La rivoluzione francese

Materie:Appunti
Categoria:Storia
Download:518
Data:20.07.2009
Numero di pagine:16
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
rivoluzione-francese_25.zip (Dimensione: 21.62 Kb)
trucheck.it_la-rivoluzione-francese.doc     64.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

La rivoluzione francese

Economia e società in Francia al tramonto dell'antico regime.
L'avvento di Luigi XVI sul trono di Francia (1774) coincise con l'inizio di un periodo di difficoltà e di malessere per l'economia del paese. Si interrompeva così una lunga fase di crescita durata all’incirca mezzo secolo, e caratterizzata da una grande espansione dell'economia.
Pur partendo da una base più arretrata, l’industria e il commercio francesi fino al 1780 circa conobbero ritmi di sviluppo paragonabili a quelli inglesi e anzi in alcuni settori (la siderurgia, la manifattura serica, l'importazione e la riesportazione di generi coloniali) decisamente superiori. I punti deboli più evidenti di questo sviluppo erano la scarsità della produzione di carbone, il ritardo nella meccanizzazione dell'industria tessile, la mancanza di una organizzazione creditizia efficiente e moderna e soprattutto il carattere complessivamente arretrato dell'agricoltura: la bassa produttività di questo settore primario significava l’impossibilità di nutrire un'alta percentuale di addetti al commercio o all'industria.
L’aumento dei prezzi agricoli che si registrò, in Francia come altrove, nel XVIII secolo, andò a danno delle masse lavoratrici. Tra il 1726-41 e il 1785-89, infatti, i generi di prima necessità aumentarono del 66%; la rendita fondiaria (cioè l’ammontare degli affitti pagati dai coloni ai proprietari) si raddoppiò, mentre i salari crebbero soltanto del 17%. È probabile dunque che il livello di vita delle classi popolari, in campagna e anche nelle città, sia peggiorato negli ultimi decenni dell'antico regime: deterioramento tanto più sensibile in quanto faceva contrasto con la prosperità senza precedenti di cui godevano le classi agiate.
La crisi finanziaria e politica della monarchia.
Tra il 1754 e il 1789 si succedettero in Francia ben 19 controllori delle finanze. Questa instabilità è di per sé un sintomo della gravità dei problemi sul tappeto e del fallimento dei vari tentativi di soluzione. Tali problemi si possono riassumere nell'insufficienza cronica delle entrate rispetto alle spese pubbliche e nell’impossibilità di accrescere il carico fiscale senza modificarne la distribuzione; poiché i contadini, infatti, erano già troppo gravati, l'unica via praticabile era persuadere o costringere i ceti privilegiati a contribuire in proporzione alle loro ricchezze. Un altro grave handicap era l'inefficienza del sistema tributario: enormi erano le sperequazioni tra una provincia e l'altra e buona parte di ciò che pagavano i contribuenti finiva non nelle casse dello stato, ma nelle tasche di finanzieri e appaltatori.
Schematicamente furono due le strategie poste in opera dai responsabili delle finanze. La prima consisteva nello spostare il peso maggiore delle imposte sulla proprietà terriera e nel puntare su un incremento delle entrate che sarebbe stato il naturale effetto dello sviluppo economico. La seconda, che mirava a una riduzione delle spese e degli sprechi, fu la via imboccata da Jacques Necker (1732-1804), un banchiere ginevrino che venne posto al timone delle finanze francese nel 1776.
Nei cinque anni del suo mandato Necker abolì molti uffici superflui, ridusse le spese della corte, unificò varie casse, riformò e rese più redditizia l'amministrazione del demanio regio, richiamò alla gestione diretta dello stato le imposte sui consumi. Per coprire le forti spese legate all'intervento nella guerra d'indipendenza americana, evitò di inasprire le tasse e ricorse al credito, caricando così i bilanci futuri di nuovi aggravi per il pagamento degli interessi. Il suo licenziamento, deciso dal re nel 1781, fu conseguenza dell'ardita iniziativa del ministro di rendere pubblico il bilancio della monarchia, che era stato sempre considerato un segreto di stato.
Dopo alcuni anni di sostanziale immobilismo, di fronte all'aggravarsi del dissesto e ai sintomi di crisi affioranti nel settore agricolo, il nuovo controllore generale delle finanze, Charles-Alexandre de Calonne, decise nel 1786 di porre il re di fronte alla realtà: il deficit superava ormai i 100 milioni e metà del bilancio era ingoiato dal pagamento degli interessi sul debito pubblico. L’unica soluzione, secondo il controllore, era l'adozione di radicali riforme, che prevedevano l'istituzione di una nuova imposta fondiaria, detta “sovvenzione territoriale”, proporzionale alla rendita, pagabile in natura e gravante senza eccezioni su tutti i proprietari, nobili ed ecclesiastici compresi, la liberalizzazione del commercio dei cereali, l'eliminazione delle dogane interne. Per aggirare la prevedibile opposizione dei ceti privilegiati e dei Parlamenti, cui competeva la registrazione delle leggi, il ministro suggerì al re di convocare un'assemblea dei notabili, istituzione da tempo in disuso.
I 144 notabili convocati a Versailles nel febbraio 1787 manifestarono subito invece la loro opposizione ai progetti di riforma. Molti di loro non erano pregiudizialmente contrari alla abolizione dei privilegi fiscali, ma ritenevano che misure di tal portata richiedessero l'approvazione della vera rappresentanza della nazione, gli Stati Generali. Il re decise allora la sostituzione di Calonne con uno dei leader dell’assemblea, l’arcivescovo Etienne-Charles Loménie de Brienne, ma l'assemblea venne sciolta senza aver ottenuto risultati nel maggio 1787.
Ormai nell’opinione pubblica costante era il riferimento agli Stati Generali come all'unica istanza in cui la riforma non solo della economia ma di tutta la costituzione dello stato doveva essere discussa. Così nell'agosto 1788 il responsabile delle finanze, prima di rassegnare le dimissioni in seguito a una crisi di tesoreria che lo aveva costretto a sospendere i pagamenti, dichiarò a nome del monarca che gli Stati Generali si sarebbero riuniti il primo maggio dell'anno seguente. Al suo posto il re, tra il giubilo generale, richiamò Necker, che si mostrò subito ben deciso a non prendere alcuna iniziativa di rilievo fino alla convocazione della rappresentanza nazionale: l’attenzione di tutti era ormai concentrata sulle forme che questa avrebbe assunto.
Il 25 settembre il Parlamento di Parigi dichiarò che dovevano essere rispettate le modalità del 1614, quando era avvenuta l'ultima convocazione degli Stati Generali: era previsto che la stragrande maggioranza della nazione (Terzo Stato) esprimesse lo stesso numero di deputati del clero e della nobiltà e che si votasse per ordine e non per testa, con l’attribuzione, cioè, di un unico voto collegiale a ciascuno degli ordini. Su una popolazione totale di 24-25 milioni il Terzo stato rappresentava in percentuale il 98%. L’1,5% erano nobili e lo 0,5% erano gli appartenenti al clero. Questa presa di posizione, appoggiata dalla nobiltà più conservatrice, provocò la spaccatura del fronte antiassolutistico, fino a quel momento solidale. Una efficace campagna di stampa prese a denunciare l'egoismo dei ceti privilegiati e a richiedere con forza la riunione dei tre ordini in un’unica assemblea dove le votazioni sarebbero avvenute a maggioranza.
Chi espresse con maggiore efficacia queste rivendicazioni fu l’abate Emmanuel-Joseph Sieyès, in un pamphlet pubblicato nel gennaio 1789 e intitolato Che cos'è il Terzo Stato?. Rifiutandosi di fare causa comune con il terzo stato, che era la grande maggioranza della nazione e ne costituiva l'unica componente operosa e produttiva, il clero e la nobiltà secondo Sieyès si ponevano di fatto al di fuori della nazione stessa e perdevano ogni diritto. A lungo sarebbero risuonate all’orecchio dei francesi le parole con cui si apriva l'opuscolo: “Che cos'è il terzo stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell'ordinamento politico? Nulla. Che cosa chiede? Divenirvi qualche cosa”.
1789: il rovesciamento dell’ancien régime.
Fra le cause immediate della rivoluzione, accanto alla debolezza della monarchia, decisiva fu la mobilitazione politica del Terzo stato fra la fine del 1788 e gli inizi del 1789. A marzo si tennero le elezioni (a solo suffragio maschile) dei deputati agli Stati generali. Nonostante l’ampiezza dell’elettorato contadino e artigiano, i deputati del terzo Stato furono tutti di estrazione borghese. Tra i rappresentanti del clero i curati erano la stragrande maggioranza e molti aderivano ai programmi del Terzo stato. I più intransigenti difensori della società per ordini erano invece i nobili: tuttavia un terzo erano gli esponenti liberali.
Alla seduta inaugurale del 5 maggio la maggioranza numerica dei deputati era favorevole al rinnovamento delle strutture politiche e amministrative, ma questa maggioranza non era in grado di far valere il proprio peso finché non venisse riconosciuto il voto per testa. Ancora una volta l’iniziativa spettò al Terzo stato che, con l’appoggio del basso clero, il 17 giugno si autoproclamò Assemblea nazionale. Il 20 i deputati, trovata chiusa la loro sede per ordine del re, riuniti nella Sala della Pallacorda, giurarono di non sciogliersi prima di aver dato alla Francia una nuova Costituzione. Ad essi si aggiunse la maggioranza del clero e il re dovette cedere e ordinò alla nobiltà e alla minoranza del clero di unirsi al Terzo stato (27 giugno). A questo punto finiva l’antico sistema rappresentativo della società per ceti e nasceva (9 luglio) l’Assemblea nazionale costituente. Il 14 luglio, alla ricerca di armi, un corteo popolare giunse sotto le mura del castello della Bastiglia, la prigione-fortezza posta nella parte orientale della città. La guarnigione aprì il fuoco, ma dovette arrendersi al minacciato assalto della folla. Nella seconda metà di luglio la sollevazione delle campagne introdusse un ulteriore elemento di accelerazione di questo processo. Sospinta da questi avvenimenti l’Assemblea, nella notte del 4 agosto, decise l’abolizione del regime feudale. Nei giorni seguenti questa decisione fu tradotta in decreti che sopprimevano tutti i privilegi giuridici e feudali, la venalità delle cariche e la decima ecclesiastica.
In quello stesso mese, il 26 agosto, fu discussa e approvata dall’Assemblea la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Espressione delle idee illuministe, la Dichiarazione rivendicava i principi fondamentali della libertà e dell’uguaglianza (“Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”, art.1) e poneva come obiettivo “di ogni associazione politica […] la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione” (art.2).
L’ultima spallata alla struttura dell’ancien régime fu, nel novembre, la requisizione dei beni ecclesiastici.

La monarchia costituzionale: 1790-1791.
All’interno del fronte rivoluzionario erano presenti diverse tendenze politiche. Fra i club la Società dell’89 era di tendenze moderate. Posizioni radicali aveva la cosiddetta società dei cordiglieri, a cui aderivano Georges-Jacques Danton, Camille Desmoulins, Jean-Paul Marat. Ma il club più importante si rivelerà quello dei giacobini, nato nel dicembre 1789, il cui elemento di maggiore spicco era Maximilien Robespierre.
Quando nel dicembre 1789 si trattò di decidere i criteri in base ai quali attribuire i diritti politici, i cittadini furono divisi in attivi e passivi in base al censo. Soltanto quanti pagassero almeno un’imposta annua pari a tre giornate di lavoro erano considerati attivi ed entravano a far parte del corpo elettorale, che risultò composto da oltre 4 milioni di cittadini maschi di età superiore ai 25 anni. Gli appartenenti agli strati più poveri della società, circa 3 milioni, erano considerati cittadini passivi ed erano esclusi dal diritto di voto.
Dopo la requisizione dei beni della Chiesa apparve inevitabile che spettasse allo Stato il mantenimento degli ecclesiastici, equiparati ai funzionari pubblici dalla Costituzione civile del clero, votata nel luglio 1790. La costituzione civile attribuiva la nomina dei vescovi e dei parroci alle assemblee elettorali locali e li obbligava a giurare fedeltà alla nazione. Solo 7 vescovi su 130 prestarono giuramento, mentre il basso clero si divise a metà tra favorevoli (costituzionali) e contrari (refrattari).
Il 3 settembre 1791 fu approvata la Costituzione. Essa prevedeva un Parlamento composto da una sola Camera, l’Assemblea legislativa, della durata di due anni. I ministri, di nomina regia, erano responsabili solo di fronte al sovrano e non potevano essere membri dell’Assemblea. Il re aveva facoltà di opporre un veto sospensivo alle leggi votate dall’Assemblea: solo dopo la conferma in due assemblee successive, tali leggi sarebbero divenute esecutive. Si trattava si una costituzione liberale fondata sulla separazione dei poteri.

La svolta del 1792.
Il 30 settembre 1791 si sciolse l’Assemblea nazionale costituente e il 1° ottobre si riunì il nuovo Parlamento, l’Assemblea legislativa, costituita da 250 deputati moderati foglianti, 350 costituzionali (che si riconoscevano nella Costituzione) e 136 giacobini. Nel frattempo la corte e gli emigrati (nobili) organizzavano la controrivoluzione, appoggiati dall’Austria e dalla Prussia. Il 20 aprile 1792 fu dichiarata guerra all’Austria, soprattutto per volere dei girondini (frangia dei giacobini), certi che una vittoria avrebbe rinsaldato la rivoluzione diffondendone gli ideali in Europa. La mattina del 10 agosto il palazzo delle Tuileries, sede del re, fu preso d’assalto dal popolo parigino. L’Assemblea legislativa, presso la quale si era rifugiato il re, decretò la sospensione del sovrano dalle proprie funzioni e decise nuove elezioni a suffragio universale. Era il trionfo della rivoluzione popolare e la rivincita dei cittadini passivi.

La repubblica e la guerra rivoluzionaria: 1792-1793.
La Convenzione nazionale (questo il nome della nuova assemblea) fu eletta ai primi di settembre del 1792, ma il potere esecutivo fu esercitato di fatto fino al novembre 1795 da organismi straordinari. Uno di questi, il Comune insurrezionale di Parigi, ebbe un ruolo rilevante nell’evolversi degli avvenimenti. L’entusiasmo e la passione rivoluzionaria furono tra i fattori che consentirono alle truppe francesi, innervate di volontari, di battere i prussiani a Valmy il 20 settembre 1792. Il giorno dopo Valmy la Convenzione dichiarò l’abolizione della monarchia dando vita alla repubblica. L’Assemblea fu egemonizzata agli inizi dai girondini (200 circa), ai quali si contrapponevano i deputati della “Montagna”, i montagnardi (un centinaio tra i quali Robespierre e Danton), che sedevano in alto a sinistra (dalla posizione rispetto al presidente dell’Assemblea ebbero origine i termini destra e sinistra). Al centro i deputati moderati costituivano la Pianura, chiamata anche spregiativamente Palude. La lotta tra girondini e montagnardi contrassegnò la Convenzione dal settembre 1792 al giugno 1793. Il re fu processato dalla Convenzione tra dicembre e gennaio 1793. Con 387 voti favorevoli e 334 contrari Luigi XVI fu condannato a morte. La richiesta di rinvio dell’esecuzione, avanzata da alcuni girondini, venne respinta e il giorno dopo, il 21 gennaio 1793 il re fu decapitato.
Nel frattempo la Francia aveva conquistato il Belgio. Il 1° febbraio del 1793 la Convenzione dichiarò guerra all’Inghilterra e all’Olanda, il mese successivo alla Spagna. Contemporaneamente avveniva la rottura con gli Stati italiani. In breve la Francia si trovò in guerra con tutti gli Stati europei, esclusi i paesi scandinavi, la Russia e la Svizzera.
Nel marzo 1793 una grande rivolta contadina esplose nella Vandea (una regione dell’Ovest). L’insurrezione nacque dal rifiuto della coscrizione obbligatoria, ma fu alimentata soprattutto dall’opposizione e estraneità di una parte del mondo rurale alla rivoluzione, vissuta come predominio della borghesia urbana. La rivolta vandeana, appoggiata dai nobili e dai preti refrattari, sconfisse sistematicamente le spedizioni inviate a reprimerla.
La situazione di gravissima emergenza, creata dalle tensioni interne e dal nemico alle frontiere, sospinse la Pianura a trovare un accordo con i montagnardi. La nuova maggioranza della Convenzione adottò una serie di provvedimenti eccezionali: furono creati un tribunale rivoluzionario contro i sospetti e comitati di vigilanza rivoluzionaria, affidati agli organismi rappresentativi di base (le sezioni); fu stabilito un prezzo massimo per i cereali e la farina. Soprattutto venne istituito il Comitato di salute pubblica, il vero organo di governo, composto da nove membri scelti dalla Convenzione e rinnovabili ogni mese. Tutte queste misure apparvero ai girondini come un cedimento ai sanculotti (come erano chiamati i popolani parigini, perché non portavano i calzoni al ginocchio degli aristocratici, ma calzoni lunghi) e come l’inizio di una dittatura. Il contrasto con i montagnardi divenne sempre più insanabile, ma furono questi ultimi ad avere la meglio: Il 2 giugno sotto la minaccia di 80.000 uomini della Guardia nazionale la Convenzione si piegò e decretò l’arresto di 29 deputati e 2 ministri girondini.

La dittatura giacobina e il Terrore: 1793-1794.
Il nuovo successo dei sanculotti aprì la strada all’egemonia dei giacobini (che, dopo la sconfitta dei girondini, si identificavano interamente con i montagnardi) e del loro leader Robespierre. L’ideologia politica dei giacobini discendeva dalle teorie democratiche degli illuministi, in particolare di Rousseau, alle quali attingeva nelle linee di fondo anche il movimento popolare. Dal punto di vista economico auspicavano una società caratterizzata da un insieme di piccoli produttori, contadini e artigiani, proprietari dei mezzi di produzione. In questo senso giacobini e sanculotti erano ancora collocati in un contesto di economia precapitalista.
Gli strumenti dell’egemonia giacobina furono il governo rivoluzionario e il Terrore, ossia la sistematica eliminazione fisica degli avversari politici. La costituzione democratica del ’93 (preceduta da una nuova Dichiarazione dei diritti), votata il 24 giugno – che introduceva tra l’altro il suffragio universale, il diritto al lavoro e all’assistenza – non entrò mai in vigore, rimanendo solo come un punto di riferimento programmatico. Furono invece progressivamente sospese le più elementari garanzie dei cittadini. Il Comitato di salute pubblica fu rinnovato e successivamente allargato a 12 membri; uscito Danton, il 27 luglio vi entrò Robespierre che lo guidò per un anno esatto. Dopo una nuova sollevazione dei sanculotti (4-5 settembre) venne imposto il maximum nazionale dei cereali, poi quello generale dei prezzi e dei salari. Il 5 ottobre 1793 fu introdotto il calendario repubblicano, che rimase in vigore fino al 31 dicembre 1805. La consapevolezza del valore simbolico che aveva la scansione tradizionale del tempo ispirò la modifica del calendario. Una modifica che intendeva sottolineare l’inizio di una nuova epoca e promuoveva, con l’abolizione del ciclo settimanale e della domenica, una decisa laicizzazione della società.
In una dura lotta per la sopravvivenza intrapresa dal gruppo dirigente robespierrista furono dapprima arrestati, processati e giustiziati gli hébertisti (estrema sinistra – 14 marzo 1794). La stessa sorte toccò poco dopo (5 aprile) ai cosiddetti indulgenti (destra), capeggiati da Danton, da tempo favorevoli a una politica meno intransigente all’interno e all’estero. Cresceva l’ostilità all’autocrazia di Robespierre. In questa atmosfera maturò una congiura che vide unite l’ala moderata a quella estremista. Il 9 termidoro (27 luglio) Robespierre venne messo sotto accusa dalla Convenzione e arrestato. Fu giustiziato senza processo il 10 termidoro. Con la politica del Terrore in meno di un anno i condannati a morte furono circa 17.000.

Continuità rivoluzionaria e tentativi di stabilizzazione: 1794-1797.
La caduta di Robespierre non segnò la fine della rivoluzione, ma l’inizio di una nuova fase caratterizzata all’interno, da faticosi tentativi di stabilizzazione volti a garantire la sopravvivenza del ceto politico rivoluzionario, all’esterno, dall’espansione francese in Europa. In breve tempo fu smantellata la struttura di potere giacobina e attenuato l’accentramento dell’esecutivo. Decine di migliaia di sospetti furono liberati e a dicembre la Convenzione reintegrò i girondini superstiti. I club giacobini vennero chiusi. Il processo di stabilizzazione interna venne consolidato dai successi militari ai quali seguirono, tra aprile e luglio 1795, i trattati di pace con la Prussia e l’Olanda (divenuta Repubblica batava). Ma la guerra rimaneva aperta con l’Austria e l’Inghilterra.
Contemporaneamente la Convenzione si dedicò all’elaborazione di un nuovo testo costituzionale che doveva conferire stabilità al nuovo assetto politico borghese della Francia. La Costituzione dell’anno III (1795) riprese in molti punti quella del ’91 e soprattutto accentuò il carattere censitario del sistema elettorale. Il potere esecutivo fu affidato a un Direttorio di 5 membri che nominava i ministri. Quella del 1795 fu dunque una costituzione consapevolmente antidemocratica e attentissima a evitare i rischi di una dittatura.
Mentre gli eserciti della Repubblica avevano ripreso vittoriosamente l’offensiva in Europa, nuove difficoltà interne si presentarono costringendo la maggioranza del Direttorio ad attuare un colpo di Stato nel settembre (18 fruttidoro) 1797: furono cassate le elezioni, tenute in primavera, deportati in Guiana numerosi deputati e giornalisti, introdotti severi controllo sulla stampa: decisivo per il colpo di Stato era stato l’appoggio delle truppe dei comandanti militari impegnati all’estero. La sopravvivenza del regime e la continuità rivoluzionaria erano ormai affidate non solo alle vittorie degli eserciti ma al diretto intervento dei generali vittoriosi nella vita politica.

Bonaparte e la campagna d’Italia: 1796-1797.
Il Direttorio continuò nella politica di espansione francese in Europa. La sicurezza della Francia sembrava poter essere garantita non solo dal raggiungimento delle frontiere naturali – le Alpi e il Reno – ma anche dalla costituzione di repubbliche sorelle immediatamente al di là di queste frontiere. Il progetto girondino di una liberazione dei popoli si intrecciava strettamente con gli obietti espliciti di sfruttamento economico, fiscale e commerciale dei territori annessi o alleati. La realizzazione di questo disegno era legata alla sconfitta dell’Austria che doveva essere investita da una linea di attacco principale sul territorio tedesco in direzione di Vienna, mentre altre truppe avrebbero tenuto impegnati gli austriaci in Italia, mirando alla conquista del Piemonte e della Lombardia.
Il comando dell’armata d’Italia fu affidata nel 1796 al generale Napoleone Bonaparte. Bonaparte riuscì nel disegno strategico di mantenere unite le sue forze, costantemente inferiori di numero, e di dividere quelle nemiche. Dopo una serie di rapide vittorie obbligò i piemontesi all’armistizio di Cherasco (e il successivo trattato di Parigi, del maggio, confermò il possesso francese della Savoia e di Nizza). Il 15 maggio Bonaparte, dopo aver aggirato le truppe austriache e averle sconfitte a Lodi, entrava trionfalmente a Milano. Le vittorie militari e il contributo al colpo di Stato di fruttidoro consentirono a Bonaparte di condurre direttamente le trattative con l’Austria. Con il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797) ottenne il riconoscimento dell’egemonia francese in Lombardia e in Emilia e dell’annessione del Belgio, nonché l’attribuzione alla Francia della riva sinistra del Reno. L’Austria veniva compensata con il Veneto, l’Istria e la Dalmazia. Cessava di esistere la Repubblica di Venezia.

Le Repubbliche giacobine in Italia.
Nel dicembre 1796 fu creata in Emilia e Romagna la Repubblica cispadana; nel giugno 1797 si formarono la Repubblica ligure e, sui territori occupati della Lombardia, la Repubblica cisalpina, con la quale a luglio si fuse la Cispadana. Nel febbraio 1798 i francesi intervennero a Roma e proclamarono la Repubblica romana, che comprendeva il Lazio, l’Umbria e le Marche. Alla fine del 1798 il Regno di Napoli attaccò la Repubblica romana. Dopo qualche iniziale successo le truppe borboniche furono respinte e Napoli fu occupata dai francesi, che qualche giorno dopo proclamarono la Repubblica partenopea (gennaio 1799).
Passate alla storia come Repubbliche giacobine, le Repubbliche italiane non ebbero in realtà caratteristiche tali da richiamare il radicalismo rivoluzionario. Le costituzioni repubblicane furono tutte modellate sulla Costituzione francese del 1795. Quella napoletana fu, per il suo contenuto democratico, quella che più si allontanò dal modello francese. La presenza e l’egemonia francese diedero tuttavia l’avvio a una serie di profonde riforme anche al di fuori dell’ambito dell’organizzazione politica; come l’introduzione dello stato civile, l’abolizione di maggiorascati e fidecommessi (che impedivano il frazionamento e la vendita dei beni di origine feudale), la soppressione degli enti religiosi e l’inizio della vendita dei beni nazionali.
I ceti popolari rimasero sempre estranei o avversi al dominio francese. Nell’Italia meridionale i contadini non videro realizzarsi alcun vantaggio immediato alle loro durissime condizioni per opera del nuovo regime repubblicano: le norme che abolivano i diritti feudali e garantivano la continuità degli usi civici giunsero troppo tardi (aprile 1799). Fu agevole quindi per il cardinale Fabrizio Ruffo, emissario dei Borbone, sollevare i contadini e guidare l’armata della Santa Fede contro la Repubblica giocobina. La conquista di Napoli ad opera dei sanfedisti (giugno 1799) consentì il ritorno dei Borbone che effettuarono una durissima repressione.

La spedizione in Egitto e il colpo di Stato: 1798-1799.
Nella primavera del 1798 fu concesso a Bonaparte, dopo la rinuncia a un progetto di invasione dell’Inghilterra, di organizzare una spedizione militare contro l’Egitto. Da lì avrebbero potuto essere colpiti gli interessi commerciali inglesi in Oriente. L’Egitto era una provincia dell’Impero ottomano, sostanzialmente autonoma e dominata dalla setta militare dei Mamelucchi. I francesi nella battaglia delle Piramidi sconfissero i Mamelucchi (21 luglio). Ma pochi giorni dopo, il 1° agosto, l’ammiraglio inglese Nelson sorprendeva la flotta francese all’ancora di fronte ad Abukir e la distruggeva, isolando i francesi. L’unico risultato certo della spedizione in Egitto fu la ricomposizione di una alleanza generale contro la Francia, animata come sempre dall’Inghilterra e con l’attiva partecipazione della Russia e dell’Impero turco.
Il 18 brumaio (9 novembre) 1799 con il pretesto di un complotto, i deputati vennero trasferiti a Saint-Cloud nei pressi della capitale sotto protezione militare. Il 19 Napoleone impose con le armi una riforma costituzionale. I deputati consenzienti votarono la creazione di una commissione esecuitiva con pieni poteri composta da tre consoli della Repubblica francese, Sieyès, Ducos e Bonaparte.
Il colpo di Stato del 18 brumaio interruppe definitivamente la dinamica politica rivoluzionaria. La rivoluzione francese fu un fenomeno eminentemente politico. Distrusse un’organizzazione del potere, la monarchia assoluta, e le basi giuridiche della società per ceti. Ai privilegi sostituì l’eguaglianza dei diritti. Mise in atto una serie di nuovi rapporti fra società civile e Stato, fondati su un’enorme estensione della base politica e della partecipazione. Il modello politico contemporaneo, fondato sui partiti e sulla politicizzazione delle masse, nasce negli anni della rivoluzione.

2

Esempio