Il dì di festa di Leopardi

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Testo

ANALISI DE “LA SERA DEL DÌ DI FESTA” di GIACOMO LEOPARDI
Questo idillio, più volte considerato frammentario per la sua varietà, si suddivide in tante parti, nelle quali possiamo riconoscere la descrizione, la narrazione e l’espressione di concetti universali partendo dalle esperienze personali; Ma c’è un elemento che unifica il tutto: il canto dell’artigiano che il poeta sente allontanarsi per le vie del paese e che lo riporta alla sensazione di angoscia che sentiva da bambino.
Inoltre in questo componimento si evidenzia benissimo la “tecnica della doppia vista”.
Molti sono gli elementi che ci rimandano al rapporto del poeta con la natura, articolato nelle fasi, qui espresse, di una natura madre e dunque buona, che poi diventa però matrigna cattiva.
Nei primi quattro versi la natura e il paesaggio notturno sono i protagonisti, circondati da un’area semantica che riconduce alla pace e alla tranquillità; alcuni esempi sono le parole dolce, chiara, senza vento, queta, posa, serena. È un momento di grande pace e di idilliaco e autentico rapporto con la natura stessa, che infonde serenità
Nel quarto verso Leopardi apostrofa la donna che ha in mente, rendendola partecipe (nei due versi seguenti) di questo silenzio e di questa pace notturna.
Ma, al verso sette, si scopre che la donna non sta godendo di questo spettacolo naturale, infatti il poeta le dice “Tu dormi”, frase che ripeterà in anafora anche al verso undici. Mentre ancora l’area semantica della tranquillità s’insinua tra i versi (chete, non ti morde), nei versi nove e dieci l’autore rivela la piaga d’amore che la donna stessa gli ha provocato, cosa a cui lei sicuramente non dà pensiero: e già non sai né pensi quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Il verso undici, che inizia con l’anafora sopraccitata sottolinea il contrasto tra i due, sottolineato dall’uso dei pronomi Tu e Io. Mentre lui scruta la natura angosciato, lei dorme serena. Sempre da questo verso inizia un ribaltamento totale del conforto della natura: essa viene definita antica (come a mostrare la precarietà della vita umana rispetto al cosmo) e onnipossente (può infatti creare o distruggere a suo piacimento); inoltre Leopardi nel verso quattordici, riferendosi sempre alla natura, dice: “che mi fece all’affanno”, ossia, che mi generò per farmi soffrire. Evidenzia così chiaramente come senta ostile ciò che lo circonda: non è più madre ma matrigna.
Nel verso quattordici c’è una prosopopea: è la natura stessa che parla, personificata dal poeta, e che, come una maledizione, afferma di aver negato lui anche la speme, la speranza, e che gli occhi del poeta non brilleranno d’altro se non di pianto. Un verso terribile, una frase lapidaria, che rende l’uomo disperato. Da notare il contrasto tra il verbo brillare, riferito di solito alla gioia, e il pianto a cui è associato in questo passo.
Così termina la prima parte, e il verso diciassette inizia quella che è la sezione narrativa, come mostra il primo verbo che incontriamo, fu ossia un passato remoto, il tempo del racconto appunto. Si rivolge di nuovo alla donna, usando tra l’altro una parola di solito riferita ai bambini, trastull per indicare gli svaghi che durante il giorno l’hanno stancata e da cui ora si riposa.
La immagina mentre sogna tutti gli uomini su cui ha fatto colpo e soprattutto quanti le sono piaciuti: e l’autore, con più negazioni, ribadisce la sua convinzione di non essere tra questi: non può nemmeno sperarlo, la natura glielo nega.
È nel verso ventuno che subentra l’angoscia vera propria del poeta, con una disperazione espressa in una maniera molto incontrollata ed esasperata, come si nota anche dai verbi “mi getto e grido e fremo”, introdotti con un enjabement e che costituiscono sia un climax ascendente del furore provocato dalla passione, che un polisindeto.
Dal verso ventiquattro Leopardi racconta di udire il solitario canto dell’artigian, che riede a tarda notte, dopo i sollazzi, al suo povero ostello. È l’unico residuo della festa che c’è stata, dove probabilmente si è rafforzata – o è nata – la passione dilaniante per la donna che ora dorme e a lui non pensa.
Associa il canto dell’artigiano che si allontana sempre di più per le vie a come tutto passa a questo mondo; il suono lo riporta a una riflessione sulla caducità della vita, il mondo è coinvolto nella fugacità. Anche i versi successivi trattano ancora lo stesso tema: il tempo tiranno porta via ogni umano accidente. Partendo da questa esperienza personale, siamo al verso 33, passa a una riflessione ancora più allargata, nella quale si domanda che fine abbiano fatto i popoli gloriosi antichi, le battaglie famose e quella Roma caput mundi. Associando ciò al canto dell’artigiano, utilizza termini che riportano a delle percezioni sensoriali uditive, come le parole suono, grido, fragorio. Si può notare anche una netta differenza con I Sepolcri, nei quali Foscolo esprimeva la sensazione di vedere ancora infuriare la battaglia, solamente vedendo o trovandosi, secoli – se non millenni dopo – nello stesso luogo.
Il verso trentotto segna il ritorno all’area semantica della quiete: pace, silenzio, posa. Sempre in questa riga c’è una forte anafora della parola tutto e viene ripreso lo stesso verbo dei primi versi – posa – che era stato usato per la luce lunare.
Nel verso quaranta c’è il ritorno all’infanzia, nella quale, come ora, non riusciva a dormire nel dì di festa. Il salto nel passato è permesso dal canto dell’artigiano, tramite tra passato e presente, che anche quand’era piccolo s’udia per li sentieri. L’affievolirsi della voce, a causa della lontananza gli faceva stringere il core similmente ad ora. Al canto dell’artigiano Leopardi associa dunque la caducità della vita, ma riesce a giungere a questo pensiero solamente in età adulta, quando ha già scoperto il vero, raggiungibile solamente tramite la riflessione. C’è qui la consapevolezza del dolore dell’uomo.

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