Discorso sul Metodo

Materie:Appunti
Categoria:Filosofia

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Testo

“DISCORSO SUL METODO” (Cartesio)

C. si rivolge ad una parte di pubblico con la quale, solitamente, non si tratta. Anche per questo motivo, egli usa un linguaggio colloquiale (dovuto inoltre all’utilizzo di contenuti spesso autobiografici), con uno stile però profondo, soprattutto quando parla della metafisica.
Il testo è suddivisibile in sei parti:
- I parte: C. mette al centro della speculazione filosofica e scientifica la questione del metodo, per trovare altri criteri per distinguere il vero dal falso, criteri al di là della metafisica aristotelica; è infatti presente la teoria elaborata nel collegio di La Flèche, nella quale C. confuta le metodologie con le quali a La Flèche si studiavano le varie materie.
- II parte: C. definisce le quattro regole del metodo, che stanno alla base di qualsiasi metodo relativo a qualsiasi disciplina.
- III parte: viene trattata la morale, perché C. si è prefissato lo scopo di definire le verità fondamentali alla base della conoscenza e dell’agire pratico, perciò egli ha bisogno di regole di comportamento, di una morale “provvisoria”, da sostituire con una morale “definitiva”, dopo aver dato una definizione alla verità.
- IV parte: viene trattata la metafisica (la IV è infatti la parte più difficile) e C. mette a punto lo schema di riflessione che parte dal dubbio ed approda a Dio e alle prove della Sua esistenza (“cogito ergo sum”).
- V parte: C. presenta la teoria scientifica (trattata anche nel “Mondo”).
- VI parte: C. elogia alla scienza ed alla filosofia, perché solo da esse l’uomo può trarre i mezzi per migliorare la propria vita.

I parte
Dalla razionalità scientifica e dalla matematica dipende la capacità di distinguere il vero dal falso, capacità presente in ogni uomo. Nel ‘700, per gli illuministi tutti gli uomini sono uguali, mentre nel Medioevo la verità era raggiungibile solo con la fede (volontà divina), non con la ragione, e sul piano sociale vigeva la disuguaglianza perché erano diversi gli itinerari per arrivare a Dio.
Secondo C., se si hanno diverse opinioni non è perché è diversa la ragione, ma perché sono diverse le strade percorribili, perché la ragione viene usata scorrettamente.
La razionalità distingue l’uomo dagli animali: per l’uomo la verità costituisce un problema, per gli animali no.
La sostanza (elemento sempre uguale, che non cambia mai) corrisponde alla razionalità; l’accidente corrisponde alle varie strade percorribili.
C. utilizza sempre una grande cautela: il suo metodo è ancora in evoluzione, è solo una proposta, perciò egli dice che vorrebbe sentire anche le opinioni altrui, desidera le obiezioni degli altri, in modo da poter aggiustare il proprio metodo. Egli vuole fornire i precetti relativi alla propria esperienza, tocca poi agli uomini scegliere se seguirli o meno.
C. passa poi in rassegna tutte le discipline che ha studiato a La Flèche, dandone la dimostrazione comune, che considera ognuna indispensabile, quindi le critica una per volta, poiché provocano solo l’ignoranza, non permettono cioè di imparare a conoscere la distinzione del vero dal falso:
- lo studio dei libri antichi e della storia permette di conoscere il passato, ma fa tralasciare il presente
- le favole (i miti, l’“Orlando furioso”, la “Metamorfosi”…) causano il fatto che chi si comporta come i paladini delle favole si sopravvaluta, facendo cose non concrete (vedi, per esempio, don Chishotte)
- la matematica è considerata utile solo a scopi tecnico-meccanici, è quindi compito di C. elevarla a “matematica teorica”, presente ed utile in ogni disciplina, mediante il proprio metodo
- i classici parlano di virtù, ma non indicano come arrivare ad esse
- per quanto riguarda la teologia, anche C. aspira a salvarsi, ma la via per il paradiso è uguale per tutti, dotti o ignoranti, perciò non serve studiarla, inoltre non si può raggiungere la verità religiosa solo con l’intelletto umano, infatti serve l’intervento divino
- della filosofia è rimasto un insieme di opinioni, che consistono nelle dispute tra i filosofi, ma nessuna è vera rispetto alle altre, tutte sono solo verosimili, mentre per C. il sapere deve essere innanzitutto solido.

II parte
C. definisce le regole del suo metodo:
1) Principio per distinguere il vero dal falso, relativo al carattere di certezza che devono avere le nostre intuizioni: è vero ciò che è assolutamente certo, che non può essere mai negato; tutta la matematica ha questo carattere autoevidente; quindi occorre verificare se le affermazioni che si fanno convincono con la loro autoevidenza, perché da esse derivano deduzioni e conseguenze altrettanto autoevidenti, che sono fondamentali; sono vere le intuizioni o le idee che nascono dalla mente chiare e distinte dalle altre idee.
2) Regola dell’analisi, secondo la quale occorre la suddivisione complessiva di un problema difficile affinché la soluzione diventi intuitiva (vedi anche Galileo, che isola i fenomeni per poterli analizzare meglio); il metodo di C. si basa cioè su un procedimento analitico (tipico della mentalità scientifica).
3) Regola della sintesi: far seguire all’analisi la sintesi, ricomponendo il problema in modo ordinato, procedendo in modo deduttivo, affinché ogni passaggio derivi dal precedente, considerando e rispettando l’autoevidenza (semplicità) delle singole parti nelle quali il problema era stato precedentemente (seguendo la Regola dell’analisi) suddiviso.
4) Regola di ricontrollo, per confermare che ogni passaggio deriva dal precedente, scartando eventualmente ciò che non è autoevidente.
Per elaborare il proprio metodo C. ha preso spunto dai Geometri (coloro che studiano la geometria), che per dare dimostrazioni fanno catene di ragionamenti. C. intende estendere il rigore, con le sue quattro regole, a tutto il sapere (relativo non solo all’ambito matematico, ma anche a quello della morale, della politica…).

III parte
C. definisce le massime della sua morale provvisoria:
1) rispettare le leggi, i costumi, la religione del proprio paese, attenendosi alle opinioni più moderate, per non esporsi e per non rischiare (per sbagliare meno bisogna stare nel mezzo), usando quindi la maggior prudenza possibile;
2) andare fino in fondo dopo aver meditato e scelto, anche se la scelta fatta è dubbiosa, bisogna cioè essere coerenti e responsabili delle proprie scelte e azioni, poiché il dubbio porta alla passività perché non consente di muoversi, rimanendo nell’incertezza;
3) regola del relativismo culturale: gli uomini sono padroni solo dei loro pensieri, perciò, come dicevano gli Stoici, non devono sentire la necessità di legarsi ad altre cose, alle passioni, che sono fonte dell’infelicità; il fine di questo comportamento è quello di coltivare la propria ragione per giungere alla verità;
4) per essere felici occorre agire al meglio e, per fare ciò, bisogna giudicare bene, poiché, come diceva Socrate, non si può conoscere il bene ma non metterlo in atto, quindi chi compie il male lo fa solo perché non ha ancora conosciuto il bene.
C. inizia poi a parlare del metodo del dubbio da lui utilizzato (v. anche la IV parte), un dubbio che non è però assoluto, come quello degli Scettici, ma serve a giungere, gradualmente, al fondamento della verità e del sapere, in quanto il dubbio consente di smantellare i pregiudizi e di distaccarsi dai sensi.

IV parte
Per applicare il metodo tratto dalla matematica a tutto il sapere, occorre prima stabilire su che cosa fa perno il metodo, cercando la certezza indubitabile (ricerca della verità). Per procedere alla ricerca della verità, la metodologia di C. si basa sulla metodologia del dubbio; mentre per gli Scettici il dubbio era distruttivo, in quanto essi dubitavano di tutto perché per loro non era possibile trovare un punto fermo (afasia = sospensione di ogni giudizio sulla realtà), per S. Agostino (che scrisse un testo contro gli Scettici, il “Contra accademicus”) si poteva dubitare di tutto perché si ha come obiettivo l’affermazione della verità indubitabile: la filosofia di C. è più vicina a quella di S. Agostino.
Per procedere con il dubbio occorre attaccare le cose certe per tutti gli uomini, ovvero l’esperienza sensibile, che dà esperienze contraddittorie perché i sensi sono imperfetti, quindi se i sensi possono ingannare non si può dar loro credito, bisogna invece diffidare e sospendere l’assenso nei confronti di tutta l’esperienza sensibile.
Nelle “Meditazioni metafisiche” C. cerca la differenza tra il sonno e la veglia (la realtà), impossibili da distinguere razionalmente; egli si chiede se c’è qualcosa sempre vero sia in sogno che nella realtà, identificando questo qualcosa con le affermazioni matematiche. Ancora nelle “Meditazioni metafisiche” C. fa un’ipotesi che pone nell’incertezza le affermazioni matematiche, perché è sempre possibile un errore umano anche nelle dimostrazioni più corrette; inoltre, egli non ha ancora dimostrato l’esistenza di Dio, perciò ipotizza l’esistenza di un essere maligno che ha creato il mondo e che ci inganna facendo in modo che ciò che vediamo sia realmente vero: questo è un dubbio iperbolico perché investe tutta la realtà per arrivare ad una verità che sta in piedi da sola.
C., nella quarta parte del “Discorso”, decide poi di partire dalla propria esistenza per procedere con il proprio metodo, in quanto egli “è” come individuo che pensa e che dubita (egli è solo pensiero, non ha ancora dimostrato di essere anche corpo), quindi gli uomini sono certi di esserci come pensieri e come insieme delle loro idee: cogito, ergo sum, è quindi impossibile scindere l’atto del pensare dall’esistenza; non si tratta però, come pensano alcuni filosofi, del sillogismo “tutto ciò che pensa esiste, io penso, quindi io esisto”. Il cogito diviene l’oggetto degli attacchi degli altri filosofi, che lo giudicano un circolo vizioso perché se esso è il fondamento dell’evidenza (secondo C. è l’evidenza assoluta), vuol dire che esso è evidente perciò si potrebbe pensare che l’evidenza viene prima del cogito, mentre invece è una conseguenza di esso.
L’idea per C. è la rappresentazione della realtà che tradisce il soggetto che rappresenta la realtà (pensatore), perciò le idee rispondono ad esigenze di tipo soggettivo; quindi forse il mondo non esiste o, anche ammettendone l’esistenza, non è detto che ci sia una coincidenza tra le mie idee e il mondo. Per accertarsene, occorre liberarsi dal genio maligno e dimostrare l’esistenza di Dio, un Dio onnipotente che, in quanto tale, non può ingannare.
Per Hobbes non è possibile dire che la sostanza del soggetto che pensa coincide con il pensiero, il pensiero potrebbe eventualmente essere la base da cui si originano l’anima e il corpo del pensatore, mentre per C. il pensiero fa riferimento all’anima. C. cerca comunque un collegamento tra lo spirito e il corpo, chiedendosi se la sostanza pensante (res cogitans), per esistere, non ha bisogno di dipendere dalla sostanza materiale, dal corpo, nonostante la immense differenze che intercorrono tra loro, poiché il pensiero occupo il tempo, mentre il corpo occupa lo spazio.
Il fondamento del principio delle idee chiare e distinte è nel cogito, che è la certezza assoluta. Per capire se al di là delle idee c’è qualcosa, se esse sono tutte uguali oppure no, se esiste qualche idea che fa da “ponte” tra il soggetto e il mondo delle idee, occorre cercare se ce ne sono alcune che consentono di uscire dal mondo soggettivo verso il mondo oggettivo; a tale scopo, C. cataloga le idee in tre gruppi:
- idee innate: le idee che si hanno fin dalla nascita, come per esempio l’idea di Dio (visto come l’essere perfetto), le idee morali che distinguono il bene dal male (che vengono perfezionate dall’educazione), i principi della logica (principio di non contraddizione, di identità…)…
- idee avventizie: le idee che provengono dal contatto con il mondo esterno, sono cioè strettamente collegate al mondo dei sensi
- idee fittizie: idee che vengono prodotte senza alcun rapporto con la realtà, perciò si può dire che esse vengano generate dalla fantasia.
Solo le idee innate sono però utili per capire se c’è un collegamento tra le idee e il mondo esterno, in quanto le idee avventizie potrebbero anche essere inventate dalla mente umana, poiché non c’è nulla di tanto perfetto che l’uomo non possa immaginare, mentre le idee fittizie, essendo frutto della fantasia, porterebbero solo a conclusioni erronee. Tra le idee innate, quella per eccellenza è l’idea di Dio, quindi bisogna vedere se tale idea è solo un’idea o no (se Dio esiste veramente o no), se non è solo un’idea, essa costituisce il “ponte” tra il mondo delle idee e ciò che è al di fuori di esso.
C. descrive tre prove dell’esistenza di Dio:
1) l’idea di Dio non può venire da C., che è imperfetto, perché egli dubita (cogito, ergo sum) e chi dubita lo fa in quanto non conosce il sapere assoluto, quindi non è giunto alla perfezione; l’idea di Dio non può nemmeno venire dal nulla, perché dal nulla non può aver origine niente, perciò probabilmente deriva da una natura più perfetta che l’ha introdotta in lui; questo ragionamento porta a pensare che fuori da noi ci sia qualcosa, ovvero Dio
2) ipotizzando di essere Dio, ovvero di essere l’unico essere esistente, C., consapevole della propria imperfezione, avrebbe dovuto darsi tutto ciò di cui aveva bisogno e che gli mancava, ma questa ipotesi è da scartare, perché egli in realtà non possiede tutte le perfezioni, perciò ci deve essere almeno un altro essere, un essere davvero perfetto, dal quale C. dipende: Dio è perfetto perché è composto solo da res cogitans, in quanto la composizione di più sostanze (spirituale e corporea) porterebbe alla dipendenza di una dall’altra e quindi all’imperfezione (l’unico modo per arrivare a Dio è esprimersi attraverso il pensiero, attraverso l’idea di Dio)
3) C. prende come punto di riferimento la geometria: gli oggetti di studio dei geometri sono perfetti, la geometria rappresenta la coerenza, C. si chiede però se a tali oggetti astratti corrispondano cose reali (per esempio, l’idea di triangolo non implica l’esistenza del triangolo), invece nell’idea di Dio come essere perfettissimo è insita l’esistenza, perché ci si contraddirebbe dicendo che l’essere più perfetto non esiste (la non-esistenza porta alla diminuzione della perfezione); l’idea innata di Dio non può quindi essere dimostrata dai sensi, che ingannano spesso, facendo apparire cose che non sono reali (in sogno, per esempio), ma è necessario l’intervento della ragione.
Per C. l’autoevidenza della geometria e di tutte le altre discipline (di tutto ciò che ci appare chiaro e distinto) si basa sulla prova dell’esistenza di Dio. È qui presente una critica indiretta mossa a Galileo, il quale fondava lo studio della natura sulla razionalità matematica perciò per Galileo era possibile creare un collegamento diretto tra il mondo oggettivo e quello soggettivo, invece per C. è possibile fare ciò solo dopo aver trovato un’“idea-ponte” (idea di Dio).
Gli altri filosofi muovono a C. una nuova accusa, dicendo che il suo metodo è costituito da un circolo vizioso: la regola fondamentale del metodo di C., basata sull’autoevidenza assoluta del cogito, è sostituita dalla prova dell’esistenza di Dio alla quale C. era giunto solo dopo aver utilizzato la prima per uscire dal dubbio universale, quindi non si può essere sicuri che Dio sia se non perché si è giunti a concepirlo con chiarezza e distinzione, procedendo con il metodo del dubbio fondato sull’unica chiarezza assoluta che è il cogito. C. si difende da tale accusa dicendo che Dio non garantisce la validità delle cose che si presentano attualmente chiare e distinte, ma di quelle che non si presentano più nella loro evidenza, che sono comunque valide perché la loro idea era stata messa nella testa di chi le aveva pensate da Dio.
Tutte le nostre idee, quindi, provenendo da Dio, sono vere, mentre ciò che è falso deriva dal nulla. Possiamo però essere certi di questo solo se sappiamo che ciò che c’è di reale e vero in noi deriva da Dio, ammettendo cioè l’esistenza di Dio.
È fondamentale, sia nel sonno che nella veglia, basarsi sulla ragione, che ci suggerisce che tutte le nostre idee hanno un fondamento di verità, perché ce le ha date Dio che è l’essere perfettissimo. Ma visto che noi uomini non siamo del tutto perfetti, i nostri pensieri non sono tutti veri: la loro parte “meno vera” si esprime preferibilmente nel sonno più che nella realtà, ma non per questo il sogno mette in dubbio la verità dei pensieri che abbiamo da svegli.

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