La dittatura di Silla

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Categoria:Storia

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Testo

LA DITTATURA
DI SILLA
Prima di partire da Patrasso per l'Italia, SILLA scrisse al Senato, annunciandogli le vittorie ottenute in Asia, la pace imposta a Mitridate e il suo ritorno. Si lamentava però delle offese recate alla sua famiglia e ai suoi amici e terminava esprimendo il proposito di rimettere l'ordine a Roma, assicurando che non avrebbe fatto alcun male ai "buoni" cittadini.
Giunta a Roma la lettera, i "cattivi" capirono benissimo che cosa li aspettava se tornava Silla; e così il partito che era al potere si preparò alla difesa. Si raccolsero soldati dal Sannio, dall'Etruria e dalla Lucania e si formò un esercito di circa duecentomila uomini. Ma questa gente per lo più costretta ad ubbidire erano elementi eterogenei e indisciplinati, con i quali non si sarebbe potuto tener testa ai "professionisti" delle agguerrite e fedeli legioni di Silla.
CINNA, sempre al consolato, nell'inverno del 84, condusse quell'esercito raffazzonato, ad Ancona per prendere il mare e recarsi incontro al rivale, ma le truppe si rifiutarono d'intraprendere una navigazione in quella stagione e, poiché il console voleva obbligarle ad imbarcarsi, si ribellarono e l'uccisero.
Il suo collega console GNEO PAPIRIO CARBONE, reso prudente dalla sorte toccata al collega, promise all'esercito che sarebbe rimasto in Italia e lo trasferì ad Arimino (Rimini).
Dopo la sospensione di quattro anni, tornarono ad esserci le elezioni consolari, e all'inizio dell'anno 83, furono eletti L. CORNELIO SCIPIONE e CAJO NORBANO, e mentre Carbone si recava nella Cisalpina in qualità di proconsole, i due neoletti si prepararono ad ostacolare il ritorno del vincitore di Mitridate.
SILLA, intanto, sbarcato indisturbato a Brindisi, assicurò la popolazione delle sue intenzioni amichevoli ed impedì alle truppe ogni atto ostile. Fu per l'esemplare contegno del suo esercito, che le città dell'Apulia gli aprirono le porte e così il generale riuscì senza incontrare ostacoli procedere verso Roma.
Durante il cammino, le sue schiere s'ingrossarono di volontari italici cui egli prometteva la cittadinanza e di partigiani suoi sostenitori, elementi che Mario e Cinna avevano costretto ad andare in esilio.
Dalla Liguria, Silla fu raggiunto dal figlio del "Numidico", Q. METELLO PIO; con lui vi erano alcuni che militavano nel partito della democrazia: L. FILIPPO, Q. LUCREZIO OFELLA e il senatore P. CETEGO. Un buon contingente di truppe le condusse CNEO POMPEO, il giovane figlio di Strabone che era passato al partito aristocratico perché i democratici lo avevano minacciato di confiscargli gli averi se non restituiva il bottino che - secondo loro - il padre aveva sottratto per sé ad Ascoli. Il giovane Pompeo lungo il percorso aveva sconfitto alcune truppe inviate del pretore L. GIUNIO DAMASIPPO. Quando si unì, Silla lo accolse simpaticamente chiamandolo "imperator".
A contrastare invece il passo a Silla si presentarono nella Campania i due neo consoli SCIPIONE e NORBANO. Il primo mise il campo presso Teano, il secondo nelle vicinanze di Capua.
SILLA iniziò ingaggiando battaglia con Norbano, lo attaccò, lo sconfisse gli uccise settemila uomini e lo costrinse a rifugiarsi a Capua; poi marciò su Teano e offrì una tregua con un armistizio a Scipione, e questi accettò per avere tempo di chiedere consigli a Norbano e Sertorio, ma quando ricevette il consiglio di rompere l'armistizio, fu abbandonato dalle sue legioni che fraternizzarono con quelle di Silla e, deposto il consolato, se ne andò volontario esilio a Marsiglia.
SILLA aveva ottenuto senza dubbio dei notevoli successi, ma Roma era ancora lontana e il nemico ancor forte.
Nell'anno 82 a.C, il consolato fu conferito a PAPIRIO CARBONE e a MARIO (detto il "Giovane"), figlio del vincitore dei Cimbri. I due, inviato SERTORIO nella Spagna Citeriore, accolsero numerosi soldati nella Gallia Cisalpina e nell'Etruria e si prepararono a dare battaglia a Silla; il primo a nord, il secondo a sud di Roma.
Contro PAPIRIO CARBONE furono mandati POMPEO e METELLO. Questi sull'Esino sbaragliarono ALBIO CARINA, luogotenente di Carbone; mentre contro Mario andò lo stesso Silla, che si scontrò con il figlio del suo grande nemico nella pianura di Sacriporto, tra Signia e Preneste.
La battaglia fu impetuosa, ma si risolse con una grande vittoria dei Sillani per la diserzione di sette coorti, seguita dalla fuga dell'intero esercito verso Preneste. In quel combattimento più di ventimila soldati di Mario furono uccisi.
Mario, da Preneste ordinò al pretore DAMASIPPO che si trovava a Roma di uscire dalla città, essendo ormai aperta a Silla la via, e di uccidere, prima di allontanarsi, tutti coloro che si sospettava parteggiassero per l'oligarchia.
Damasippo eseguì fedelmente l'ordine e, radunato il Senato, fece trucidare i senatori sillani fra cui P. ANTISTIO, L. DOMIZIO, C. PAPIRIO CARBONE e il pontefice massimo MUZIO SCEVOLA.
SILLA, lasciato il suo luogotenente LUCREZIO OFELLA a continuare
l'assedio di Preneste, con le sue truppe occupò facilmente Roma, poi marciò su Chiusi dove si trovava il console CARBONE.
I due eserciti ingaggiarono battaglia per una giornata intera, ma senza che uno sopraffacesse l'altro; tuttavia CARBONE, reso baldanzoso e già soddisfatto da questo risultato -quello di aver fermato Silla- inviò in soccorso del collega parte delle sue truppe al comando del suo luogotenente, il quale però a Spoleto, incontratosi con POMPEO, fu sconfitto senza così riuscire ad unirsi al collega.
Ma a parte questo successo, le speranze degli avversari di Silla furono ugualmente rialzate da un soccorso insperato: circa settantamila di Sanniti e Lucani avevano già brandito le armi, e guidati da PONZIO TELESINO, M. LAMPONIO e GUTTA, avanzavano verso il nord.
Per impedire che questo esercito si unisse a Mario, SILLA si disimpegnò nell'assedio da Chiusi e scese verso il mezzogiorno occupando la stretta di Valmontone.
Rimasto libero, CARBONE puntò verso il Piceno, ma a Faenza lo aspettava un'infausta disfatta per merito delle truppe di METELLO.
Sfiduciato e abbandonato da alcuni suoi ufficiali, il console abbandonò il teatro di guerra e partì per l'Africa, lasciando a Chiusi parte dell'esercito allo sbando, e che, assalito da Pompeo, fu quasi interamente distrutto. Solo alcune schiere, guidate dal luogotenente CANINATE, riuscirono a salvarsi e presero al via del sud per congiungersi con Mario e con gli Italici.
Questi ultimi, non riuscendo più a giungere a Preneste, puntarono audacemente e segretamente su Roma che sapevano difesa da poche truppe sillane comandate da APPIO CLAUDIO. Dopo aver marciato tutta una notte, giunsero all'alba davanti alla porta Collina.
Mostrando ai suoi uomini la città è fama che PONZIO TELESINO esclamasse
"Ecco il covo dei lupi ! E finché non sarà distrutto mai ci sarà libertà per noi".
Poi ordinò di iniziare l'assalto.
Roma quel giorno (era 1° novembre dell'82 a.C.) sarebbe stata conquistata dai suoi secolari nemici se un pugno di uomini risoluti che ne costituivano il presidio non avessero messo in atto un'audace e vigorosa sortita, che se non ebbe esito fortunato riuscì -tenendo impegnati i nemici tutto il giorno - a permettere a Silla di giungere in soccorso della città.
Sebbene la drammatica giornata era già giunta al termine, l'animoso generale ingaggiò battaglia con i Sanniti e i Lucani. Ma stanchi dal frettoloso viaggio, le truppe sillane non furono favorite dalla sorte nei primi scontri. L'ala sinistra, assalita impetuosamente e cominciò a piegare. Si narra che Silla -quest'ala la comandava proprio lui- addolorato dalla rotta dei suoi, rivolgesse ad Apollo queste parole "Perché mi hai elevato a tanta altezza se dovevi poi abbandonarmi sotto le mura della mia città?"
Ma non tutto era perduto. L'ala destra, infatti, comandata da MARCO CRASSO, rimase ferma e ben compatta davanti all'impeto dei nemici, poi, passata al contrattacco, si abbatté così violentemente sui Sanniti che in pochi attimi furono sbaragliati; poi il colpo di grazia quando nel furioso scontro PONZIO TELESINO fu ucciso. Staccata subito la sua testa, impalata su una picca, fatta girare per il campo di battaglia tolse ogni speranza ai suoi uomini; poi fu subito mandata a Preneste a sgomentare le truppe impegnate contro il luogotenente di Silla LUCREZIO OFELLA.
Abbandonati dagli uomini, CANINATE, MARCIO e DAMASIPPO caddero prigionieri e, condotti a Roma, furono subito giustiziati nel Campo Marzio.
Questa battaglia fu decisiva per le sorti della guerra ed ebbe come conseguenza la resa di Preneste. Il console MARIO e il figlio di PONZIO cercarono di fuggire attraverso un sotterraneo, ma, essendo riuscito vano il loro tentativo, per non cadere nelle mani dei nemici, si uccisero.
Caduta Preneste, Silla assunse il nome di "felix"; poi diede sfogo alle sue vendette. Dà corso a repressioni sanguinose del partito democratico e degli Italici ribelli ed ampie proscrizioni per eliminare gli avversari; tra i pochi che osano tenergli testa, si distingue un giovane 18 enne, CAIO GIULIO CESARE.
Nessuno di coloro che avevano parteggiato per MARIO e per CINNA e avevano osteggiato con la parola o con le armi i suoi disegni, doveva aver salva la vita in Roma e fuori Roma. A Preneste non rimasero che le donne e i fanciulli. Cinquemila prigionieri sanniti condotti a Roma furono ferocemente trucidati. Silla si trovava nel tempio di Bellona dove aveva convocato il Senato, quando, mentre esponeva il suo programma, giunsero gli urli strazianti dei poveri Sanniti in massa sgozzati. Un palese turbamento invase gli animi dei senatori e Silla, per calmarli disse loro che coloro i quali gridavano erano solo alcuni ribelli che lui faceva punire, e continuò la sua orazione.
Tutto questo, non era che il preludio dell'immane carneficina che doveva insanguinare Roma e l'Italia, tali da far impallidire le stragi mariane.
Prima la soldataglia inferocita e i sicari del vincitore si sparsero per la città trucidando barbaramente; poi, su consiglio di Metello, fu stabilito che i nomi di quelli che dovevano esser messi a morte si scrivessero su certe "tavole" che furono chiamate di "proscrizione", e che ogni giorno erano appese nel foro.
Già c'erano gli spietati pugnali dei sicari di Silla che giravano le vie, le case, le campagne in cerca di prede, poi le tavole con i nomi istigarono molti vili cittadini a diventare giustizieri, allettati solo dalle taglie di dodicimila denari posta sul capo d'ogni proscritto; Così fecero concorrenza agli assassini di professione.

Migliaia di malcapitati che magari riparandosi erano riusciti a sfuggire ai sicari caddero sotto mani assassine insospettabili di conoscenti, amici e anche parenti. E migliaia di teste recise (condizione per incassare il premio) diventarono i trofei che andarono adornare i rostri.
Fra gli uccisi vi furono quindici ex consoli, quaranta senatori e milleseicento cavalieri.
Gli immensi averi dei proscritti furono confiscati e dichiarati proprietà dello stato e proprio per quest'allettante motivo furono prima d'ogni altro presi di mira i cittadini più ricchi, e finiti questi ci si accontentò anche di quelli solo appena appena benestanti. Un liberto di Silla, di nome CRISOGONO, si appropriò i beni di un certo SESTO ROSCIO AMERINO che ascendevano a sei milioni di sesterzi e fu poi il bersaglio delle invettive del giovane M. TULLIO CICERONE, che, con vero sprezzo del pericolo al quale si esponeva, osò tacciare di vile, di ladro e d'assassino il liberto.
Altra prova d'audacia fu data dal giovane 18 enne CAIO GIULIO CESARE il quale rifiutò di ripudiare la propria moglie, che era una figlia di CINNA, contravvenendo agli ordini di Silla che aveva decretato che fossero -pena di morte ai trasgressori- ripudiate tutte le mogli appartenenti a famiglie sostenitrici di Mario. CESARE rientrò fra i trasgressori e fu condannato a morte; gli salvò la vita l'intercessione di una favorita del tiranno, e Silla malvolentieri concesse la grazia, ma si narra che esclamò: "nell'uomo cui risparmio la vita, io vedo molti Marii".
Non soltanto sui beni e sulle persone degli avversari si sfogarono le vendette dei sillani e che durarono dal dicembre del 82 al giugno del 80. Tutto ciò che ricordava l'esacrato Mario, i monumenti innalzati in onore delle vittorie su Giugurta e i Cimbri, fu abbattuto. Neppure i sepolcri furono rispettati: la tomba di MARIO fu scoperchiata e le sue ossa gettate nel Tevere. FIMBRIA, che anni prima, aveva proposto di sacrificare una vittima umana sull'ara del vincitore dei Teutoni, trovò un emulo in LUCIO SERGIO CATILINA (proprio lui il famoso!) che prima accompagnò a frustate MARCO GRADITIANO nipote adottivo di MARIO, fino alla tomba di LUTAZIO CATULO, poi su questa gli cavò gli occhi, gli mozzò la lingua, le orecchie e le mani, infine fra gli spasimi lo trucidarono trasformando le sue membra in brandelli sanguinolenti.
Il suo corpo, orrendamente mutilato, fu portato davanti a SILLA ed essendo, alla vista di quel corpo, svenuto un cittadino, il ferocissimo Catilina, per completare l'opera, gli tagliò la testa.
Non soltanto a Roma proseguirono gli orrori che abbiamo descritto, ma anche in molti altri luoghi d'Italia. Nel Sannio, più che altrove infuriò la ferocia di Silla e dei suoi partigiani; città floridissime come Telesia, Esernia e Boviano furono ridotte a squallidi villaggi; paesi e campagne furono saccheggiati, famiglie intere decimate o costrette andare in esilio; le loro terre furono sottratte e distribuite ai soldati. Ventitre legioni, secondo alcuni scrittori, quarantasette secondo altri, costituirono le prime colonie militari cui è affidata la difesa e la romanizzazione dell'Italia.
Dovendosi eleggere i nuovi consoli, Silla chiese la dittatura e gli fu conferita con un nuovo sistema; fu in pratica proclamato dal Senato l'interregno e creato nello stesso anno 82, interrè L. VALERIO FLACCO, il quale, convocate le centurie, fece approvare una legge che nominava Silla dittatore con potere costituente, a tempo indeterminato, e con il compito di fare leggi e riordinare lo Stato.
Così Silla divenne legalmente (!) il padrone assoluto di Roma.
Nel riordinare la repubblica ebbe di mira prima di tutto l'avvilimento della plebe e l'esaltazione dell'aristocrazia. Secoli di storia, di lotte e di sacrifici furono a un tratto cancellati. Con la legge intorno al potere tribunizio il tribunato plebeo perse la sua indipendenza e l'autorità. Ai tribuni fu sottratto il diritto di convocare il popolo e di parlare nelle assemblee; fu chiusa la via degli uffici curuli e fu strappato il "jus auxilii", il diritto cioè di difendere la plebe, di modo che a questi magistrati, dove prima era riposta tutta la forza del popolo, non rimase che una meschina mansione, quella di patrocinare gl'interessi dei singoli. Con la legge sui magistrati fu stabilito, rimettendo in vigore un plebiscito di tre secoli e mezzo prima, che non si poteva ricoprire la medesima magistratura se prima non erano trascorsi dieci anni, che non poteva essere creato pretore chi non aveva prima ricoperta la questura e console chi non era stato prima pretore; infine fu fissata l'età minima nella quale si poteva conseguire la magistratura: 30 anni per la questura, 40 per la pretura e 43 per il consolato.
Con altre leggi si stabilì che i consoli e i pretori dovevano restare a Roma per tutto il tempo della loro magistratura esercitandovi soltanto il potere civile e che soltanto dopo potevano esser mandati, in qualità di proconsoli e propretori, nelle province ad esercitarvi il potere militare; fu inoltre disposto che non potevano allontanarsi dalle province senza il permesso del Senato né far guerra e stipulare trattati; e comminata la pena di morte per i trasgressori.
Fu abolita la legge di M. Plauzio riguardante il potere giudiziario e questo fu attribuito al Senato. Ma il Senato non fu più come una volta, un'assemblea esclusivamente composta di aristocratici. Silla creò un organo ligio alla propria volontà e vi mise trecento cavalieri da lui stesso scelti ed approvati poi dai comizi.
Silla pensò anche alle questioni religiose, pur non essendo in fama di uomo pio; il tempio di Giove Capitolino, che era stato distrutto dall'incendio qualche anno prima, fu ricostruito e, allo scopo di erigerne uno che superasse tutti gli altri, fece trasportare da Atene a Roma le colonne del tempio di Giove Olimpio.
Mentre riordinava a modo suo la repubblica, SILLA non trascurava i nemici che si erano rinforzati nelle province dove o vi erano già o erano aumentati di numero con i tanti esuli.
Contro QUINTO SERTORIO che si trovava nella Spagna Citeriore inviò i pretori C. ANNIO LOSCO e C. VALERIO FLACCO, che nell'81, costrinsero il ribelle e rifugiarsi nella Mauritania; contro MARCO PERPENNA, che era in Sicilia e CNEO-DOMIZIO ENOBARBO che in Africa aveva tirato dalla sua parte, Jarba, re della Numidia, inviò con centoventi navi e sei legioni POMPEO, il quale prima in Sicilia mise in fuga Perpenna, poi sbarcò in Africa e qui, sconfitto e fatto prigioniero ENOBARBO, che fu messo a morte, depose dal trono JARBA dando lo scettro della Numidia a JEMPSALE amico di Roma.
Nell'anno 80 a.C. l'Italia e le province erano completamente ridotte sotto il potere assoluto di SILLA che, pur conservando la dittatura, si fece eleggere console con CECILIO METELLO il PIO, e per premiare il suo più fedele seguace, POMPEO, che reduce dall'Africa, chiedeva il trionfo, lo concesse, promulgando una legge speciale.
Così il giovane guerriero (aveva allora 26 anni) che tanta parte doveva avere negli avvenimenti futuri della repubblica, pur non essendo senatore (ricordiamo che solo ai senatori era consentito trionfare - riuscì a celebrare, il 12 marzo 80 a.C, il trionfo, al cospetto di Silla che lo salutò "Magnus".
Adunatisi i comizi del 79 a.C., il Dittatore si volle riconfermarlo al consolato, ma Silla rifiutò e furono eletti P. SERVILIO VEZIO (o Vatia) ed APPIO CLAUDIO PULCRO, sue creature; e quando questi entrarono in carica lui depose la carica di dittatore.
SILLA, aveva quasi 60 anni, era forse stanco, tuttavia, rinunciando alla dittatura, lui non cessava di essere il padrone della repubblica. Innumerevoli erano (ora !) i suoi partigiani, distrutta era la potenza popolare e ripristinata l'autorità del Senato; in mano ai suoi seguaci c'erano tutte le magistrature; ma ciò che costituiva la sua vera forza erano i centoventimila fedelissimi veterani che vivevano in ogni parte d'Italia e i diecimila uomini che aveva liberato dalla schiavitù, e che da lui avevano ricevuto la cittadinanza romana e il nome.
Presentatosi al popolo, SILLA depose le insegne dittatoriali e disse
"Romani ! Vi restituisco l'illimitata autorità che mi avete conferito. Governatevi con le leggi vostre. Se poi c'è qualcuno in mezzo a voi che vuole che io renda conto delle mie azioni, eccomi pronto!".
Si ritirò in una sua villa a Puteoli (Cuma), e qui trascorse gli ultimi mesi della sua vita negli studi, ma forse pure abusando dei piaceri. Scriveva i suoi "Commentari", ma quando deponeva la penna, si svagava pescando e cacciando o, insieme con Metrobio, con il comico Roscio e con il buffone Sorice, si dava a quelle orge voluttuose che dovevano portarlo alla tomba.
Morì all'età di sessanta anni nel 78 a.C.
La sua salma da Puteoli fu trasportata a Roma in una lettiga d'oro e le sue esequie furono degne di un imperatore. La bara era adorna da duemila corone inviate dalle città d'Italia e seguita dai consoli, dagli altri magistrati, dalle vestali, dai senatori, dai cavalieri e dalle legioni.
Il cadavere fu sepolto nel Campo Marzio, dove soltanto i Re erano stati inumati, e sulla tomba fu posta una lapide con l'epitaffio dettato dallo stesso Silla: "Nessuno lo superò nel beneficiare gli amici e nel danneggiare i nemici".
Poi Roma prese il lutto e le matrone vestirono le nere gramaglie che portarono per un anno intero.
Con la sua morte terminava anche quel periodo che seguì la guerra civile, fra MARIO e SILLA e che segnò il trapasso dalla repubblica all'impero e fu caratterizzato da lotte civili fra democratici e gli aristocratici, i cui interessi furono rappresentati da uomini politici forti e ambiziosi, ma soprattutto da gloriosi generali che tentarono di impadronirsi del potere con l'appoggio dei loro eserciti.

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