IL DOPOGUERRA ITALIANO E LA NASCITA DEL FASCISMO

Materie:Riassunto
Categoria:Storia

Voto:

1 (3)
Download:2089
Data:02.02.2007
Numero di pagine:11
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
dopoguerra-italiano-nascita-fascismo_1.zip (Dimensione: 9.9 Kb)
trucheck.it_il-dopoguerra-italiano-e-la-nascita-del-fascismo.doc     37 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

IL DOPOGUERRA ITALIANO E LA NASCITA DEL FASCISMO
Gli effetti della guerra in riguardo al settore economico furono molto gravi ed interessarono situazioni di disoccupazione, inflazione e riconversione produttiva. La guerra aveva sicuramente rafforzato il settore industriale, favorendo in particolar modo le grandi imprese, le quali videro un processo di espansione dell’industria in ogni campo settoriale. I nuovi colossi industriali avevano però la necessità di impiegare ingenti risorse in investimenti e speculazioni, e per questo contavano sulla protezione dello stato, il loro massimo committente. Oltre a ciò, la necessità finanziaria delle industrie accrebbe l’importanza delle grandi banche, che poterono incrementare enormemente i loro utili. Le forme economiche scelte dai vari stati europei si basavano soprattutto su un forte sistema capitalistico centralizzato, nel quale lo stato appariva il regolatore dell’offerta e della domanda allo stesso tempo.

IL BIENNIO ROSSO IN ITALIA (1918/1920)
Durante la guerra in Italia si verificò un forte sviluppo industriale nel triangolo tra le città di Milano, Torino e Genova, ma ciò fece sì che si accentuasse il divario tra Nord e Sud. Questa situazione di distanza tra due parti del Paese venne definita “questione Meridionale” e vide un’esplosione a causa dell’aspettativa diffusa nelle campagne che la guerra avrebbe garantito l’accesso alla proprietà. La conquista della terra era stata per i contadini-soldati il motivo che li aveva spinti combattere in trincea, motivo che lo stato stesso aveva alimentato dopo la disfatta di Caporetto. I governi liberali del dopoguerra, però, non furono in grado di affrontare la questione agraria e di garantire la formazione della piccola proprietà contadina; la conseguenza fu l’occupazione dei latifondi da parte dei braccianti, guidati dalle leghe sindacali socialiste, che chiedevano il possesso delle terre incolte delle grandi proprietà. Lo stato, però, non fece nulla per venire in contro alle loro richieste e ciò aprì un varco sempre più grande tra i contadini ed il governo. Se si escludono i sindacati, nessuno si propose compiutamente di organizzare i contadini poveri del sud dopo l’occupazione delle terre, cosicché la classe rimase priva di rappresentanza politica e non riuscì a raggiungere i propri obiettivi.
Quando la conclusione del conflitto fece inaridire la spesa pubblica, i colossi industriali si trovarono in crisi; gli italiani erano infatti troppo poveri per garantire un livello di consumo provato in grado di alimentare la base industriale del Paese, che poteva così sopravvivere solo grazie alle esportazioni e grazie alle commesse dello stato. Ciò ebbe come conseguenza l’aumento della disoccupazione, alla quale si aggiunsero l’inflazione ed il crollo della lira. L’esito di tutta questa situazione f l’esplosione di un ciclo di lotte operaie: tra il 1918 e il 1920 migliaia di lavoratori vennero coinvolti in molteplici azioni di sciopero, in cui si chiedeva la riduzione della giornata lavorativa, un aumento salariale, condizioni di lavoro più umane ed il riconoscimento delle “Commissioni interne”, organi di rappresentanza dei lavoratori dentro le fabbriche che si erano venuti costituendo durante la guerra. Nelle aree del Nord Italia, le lotte operaie si aggiunsero a quelle dei braccianti che, a differenza di quelli meridionali, non chiedevano la proprietà della terra, ma salari più elevati. Queste rivolte ottennero grande successo e si raggiunsero importanti conquiste normative, prima fra tutte la giornata lavorativa di otto ore, grazie all’accordo del 15 settembre 1920, firmato da Giolitti, che prevedeva anche forti aumenti salariali e il riconoscimento, anche se solo teorico, di forme di controllo operaio nella gestione delle aziende.
Per quanto riguarda la piccola e media borghesia, anch’essa fu colpita dall’inflazione, la quale erodeva i titoli di stato che questi strati sociali erano riusciti ad accumulare nell’età giolittiana. Le difficoltà economiche si combinarono, poi, anche con una crisi di identità sociale: in particolare, il relativo prestigio di cui la piccola borghesia aveva goduto nell’esercito, non si conciliava con l’anonimato della vita quotidiana del dopoguerra e i reduci non riusciva a compiere un ruolo subordinato, visto che nell’esercito erano stati figure principali (erano, ad esempio, ufficiali). Inoltre, molti di questi ex combattenti videro il loro tenore di vita notevolmente peggiorato rispetto agli anni prebellici e ciò creava loro disagio, perché li avvicinava alle classi proletarie, da loro ritenute socialmente inferiori. Queste frustrazioni, dunque, sfociarono in una forte opposizione alla classe operaia, che appariva in grado, con le sue lotte e le sue organizzazioni sindacali, di aumentare la sua parte di reddito nazionale, minacciando i piccoli privilegi e lo status sociale delle classi intermedie non proletarie.
La crisi del ceto medio, già evidente agli inizi del 1919, fu colta da Benito Mussolini, ex direttore dell’Avanti (giornale del PSI), che il 23 marzo del 1919 fondò a Milano il Movimento dei Fasci e delle Corporazioni: all’inizio questo fu un movimento che intendeva catalizzare diverse correnti di opposizione senza chiari riferimenti politici, composte per lo più da ufficiali delusi e da esponenti dei ceti medi. I Fasci di combattimento, d’ispirazione nazionalistica, si presentarono subito all’opinione pubblica il 15 aprile, incendiando la sede milanese dell’Avanti. Si notò subito, quindi, quale fosse l’obiettivo principale di Mussolini, ovvero quello di indebolire il movimento operaio e le sue organizzazioni facendo uso della violenza.
L’Italia vide anche la formazione del Partito Popolare Italiano, che era il partito dei cattolici, costituitosi in seguito all’autorizzazione della Chiesa di Roma (che vide il Papa Benedetto XV abrogare il non expedit) che voleva contrastare l’avanzata dei socialisti. Il partito venne fondato da Don Luigi Sturzo e al suo interro confluirono tutte le correnti cattoliche che si erano formate prima della guerra e interessava più che altro i piccoli proprietari terrieri e le grandi masse della campagna, dov’era più forte l’influenza dei parroci. Il programma di Don Sturzo prevedeva il rispetto della proprietà privata, una riforma agraria ed una serie di iniziative volte alla creazione di una maggiore equità socio-economica tra le varie classi.
Oltre alla creazione del PPI, il dopoguerra vide anche un aumento degli iscritti al PSI, composto da una maggioranza di massimalisti (ovvero rivoluzionari) che si ispiravano al movimento bolscevico russo, e da una minoranza di socialisti riformisti, i quali però costituivano la maggior parte della CGL. All’interno dello stesso Partito Socialista si era però delineata una fazione di estrema sinistra, la quale accusava i massimalisti di aver prospettato una rivoluzione senza però attuarla e di aver seguito, quindi, una tattica attendista. Il gruppo milanese era guidato da Antonio Gramsci e prese il nome di “Ordine Nuovo”.
Fin dall’immediato dopoguerra, la propaganda nazionalista aveva sfruttato il risentimento dell’opinione pubblica per i deludenti risultati degli accordi di Versailles, in cui Orlando e Sonnino non erano riusciti ad imporre le clausole del patto di Londra e, in particolare, all’annessione della Dalmazia e della città di Fiume, che non era compresa nel patto di Londra ma si era dichiarata italiana con un plebiscito. Nacque così il mito della “vittoria mutilata”, usato dalla propaganda nazionalista contro il governo liberale. Queste continue tensioni, sia da parte dei Fasci di Combattimento, sia da parte della propaganda nazionalista, portò alle dimissioni del Governo Orlando e alla proclamazione del nuovo Governo presieduto da Nitti. Alcune settimane dopo sembrò profilarsi un accordo in base al quale Fiume sarebbe diventata una città libera, posta sotto il controllo della Società delle Nazioni; di fronte a questa prospettiva, i nazionalisti italiani, tra cui Gabriele d’Annunzio, si scagliarono violentemente contro il governo e il 12 settembre 1919 d’Annunzio partì alla volta di Fiume. Giunto nella città e dichiarata la sua annessione all’Italia, il poeta rimase padrone di Fiume per più si un anno. L’impresa fiumana, però, aveva violato apertamente gli accordi di pace e fece sì che il governo italiano apparisse delegittimato sia di fronte al Paese sia di fronte alla comunità internazionale. Quando, il 12 novembre 1920, con il trattato di Rapallo, Fiume fu dichiarata una città libera, d’Annunzio rifiutò di accettare l’accordo così, il 25 dicembre, le truppe italiane inviate dal governo Giolitti (che non voleva mostrare troppi segni di debolezza) sbarcarono nella città, sgomberandola con la forza.

L’AVVENTO DEL FASCISMO
L’azione di Giolitti fu importante per ridare vigore al Governo italiano, ma ciò non bastò a fargli ottenere il consenso della borghesia industriale, che aveva visto nel compromesso giolittiano del 15 settembre 1920 la possibile deriva della sua autorità: per questo motivo gli industriali cominciarono poco a poco ad abbandonare il riformismo moderato di Giolitti, per guardare con favore il nuovo movimento fascista con le sue squadre armate. Il fascismo si trasformò così da movimento minoritario violento a soggetto politico attivo, in grado di rare uno sblocco alla crisi italiana. Ben presto il Movimento dei Fasci e delle Corporazioni si orientò in senso decisamente conservatore e la minoranza di estrema sinistra diede vita, l’11 novembre 1921, al Partito Nazionale Fascista. Mussolini cominciò ad abbandonare le spinte anticlericali e antimonarchiche del suo progetto originario, per avvicinarsi agli interessi della base del partito, che era piccolo-borghese, monarchica e cattolica e per riscuotere le simpatie del nuovo Papa, Pio XI. Mussolini cancellò ogni aspetto democratico, accentuando il tema dell’attacco ai socialisti e utilizzando la violenza su larga scala contro il movimento operaio. Così il movimento fascista potenziò le squadre d’azione, che organizzarono spedizioni violente contro le sedi di partito e di giornali, le cooperative e le Leghe Rosse, ovvero i sindacati socialisti delle campagne. Servendosi di queste Squadre d’Azione, strutture armate illegali, i fascisti ottennero l’appoggio dei grandi proprietari terrieri e, inoltre, anche il consenso della classe dirigente e delle forze di pubblica sicurezza, che vedevano in loro un alleato contro i socialisti, che erano sempre più deboli, anche in seguito alla spaccatura del PSI, che vide la creazione del nuovo Partito Comunista Italiano nel 1921.
Nel 1921, con le elezioni politiche, il Partito Fascista riuscì ad entrare, per la prima volta, nelle liste elettorali, blocchi nazionali dov’erano presenti liberali, democratici e forze conservatrici, il cui obiettivo comune era bloccare l’avanzata dei movimenti popolari e socialisti. Mussolini iniziò la lotta per il potere alternando l’azione politica legale ed iniziative illegali, anche perché il suo obiettivo era la creazione di una dittatura. Iniziò così ad organizzare i piani per un’insurrezione e il 27 ottobre 1922 diede il via alla Marcia su Roma, occupando militarmente, nello stesso tempo, città e paesi dell’Italia centro-settentrionali. Alla notizia della marcia, il capo del Governo, Facta, dichiarò lo stato d’assedio, fatto che determinò il passaggio del potere alle autorità militari. Il re Vittorio Emanuele III, però, non firmò il documento, temendo possibili guerre interne; pochi giorni dopo, così, Mussolini fu ricevuto dal re e gli venne affidato l’incarico di formare un nuovo governo. Egli procedette con il suo piano ed istituì il Gran Consiglio del Fascismo, organo che aveva il compito di dare le direttive politiche al governo italiano. Oltre a ciò, trasformò tutte le diverse squadre fasciste in un’unica Milizia Volontaria e cominciò ad applicare sempre maggiori restrizioni alla libertà di stampa e di riunione.

NASCITA DELLA DITTATURA E FASCISTIZZAZIONE DELLA SOCIETA’
Le forze politiche italiane ebbero, nel 1924, un’occasione per fermare il fascismo, quando si verificò il delitto Matteotti. Giacomo Matteotti era un deputato socialista che aveva denunciato in parlamento le violenze e le scorrettezze dei fascisti durante la campagna elettorale; il 10 giugno 1924 Matteotti fu rapito ed ucciso da emissari fascisti e questa poteva essere l’occasione per allontanare Mussolini dal governo, ma i deputati dell’opposizione (socialisti e radicali) si limitarono a dichiarare di non partecipare più alle sedute parlamentari con la protesta definita Secessione dell’Aventino. Questa reazione dell’opposizione non molto significativa, anche perché si sperava nell’intervento del re, permise a Mussolini di superare questo momento di crisi e nel 1925, dopo essersi dichiaro mandante dell’omicidio Matteotti, cominciò a manifestare apertamente la sua idea di dittatura. Promulgò le leggi sindacali (che sospendevano tutte la libertà di sciopero e di associazione) e dichiarò illegale qualsiasi partito al di fuori di quello fascista. Introdusse il sistema della lista unica, allontanò personaggi quali Sturzo e Nitti,) e si proclamò Capo del Governo, prendendo il nome di duce, lasciando al re il titolo di Capo dello Stato. Nel 1927 emanò la Carta del Lavoro, un documento che disegnava le linee della polita sociale del regime, presentandole come finalizzate alla collaborazione tra le classi.
A questi provvedimenti politici ed economici, Mussolini abbinò un sistema di propaganda ideologica tra i bambini, i giovani e gli adulti (ad esempio attraverso la creazione si organizzazioni di massa come l’Opera Nazionale dei Balilla e, dal 1973, la Gioventù Italiana). Inoltre, promosse nuove tendenze architettoniche e urbanistiche d’impronta augustea e portò avanti lo sviluppo della cultura italiana, con la creazione dell’Accademia d’Italia e la stesura della prima Enciclopedia Italiana (diretta da Giovanni Gentile).
Per avvicinarsi sempre più alla Chiesa di Roma, che aveva appoggiato i fascisti, nei quali vedeva uno strumento per combattere la minaccia socialista, Mussolini firmò nel 1929 i Patti Lateranensi, con i quali la Chiesa riconobbe lo stato italiano e si adattò ai confini della città del Vaticano ed ottenendo, in cambio, una grande influenza all’interno dello Stato Italiano, la quale consisteva nella definizione di stato cattolico e non più laico, nell’obbligatorietà dell’insegnamento della religione a scuola, nel riconoscimento dei valori civili del matrimonio religioso e nell’autorizzazione a mantenere in vita l’Azione Cattolica, un’organizzazione volta all’educazione religiosa dei giovani.

LA POLITICA ECONOMICA
Per quanto riguarda l’economia, dal 1922 al 1926 i fascisti avevano portato avanti un’ideologia liberista, volta ad appoggiare gli imprenditori che avevano appoggiato il Partito Fascista. Dal 1926, però, Mussolini dichiarò di voler creare in Italia un sistema economico del tutto nuovo e propose quella che definì “la terza via”, ovvero un’alternativa al comunismo ed al capitalismo. Questa prevedeva la formazioni di Corporazioni, formate da datori di lavoro e dipendenti, le quali davano le direttive dell’economia. Ben presto, però, divennero organismi statali a cui facevano capo le organizzazioni degli imprenditori e dei lavoratori, i cui obiettivi volevano essere la risoluzione dei conflitti tra capitale e lavoro e la gestione diretta dell’economia da parte de;;e categorie produttive. In realtà, però, il modello corporativo non venne pienamente realizzato e solo l’intervento diretto dello stato nell’economia riuscì a risollevare la crisi in cui si trovava l’Italia.
Un’importante introduzione di Mussolini fu l’operazione “quota 90”, che ribassava il cambio lira/sterlina, così che la moneta italiana non si trovasse più nella condizione di debolezza che sfavoriva largamente le importazioni, incrementando l’inflazione, soprattutto perché l’Italia era ricca di industrie di trasformazione. Mussolini tese a diminuire le importazioni di prodotti finiti e rafforzare la produzione interna di grano e la “quota 90” era necessaria per abbassare i costi di produzione, ma comportò la diminuzione dei salari, che andò a colpire i ceti più bassi, i quali pagarono il prezzo della deflazione. Il controllo dei prezzi che ne derivò era volto alla tutela dei piccoli risparmiatori e dei settori industriali più forti, cosicché Mussolini poté ricevere i consensi anche della piccola borghesia, oltre, ovviamente, ad imboccare facilmente la strada di un rigido protezionismo economico, nel quale lo stato si assunse il compito di gestire intere branche produttive e di controllare il sistema bancario attraverso un proprio ente di gestione.

LA POLITICA ESTERA
Per quanto riguarda la politica estera di Mussolini, questa era volta a creare un’Italia competitiva all’estero, che poteva contare su una moneta forte. Mussolini si dedicò quindi ad una politca espansionistica, mirando alla creazione di un sistema imperialistico: in particolare, voleva conquistare l’Etiopia, uno stato africano libero. L’operazione di conquista iniziò nel 1935 con un’aperta aggressione. Francia ed Inghilterra chiesero alla Società delle Nazioni di imporre all’Italia sanzioni economiche che si manifestarono con il divieto di vendita allo stato italiano di materiali bellici, anche se questo provvedimento non svantaggiò l’Italia, poiché non intaccò il mercato delle materie prime. All’interno del Paese, invece, Mussolini ottenne l’appoggio di tutta la popolazione (anche di un famoso antifascista, Benedetto Croce), poiché esaltava lo spirito nazionalistico. Tra il 1935 e il 1936 ci fu una prima sconfitta dell’esercito etiope, e dal punto di vista ideologico la conquista dell’Etiopia significò molto per Mussolini, che poté dimostrare agli italiani la sua capacità di far imporre l’Italia contro il volere di Inghilterra e Francia.
Un altro importante obiettivo che si era prefisso Mussolini, era l’avvicinamento alla Germania hitleriana, che si concretizzò con la firma del patto “Asse Roma-Berlino” nel 1936: questo prevedeva un comune indirizzo di politica estera europea e sanciva la fine del sistema di equilibri creatosi nella seconda metà degli anni ’20 per la definizione di un blocco di stati fascisti volti a creare un’egemonia in Europa. L’alleanza potè subito concretizzarsi con il sostegno delle truppe nazionaliste del generale Franco nella Guerra Civile Spagnola.

Esempio