Lettere a Lucilio (Seneca), libro VI

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Testo

LIBRO SESTO


53
1 Sono pronto a tutto, ora che mi sono lasciato convincere a mettermi in mare. Salpai col mare calmo; veramente il cielo era carico di quei nuvoloni neri che, di solito, portano acqua o vento, ma pensai di farcela a percorrere le poche miglia tra la tua Napoli e Pozzuoli, anche se il tempo era incerto e minacciava tempesta. Perciò per uscirne prima, mi diressi subito al largo verso Nisida tagliando via tutte le insenature. 2 Quando già mi trovavo a mezza strada, quella calma che mi aveva lusingato, finì; ancora non era scoppiata la burrasca, ma il mare era mosso e andava agitandosi sempre più. Cominciai a chiedere al timoniere di sbarcarmi in qualche punto della costa: mi disse che il litorale era dovunque a picco e privo di approdi e che in mezzo alla tempesta la cosa che temeva di più era la terra. 3 Io intanto stavo così male da non curarmi più del pericolo; mi tormentava una nausea spossante, ma senza vomito; quella che smuove la bile e non la caccia fuori. Insistetti, perciò con il timoniere e lo costrinsi, volente o nolente, a dirigersi verso terra. Quando ne siamo in prossimità, non aspetto che venga eseguita nessuna delle manovre descritte da Virgilio,
Volgono le prore al mare
o
Si getta l'ancora dalla prora:
memore della mia maestria di vecchio amante dell'acqua gelida, mi getto in mare vestito di panno come è bene per chi fa bagni freddi. 4 Sapessi che cosa ho passato arrampicandomi su per gli scogli, cercando una via, anzi creandomela! Ho capito che i marinai non hanno torto a temere la terra. Sono incredibili le sofferenze che ho sostenuto, mentre quasi non potevo sostenere me stesso: Ulisse, sappilo, non era destinato dalla nascita a trovar mari così agitati da fare sempre naufragio: soffriva di mal di mare. Anch'io, dovunque dovrò recarmi per mare, ci arriverò dopo vent'anni.
5 Non appena rimisi in sesto lo stomaco - il senso di nausea, lo sai, non finisce venendo via dal mare - non appena rinfrancai il corpo ungendolo, cominciai a riflettere tra me e me, come ci dimentichiamo dei nostri difetti anche fisici, che pure si fanno sentire spesso, nonché di quelli spirituali, che più sono grandi più restano nascosti. 6 Una leggera febbriciattola può sfuggire; ma quando aumenta e divampa una vera febbre, anche un uomo forte e abituato a soffrire deve confessare la sua malattia. I piedi ci dolgono, avvertiamo leggere fitte alle articolazioni: ma noi ancora dissimuliamo e diciamo o che ci siamo slogati una caviglia o che ci siamo stancati facendo ginnastica. All'inizio si cerca di dare un nome alla malattia ancora incerta; ma quando comincia a interessare le caviglie e a deformare i piedi, bisogna ammettere che si tratta di podagra.
7 Il contrario accade nelle malattie dello spirito: più uno sta male, meno se ne rende conto. Non c'è da stupirsene, carissimo; chi dorme un sonno leggero, durante il sonno percepisce delle immagini e dormendo a volte si accorge di dormire: un sonno profondo, invece, cancella anche i sogni e fa sprofondare la mente tanto che perdiamo coscienza di noi stessi. 8 Perché nessuno ammette i propri difetti? Perché vi è ancora immerso: i sogni li racconta chi è sveglio e così i propri vizi li ammette solo chi è guarito. Destiamoci, dunque, e rendiamoci conto dei nostri errori. Ma solo la filosofia può destarci, può scuoterci dal nostro sonno profondo: dedicati a lei completamente, tu ne sei degno ed essa è degna di te: stringetevi l'uno all'altra. Respingi tutto il resto con forza, apertamente; non ci si può dedicare alla filosofia di tanto in tanto. 9 Se tu fossi malato, avresti tralasciato la cura del patrimonio e dimenticato le attività forensi e non stimeresti nessuno tanto da acconsentire ad assumerti la sua difesa durante gli intervalli della malattia; cercheresti in ogni modo di liberarti quanto prima del tuo male. E allora? Non farai lo stesso anche adesso? Metti da parte ogni impedimento e dedicati alla saggezza: nessuno può arrivarvi se ha mille impegni. La filosofia esercita il suo potere; il tempo lo accorda lei, non lo riceve da noi; non è un'attività accessoria, ma fondamentale; è padrona, ci sta dappresso e ci comanda. 10 Alessandro, a una città che gli prometteva una parte delle terre e metà di tutti i beni, rispose: "Non sono venuto in Asia per accettare quello che mi avreste dato, ma perché voi aveste quello che io vi avrei lasciato." Lo stesso dice la filosofia per ogni cosa: "Non ho intenzione di accettare il tempo che vi avanza: voi avrete quello che io stessa rifiuterò." 11 Rivolgile tutta la tua attenzione, stalle vicino, venerala: ci sarà un grande divario tra te e gli altri; sarai superiore di molto a tutti gli uomini e gli dèi non saranno di molto superiori a te. Chiedi quale differenza ci sarà tra te e loro? Vivranno più a lungo. Ma, perbacco, ci vuole una grande abilità a racchiudere tutto in poco spazio; per il saggio la propria vita si estende quanto per dio l'eternità. Ma c'è qualcosa in cui il saggio può essere superiore a dio: quegli non teme nulla per merito della sua natura, il saggio per merito suo. 12 Ecco una gran cosa, avere la debolezza di un uomo e la tranquillità di un dio. È incredibile la forza della filosofia nel respingere ogni attacco della sorte. Nessun'arma si conficca nel suo corpo; è ben difesa e salda; certi dardi li neutralizza e, come se fossero colpi leggeri, li para con le pieghe dell'ampia veste, altri li rende vani e li respinge contro chi li aveva scagliati. Stammi bene.

54
1 La malattia mi aveva accordato una lunga tregua; all'improvviso mi ha assalito ancora. "Di che malattia parli?" chiederai. Domanda giusta: nessun male mi è sconosciuto. Ma a uno in particolare sono come destinato: non so perché dovrei usare un termine greco: "difficoltà di respiro" è una definizione abbastanza adatta. L'attacco è brevissimo e simile a una tempesta; finisce per lo più nel giro di un'ora: e chi mai potrebbe agonizzare a lungo? 2 Su di me sono passati tutti i malanni e i pericoli cui è soggetto il nostro corpo, ma nessuno mi sembra più penoso. E perché no? Qualunque altra infermità significa essere malati, questa è esalare l'anima. Perciò i medici la chiamano "preparazione alla morte": un giorno il respiro riesce a fare quello che ha spesso tentato. 3 Se mi compiacessi di questa stasi come di una guarigione sarei ridicolo, quanto un individuo che pensasse di aver vinto solamente perché è riuscito a rimandare il processo.
Ma io, anche quando ero sul punto di soffocare, ho sempre trovato conforto in pensieri lieti e forti. 4 "Che c'è?" mi dico, "La morte mi mette alla prova tanto spesso? Faccia pure: l'ho sperimentata a lungo." "Quando?" mi chiedi. Prima di nascere. La morte è non esistere. E ormai so com'è: dopo di me sarà ciò che fu prima di me. Se nella morte c'è tormento, ci fu necessariamente anche prima che venissimo alla luce; ma allora non sentimmo nessuna sofferenza. 5 Ti chiedo: se uno pensasse che per una lucerna è peggio quando è spenta che prima di essere accesa, non lo giudicheresti veramente stupido? Anche noi ci accendiamo e ci spegniamo: in quell'intervallo proviamo qualche sofferenza; prima e dopo, invece, c'è una profonda serenità. Questo, se non m'inganno, è il nostro errore, Lucilio mio: crediamo che la morte ci segua e, invece, ci ha preceduto e ci seguirà. Tutto quello che è stato prima di noi è morte; che importa se non cominci oppure finisci, quando il risultato in entrambi i casi è questo: non esistere.
6 Ho continuato a rivolgere a me stesso queste e altre esortazioni dello stesso tipo (in silenzio, s'intende: non potevo parlare); poi a poco a poco quella difficoltà di respiro, che ormai cominciava a essere affanno, venne a intervalli maggiori e si arrestò. Ma ha lasciato uno strascico e pur essendo finito l'attacco, la respirazione non è ancora tornata alla normalità; sento che è come impacciata e impedita. Sia come sia, purché l'affanno non provenga dall'anima. 7 Tieni questo per certo: non trepiderò nel momento supremo, sono ormai preparato, non faccio programmi per l'intera giornata. Tu apprezza e imita l'uomo a cui non rincresce morire, quando vivere gli è gradito: che coraggio ci sarebbe a morire, se si è banditi dalla vita? Tuttavia, anche in questo caso ci può essere coraggio: sì, sono scacciato, ma me ne vado come se lo facessi di mia volontà. Perciò il saggio non sarà mai scacciato: essere scacciato significa essere allontanato da un luogo contro la propria volontà; ma il saggio non fa niente contro la sua volontà; sfugge alla necessità perché vuole ciò che essa gli imporrà di fare. Stammi bene.

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1 Ritorno proprio ora dalla passeggiata in lettiga stanco come se avessi camminato tanto tempo quanto sono stato seduto: è una fatica anche l'essere trasportati a lungo e non so se è maggiore perché contro natura: la natura ci ha dato i piedi per camminare da soli, gli occhi per vedere da soli. Le mollezze ci hanno indebolito e non possiamo più fare ciò che per lungo tempo non abbiamo voluto fare. 2 Tuttavia era per me indispensabile scuotere il corpo, sia perché si dissipasse la bile che avevo in gola, sia perché lo sballottamento normalizzasse il respiro che per qualche motivo era troppo frequente; insomma, mi è parso che mi giovasse. Ho, perciò continuato a farmi trasportare, invitato anche dalla costa, che forma una curva tra Cuma e la villa di Servilio Vazia: da una parte il mare, dall'altra il lago la chiudono a formare uno stretto passaggio. Una recente burrasca lo aveva reso compatto; come sai, le onde ripetute e violente spianano il litorale; un periodo piuttosto lungo di bel tempo, invece, lo sfalda, perché la sabbia, che viene tenuta insieme dall'acqua, perde l'umidità.
3 Come mia abitudine, ho cominciato a guardarmi intorno per trovare qualcosa che potesse essermi utile e ho rivolto lo sguardo alla villa che un tempo era di Vazia. Là era diventato vecchio quel ricco ex pretore, noto solo per la sua vita ritirata e solo per questo motivo ritenuto fortunato. Tutte le volte che l'amicizia per Asinio Gallo, oppure l'odio o l'amore per Seiano (era ugualmente pericoloso sia averlo offeso, sia averlo amato) faceva cadere qualcuno in disgrazia, la gente esclamava: "Vazia, tu solo sai vivere." 4 Ma lui sapeva stare nascosto, non vivere; c'è una grande differenza tra una vita ritirata e una vita oziosa. Non passavo mai davanti a questa villa, quando era vivo, senza dire: "Qui è sepolto Vazia." Ma, mio caro Lucilio, la filosofia è talmente sacra e veneranda che se qualcosa le somiglia, la apprezziamo nonostante sia una contraffazione. Per la massa chi conduce una vita appartata è un uomo libero da impegni, sereno, soddisfatto di sé, che vive per se stesso; e, invece, tutto ciò può toccare solo al saggio. Lui solo sa vivere per se stesso, perché egli, e questa è la cosa più importante, sa vivere. 5 Chi fugge uomini e cose, chi si isola perché deluso nelle proprie aspettative, chi non può sopportare la vista di altri più fortunati, chi si nasconde per paura, come un animale pavido e incapace di reagire, quell'uomo non vive per se stesso, ma, ed è veramente una vergogna, per mangiare, dormire e soddisfare tutti i propri piaceri. Non vive per sé chi non vive per nessuno. Tuttavia l'essere costanti e il perseverare nei propri propositi ha una forza tale che anche l'inerzia ostinata incute un certo rispetto.
6 Sulla villa non ti posso scrivere niente di preciso; ne conosco solo la facciata e l'esterno visibile a chiunque passi. Ci sono due grotte artificiali, opera grandiosa, ampie come un vasto atrio: sull'una non batte mai il sole, l'altra lo riceve fino al tramonto. Un ruscello, formato dall'acqua del mare e del lago Acherusio, simile a un canale, attraversa un boschetto di platani ed è sufficiente a nutrire dei pesci, anche se vi si attinge incessantemente. Quando si può andare per mare, lo si risparmia; ma se il brutto tempo costringe i pescatori a un riposo forzato, si mette mano a quella comoda riserva. 7 La maggiore prerogativa della villa è, però l'avere Baia vicina: si godono i piaceri che essa offre, senza subirne gli svantaggi. E so che ha anche questo vantaggio: penso sia abitabile tutto l'anno; vi soffia, infatti, lo zefiro, che essa riceve togliendolo a Baia. Non fu sciocco Vazia a scegliere questa località per trascorrervi da vecchio una vita appartata e inoperosa.
8 Ma il luogo di residenza influisce poco sulla serenità: è l'animo che dà valore alle cose. Ho visto con i miei occhi uomini tristi in ville ridenti e amene, ho visto uomini che parevano indaffarati in piena solitudine. Perciò non devi pensare di non star bene perché non sei in Campania. E perché, poi, non ci sei? Indirizza qui i tuoi pensieri. 9 Puoi intrattenerti con gli amici assenti ogni volta e per tutto il tempo che vuoi. Quando siamo lontani godiamo maggiormente di questo grandissimo piacere; il frequentarsi ci rende esigenti e poiché talvolta parliamo, passeggiamo, sediamo insieme, quando ci separiamo non pensiamo alle persone che abbiamo visto da poco. 10 Dobbiamo sopportare serenamente la lontananza perché spesso si è molto distanti anche da chi ci sta vicino. Tieni conto innanzi tutto della separazione notturna, poi delle occupazioni diverse, degli studi fatti in solitudine, degli spostamenti fuori città: vedrai che i viaggi non ci tolgono molto. 11 L'amico bisogna averlo nel cuore; il cuore non è mai lontano e ogni giorno vede chi vuole. Perciò studia con me, pranza con me, con me passeggia: vivremmo davvero un'esistenza ristretta, se i nostri pensieri avessero un limite. Ti vedo, mio caro, proprio ora ti sento; ti sono così vicino che non so se devo cominciare a scriverti una lettera o un biglietto. Stammi bene.

56
1 Che io possa morire se, quando uno se ne sta appartato a studiare, il silenzio è necessario come si pensa. Ecco, intorno a me risuonano da ogni parte schiamazzi di tutti i tipi: abito proprio sopra uno stabilimento balneare. Immagina ora ogni genere di baccano odioso agli orecchi: quando i più forti si allenano e fanno sollevamento pesi, quando faticano o fingono di faticare, odo gemiti, e, tutte le volte che trattengono il fiato ed espirano, sibili e ansiti; quando càpita qualcuno pigro che si contenta di un normale massaggio, sento lo scroscio delle mani che percuotono le spalle e che dànno un suono diverso se battono piatte o ricurve. Se poi arrivano quelli che giocano a palla e cominciano a contare i colpi, è fatta. 2 Mettici ancora l'attaccabrighe, il ladro colto in flagrante, quello cui piace sentire la propria voce mentre fa il bagno, e poi le persone che si tuffano in piscina e smuovendo l'acqua fanno un fracasso indiavolato. Oltre a tutti questi che, se non altro, hanno voci normali, pensa al depilatore che spesso sfodera una vocetta sottile e stridula per farsi notare e tace solo quando depila le ascelle e costringe un altro a gridare al suo posto. Poi ci sono i vari richiami del venditore di bibite, il salsicciaio, il pasticcere e tutti gli esercenti delle taverne che vendono la loro merce con una particolare modulazione della voce.
3 "Sei di ferro", dici, "oppure sordo, se rimani presente a te stesso fra tanti rumori diversi e discordi, mentre al nostro Crisippo sembra di morire per il continuo salutare." Ma, perbacco, io di questo frastuono non mi curo più che dello scorrere o del cadere dell'acqua, sebbene senta che un popolo si è trasferito altrove per questo solo motivo: non poteva sopportare il fragore delle cascate del Nilo. 4 Secondo me la voce distrae più del frastuono: quella attira l'attenzione, quest'ultimo riempie e colpisce solo le orecchie. Tra i rumori che mi risuonano intorno senza distrarmi metto le vetture che passano in corsa, l'artigiano, mio coinquilino, e il vicino fabbro, oppure quel tale che, presso la Meta Sudante, prova trombette e flauti, e non suona, ma strepita: 5 un suono intermittente mi dà, però più fastidio di uno continuo. Ma ormai mi sono così corazzato contro tutti questi rumori, che potrei udire persino il comito dare il tempo ai rematori con voce stridula. Costringo la mente a rimanere assorta in se stessa senza farsi distrarre da fattori esterni; risuoni pure fuori di me ogni genere di fracasso, purché interiormente non ci sia scompiglio, purché non combattano tra loro cupidigia e paura, purché l'avarizia e l'intemperanza non siano in lotta e l'una non tormenti l'altra. A che serve il silenzio dell'intero quartiere, se le passioni si agitano in noi?
6 Tutto era tranquillo nella placida quiete della notte.
È falso: non esiste nessuna placida quiete se non quella regolata dalla ragione; la notte rivela l'inquietudine, non la elimina, cambia semplicemente gli affanni. Quando dormiamo, i nostri sogni sono tormentati come le nostre giornate: la vera tranquillità è quella in cui si dispiega la saggezza. 7 Guarda quell'uomo cui si cerca di conciliare il sonno facendo silenzio nell'ampia dimora: tutta la schiera dei servi tace e quelli che si avvicinano alla sua stanza camminano in punta di piedi, perché nessun rumore disturbi le sue orecchie: ma lui si gira di qua e di là e cerca di prendere un po' di sonno tra le sue preoccupazioni; si lamenta di aver udito qualcosa, in realtà non ha sentito niente. 8 Secondo te qual è il motivo? È l'anima che strepita dentro di lui. Questa bisogna placare, è la sua rivolta che deve essere sedata; non devi pensare che l'anima è tranquilla, se il corpo riposa: talvolta la quiete stessa è carica di inquietudine; perciò dobbiamo essere spronati ad agire e impegnarci a svolgere qualche nobile attività tutte le volte che l'inerzia, insofferente di se stessa, ci fa star male. 9 I grandi generali, quando vedono che un soldato obbedisce controvoglia, lo tengono a freno con qualche occupazione e lo impiegano in spedizioni militari. Chi ha molto da fare non ha tempo di abbandonarsi alla dissolutezza. Senza dubbio il lavoro cancella i vizi generati dall'ozio. Spesso ci si ritira a vita privata apparentemente per disgusto dell'attività politica e malcontenti di una posizione sterile e sgradita; tuttavia in quel nascondiglio dove ci hanno gettato la paura e la stanchezza a volte si risveglia l'ambizione: non era stata estirpata; era come spossata o anche sdegnata per il fallimento delle proprie aspettative. 10 Lo stesso vale per la dissolutezza: a volte sembra essere definitivamente scomparsa, ma poi tormenta coloro che hanno fatto professione di moderazione e nella parsimonia ricerca i piaceri: erano stati abbandonati, ma non condannati e li ricerca con più impeto quanto più è nascosta. Tutti i vizi, se manifesti, sono meno gravi; anche le malattie si avviano alla guarigione quando esplodono e mostrano la loro virulenza. Sappi che l'avarizia, l'ambizione e le altre infermità spirituali dell'uomo sono pericolosissime se si nascondono sotto un'apparente salute. 11 Sembriamo quieti, ma in realtà non è così. Se siamo in buona fede, se abbiamo chiamato a raccolta le nostre forze, se, come dicevo poco prima, abbiamo disprezzato le belle apparenze, niente ci distoglierà: nessuna voce di uomini o canto di uccelli interromperà i nostri buoni propositi, ormai saldi e fermi. 12 Chi presta attenzione alle voci e agli eventi fortuiti, ha un'indole incostante e incapace di raccoglimento interiore; ha in sé preoccupazioni e timori che lo rendono ansioso, come scrive il nostro Virgilio:
e io, che poco tempo fa non temevo i dardi scagliati, né i Greci raccolti in schiere contro di noi, ora sono spaventato da ogni soffio di vento, ogni suono mi scuote e mi tiene in sospeso e temo in egual misura sia per il compagno che per il peso che porto.
13 Il primo è il saggio che non teme i dardi scagliatigli contro, né l'urto degli eserciti in fila serrata, né il fragore di una città attaccata dai nemici: quest'altro non conosce la filosofia, teme per i suoi beni e trasale a ogni più piccolo rumore, si abbatte per una qualsiasi voce scambiandola per una minaccia, resta senza fiato al più lieve movimento ed è timoroso per i suoi bagagli. 14 Scegli una qualunque tra queste persone fortunate che si tirano dietro o che portano su di sé molti beni, la vedrai "temere per il compagno e per il peso". Sappi che sarai veramente tranquillo solo quando non ti toccherà nessun clamore, quando nessuna voce ti scuoterà, né blanda, né minacciosa, né vana e menzognera. 15 "E allora? Non è preferibile fare a meno una volta buona di questo schiamazzo?" Certo; perciò me ne andrò da questa casa. Ho voluto mettermi alla prova ed esercitarmi: che necessità c'è di farsi tormentare più a lungo, quando Ulisse trovò per i suoi compagni un rimedio tanto semplice anche contro le Sirene? Stammi bene.

57
1 Dovevo tornare da Baia a Napoli e mi sono subito lasciato convincere che minacciasse un temporale, per non sperimentare di nuovo la nave; ma la strada era tanto fangosa che mi sembra quasi di essere stato ancòra per mare. Quel giorno ho dovuto subire fino in fondo il destino degli atleti: dopo l'unguento, nella galleria di Posillipo, ci ha assalito la polvere. 2 Niente è più lungo di quello stretto passaggio, niente più oscuro di quelle torce che ci servono non a vedere in mezzo alle tenebre, ma a vedere le tenebre. Del resto anche se ci fosse luce, la ingoierebbe la polvere che è fastidiosa e seccante anche all'aperto; immagina là dentro: turbina su se stessa e così rinchiusa, non avendo via d'uscita, ricade su quelli che l'hanno sollevata! Abbiamo perciò sopportato due inconvenienti opposti nel medesimo tempo: per la stessa strada, nello stesso giorno ci hanno tormentato polvere e fango.
3 Tuttavia quell'oscurità mi ha dato l'occasione di riflettere: ho sentito un colpo al cuore e un'alterazione, ma senza paura, causati dalla stranezza di quella situazione insolita e orribile. Non ti parlo ora di me che sono un uomo molto lontano da un livello accettabile, né, tanto meno, sono perfetto, ma di chi si è sottratto al dominio della sorte: anche costui si turberà e sbiancherà in volto. 4 Ci sono reazioni, mio caro, alle quali nemmeno un uomo virtuoso può sottrarsi: la natura gli ricorda che è mortale. Contrae, perciò il volto di fronte al dolore, rabbrividisce davanti agli imprevisti, gli si annebbia la vista, se dall'orlo di una voragine guarda in basso: questa non è paura, ma un impulso istintivo e irrazionale. 5 Per ciò uomini coraggiosi e prontissimi a versare il loro sangue non sopportano la vista del sangue altrui; certi si sentono venir meno e svengono se vedono medicare o esaminare una ferita recente, altri una ferita vecchia e purulenta. C'è chi preferisce ricevere un colpo di spada che vederlo dare. 6 Sentii, come dicevo, non un turbamento, ma un'alterazione: poi, appena vidi riapparire la luce, ritornai allegro senza pensarci e impormelo. Cominciai allora a dirmi quanto siamo sciocchi a temere certe cose di più, certe altre di meno, quando poi l'esito è identico. Che differenza c'è se ci cade addosso il casotto delle sentinelle o un monte? Nessuna. Eppure c'è chi teme di più quest'ultima evenienza, sebbene entrambe siano ugualmente mortali: abbiamo più paura delle cause che degli effetti.
7 Pensi ora che io segua la dottrina degli Stoici, ossia che l'anima di un uomo schiacciato da un enorme peso, non avendo via d'uscita, non può perdurare e subito si dissolve? No, non lo faccio: la ritengo una teoria sbagliata. 8 Come la fiamma non la si può schiacciare (infatti si propaga intorno all'oggetto che la comprime), come l'aria non viene ferita da colpi o sferzate e nemmeno si scinde, ma si riversa intorno al corpo che ne ha preso il posto; così l'anima, formata di particelle sottilissime, non può essere presa o uccisa dentro il corpo, ma, grazie alla sua sottigliezza, erompe attraverso ciò che la comprime. Come il fulmine, anche se ha colpito e illuminato un ampio spazio, si ritira attraverso una piccola apertura, così l'anima, più sottile ancòra del fuoco, può fuggire attraverso ogni corpo. 9 Sorge, perciò il problema della sua immortalità. Tieni questo per certo: se sopravvive al corpo, non può essere annientata in nessun modo: l'immortalità non ammette eccezioni e, d'altra parte, nulla può nuocere a ciò che è eterno. Stammi bene.

58
1 Mai come oggi mi sono reso conto della nostra povertà, anzi penuria di vocaboli. Per caso si parlava di Platone e sono capitati mille concetti che richiedevano un termine appropriato e non lo avevano, e altri che, pur avendolo avuto in passato, lo avevano perso per la nostra sofisticheria. Ma è tollerabile essere schizzinosi nella miseria? 2 Quello che i Greci chiamano oistros (e cioè l'insetto che perseguita il bestiame e lo disperde per i pascoli) i nostri avi lo chiamavano asilus. Puoi credere a Virgilio:
Vicino al sacro bosco del Silaro e all'Alburno verdeggiante di lecci vola in fitti sciami un insetto il cui nome romano è asilus e che i Greci chiamano oistros, molesto, dal verso penetrante, che spaventa gli armenti e li fa fuggire per i boschi.
3 Penso sia chiaro che il termine è caduto in disuso. Per non tirarla alle lunghe, si usavano certe forme semplici come cernere ferro inter se. Lo stesso Virgilio lo testimonia:
ingentis, genitos diversis partibus orbis, / inter se coiisse viros et cernere ferro.
Ora diciamo decernere, si è perso l'uso della parola semplice. 4 Gli antichi dicevano si iusso, ora si dice iussero. Non devi credere a me, ma sempre a Virgilio:
cetera, qua iusso, mecum manus inferat arma.
5 Tanto zelo non è per dimostrarti quanto tempo ho perduto a studiare la grammatica, ma per farti capire quanti termini usati da Ennio e da Accio siano ammuffiti, se addirittura ci sono state sottratte parole di Virgilio che pure scorriamo ogni giorno. 6 "Che significa questo preambolo? Dove va a parare?" Non è un segreto: voglio, se è possibile, usare la parola essentia con la tua approvazione; ma, in caso contrario, la userò lo stesso anche se non ti piace. Garante, penso autorevole, di questo vocabolo è Cicerone; se ne vuoi uno più vicino a noi, Fabiano, facondo e raffinato, di eloquenza brillante anche per i nostri gusti difficili. Se no, che accadrà, Lucilio mio? In che modo diremo $ïšóßá$, realtà necessaria, sostanza che ha in sé il fondamento di tutto? Permettimi allora, ti prego, di usare questo termine. Cercherò peraltro, di esercitare con molta parsimonia il diritto che mi concedi; anzi, forse mi accontenterò solo di questo diritto. 7 A che servirà la tua condiscendenza se, ecco, non posso esprimere in nessun modo in latino il concetto per cui ho criticato la nostra lingua? Tanto più condannerai la limitatezza del latino, sapendo che è una sola la sillaba intraducibile. Qual è? $ô' -í$. Certo ti sembro ottuso: è chiaro che si può tradurre "ciò che è". Vedo, però che c'è molta differenza: sono costretto a usare un verbo al posto di un sostantivo; ma, se è necessario, dirò "ciò che è".
8 Mi diceva oggi il nostro amico, uomo molto erudito, che Platone usa questo termine in sei significati diversi. Te li riferirò tutti; prima, però devo spiegarti che esiste un "genere" e anche una "specie". Ora cerchiamo quel genere primo da cui dipendono le altre specie, da cui nasce ogni divisione e che comprende ogni cosa. Lo troveremo passando in rassegna a ritroso i singoli esseri e arriveremo così al primo genere. 9 L'uomo è una specie, come dice Aristotele; il cavallo è una specie; il cane è una specie. Bisogna, perciò ricercare un legame comune a tutti questi esseri, che li abbracci e li comprenda sotto di sé. Qual è? Il genere animale. Quindi comincia a esserci un genere di tutti gli esseri che ho or ora elencato - uomo, cavallo, cane - cioè animale. 10 Ci sono, però esseri che hanno uno spirito, ma non sono animali; alle piante e agli alberi si attribuisce, infatti, uno spirito vitale; diciamo, perciò che vivono e muoiono. Gli esseri animati, quindi, occuperanno il primo posto, poiché in questa categoria ci sono gli animali e le piante. Ma esistono cose prive di spirito vitale, come i sassi; ci sarà, dunque, qualcosa che viene prima degli esseri animati: il corpo naturalmente. Dividerò ora, tutti i corpi in due categorie: animati o inanimati. 11 Ma c'è ancora qualcosa al di sopra del corpo, poiché parliamo di cose corporee o incorporee. E dunque cosa sarà ciò da cui derivano? Quello che prima abbiamo impropriamente definito "ciò che è". Lo divideremo ora in specie e diremo: "ciò che è" o è corporeo o è incorporeo. 12 Questo è il genere primo, il più antico e, per così dire, generale; anche gli altri sono generi, ma particolari. L'uomo è un genere; ha in sé come specie le nazionalità: Greci, Romani, Parti; i colori: bianchi, neri, biondi; ha i singoli individui: Catone, Cicerone, Lucrezio. E così, poiché racchiude molti esseri, è un genere; ed è una specie, poiché è subordinato a un altro genere. Il genere generale "ciò che è" non ha niente al di sopra di sé; è il principio delle cose, tutto gli è subordinato. 13 Gli Stoici vogliono porre al di sopra di questo un altro genere che viene ancora prima. Te ne parlerò subito dopo aver dimostrato che quel genere, di cui si è detto, occupa a ragione il primo posto, perché contiene in sé ogni cosa. 14 "Ciò che è" lo divido in due specie, corporea e incorporea; non ce n'è una terza. E il corpo come lo divido? Così: esseri animati o inanimati. A loro volta come divido gli esseri animati? Certi hanno l'anima, certi hanno solo lo spirito vitale; oppure così: certi si muovono, avanzano, passano da un posto all'altro, certi, fissi al suolo, si nutrono attraverso le radici e crescono. E gli esseri animati in quali specie li divido? Esseri mortali o immortali. 15 Alcuni Stoici ritengono che il genere primo sia un "qualcosa"' eccone il motivo. "In natura," dicono, "certe cose esistono, altre non esistono, ma la natura comprende anche quelle che non esistono e che sono frutto dell'immaginazione, come i Centauri, i Giganti e tutto ciò che, nato da una falsa credenza, ha assunto un'immagine, sebbene priva di sostanza."
16 Ritorno ora a quello che ti ho promesso, ossia come Platone divida in sei gruppi tutti gli esseri. Quel primo elemento definito "ciò che è" non si percepisce né con la vista, né col tatto, né con gli altri sensi: è solo pensabile. Ciò che è in forma generale, come il genere uomo, non è visibile; ma è visibile l'individuo particolare, come Cicerone e Catone. Noi non vediamo il genere animale; lo pensiamo. Ne vediamo, invece, la specie, cavallo, cane. 17 Al secondo posto tra tutti gli esseri Platone colloca quello che sovrasta ed è superiore a tutti; lo definisce l'essere per eccellenza. Poeta è una parola di uso comune (tutti coloro che compongono versi hanno questo nome), ma presso i Greci sta a designare uno solo: quando si sente dire poeta, si intende Omero. Chi è, allora, questo essere? Naturalmente dio, il più grande e il più potente di tutti gli esseri. 18 Il terzo gruppo comprende quegli esseri che hanno un'esistenza propria; sono innumerevoli, ma non sono visibili ai nostri occhi. Quali sono? È una concezione particolare di Platone: le chiama "idee": tutto ciò che vediamo deriva da esse e su di esse si modella. Sono immortali, immutabili, inviolabili. 19 Senti ora che cos'è un'idea, o meglio, che cos'è per Platone: "L'idea è il modello immortale degli esseri che la natura genera." Ti spiegherò ora questa definizione perché ti sia più chiaro il concetto. Voglio fare il tuo ritratto. Ho te come modello del dipinto e la mia mente ne trae un aspetto da fissare nella sua opera; così quell'immagine che mi ammaestra e mi indirizza e da cui deriva l'imitazione, è l'idea. La natura possiede in numero infinito tali modelli di uomini, di pesci, di alberi e a questi si conforma tutto ciò che da essa nasce. 20 Il quarto posto l'occupa l'idos. Devi fare ben attenzione per capire cosa sia questo idos e imputare a Platone, non a me, la difficoltà del concetto; ma non c'è sottigliezza priva di difficoltà. Poco fa mi sono servito dell'esempio del pittore. Quello, per fare il ritratto di Virgilio, doveva guardarlo. L'immagine di Virgilio era l'idea, il modello della futura opera; ciò che l'artista ne trae e ha impresso nella sua opera è l'idos. 21 Che differenza c'è, chiedi? L'idea è il modello, l'idos la forma desunta dal modello e impressa nell'opera; l'artista imita l'una, crea l'altro. La statua ha un'immagine: questa è l'idos. Il modello stesso ha un'immagine cui ha guardato l'artista dando forma alla statua: questa è l'idea. Ancora, se vuoi un'altra distinzione: l'idos è nell'opera, l'idea è fuori dell'opera, e non solo fuori, ma precedente a essa. 22 Al quinto gruppo appartengono gli esseri che esistono comunemente: questi cominciano a riguardarci; qui c'è tutto: uomini, bestie, cose. Il sesto gruppo comprende le cose che quasi esistono, come lo spazio, il tempo.
Tutto ciò che vediamo o tocchiamo Platone non lo annovera tra gli esseri che ritiene abbiano un'esistenza propria; poiché essi scorrono e di continuo diminuiscono o crescono. Nessuno di noi è in vecchiaia lo stesso che in gioventù; nessuno di noi è al mattino lo stesso della sera prima. I nostri corpi sono trascinati via come l'acqua dei fiumi. Tutto ciò che vedi vola al ritmo del tempo: niente di quello che abbiamo sotto gli occhi rimane tale e quale; io stesso mentre dico che queste cose cambiano, sono cambiato. 23 Dice Eraclito: "Non ci si può immergere due volte nello stesso fiume." Il nome del fiume rimane lo stesso, ma l'acqua è passata oltre. È un fenomeno più evidente in un corso d'acqua che nell'uomo; ma il flusso che trascina via anche noi è altrettanto veloce; perciò mi stupisco della nostra insensatezza: amiamo tanto una cosa fugacissima, il nostro corpo, e temiamo il momento della morte, mentre ogni momento è la morte dello stato precedente: non devi temere che avvenga una volta ciò che avviene ogni giorno! 24 Ho parlato dell'uomo, materia fragile e caduca, esposta a ogni influenza: anche l'universo, eterno e indistruttibile, muta e non rimane uguale a se stesso. Sebbene abbia in sé tutti i fattori originari, li ha diversi dallo stadio primitivo: cambia l'ordine.
25 "A che mi servono," dirai, "queste sottigliezze?" Vuoi il mio parere? A niente. Ma come l'incisore distoglie e volge altrove gli occhi stanchi per la lunga concentrazione e, come si suol dire, li ristora, così anche noi dobbiamo ogni tanto concedere riposo alla nostra anima e ricrearla con qualche svago. Ma anche le distrazioni devono essere attività; se farai attenzione, potrai ricavarne salutari insegnamenti. 26 Io di solito mi comporto così, caro Lucilio: da qualsiasi nozione, anche se non ha niente a che fare con la filosofia, cerco di enucleare e di procurarmi qualche concetto utile. Gli argomenti or ora trattati non hanno il minimo rapporto con la questione morale. Come possono migliorarmi le idee platoniche? Che insegnamento posso trarne per dominare le mie passioni? Questo, per esempio: Platone nega un'esistenza vera e propria a tutte le cose soggette ai sensi, che ci infiammano e ci stimolano. 27 Sono quindi, immaginarie, hanno una forma esteriore, limitata nel tempo, ma non sono né stabili, né concrete; eppure noi le desideriamo come se fossero eterne o potessimo possederle per sempre. Deboli e fragili ci soffermiamo tra cose prive di sostanza: rivolgiamo, invece, l'anima a ciò che è eterno. Contempliamo stupiti le forme di tutte le cose volare altissime e dio che sta in mezzo a esse: egli provvede a difendere dalla morte quegli esseri che non ha potuto creare immortali per l'ostacolo della materia, e a vincere con la ragione la limitatezza del corpo. 28 L'universo permane in vita non perché sia eterno, ma perché è difeso da chi lo governa: se fosse immortale, non avrebbe bisogno di un tutore. Il sommo artefice lo mantiene in vita, vincendo con la sua potenza la caducità della materia. Disprezziamo, dunque, tutte le cose che sono prive di valore al punto da essere in dubbio perfino la loro stessa esistenza. 29 Nel medesimo tempo pensiamo che se la provvidenza sottrae ai pericoli l'universo, mortale quanto noi, in certa misura anche noi, con la nostra previdenza, possiamo protrarre la vita di questo misero corpo, se saremo in grado di governare e frenare i piaceri, causa di morte per la maggior parte degli uomini. 30 Platone stesso arrivò alla vecchiaia per la sua cautela. Certo aveva un fisico forte e robusto e dall'ampiezza del torace gli era derivato il soprannome, ma i viaggi per mare e i pericoli lo avevano prostrato molto; tuttavia la frugalità, la misura in quei piaceri che suscitano la bramosia degli uomini e un'attenta cura di se stesso lo fecero arrivare alla vecchiaia nonostante i numerosi ostacoli. 31 Tu sai, penso, che grazie alla sua prudenza Platone morì esattamente il giorno del suo ottantunesimo compleanno. Perciò dei magi, che per caso si trovavano ad Atene, celebrarono un sacrificio in onore del defunto: secondo loro gli era toccato un destino superiore a quello umano, perché i suoi anni assommavano a un numero perfettissimo: il risultato di nove per nove. Sono certo che saresti pronto a rinunciare sia a pochi giorni di questa somma, sia al sacrificio. 32 La sobrietà può prolungare la vecchiaia: io non ritengo che la si debba desiderare intensamente, ma neppure rifiutare; è piacevole stare con se stessi il più a lungo possibile, quando ci si è resi degni di goderne.
È bene, allora, disdegnare la vecchiaia avanzata e non aspettare la morte, ma darsela con le proprie mani? Ecco il mio parere. Se uno attende inerte il proprio destino, non è dissimile da chi lo teme, come è un ubriacone chi vuota la bottiglia e beve anche la feccia. 33 Dovremo, però chiederci se l'ultima parte della vita è feccia o piuttosto bevanda limpidissima e purissima, sempre che la mente sia sana e i sensi integri aiutino l'anima, e il corpo non sia in declino e morto prima del tempo; importa molto, se prolunghiamo la vita o la morte. 34 Ma se il corpo non assolve più le sue funzioni, non è meglio liberare l'anima dalle sue sofferenze? E forse bisogna agire un po' prima del dovuto perché, arrivato il momento, non ci si trovi nell'impossibilità di farlo; il pericolo di vivere male è maggiore del pericolo di morire presto; quindi, se uno non scongiura il rischio di una grande disgrazia per guadagnare un po' di tempo, è pazzo. Pochi uomini sono morti vecchissimi senza subire danno; molti hanno condotto un'esistenza passiva e inutile: aver perduto una parte della vita ti sembra tanto più crudele che perdere il diritto di mettervi fine? 35 Non ascoltarmi contro voglia, come se il mio parere ormai ti riguardasse direttamente e pondera bene quello che ti dico: non abbandonerò la vecchiaia, se mi conserverà integro, ma integro nella parte migliore di me; se, però comincerà a turbare e a sconvolgermi la mente, se non mi lascerà la vita, ma solo il soffio vitale, mi precipiterò fuori dall'edificio marcio e in rovina. 36 Non fuggirò la malattia con la morte, purché non sia una malattia inguaribile e non danneggi l'anima. Non mi darò la morte per paura del dolore: morire così significa darsi per vinto. Tuttavia, se saprò di dover soffrire per tutta la vita, me ne andrò non per il dolore in se stesso, ma perché mi sarebbe di ostacolo a tutte quelle attività che sono lo scopo dell'esistenza; è debole e vile chi si dà la morte per paura del dolore, è insensato chi vive per soffrire.
37 Ma la sto tirando troppo alla lunga; ho ancora argomenti che potrebbero occupare un giorno intero: e come potrà mettere fine alla sua vita un uomo incapace di finire una lettera? Perciò addio: leggerai più volentieri questo commiato, che tutti i miei ragionamenti sulla morte. Stammi bene.

59
1 La tua lettera mi ha fatto molto piacere; permettimi di usare le parole nel significato comune e non rifarti a quello degli Stoici. Per noi il piacere è un vizio. Sia pure; tuttavia di solito usiamo questo termine per indicare uno stato d'animo gioioso. 2 Sì, lo so che il piacere, se ci rifacciamo al vocabolario stoico, è una cosa infame e che la gioia può toccare solo al saggio; infatti è l'elevazione dell'anima fiduciosa in quello che ha in sé di buono e di vero. Abitualmente, tuttavia, diciamo di aver provato una grande gioia per l'elezione a console di un amico, o per le sue nozze, o perché la moglie ha partorito, tutti avvenimenti che non sono gioia, ma spesso inizio di sofferenze future; e, invece, è una caratteristica della gioia non finire e non mutarsi in dolore. 3 Perciò quando il nostro Virgilio scrive
le malvagie gioie dello spirito,
si esprime con eleganza, ma con poca proprietà: non esiste gioia malvagia. Egli ha dato questo nome ai piaceri e ha espresso con chiarezza il suo pensiero; indica gli uomini contenti del proprio male. 4 Tuttavia non ho sbagliato a dire che la tua lettera mi ha fatto molto piacere; infatti, anche se è onesto il motivo per cui un uomo ignorante gioisce, quel sentimento che egli non sa dominare e che inclina sùbito al suo opposto, lo chiamo piacere: nasce dall'opinione di un falso bene e non ha moderazione, né misura.
Ma per tornare al tema del discorso, senti che cosa mi ha fatto piacere nella tua lettera: domini le parole, e non ti lasci trasportare dalla foga del discorso oltre i termini stabiliti. 5 Il fascino di qualche bel vocabolo induce molti autori a scrivere anche cose che non si erano proposti; questo a te non succede: tutto è stringato e attinente all'argomento; esponi le tue idee e lasci intendere più di quanto dici. Questo è indice di un fatto più importante: è chiaro che anche nel tuo animo non c'è niente di superfluo, di eccessivo. 6 Trovo, però metafore ardite, anche se non al punto di essere pericolose; trovo immagini che, secondo alcuni, non dovremmo usare perché lecite solo ai poeti. Costoro, credo, non hanno letto nessuno degli antichi scrittori, che non ricercavano ancora gli applausi coi loro discorsi; essi parlavano con semplicità per dimostrare un concetto e facevano largo uso di similitudini; io le ritengo necessarie non per lo stesso motivo per cui sono necessarie ai poeti, ma come sostegno alla nostra debolezza per favorire la concentrazione di chi parla e di chi ascolta sull'argomento trattato.
7 Ecco, ora sto leggendo Sestio, uomo acuto che scrive di filosofia in greco, basandosi sulla morale romana. Mi ha colpito questa sua immagine: un esercito avanza a colonne affiancate, pronto al combattimento, quando si teme da ogni parte un attacco nemico. "Lo stesso," dice, "deve fare il saggio: spieghi in ogni direzione tutte le sue virtù e dovunque si manifesti un pericolo, là siano pronte le difese e rispondano al cenno del comandante senza creare scompiglio." Negli eserciti guidati da grandi condottieri, noi vediamo che tutte le truppe sentono nello stesso momento l'ordine del comandante e sono disposte in modo che il segnale dato da un solo uomo arrivi simultaneamente alla fanteria e alla cavalleria; Sestio afferma che questa tattica è ancora più necessaria per noi. 8 I soldati spesso temono il nemico senza motivo, ma poi la marcia che li spaventava tanto non presenta nessun pericolo: l'uomo insensato non è mai tranquillo; i motivi di paura gli vengono dall'alto e dal basso, da destra e da sinistra; i pericoli gli si parano davanti e lo seguono. Trepida di fronte a tutto, è colto sempre di sorpresa e l'atterriscono i suoi stessi soccorritori. Il saggio, invece, è premunito e pronto a ogni attacco; non indietreggerà se la povertà, i lutti, il disonore, il dolore lo assalgono: avanzerà imperterrito contro di essi e in mezzo ad essi. 9 Sono molte le cose che ci vincolano e ci indeboliscono. A lungo ci siamo crogiolati nei vizi ed è difficile far piazza pulita: non ci siamo solo insozzati, ma addirittura infettati.
Per non passare da una similitudine all'altra, ti chiederò una cosa su cui spesso rifletto: perché la stupidità ci domina con tanta ostinazione? Punto primo: non la respingiamo con forza e non tendiamo con slancio alla salvezza; punto secondo: non abbiamo sufficiente fiducia nelle verità scoperte dai saggi, non le accogliamo nel profondo del cuore e ci dedichiamo con scarso impegno a una questione tanto importante. 10 Come può imparare quanto serve per combattere i vizi chi si applica nei ritagli di tempo che i vizi gli lasciano? Nessuno di noi va a fondo; cogliamo solo quanto è in superficie e i pochi minuti spesi per la filosofia bastano e avanzano per gente tanto affaccendata. 11 L'ostacolo maggiore è che siamo subito soddisfatti di noi stessi; se c'è qualcuno che ci definisce valenti, saggi, virtuosi, gli diamo immediatamente credito. Non ci accontentiamo di lodi misurate: accogliamo come dovuto il cumulo di spudorate adulazioni che ci vengono rivolte. Concordiamo con chi afferma che siamo gli uomini più virtuosi e saggi, pur sapendo che quelle persone mentono spesso e volentieri; siamo così indulgenti con noi stessi perché vogliamo essere lodati per virtù esattamente opposte al nostro modo di agire. Il carnefice (proprio mentre tortura) si sente definire l'uomo più mite, chi vive di ruberie l'uomo più generoso, il libertino ubriacone l'uomo più temperante; di conseguenza non vogliamo correggerci perché ci crediamo perfetti. 12 Alessandro attraversava ormai l'India e combatteva devastando i territori di genti poco note anche agli stessi popoli confinanti. Durante l'assedio di una città, mentre faceva il giro delle mura per individuarne i punti più deboli, fu colpito da una freccia; tuttavia rimase a lungo a cavallo e continuò la sua ricognizione. Ma poi il sangue, coagulatosi nella ferita, rese più acuto il dolore, e la gamba, che penzolava dal cavallo, si era a poco a poco intorpidita. Costretto a desistere, disse: "Tutti giurano che sono figlio di Giove, ma questa ferita grida che sono un uomo." 13 Seguiamo anche noi il suo esempio. Ciascuno, in misura diversa, si lascia infatuare dall'adulazione; diciamo: "Voi sostenete che sono saggio, ma io mi rendo conto di avere molti desideri inutili e dannosi. Non capisco nemmeno quello che la sazietà mostra agli animali: quale misura ci debba essere nel mangiare e nel bere; non conosco ancora la capacità del mio stomaco."
14 Ti insegnerò come tu possa renderti conto di non essere saggio. Il saggio è pieno di gioia, allegro e sereno, imperturbabile; la sua vita è pari a quella degli dèi. E ora esamina te stesso: se non sei mai triste, se nessuna speranza ti fa trepidare in attesa del futuro, se notte e giorno il tuo spirito fiero e soddisfatto di sé mantiene un atteggiamento stabile e sempre uguale, hai toccato il culmine dell'umano bene; ma se cerchi dovunque ogni genere di piaceri, sappi che ti mancano ugualmente saggezza e gioia. Vuoi raggiungerla, ma sbagli se speri di arrivarci tra le ricchezze e gli onori: cerchi cioè la gioia tra gli affanni: i falsi beni, cui aspiri convinto che ti daranno contentezza e piacere, sono causa di dolori. 15 Tutti, lo ribadisco, tendono alla gioia, ma ignorano dove sia possibile trovarne una duratura e intensa: c'è chi la cerca nei banchetti e nell'intemperanza, chi nell'ambizione e nella folla dei clienti che gli si accalcano intorno, chi nell'amante, chi poi nella vana ostentazione delle scienze liberali e negli studi letterari che non giovano a niente; tutti costoro si lasciano ingannare da piaceri fallaci e di breve durata, come l'ubriachezza che fa scontare l'allegra pazzia di un'ora con un lungo malessere, come gli applausi e il favore della folla acclamante che si ottiene e si paga a prezzo di gravi preoccupazioni. 16 Riflettici; questo è il risultato della saggezza: una gioia stabile. L'animo del saggio è come il mondo sulla luna: là c'è sempre il sereno. Hai, dunque, un valido motivo per desiderare la saggezza: una gioia perpetua. Questa gioia nasce unicamente dalla coscienza delle proprie virtù: può gioire solo l'uomo forte, giusto, temperante. 17 "E allora?" chiedi. "Gli stolti e i malvagi non provano gioia?" Non più dei leoni che conquistano la preda. Quando sono stanchi di vino e di orge, quando hanno passato la notte negli stravizi, quando i piaceri accumulati smisuratamente nel corpo cominciano a farlo marcire, allora, infelici, gridano quel famoso verso virgiliano:
Tu sai come abbiamo trascorso l'ultima notte tra false gioie.

18 I lussuriosi passano ogni notte tra false gioie e come se fosse l'ultima: ma quella gioia che tocca agli dèi e a chi li emula è continua, senza fine; finirebbe, se derivasse da altri. Ma poiché non è un dono di altri, non è soggetta all'arbitrio altrui: la sorte non può strappare ciò che non ci ha dato. Stammi bene.

60
1 Mi rammarico, litigo, mi arrabbio. Desideri ancora quello che desideravano per te la tua nutrice, il precettore, tua madre? Non hai ancora capìto quanto male desideravano? Come ci sono funesti i voti dei nostri cari! Tanto più funesti quanto più felice è il loro esito. Ormai non mi stupisco che fin dalla prima fanciullezza ci accompagnino tutti i mali: siamo cresciuti tra le imprecazioni dei congiunti. Esaudiscano un giorno o l'altro gli dèi una preghiera disinteressata che rivolgiamo loro per il nostro bene. 2 Fino a quando chiederemo un aiuto agli dèi? Non siamo ancòra capaci di provvedere da soli a noi stessi? Fino a quando continueremo a riempire di piantagioni le campagne destinate a grandi città? Fino a quando un intero popolo mieterà per noi? Fino a quando centinaia di navi provenienti da più mari trasporteranno rifornimenti per una sola mensa? Il toro si sazia pascolando su un terreno di pochi metri quadri; un solo bosco basta a numerosi elefanti: per nutrire l'uomo occorrono la terra e il mare. 3 Ma come? La natura ci ha dato un corpo tanto piccolo e un ventre così insaziabile da superare l'ingordigia degli animali più grossi e voraci? Niente affatto; come sono minime le esigenze della natura! Si sazia con poco: non è la fame del ventre che ci costa molto, ma l'ostentazione. 4 Pertanto quelle persone "soggette al ventre", come scrive Sallustio, consideriamole animali, non uomini; anzi, certuni neppure animali, ma morti. È vivo chi è utile a molti, è vivo chi fa buon uso di se stesso; quelli che si nascondono, immobili nel loro torpore, stanno in casa loro come in una tomba. Ne puoi incidere il nome sul marmo della soglia: hanno anticipato la morte. Stammi bene.

61
1 Finiamola di volere le stesse cose che in passato! Per quel che mi riguarda, ora che sono vecchio, cerco di non avere gli stessi desideri che avevo da fanciullo. Questo solo è lo scopo dei miei giorni e delle mie notti, la mia occupazione, il mio pensiero fisso: porre fine ai mali di un tempo. Faccio in modo che un giorno corrisponda a tutta una vita; e perbacco, non lo afferro come se fosse l'ultimo, ma lo considero come se potesse anche essere l'ultimo. 2 Ti scrivo questa lettera e il mio stato d'animo è tale come se la morte dovesse chiamarmi proprio ora mentre sto scrivendo; sono pronto ad andarmene e continuerò a godere della vita perché non mi preoccupo troppo di quanto durerà ancora. Prima di diventare vecchio ho cercato di vivere bene, ora che sono vecchio cerco di morire bene; ma morire bene significa morire volentieri. 3 Vedi di non fare mai nulla contro la tua volontà: tutto quello che è una costrizione se uno fa resistenza, non lo è per chi lo accetta. Ascolta: chi obbedisce volentieri agli ordini evita la parte più dura della schiavitù: fare quello che non vuole. Infelice non è chi esegue un ordine, ma chi lo esegue contro la propria volontà. Disponiamoci, perciò a volere quello che le circostanze esigono e prima di tutto a pensare senza tristezza alla nostra fine. 4 Prepariamoci a morire prima che a vivere. Per vivere abbiamo abbastanza, ma noi siamo sempre avidi; ci sembra, e ci sembrerà sempre, che ci manchi qualcosa: non gli anni e nemmeno i giorni, ma lo spirito ci dice se abbiamo vissuto abbastanza. Ho vissuto abbastanza, carissimo Lucilio; ora, sazio, aspetto la morte. Stammi bene.

62
1 Mente chi sostiene che la mole dei suoi affari gli impedisce di dedicarsi agli studi: finge impegni, li aumenta e si tormenta da sé. Io sono libero, Lucilio, sono libero e dovunque mi trovi sono padrone di me stesso. Non mi abbandono alle cose, mi presto ad esse e non cerco scuse per perdere tempo; dovunque mi fermi, mi immergo nei miei pensieri e medito su qualcosa di utile. 2 Quando mi dedico agli amici, non mi distolgo da me stesso; e non mi intrattengo con quelli ai quali mi hanno legato le circostanze o gli obblighi derivanti da pubblici uffici, ma sto con i migliori; rivolgo a loro il mio pensiero dovunque e in qualunque periodo siano vissuti. 3 Porto sempre con me Demetrio, uomo stimabilissimo e, lasciati da parte i porporati, parlo con lui benché vestito poveramente e lo ammiro. Perché non dovrei? Mi sono accorto che non gli manca nulla. C'è qualcuno capace di disprezzare tutto, ma nessuno può avere tutto: la via più breve per arrivare alla ricchezza è una: il disprezzo. Il nostro Demetrio vive così: non disprezza tutto, ma ne ha lasciato il possesso agli altri. Stammi bene.

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