora “malleabile” agli occhi dei senatori.
Cherea, uno dei personaggi stessi, afferma: “Caligola era l’imperatore ideale. Dopo Tiberio, se ne sentiva il bisogno”
L’uso dell’imperfetto non è difficile da comprendere, se si pensa alla fama con cui è passato alla storia : di lui è nota la follia, le azioni sconsiderate in tutti i campi, da quello strettamente economico e politico , a quello religioso e personale.
Tuttavia Camus non propone una tragedia storica, ma esistenziale.
Trova una spiegazione psicologica alla follia di un giovane imperatore così promettente, e nella terza scena è Scipione ad esporla al pubblico: “Già, è sparito di colpo, dopo aver visto il corpo di Drusilla. Io c’ero. Sono sempre stato suo amico. Caligola è venuto avanti e ha toccato il cadavere. Ha emesso un gemito ed è fuggito senza voltarsi.” (Atto primo, scena terza)
Così è la morte dell’amante-sorella a far sprofondare il Caligola camusiano nella più profonda depressione e sfiducia nei confronti del mondo: “E’ ridicolo pensare che l’amore possa rispondere all’amore. La gente muore intorno, tutto qui. Questo mondo così com’è non è sopportabile. Gli uomini muoiono e non sono felici” (Atto primo, scena quarta)
Umanamente e realisticamente, come chi subisce una perdita cerca vendetta, Caligola vuole colpevoli * , vittime, cerca la catarsi attraverso il delitto, vuole la libertà. Una libertà, che però per questi consiste nella coscienza di una morte prossima, che cancella qualsiasi altro pensiero e tormento: “ Non esiste che una sola libertà, quella del condannato a morte. Perché tutto gli è indifferente al di fuori del colpo che farà scorrere il suo sangue ” (Atto primo, scena nona)
Così nella tragedia camusiana giocano un ruolo fondamentale elementi a cui non siamo soliti fare riferimento nominando Caligola, come l’amore o la perdita, la tenerezza, l’abbandono.
Tuttavia, a partire dal secondo atto, l’attenzione verte immediatamente dalla passione per Drusilla alla crudeltà di un Caligola mostro e demone, quasi l’autore volesse auto-censurarsi per paura apparire difensore e assolutore di una figura che nel 1944 –data della prima edizione-, i lettori avrebbero potuto leggere come controfigura del dittatore Hitler.
L’attribuzione di sentimenti umani ad un protagonista-antagonista feroce e terribile suscita nel pubblico un sentimento di vicinanza, compassione, forse anche di pietà.
Seconda vittima, dopo un Caligola oppressore e oppresso, è Cesonia, storicamente sua ultima moglie.
Nella tragedia l’incestuosa sorella, amante del divino imperatore sin da quando Drusilla era in vita, è l’unica che mostra comprensione e dissuade, in un primo momento, i senatori dai propositi di congiura. Contemporaneamente cerca di riportare alla ragione l’amato, è l’unica in grado di opporglisi senza rischiare la condanna a morte. Tuttavia prova per questo una passione travolgente e nel dialogo * con cui ha termine il primo atto, quasi ipnotizzata dalle sue parole, sembra anch’essa trasformarsi e perdere il controllo, in un climax che ha culmine proprio con le parole“Sì, Caligola, Sto impazzendo”.
La tensione aumenta: l’imperatore uccide il padre di Scipione, il figlio di Lepido, rapisce la moglie di Ottavio, abusa in pubblico di quella di Muzio.
Crescono i propositi di congiura, il malcontento e l’orrore; ma Caligola ne è lucidamente al corrente. L’autore alterna slanci di cruda violenza a tocchi di folle poesia come nel momento in cui l’imperatore domanda ad Elicone la luna.
Non è più un dittatore ma un giovane ferito che arriva quasi a cercare comprensione, nel terzo atto, proprio dal capo dei congiurati * , Cherea, pur cambiando repentinamente registro, bruciando le prove della congiura, dimostrando la sua onnipotenza e affermando ancora una volta il suo principio : “ non è necessario aver fatto qualcosa per morire” .
Se nel “Malinteso” camusiano il dramma di Martha era l’”altrove”, l’impossibilità di raggiungere “il paese dove il sole soffoca qualsiasi interrogativo”, il dramma di Caligola non è tanto l’abbandono, la perdita, quanto ciò che ne deriva, la solitudine: “quando non uccido nessuno mi sento solo. I vivi non bastano a riempire l’universo e vincere la noia” (Atto terzo, scena decima)
E’ nella solitudine che si avvicina allo specchio e parla a se stesso, a Drusilla.
E’ nella solitudine che, alla fine del quarto atto viene ucciso, e morendo ride, singhiozza, forse finalmente libero.
Così ha termine la tragedia che tuttavia non rappresenta l’opera più celebre di Camus e che anzi, fu spesso accusata di essere un “dramma filosofico”.
Ciò che ha fatto sì che la fama del francese fosse legata in particolar modo ai suoi testi narrativi e non alla sua immagine di drammaturgo credo sia la natura strettamente “letteraria” delle sue opere; il teatro camusiano rimane un teatro basato sulla parola, come appare forse con più evidenza nel “Malinteso”, le pagine sono riempite da interminabili monologhi in cui i personaggi svelano completamente se stessi al pubblico e all’attore stesso, senza lasciargli grande spazio di ricerca e “facilitandogli” notevolmente il lavoro; anche se ritengo che l’individuazione e lo studio del personaggio rimangano la parte più interessante e creativa del mestiere.
Per certi aspetti il “teatro-letterario”di Camus ricorda alcune lunghissime descrizioni che Pirandello talvolta inseriva nelle sue opere, utilissime, per un attore, ad entrare nell’atmosfera della narrazione e a percepire le sensazioni visive, uditive, tattili, del personaggio.*
E’ palpabile comunque la sua passione per lo scrivere e se Garcia Lorca, nel suo “Donna Rosita Nubile”, fa dialogare i personaggi tramite poesie, Camus dipinge le sue tragedie con continui sfavillii di metafore, espressioni quasi liriche e lunghi monologhi come quello di Caligola, sulla solitudine. *
A proposito dei testi teatrali di Camus, spesso si parla di “teatro dell’assurdo”.
Se consideriamo motore di questa forma di teatro l’incomunicabilità, la falsità nelle relazioni umane, il “vuoto”, la mancanza di verità, potremmo affiancare Camus ad autori come Beckett o Ionesco.
Tuttavia questa “mancanza” non emerge in maniera implicita, come nelle vane discussioni messe in atto da Vladimiro ed Estragone aspettando il misterioso Godot, ma è una tragica e palpabile presenza nella vita dei personaggi.
Caligola avverte ed è conscio del senso di estraneità che lo separa dal resto del mondo.
Nonostante il teatro sia un’arte autodistruttiva, per la quale risulta spesso impossibile ricreare tragedie antecedenti più di un secolo e a volte anche meno, dal momento che gli atteggiamenti, il linguaggio, ma anche le “scenografie” del comportamento che corrispondono a determinate emozioni sono in perenne cambiamento, trovo che il teatro dell’assurdo rimanga una forma di espressione adatta al contesto sociale di oggi.
La scarsità di attori di una certa competenza, credo sia dovuta proprio a quella “mancanza”, a quell’incomunicabilità a cui si rifanno autori come Beckett.
Gran parte delle discussioni sono vacue, senza importanza, a partire dalle relazioni quotidiane ai mass-media. L’attore non ricerca più ciò che c’è dietro le parole di una battuta che apparirebbe insignificante. Ci si dimentica spesso che una parola non nasce come tale ma è il prodotto finale di un impulso ad esprimersi, a sua volta azionato da un’emozione, una sensazione.
Forse molto è dovuto al contesto storico di oggi. Shakespeare aveva uno scopo umano e sociale preciso che lo motivava a fare teatro. Ormai il cinema e il palcoscenico sono ripetizioni di vecchie formule, metodi, trucchi, effetti già sperimentati, con garanzia di successo.
Si è generato quello che il regista teatrale Peter Brook, definisce “teatro mortale” , seguito dagli occhi spenti di spettatori che tendono ad associare la cultura e un’opera teatrale ad una sorta di senso del dovere,di sensazione di tedio. Un pubblico che si accontenta e addirittura ritiene una giusta dose di noia come garanzia del valore di un evento e anche se non lo da a vedere, in cuor suo, se si addormenta da la colpa al teatro in quanto tale o persino a se stesso.
Un attore a cui viene assegnata una parte come quella del Caligola camusiano diventa mortale dal momento in cui parte dal presupposto che il suo personaggio sia un imperatore e che qualcuno, non si sa dove, abbia stabilito come debba essere rappresentato. Si inizia così per stereotipi. Un imperatore è altezzoso, un imperatore è vanesio, un imperatore romano ha la gestualità di un imperatore romano.
E’ difficile che un attore, mortale o meno, possa conoscere gli atteggiamenti di un romano ; ma preso da interrogativi come la modalità in cui atteggiarsi, come “sembrare”, “apparire”, perde totalmente la coscienza dell’importanza delle parole che risuonano dalle sue labbra, crea quella “mancanza”, quel senso – che lo spettatore avverte – “di qualcosa che non va”.
In un epoca in cui ognuno tende alla chiusura e all’individualismo sfuggendo alle relazioni umane, come può un attore, che prima di tutto è uomo, riuscire a creare un giusto rapporto con il pubblico tale da generale quel silenzio surreale, trionfo e indice di un’altissima qualità di attenzione? Così durante il terzo atto i cellulari squillano, i colpi di tosse si susseguono, le palpebre scivolano.
Se questo è un teatro e questa la considerazione dell’arte, spontaneo e immediato è il pensiero che dialoghi senza alcun nesso logico come quelli di Beckett o di Stoppard (“Rosencrantz e Guildestern sono morti”) o un personaggio drammatico come il Caligola di Camus forse, sfortunatamente, sono il più realistico e sincero specchio della nostra società.

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