Leopardi e Schopenhauer

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Testo

PERCORSO INTERDISCIPLINARE
La visione pessimistica del reale in Leopardi e Schopenhauer
Vissuti entrambi in un periodo caratterizzato da una cultura di tipo romantico, seppure non considerandosi tali, Giacomo Leopardi e Arthur Schopenhauer basano il loro pensiero su un’analisi della realtà. Il loro intento è di mostrarci quale sia la vera natura del mondo e il conseguente disagio dell’umanità: entrambi, infatti, oltrepassano i limiti del mondo terreno ed esprimono la loro idea sul vero significato della vita.
Analogie e differenze avvicinano le due filosofie: sta alla base un comune senso dell’esistenza come pessimismo, da cui si dirameranno in seguito i temi del dolore, del piacere, della noia, del suicidio. Si arriverà a conclusioni diverse sebbene il fine sia lo stesso: mostrare la realtà per quella che è, smascherando la più grande delle illusioni: la felicità.
E' tuttavia più opportuno innanzi tutto introdurre i due pensatori delineando i caratteri generali che vanno a delineare la loro riflessione.
Giacomo Leopardi nasce a Recanati, paese appartenente all’arretrato Stato della Chiesa, il 27 giugno 1798 dal conte Monaldo e da Adelaide dei marchesi Antici. La madre, rigida e non affettuosa con i dieci figli, si occupa dell’amministrazione domestica, mentre il padre coltiva i suoi interessi culturali e amplia la biblioteca di famiglia. Qui il giovane Giacomo studia fino ai dieci anni con l’aiuto del padre e di alcuni religiosi che gli impartiscono una cultura umanistica, filosofica e scientifica. Presto però, poiché i precettori non hanno più nulla da insegnargli, continua i suoi studi da solo rinchiudendosi nella biblioteca paterna: sono sette anni di studio matto e disperatissimo. Tradusse i classici e compose opere di carattere erudito e filologico, tragedie, poesie e prose di impronta accademica.
Momento di svolta nella sua produzione è la conversione letteraria dall’erudizione al bello, cioè il periodo tra il 1815 e il 1816 in cui i suoi interessi passano dalla filologia alla poesia. Comincia la corrispondenza con Pietro Giordani (che nel’18 sarà ospite in casa Leopardi) e contemporaneamente lo sconvolge la visita della cugina di cui crede di innamorarsi.
Nel 1817 inizia la stesura dello Zibaldone che lo impegnerà fino al 1832. In questo anno avviene la seconda conversione letteraria dal bello al vero, cioè dalla poesia di immaginazione ricca di immagini fantastiche a quella sentimentale ispirata alla riflessione sull’infelicità della vita.
Il 1819 è un anno di crisi: prima una malattia agli occhi che gli impedisce di dedicarsi allo studio, successivamente un fallito tentativo di fuga dall’odiata Recanati e dall’ambiente familiare sfavorevole e negativo, così come le altre iniziative di andarsene. Con questa sfiducia interiore scrive La sera del dì di festa, Bruto minore, Ultimo canto a Saffo.
Il 17 novembre finalmente lascia Recanati e si trasferisce a Roma presso degli zii. Qui resterà fino al 28 aprile 1823 ma rimane assai deluso dall’arretrato ambiente culturale: definisce infatti la capitale una grande Recanati. La sola cosa che lo colpisce è la tomba del Tasso. Dopo circa un anno e mezzo torna presso il paese natio ma la delusione è grande. Leopardi comincia a ripiegarsi in se stesso e a meditare sul suo dolore che è in realtà il dolore dell’umanità intera. Numerose meditazioni filosofiche e il fatto che il Leopardi non creda in Dio, lo spingono a scrivere le Operette morali, concluse nel ’24 e riguardanti i problemi della vita.
Nel ’25 è invitato a recarsi a Milano dall’editore Stella che lo assume per tradurre opere classiche ma se ne andrà presto da questa bella città, di cui però non gli piace la gente. Vive quindi tra Bologna, Firenze e Pisa. A Bologna incontra vecchi amici quali Pietro Giordani; la città gli piace molto sia per la sua allegria sia per la vitalità. Stringe amicizia con la contessa Teresa Carniani Malvezzi che però finirà presto. A Firenze conosce il Manzoni e il Pellico presso il gabinetto Viesseux, mentre a Pisa trascorre gli anni più belli della sua vita. Qui il clima è più favorevole e adatto alla sua salute e grazie all’ambiente sereno riprende a scrivere componendo i grandi Idilli, tra cui A Silvia, Il passero solitario, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
Dal novembre del 1928 fa ritorno a Recanati da cui pensa di non potersi mai più allontanare. Ciò sarà invece possibile grazie alla proposta di Colletta che lo invita a Firenze. Conosce la bella ed intelligente Fanny Taglioni Tozzetti di cui si innamora inutilmente. Per lei scrive cinque poesie che compongono il ciclo Aspasia.
A causa della malattia agli occhi nell’estate del ’33 si trasferisce a Napoli, città dal clima mite, in compagnia dell’amico Ranieri. Scrive il suo testamento spirituale La ginestra e Il tramonto della luna per poi morire il 14 giugno 1837 a causa del precario stato di salute ed essere seppellito vicino alla tomba di Virgilio.
Arthur Schopenhauer nasce a Danzica il 22 febbraio 1788. Il padre è banchiere e la madre una nota scrittrice di romanzi. Viaggia in Inghilterra e in Francia e dopo la morte del padre comincia a frequentare l’Università di Gottinga, dove ha come maestro di filosofia lo scettico Schulze. Influenzano notevolmente il suo pensiero le filosofie di Platone e di Kant. Frequenta le lezioni di Fichte a Berlino e nel 1813 si laurea all’Università di Jena.
Tra il 1814 e il 1818 Schopenhauer vive a Dresda dove compone lo scritto Sulla vista e sui colori e prepara la stampa della sua opera principale Il mondo come volontà e rappresentazione che pubblica nel dicembre 1818 e che non ha alcun successo.
Dal 1820 al 1832 insegna come docente libero presso l’Università di Berlino con poca fortuna. Contemporaneamente viaggia in Francia e in Italia e, a causa di un’epidemia che lo costringe a lasciare Berlino, si trasferisce definitivamente a Francoforte sul Reno dove morirà il 22 settembre 1861.
Molti sono gli influssi culturali di Schopenhauer: Platone e la teoria delle idee come forme eterne ed immutabili; Kant per quanto riguarda il problema gnoseologico della conoscenza e importanza del soggetto nel processo di comprensione del mondo che non si muta e non si modifica ma sta al centro organizzando la natura e il rapporto fenomeno-noumeno; l’Illuminismo e il materialismo come tecniche per smascherare e demistificare la realtà mostrando la vera essenza del mondo; il Romanticismo per il tema dell’infinito e del dolore; la sapienza e le filosofie indiane, il Buddismo ed i testi sacri come i Veda ed i Purana. Ma la critica maggiore è diretta nei confronti dell’idealismo romantico di cui sono permeati gli anni in cui vive ed opera: Schopenhauer disprezza questa filosofia, quella di Fichte e di Hegel in particolar modo con il panlogismo ottimistico, definendola filosofia dell’Universalità e farisaica.
Anche Leopardi dal canto suo non vuole essere definito un romantico sebbene tratti spesso il tema dell’infinito, tanto caro a quei pensatori, e si senta molto nelle sue composizioni l’animo del poeta.
Sicuramente l’ambiente in cui i due pensatori si sviluppano è importantissimo. Leopardi inizialmente pensa alla natura come madre benigna ma che è in continuo e aperto contrasto con la ragione. Il rapporto benevolo che è creato dalla natura con l’uomo è, infatti, distrutto dalla ragione corruttrice e nemica; proprio questa ha inserito l’uomo negli affari, nella società, nella guerra costringendolo a distaccarsi da tutto ciò che prima amava fare: contemplare la natura. L’uomo è andato così via via imbarbarendosi ed ha dimenticato la bellezza dell’età dell’oro. Questo, che è il pessimismo storico e che riguarda tutta la società, si accentuerà ancora di più nella fase del pessimismo cosmico. Dopo la fallita fuga da Recanati, al di là di cui esiste la vita, ogni suo sogno cade, le illusioni sono infrante, non esistono più sogni. In questa nuova teoria si vede, come prima, la ragione in contrasto con la natura. Tutto però cambia: la natura è ora vista da Leopardi come matrigna, incurante dei dolori che provoca alle sue creature, e l’unico modo che ha l’uomo per liberarsi è la ragione. Le riflessioni sull’infelicità lo spingono a formulare la teoria del piacere: l’amor proprio dell’individuo porta a ricercare un piacere infinito per estensione e per durata. Questa felicità però sfugge, non esiste, è un divario insanabile causato dalla natura. L’individuo, anche nel momento del maggior piacere, continuerà a sentire l’assillo del desiderio non colmato che porterà patimento e causerà sofferenza anche quando non si soffre di mali materiali. A ciò si aggiunge la delusione storica: la storia crea una società alienante, i cui desideri sono il lusso, il denaro ed il potere. Per averli si acuisce l’egoismo e il consumismo. Coincide con questo anche una fiacchezza individuale perché materialista, si dimentica della cura dell’intelletto. I “nuovi eroi” sono ora i banchieri, gli imprenditori, tutti coloro che possiedono il denaro. La ricchezza culturale del passato si affievolisce per lasciar spazio ad un eroe di carta sonante. Questa colpa è della natura creatrice, che ha permesso tutto ciò senza pensare alle conseguenze: la ragione è l’unica in grado di porre un freno alla freddezza, alla corruzione, al meccanismo della natura. Per questo Leopardi accetta in parte le teorie illuministiche che riguardano la ragione, senza però essere positivo. Cadono così quei dettati che la famiglia gli aveva imposto: si allontana da Dio come gli illuministi (madre), disprezza i conservatori e i tradizionalisti (padre).
Leopardi pensa che l’uomo sia un punto nell’universo schiacciato dal rigore fisico della natura che procede indifferente alla felicità (che comunque non esiste) ma in particolare che la vita sia caratterizzata da tre stati ben definiti: piacere, dolore e noia.
La vita è, per questi due pensatori, un pendolo che oscilla tra dolore e noia. Il primo è derivante dal piacere: infatti, poiché questo non può essere raggiunto dall’animo umano che tende inesorabilmente ad esso, il desiderio inappagato provoca la sofferenza che è quindi connaturata alla vita. I pochi e finiti momenti di piacere sono solo delle brevi parentesi che non appagano questa ricerca: il piacere è mancanza di dolore. Ma non appena vengono a mancare i desideri che spingono l’uomo ad ottenerli, ecco che sopraggiunge la noia, cioè l’assenza di sentimento, il vuoto dell’anima. Raggiungere il piacere è impossibile: è un’illusione.
Il solo momento della vita in cui non ci si preoccupa del dolore è la giovinezza, incarnata nella figura di Silvia: Silvia, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi / e tu, lieta e pensosa il limitare / di gioventù salivi? [da G. Leopardi, A Silvia]. Silvia è simbolo di speranza e giovinezza e con la sua morte finisce la bella età spensierata e inconsapevole che si contrappone invece all’età adulta con la caduta di ogni speranza. Questo contrasto è più esplicito ne Il sabato del villaggio: la donzelletta si prepara per il giorno di festa con serenità, mentre la vecchierella non può far altro che pensare al passato.
Ecco qui riassunto il pensiero del Leopardi tratto da un passo dello Zibaldone: L’anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benché sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità. […] Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti né per durata né per estensione. […] Il fatto è che quando l’anima desidera una cosa piacevole, desidera la soddisfazione di un suo desiderio infinito, desidera veramente il piacere, e non un tal piacere; ora nel fatto trovando un piacere particolare, e non astratto, e che comprenda tutta l’estensione del piacere, ne segue che il suo desiderio non essendo soddisfatto di gran lunga, il piacere appena è piacere, perché non si tratta di una piccola ma di una somma inferiorità al desiderio e oltracciò alla speranza. E perciò tutti i piaceri debbono esser misti di dispiacere, come proviamo, perché l’anima nell’ottenerli cerca avidamente quello che non può trovare, cioè una infinità di piacere, ossia la soddisfazione di un desiderio illimitato.
Come si vede nella poesia La quiete dopo la tempesta, il piacere, questa tensione titanica dell’uomo a raggiungere ciò che non esiste, scaturisce dopo la metaforica tempesta: il piacere è assenza di dolore: piacer figlio d’affanno (verso 32), basta una gioia a far dimenticare le sofferenze. Chi permette questo è la natura cortese, apostrofata così ironicamente dal Leopardi, che continua […]Uscir di pena/ è diletto fra noi. / Pene tu spargi a larga mano; il duolo / spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto / che per mostro e miracolo talvolta / nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana / prole cara agli eterni! assai felice / se respirar ti lice / d’alcun dolor: beata / se te d’ogni dolor morte risana. La strofa conclusiva dell’ode, dopo l’ironia contro la natura indifferente, contiene un altro concetto fondamentale del pensiero di Leopardi: la morte come quiete, come termine di tutte le sofferenze causate dalle illusioni del piacere. Il suicidio è quindi la scelta più utile per l’uomo; solo motivazioni filosofiche (il suicidio è contro natura) o religiose (è una colpa contro la divinità creatrice) potrebbero negarne la legittimità. Troviamo questa soluzione in opere come Bruto minore e Ultimo canto a Saffo. Il suicidio è atto di libertà, è un gesto eroico: la morte volontaria è segno di titanismo. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, il protagonista pone alla luna delle domande sul senso e sul significato della vita. Questa, che ha una vita circolare proprio come il pastore, non gli dà alcuna risposta. A me la vita è male, spiega il pastore, che preferirebbe essere come il suo gregge inconsapevole ed ozioso e che quindi preferirebbe non essere mai nato (è funesto a chi nasce il dì natale).
Tuttavia sappiamo che questa posizione non è definitiva. Nell’ultima produzione, Leopardi invita gli uomini non ad abbandonarsi alla malignità della natura, ma ad unirsi in una disperata lotta contro di essa. E’ il periodo del pessimismo agonistico. Nel suo testamento spirituale, composto nel 1836, La ginestra o fiore del deserto, il poeta inneggia alla social catena: l’uomo deve rendersi conto di non essere il signore dell’universo e deve riconoscere la malvagità della natura. Il solo modo per sconfiggerla è unirsi agli altri uomini. Così come un pomo cadendo dall’albero distrugge le abitazioni delle formiche, allo stesso modo il Vesuvio eruttando ha distrutto in pochi istanti le città costruite alle sue pendici. E ancora, come la ginestra, nata sulle pendici del Vesuvio, piegando il capo sopporta e sopravvive al vulcano, così l’umanità deve riconoscere la sofferenza e la fragilità che gli sono destinati. Nulla si può fare se non una catena di fratellanza, anche con la consapevolezza della sconfitta.
Nell’opera Il mondo come volontà e rappresentazione, Arthur Schopenhauer riprende il dualismo kantiano. Per Kant il fenomeno (phainomenon, da phainein cioè mostrare) è ciò che si mostra, ciò che appare, ciò che è accessibile alla conoscenza umana; la realtà fenomenica è quella già data, nella quale gli oggetti appaiono al soggetto ed alla conoscenza per come si presentano. Ma esiste un’altra realtà che non appare e che quindi l’uomo non può conoscere: questo è il noumeno (da noein cioè pensare), l’incognita, la cosa in sé, la realtà inconoscibile ed inaccessibile creata da un’entità superiore, la quale è l’unica a poterla conoscere. Il noumeno ricorda all’uomo i suoi limiti. L’io come soggetto della conoscenza diventa legislatore della natura: ordina gli oggetti e organizza i fenomeni secondo schemi a priori.
Per Schopenhauer invece, il fenomeno è pura illusione, apparenza, sogno, “velo di Maya” (è una potenza magica ripresa dalla tradizione orientale di cui si servono gli dei per illudere gli uomini). Il fenomeno è rappresentazione, nasconde la realtà. Ma il velo di Maya può essere squarciato per andare oltre all’apparenza e raggiungere il nocciolo metafisico, l’essenza noumenica. Il noumeno è ciò che si mostra dopo aver squarciato il velo di Maya, è la realtà senza false illusioni. Il mondo è una mia rappresentazione significa che il mondo consiste nel suo essere percepito da un soggetto. Per Schopenhauer, infatti, il fenomeno è rappresentazione di qualcosa che è dentro la coscienza del soggetto e fuori non è nulla, è illusione che demistifica la realtà e che nasconde l’essenza noumenica.
La rappresentazione è temporalmente e spazialmente determinata, come per Kant, ma Schopenhauer pensa che bastino le forme a priori di spazio, tempo e la categoria della causalità per spiegare la rappresentazione, poiché la causalità può inserire gli oggetti collocandoli e organizzandoli in un cosmo conoscitivo. I due lati necessari affinché esista la rappresentazione sono un soggetto rappresentante ed un oggetto rappresentato; essi non sono indipendenti tra loro: la realtà dell’oggetto è nell’essere percepito, quella del soggetto nel percepire. Spazio, tempo e causalità deformano la realtà e dividono gli enti che sono messi in rapporto l’uno con l’altro: è il principium individuationis. Perciò la realtà rappresentata è illusione, è apparenza. L’uomo però è portato ad interrogarsi sul fine ultimo della vita e non vuole vivere nell’illusione, vuole oltrepassare il fenomeno e giungere a capire il noumeno attraverso la conoscenza intuitiva. Tuttavia, poiché l’uomo non è solamente intelletto ma anche corporeità, o, detta con le parole del filosofo stesso, non è solo testa d’angelo alata senza corpo, attraverso un’intuizione geniale, ripiegandosi in se stesso nell’intimità del proprio io, riesce a conoscere l’essenza noumenica dell’essere. Se l’uomo si vede dal di fuori, conosce solo l’essenza illusoria dell’essere; se si guarda dal di dentro, se segue i suoi sentimenti, la brama, la volontà di vivere, l’impulso che lo porta senza posa a vivere e ad agire, può conoscere il noumeno. Il nostro corpo è il fenomeno che copre la vera essenza del mondo, è manifestazione di un principio che è volontà, è la parte finita che rappresenta l’infinito. Solo l’infinito è concreto e reale, il finito è una parziale manifestazione di esso. Il mondo fenomenico è la rappresentazione della realtà, il corpo è rappresentazione del principio di Volontà.
Le cose del mondo sono oggettivate nella Volontà che è il principio primo. Dietro la molteplicità dei fenomeni vi è un’essenza che è unica, senza scopo ed eterna. Il suo unico fine è di continuare ad essere, di perpetuarsi per l’eternità. Questo principio primo infinito che si manifesta nel finito è arazionale, alogico, assoluto, unico, eterno, inconscio, è la sostanza del mondo. La Volontà si pone fuori dal mondo della rappresentazione, si sottrae alle forme del mondo fenomenico (spazio e tempo). Il noumeno è, è sempre stato e sempre sarà, è energia, impulso cieco ed irrazionale. Poiché la Volontà è presente ovunque e sempre, nel mondo non c’è posto per l’individuo, le cui iniziative non sono altro che un mezzo del principio infinito. L’uomo è quindi solo un burattino e la vita viene a non avere più senso. […]ogni aspirazione nasce da un bisogno, da una scontentezza del proprio stato; c’è patimento fino a che essa (la Volontà) non sia soddisfatta; ma non v’ha affatto soddisfazione durevole: essa non è se non il punto di partenza d’una nuova aspirazione, sempre impedita in ogni maniera, sempre lottante, quindi sempre causa di dolore: per essa giammai uno scopo finale, perciò giammai limite né termine del soffrire. […]cresce il soffrir arrivando al grado supremo nell’uomo; qui anzi è desso tanto più violento in quanto l’uomo è dotato di una coscienza più lucida, d’una intelligenza più alta: colui nel quale sta il genio è sempre quegli che soffre maggiormente. [da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione]. Il mondo, quindi, diventa teatro dell’illogico, non esiste alcun dio, non c’è religione né metafisica. Poiché Schopenhauer è un materialista ateo, non c’è alcuna finalità ma solamente un meccanismo esterno ai bisogni dell’uomo. Ne consegue la sofferenza delle creature, dato che il male è parte dell’essenza del mondo. La critica all’ottimismo sociale e storico è inevitabile: la storia è tutti i giorni sempre la medesima sonata, l’unico scopo dell’uomo è quello di perpetuare la specie.
Il piacere, così come per Leopardi, è rimembranza o attesa, è piacere della memoria o della speranza e diventa negativo, poiché presuppone assenza di sofferenza, mancanza di dolore. La vita è vissuta per continuare ad essere, per il perpetuarsi della Volontà, non c’è altro senso. […]ogni volere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insopportabile. Dunque la vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. [da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione]. Quindi il piacere è una breve pausa tra un desiderio e l’altro e l’uomo soffre perché perennemente assillato dai suoi stessi desideri, che non può mai soddisfare tutti e definitivamente. La noia, dolorosissima, subentra nel momento in cui l’uomo, involontariamente, si trova a non sentire interesse per alcunché.
Per Schopenhauer la soluzione al pessimismo non è il suicidio, che è, anzi, conferma della Volontà: Lungi dal negare la Volontà, esso (il suicidio) la afferma energicamente, poiché l’individuo è parte della Volontà, la quale, anche se negata con esso, continua comunque ad esistere in tutte le altre creature. […]il suicida nega l’individuo e non la specie. La volontà di vivere, lo ripeto, essendo assicurata in eterno, e il dolore essendo l’essenza della vita, uccidersi è un atto inutile e insensato; esso distrugge arbitrariamente il fenomeno individuale mentre la cosa in sé resta intatta. [da A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione]. Il solo modo per liberarsi dalla Volontà è negarla: è quindi necessario passare dalla Voluntas alla Noluntas. Le strade per allontanarsi dalla sofferenza del mondo fenomenico sono tre:
1) la via dell’arte: consiste nel contemplare un’opera d’arte con lo scopo di liberarsi momentaneamente dalla Volontà. L’artista che produce e l’osservatore che poi fruisce dell’opera d’arte si distaccano dal mondo fenomenico, dallo spazio e dal tempo, diventando puro occhio del mondo. L’arte libera l’individuo dalla catena dei bisogni e dei desideri, elevandolo al di sopra del dolore e del tempo. Tuttavia la funzione acatartica dell’arte ha carattere parziale e temporaneo.
2) la via della morale: deve sorgere non da un imperativo categorico ma da un senso di pietà o di compassione nei confronti del prossimo. La morale mantiene l’individuo all’interno del mondo ma fa sì che si liberi dall’egoismo. Soffrendo con l’altro e compatendolo, non c’è differenza ma unione metafisica. Bisogna assumere un sentimento di caritas.
3) l’ascesi: è il tirocinio dello spirito che porta progressivamente al distacco dal mondo per raggiungere la perfezione: è il definitivo annientamento della Volontà, è il raggiungimento della Noluntas. L’individuo, cessando di volere la vita ed il volere stesso, si propone di estirpare il proprio desiderio di esistere, di godere e di volere attraverso delle tappe:
- castità perfetta per non perpetuare la specie
- povertà assoluta per distaccarsi dai beni del mondo materiale
- non violenza per vincere il carattere stesso dell’individuo e le sue tendenze naturali
In questo modo si può raggiungere la Noluntas, il Nirvana buddista, che non è vuoto ma è pienezza d’essere. Se il mondo, con tutte le sue illusioni, le sue sofferenze ed i suoi desideri, è il nulla, il Nirvana è un tutto, è un oceano di pace, è uno spazio luminoso di serenità, in cui si dissolve la nozione dell’io e del soggetto, cioè il fenomeno.
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