Tutto su Leopardi

Materie:Tesina
Categoria:Letteratura

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Testo

GIACOMO LEOPARDI
Giacomo Leopardi nasce a Recanati nel 1798, dal conte Monaldo e Adelaide Antici. Nel 1803 l’amministrazione dei beni familiari è tolta al padre, che si ritira quindi in una velleitaria attività di letterato dilettante, e passa nelle mani della madre. L’atmosfera di casa Leopardi non è felice ed è caratterizzata dall’indole della madre, severa, bigotta e povera d’affetti. Il giovane Giacomo inizia nel 1807 gli studi con i fratelli Carlo e Paolina, inizia a comporre piccoli componimenti poetici e cerca un proprio spazio autonomo all’interno di un’educazione di chiaro stampo controriformistico. Tra il 1813 e il 1816 inizia da solo lo studio del greco; si dedica a ricerche erudite e a varie indagini filologiche sorprendentemente rigorose e precise. Politicamente sposa le idee ultralegittimiste del padre. Nel 1817 pubblica sullo «Spettatore» l’Inno a Nettuno, fingendo trattarsi della traduzione di un originale greco, e due odi apocrife in greco, presentate come autentiche. Inizia la sua amicizia epistolare con Pietro Giordani ed inizia lo Zibaldone, il grande diario intellettuale che continuerà sino al ‘32. Nel 1818 si conclude la sua conversione politica che lo porta a diventare un patriota repubblicano e democratico. Nel 1819 le cagionevoli condizioni di salute lo obbligano a sospendere gli studi; tutto ciò è una spinta a chiarire la propria condizione di solitudine, di noia, e a maturare il suo pessimismo ancora indeterminato. È in questo periodo che scrive L’infinito e Alla luna. nel 1820 continuano le composizioni poetiche come, ad esempio, La sera del dì di festa. Nel 1822 si reca a Roma, il primo viaggio fuori da Recanati: rimarrà molto deluso. Nel 1823 ritorna a Recanati dove analizza la decadenza nazionale e gli effetti nefasti della Restaurazione. Nel 1824 scrive la maggior parte delle Operette morali e l’anno dopo parte per Milano, dove prende contatto con l’editore Stella, e poi passa a Bologna. Nel 1827 si trasferisce a Firenze dove conosce Alessandro Manzoni; i due non si capiranno, troppo diversa è l’indole personale. Nel 1828, finiti i mezzi di sostentamento, dopo aver composto A Silvia, è costretto a far ritorno a Recanati. Nel 1829 compone: Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il Sabato del villaggio. Poco dopo aver concluso il Canto notturno, nel 1830, torna a Firenze ed inizia l’amicizia con un esule napoletano: Antonio Ranieri. Nell’aprile 1831, durante i moti dell’Italia centrale, escono i Canti per l’editore Piatti. Nel 1833 Giacomo si trasferisce con il Ranieri a Napoli; i due vivono in condizioni economiche estremamente precarie. Nel 1835 escono i Canti per l’editore Starita di Napoli; vi compaiono nuove poesie tra cui Il passero solitario e il cosiddetto ciclo di Aspasia (Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia). Muore, a 39 anni, nel 1837 a Napoli durante un’epidemia di colera: il Ranieri a stento riesce a sottrarne il corpo alla fossa comune.
INTRODUZIONE AL PENSIERO FILOSOFICO
Che Leopardi sia poeta nessuno l’ha messo in discussione. Che sia anche filosofo, invece, è stato oggetto di acceso dibattito. Alla base c’è il fatto che egli ha scritto di filosofia e, per così dire, da filosofo: sullo Zibaldone troviamo tanti e tali pensieri sull’anima, la metafisica, la religione, la società, la natura, la morale, e via dicendo, che l’opera, ancorché disorganica e non sistematica, ben potrebbe configurarsi come trattato filosofico. Né si può dire che manchi a Leopardi lo stile filosofico, perché alcune sue pagine, specie quelle relative alla teoria del piacere, sono di tale rigore e oggettività che sembrano stilate dalla penna di un Locke o di un suo seguace.
Ma non tutti i critici sono d’accordo su questo punto. Il vecchio filone della cultura laicista italiana, da De Sanctis a Croce, nega la filosofia di L., ritenendola scarsamente significativa, non originale né profonda.
Per Francesco De Sanctis (cfr. Schopenhauer e Leopardi), interessato all’uomo e all’artista, essa esprime un superficiale pessimismo, contraddetto dalla poesia, l’unica sua produzione genuina e profonda; il L. filosofo, che odia la vita, con la sua poesia ce la fa amare: "La vita rimane intatta quando ci sia la forza d’immaginare, di sentire e di amare: che è appunto il vivere. Dice l’intelletto: l’amore è illusione, sola verità è la morte. E io amo e vivo e voglio vivere. Il cuore rifà la vita che l’intelletto distrugge". Vera poesia è l’idillio, che è mera espressione del sentimento; l’elemento raziocinante è un ostacolo, un pericolo, dal quale il poeta non riesce sempre a guardarsi nei "piccoli idilli", quasi più nei Canti scritti dopo il ’30.
Benedetto Croce riprende la contrapposizione, ma restringe ancor più il campo poetico: la poesia del recanatese gli sembra oscillare tra filosofia e letteratura, quasi mai riuscendo a tenere la rotta mediana (di qui la sua sostanziale e netta stroncatura).
Una nuova linea, che rivaluta L. filosofo, è aperta nei decenni tra le due guerre. Giovanni Gentile, che legge L. con interessi filosofici, nell’intento di rivalutare le Operette morali, arriva ad affermare che L. è autentico e grande filosofo. Nel 1940 Adriano Tilgher sostiene che esiste una filosofia di L., che non è sistematica né procede per astrazioni (L. non indaga i problemi gnoseologici o metafisici); essa ora si serve di un’espressione lirica o letteraria (Canti, Operette morali), ora è comunicata in modo immediato, solitamente non elaborato, attraverso lo Zibaldone.
Nel dopoguerra si assiste ad un sostanziale rinnovamento degli studi leopardiani, grazie prevalentemente agli apporti della critica storicistico-marxiana, la quale mette in risalto l’ultimo L. (la produzione posteriore al ’30), sostenendo l’eccellenza del poeta impegnato e progressivo contro quello isolato e solitario dell’idillio. Saggi fondamentali sono i seguenti: L. progressivo di Cesare Luperini (Firenze, 1947), La nuova poetica leopardiana di Walter Binni (Firenze, 1947), Alcune osservazioni sul pensiero di L. di Sebastiano Timpanaro (Pisa, 1965), La protesta di L. di W. Binni (Firenze, 1973), La posizione storica di G.L. di Bruno Biral (Torino, 1974), L. - Schizzi, studi e letture di Carlo Muscetta (Roma, 1976). Questi contributi, tutti contrassegnati da una decisa matrice ideologica, individuano una linea "eroica" del pensiero leopardiano (L. consapevolmente eroico di fronte al proprio destino), pensiero che, non elevato al rango di filosofia, non è più un ostacolo alla poesia, ma piuttosto il suo vitale nutrimento. Notevole il saggio di Umberto Bosco Titanismo e pietà in G.L. (Firenze, 1957) per il tentativo di spiegare tutto il percorso intellettuale del poeta alla luce del motivo eroico-titanico.
Infine, entro l’ambito di una critica prevalentemente stilistica si sono mosse le ricerche di Bigongiari, Getto, Ramat, Solmi e Bigi.
In conclusione, mentre per alcuni studiosi L. è un filosofo esistenziale, che si pone problemi di ordine pratico-morale (la vita ha un senso? può l’uomo essere felice? dopo la morte c’è qualcosa o con la morte finisce tutto?), la maggior parte dei critici concorda oggi nel ritenere che L. non possa essere considerato filosofo per il fatto che, pur avendone l’attitudine e i mezzi "culturali", era viziata in partenza la sua volontà di speculazione. Egli infatti, sollecitato da motivi biografici e storico-culturali (vedi sotto il punto 2), assunse sin dall’inizio un atteggiamento critico negativo nei confronti della vita e dei valori che essa esprime, considerati alla stregua di miti e illusioni. Tali convincimenti, penetrati profondamente e per tempo nel suo pensiero, ne condizionarono di fatto l’attività e gli intendimenti, cosicché, quando L. disporrà degli strumenti filosofici, se ne servirà non per sottoporre a critica razionale il suo atteggiamento di base, bensì per rafforzarlo, per aumentarne la consistenza logica e la naturale persuasione. Così facendo, però, si precludeva la via alla vera filosofia: il giudizio, se segue e scaturisce dall’analisi, è oggettivo e logicamente valido, ma se la precede diventa pregiudizio e strumentalizza e vizia gli esiti di quella.
2 - La formazione di Giacomo (1798-1816)
La genesi del pensiero di L. appare determinata da una progressiva presa di coscienza della propria infelicità. All’origine di questa si possono individuare due diversi ordini di fattori: biografico-ambientali e storico-culturali.
Tra i primi l’atmosfera affettivamente carente della sua famiglia e l’educazione retrograda e autoritaria, impartita da una madre bigotta e formalista e da un padre conservatore e chiuso; poi la formazione isolata e solitaria, da autodidatta, quello "studio matto e disperatissimo" che contribuì all’insorgere di diverse malattie croniche e alla malformazione fisica. Al gelo dei rapporti familiari vanno aggiunti lo scherno e la derisione dei concittadini, la mediocrità e la scarsa cultura dell’ambiente recanatese, la precoce sensibilità e la vivace intelligenza di Giacomo.
Motivi di ordine storico-culturale furono la crisi dell’illuminismo e l’insorgere inizialmente indistinto e confuso di nuove ideologie, la perdita d’identità e di funzione politico-civile dell’intellettuale, l’arretratezza sociale e culturale dello stato pontificio.
Né va dimenticato che il periodo storico in cui Giacomo raggiunge la maturità è l’età della Restaurazione, caratterizzata dal conflitto tra nazionalismo, liberalismo e romanticismo da una parte, cosmopolitismo, assolutismo e classicismo dall’altra. In ambito letterario nasce e si sviluppa la polemica classico-romantica attizzata dall’articolo di M.me de Stael, nella quale interviene anche L. (vedi sotto il punto 3).
Punto di partenza della speculazione leopardiana, volta a tentare di chiarire il senso della vita, è dunque il disagio esistenziale dell’autore, ovvero la sua infelicità fisica e psicologica. Tale disagio è all’origine di un pessimismo di tipo esistenziale, le cui caratteristiche si possono compendiare come segue: precoce venir meno delle illusioni e dei sogni infantili, sfiducia nella vita, sentimento (non ancora razionalizzato) di desolazione e di delusione, insofferenza verso i condizionamenti, sensazione di inutilità e di soffocamento.
3 - La fase del pessimismo storico (1816-1820)
Il pensiero leopardiano prende l’avvio da una meditazione sull’infelicità in sé, della quale vengono indagate le cause, le dinamiche e le conseguenze.
Alla base c’è la teoria dell’amor proprio (di derivazione illuministica), secondo la quale l’uomo è un essere che ama necessariamente se stesso e mira alla propria conservazione e alla propria felicità. L’altruismo è un controsenso: quando io faccio del bene ad un altro è perché provo piacere, quindi lo faccio sempre a me stesso. L’altruismo non è il contrario dell’egoismo, ma è una sublimazione dell’amor proprio, in quanto esistere significa amare se stesso, cercare la propria felicità. L’amor proprio non coincide con l’egoismo: quest’ultimo è una degenerazione dell’amor proprio causata dallo sviluppo della civiltà e dal predominio della ragione; è uno degli esiti di quel progresso storico negativo, all’indietro, che è, secondo L., il passaggio dai primitivi ai civilizzati. L’amor proprio è fonte di nobili azioni, di sacrifici eroici; l’egoismo, invece, è calcolo meschino. L’amor proprio è la volontà di potenza dei forti, l’egoismo è il calcolo razionale del debole che uccide la vita.
L. respinge le ideologie ottimistiche e le utopie rassicuranti del suo secolo, si ribella alla meschinità del suo tempo e alle convenzioni del suo ambiente, che giudica arido e gretto; rimpiange un mondo mitico di nobili virtù e di valori incorrotti, in cui gloria e fama, unici antidoti contro il grigiore della vita, erano possibili, conseguibili. Si scaglia con veemenza contro i miti dell’Ottocento, la storia e il progresso, e contro la stoltezza di un secolo che dalla filosofia della storia di Hegel fino al balletto Excelsior esalta l’uomo come creatore della realtà. Per L. si tratta di un antropocentrismo fanatico, al quale egli si oppone con forza, affermando che la storia non è progresso, ma regresso dal primitivo stato di natura, buono e felice, allo stato di civiltà, corrotto e decadente.
Nella storia del genere umano si distinguono quattro tappe:
1) l’età primitiva, quando gli uomini vivevano in uno stato di perfezione e di innocenza anteriore alla civiltà;
2) l’antichità classica, civiltà che L. ammira come sintesi equilibrata di natura e ragione (nello Zibaldone sostiene la superiorità del politeismo greco-romano rispetto alla religione cristiana);
3) il medioevo, nel giudicare il quale L. incorre nei tipici luoghi comuni dell’illuminismo (secoli bui, epoca negativa, trionfo della barbarie);
4) l’età moderna, con il predominio assoluto della ragione, la freddezza, il convenzionalismo, il calcolo, la funzionalità, in una parola la vita inautentica.
L. rifiuta il progresso civile e tecnologico, convinto che sia negativo in sé, poiché l’incivilimento è snaturamento, allontanamento dalla natura: il mondo è sempre più corrotto e non può essere corretto. Netta, quindi, per L. l’antitesi tra la remota grandezza e la miseria morale e materiale odierna.
L’antagonismo di L. con gli orientamenti spirituali e culturali del proprio tempo si manifesta anche nell’impegno in favore dei classicisti, i quali devono assolvere il duplice compito di riproporre i valori classici, che hanno funzione liberatoria e di stimolo delle coscienze, e di scrivere per il proprio tempo (= alfierismo).
Causa della decadenza è la ragione, "nemica della natura", corruttrice dei costumi, madre della civiltà e della società con tutti i loro egoismi, distruttrice del rimpianto mondo eroico. Sogno è ritrovare la "favilla antica", cioè la vivacità dell’immaginazione, la forza delle illusioni, la vitalità dell’ieri contro la delusione dell’oggi, attraverso il meccanismo della ricordanza.
Come già il Foscolo, anche L. avverte la necessità delle illusioni (gloria, amor proprio, amor di patria, libertà, onore, virtù, amore per la donna), che sono secondo natura e costituiscono l’unico antidoto agli effetti della civiltà e della ragione, i quali hanno guastato il mondo moderno, "tristissimo secolo di ragione e di lume"; e come il Foscolo nei Sepolcri, così anche L. concepisce la poesia come stimolatrice di illusioni.
Tutta la storia del genere umano è la storia della lotta tra la felicità e il vero, tra l’illusione e la realtà, tra la vita e il sogno. La realtà è banale e cattiva, vere sono solo le illusioni, ossia le speranze, di cui l’umanità si nutre e che non può abbandonare senza cadere nella disperazione. "Larve" definisce L. le illusioni in cui l’uomo crede nella sua età giovanile, ovvero in quel "sabato del villaggio" che precede il giorno più noioso che è il giorno della "festa di sua vita"; sono le illusioni che impediscono di scorgere la tragedia del vivere. E le illusioni rappresentarono veramente l’unica motivazione alla vita per l’adolescente Giacomo, che le ricorda con accenti commossi in uno degli squarci più elevati della sua lirica, i vv. 77-103 delle Ricordanze.
La realtà è illusoria: manifestando un’evidente consonanza con Schopenhauer, L. sostiene la coincidenza di vita e sogno, essendo la realtà niente altro che sogno, come scrive Calderòn de la Barca. Questo concetto è ribadito nelle opere della maturità (Operette morali e Canti posteriori al ’27). Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare si legge: "Sappi che dal vero al sognato non corre altra differenza se non che questo può qualche volta essere molto più bello e più dolce, mentre quello non può esserlo mai". E il verso conclusivo di A se stesso ("l’infinita vanità del tutto") sottolinea che il vero è nemico della felicità. L. mostra qui il suo paradosso: un’educazione illuministica che si rivolta contro l’illuminismo, un illuminista antiilluminista, un uomo educato al culto della ragione (che dissipa le tenebre della superstizione e liquida come favole le verità della religione), il quale distrugge i miti stessi dell’illuminismo e afferma la superiorità rispetto al vero di ciò che è pensato, sognato e sperato. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro tale concezione è così espressa: "Si ingannano grandemente quelli che dicono e predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dall’ignoranza, e che il genere umano allora finalmente sarà felice, quando ciascuno o i più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo comporranno e governeranno la loro vita." L. nega in tal modo l’essenza, il "vangelo" dell’illuminismo: la felicità è data non dalla conoscenza del vero, bensì dalla sua ignoranza; sapere di più significa soffrire di più, e chi aumenta la conoscenza aumenta anche il dolore, come dice la Bibbia. Tutta la poesia A Silvia esprime in termini altamente lirici questa concezione.
In conclusione, la sostanza del pessimismo storico leopardiano si esprime in quattro antinomie, nelle quali il primo termine ha valenza positiva, il secondo negativa:
valenza positiva

valenza negativa
natura
vs
ragione
antico
vs
moderno
stato naturale
vs
società
illusione
vs
vero
4 - La fase del pessimismo cosmico (1823-1830)
A partire dagli anni del cosiddetto "silenzio poetico" (1823-27) L. opera un progressivo ribaltamento della concezione iniziale, giungendo a riabilitare la ragione contro la natura.
Continuando ad analizzare le cause dell’infelicità umana, egli osserva che il naturale impulso vitale è contrastato e ostacolato, a livello individuale, da un duplice limite, biologico e ontologico; a livello storico da un terzo limite, l’egoismo, che egli definisce "peste della società".
Il limite biologico consiste nell’intrinseca debolezza dell’uomo, il quale, al pari di ogni altro essere vivente, è subordinato al ciclo meccanicistico della materia. Di qui la scoperta della propria fragilità e solitudine.
Il limite ontologico è dato dall’impossibilità di essere felici: la natura genera nell’uomo una tensione irrefrenabile verso la felicità, un anelito costante al piacere, ma la felicità è irraggiungibile, giacché, in quanto tale, deve essere infinita e pienamente appagante; di conseguenza la ricerca di essa conduce inevitabilmente ad una finita e concreta infelicità. I piaceri momentanei che si provano nella vita non sono altro che una tregua relativa e passeggera dell’infelicità.
Per comprendere a fondo queste ultime affermazioni, occorre rifarsi alla teoria leopardiana del piacere, secondo la quale il piacere non né è assoluto né infinito; anzi, il piacere in sé non esiste: esiste solo nel desiderio, essendo un "subbietto speculativo", vale a dire un puro concetto. Il desiderio è immaginazione, speranza, sogno, proiettato sempre al futuro e sempre destinato ad essere deluso. Invece del piacere esistono i piaceri, intesi in senso negativo come cessazione dell’affanno, brevi momenti di assenza del dolore; concreti ed effimeri, rendono sopportabile il dolore, restituendo momentaneamente la vitalità, l’impulso vitale.
La teoria del piacere, il cui carattere è negativo, è strettamente legata alla teoria dell’amor proprio. L’amor proprio, infatti, implica la ricerca della felicità, ma questa ricerca è senza esito, non può avere fine, quindi non può mai appagarsi. L’uomo cerca il piacere sempre, ma non può accontentarsi del piacere che trova, che è finito; egli è pertanto destinato a cercare il piacere in qualcosa di sempre diverso, di sempre più alto: ciò significa che non lo trova mai. La tragicità della condizione umana è in questa ricerca dell’infinito, che conduce sempre allo scacco.
Il piacere è sempre sperato, mai posseduto, sempre futuro, mai presente: esso sfugge sempre. Non esistendo e non potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente e nella speranza o aspettativa che ne segue. In base a questa teoria il concetto di piacere è negativo, quello di dolore è positivo, per cui si può dire che il piacere è la mancanza del dolore, ma non si può dire che il dolore è la mancanza del piacere, ovvero di qualcosa che non esiste. Il concetto è espresso poeticamente nei seguenti versi tratti da La quiete dopo la tempesta:
Piacer figlio d’affanno;
Gioia vana ch’è frutto
Del passato timore (…).
... ...
Uscir di pena
È diletto fra noi.
Pene tu (= la Natura) spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, è gran guadagno.
È questa la concezione del piacere negativo, perché, se per caso cessa il dolore, di cui il piacere è la negazione, non subentra il piacere, ma qualcosa di peggio, che nella dialettica di L. è la noia. Il dolore, infatti, non esclude che l’uomo cerchi e speri di superarlo, mentre la noia è angoscia e disperazione. E allora, per L. come per Schopenhauer, la vita oscilla inarrestabilmente come un pendolo tra il dolore e la noia, in un eterno meriggio privo di tramonto ristoratore.
Il limite storico è dato dalla inconciliabilità di individuo e società, tra i quali si determina uno scontro di egoismi. L’atteggiamento dei singoli è antisociale: ognuno cerca sempre di avere di più, di soverchiare gli altri, di sottomettere tutto e tutti al proprio utile o piacere. E ciò per natura. Ne consegue che tutte le società sono state cattive (superamento del pessimismo storico) e che, a causa appunto dell’egoismo e dell’aggressività umani, ci si avvia inesorabilmente alla distruzione del mondo, già data per avvenuta nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. Di qui la polemica contro l’ingenua fiducia del XIX secolo nel progresso scientifico e tecnologico, nelle macchine, nell’espansione economica, che comporta lo sfruttamento industriale e il colonialismo.
Considerati i tre suddetti limiti, L. conclude che tutto è male. Esistere equivale ad essere perennemente insoddisfatti, incontentabili, a soffrire per la propria fragilità. Il bene consiste nel non esistere. Responsabile del male è la natura, non più vista come provvida e benefica madre, bensì come causa dell’infelicità umana. Essa con l’esistenza ci dà i germi dell’infelicità, essendo l’insopprimibile bisogno di felicità destinato a restare insoddisfatto.
Documenti (testi che testimoniano la rottura del rapporto con la Natura):
a. La sera del dì di festa (idillio, 1820);
Cfr. vv. 11-15:
… io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Commenta G. Oliva: "Il sonno silenzioso e tranquillo della donna si fa metafora di una indifferenza ben più dolorosa per il L.: quella della Natura, che mostra agli uomini il suo aspetto più delicato (il cielo, che sì benigno appare in vista) solo per nascondere la sua malvagia crudeltà".
b. Ultimo canto di Saffo (canzone, 1822);
Imperscrutabile è il destino dell’uomo; uniche certezze sono il dolore e la morte:
… i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto…
Morremo.
La Natura è beffarda, insensibile al dolore dell’uomo, intenta solo a perpetuare se stessa; come nella Sera del dì di festa cela sotto una struggente immagine di bellezza il suo disdegno (cfr. vv. 19-36). L. non sa proporre alcuna soluzione in grado di superare il dolore del mondo; l’assurdo non può essere vinto, ma solo accettato come tale. L’uomo non può sperare di vincere il nulla, da cui è sorto e a cui farà ritorno, ma può solo identificarsi con esso in un’operazione che ricorda quella orientale del "nirvana", dell’annullamento.
c. Zibaldone (dal 1821);
Nella sua condanna della Natura il L. rifiuta qualsiasi provvidenzialismo, qualsiasi consolazione religiosa, qualsiasi soluzione irrazionale; al contrario, rivaluta pienamente la ragione: è la ragione che disinganna e guida l’uomo alla vera sapienza, che consiste nel prendere coscienza della propria inutilità; è la ragione che "atterra" (cioè riporta sulla terra dal cielo della metafisica) l’uomo e lo pone davanti all’ arido vero; è la ragione, infine, che scopre che tutta l’umanità è accomunata da un unico e identico destino (superamento del pessimismo individuale e psicologico).
d. Dialogo della Natura e di un Islandese (O.M., 1824);
Ogni tentativo di agonismo è votato a disfatta: la Natura è invincibile ed è indifferente alla felicità o meno dell’uomo. L’universo è dominato dall’irrazionalismo e dal casualismo: non c’è una ragione, un senso; non c’è un fine, una creazione, un orientamento; tutto è abbandonato al caso. Del tutto inutile è la ricerca di un significato: la Natura non dà risposte. L’estrema domanda dell’Islandese ("Dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?") rimane senza risposta.
e. Cantico del gallo silvestre (O.M., 1824);
L’essere esiste, ma non c’è nessuna ragione perché esista anziché perché non esista; la vita non ha senso, né ha alcun senso la realtà. I positivisti, che collegavano il pessimismo di L. alle sue condizioni fisiche, nel centenario della nascita ne riesumarono il corpo per misurarlo ed espressero la tesi che egli, essendo infelice e gobbo, doveva diventare fatalmente pessimista. Ma tale tesi è del tutto insostenibile: il pessimismo di L. non è di ordine psicologico, bensì cosmico, poiché riguarda la realtà tutta, non solo l’uomo, né tanto meno l’uomo Giacomo Leopardi. Il quale, nella pagina più terribile delle Operette morali denuncia il radicale non senso della realtà. Si tratta della parte conclusiva del Cantico del gallo silvestre: "Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi".
f. A Silvia (idillio, 1828);
La Natura tradisce, è matrigna, non mantiene le promesse, inganna, spegne le illusioni:
O natura, o natura,
Perché non rendi poi
Quel che prometti allor? perché di tanto
Inganni i figli tuoi?
La vita si rivela aridità e disillusione:
All’apparir del vero
Tu, misera, cadesti: e con la mano
La fredda morte ed una tomba ignuda
Mostravi di lontano".
g. Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (idillio, 1830).
Il desiderio di sapere la verità non è appagato; uniche certezze il vuoto e il nulla; l’esistenza è assurda. "Perché siamo nati?". A questa domanda L. risponde: "Per mostrare che era meglio che non nascessimo affatto": per questo, non appena un bambino è nato, noi prendiamo a consolarlo dell’essere venuto al mondo. E forse la definizione più precisa del pessimismo cosmico, del non senso dell’essere, si trova in questa grande lirica, che è stata chiamata l’"anti Divina Commedia", perché, se la Divina Commedia è senso dell’ordine, della provvidenza, della finalità, il Canto notturno, all’opposto, esprime una visione della vita improntata ad un totale casualismo. Effetto di questa presa di coscienza è il tedio, la noia, definita "la più sterile delle passioni umane", "figlia della nullità e madre del nulla", ma anche "il più sublime dei sentimenti umani". Essa è tormento, è l’esaurirsi del mito vitalistico, è privazione del desiderio, è coscienza dell’inutilità del tutto; ed è sentimento nobile, perché distingue gli spiriti più sensibili e dotati. In questo risiede la grandezza dell’uomo.
In conclusione, una valida sintesi delle concezioni su cui si fonda il pessimismo cosmico di G.L. può essere la seguente:
1. L’uomo nasce per il dolore e la gioia è cessazione momentanea dell’affanno.
2. Dal punto di vista dell’uomo (piano esistenziale) tutto l’universo sembra cospirare contro di lui. Da quello dell'’ssoluto (piano metafisico) la vita è un processo naturale che alterna gli esseri attraverso la generazione e la morte.
3. La natura, intesa come forza bruta e malefica, è responsabile della nostra sventura.
4. L’uomo conosce il suo destino, ma ciò lo rende infelice, poiché da questa comprensione egli viene ricondotto in se stesso, alla sorgente prima della sua infelicità, che è il suo stesso esistere. Perciò la morte è l’unico rifugio per il vivente.
5 - L’ultimo Leopardi: il pessimismo eroico (1827-1837)
Dopo il definitivo addio a Recanati del 30 aprile 1830 il pensiero di L., sia sul piano ideologico sia su quello etico, fa registrare una svolta (anticipata dal Dialogo di Plotino e di Porfirio del 1827) nel senso di un superamento della visione materialisticamente negativa e nichilista maturata nella fase del pessimismo cosmico, per un messaggio agonistico positivo (di difficile comprensione e attuazione, perché "non apprezzato in questo secolo").
Le ragioni di tale svolta sono molteplici e si possono sintetizzare nei punti seguenti:
• L’amicizia, per quanto effimera, con i liberali toscani dell’ Antologia.
• La fallimentare esperienza dell’amore (ultima delusione in ordine di tempo il rifiuto ottenuto da Fanny Targioni Tozzetti, che fu all’origine del Ciclo di Aspasia).
• I contrasti con gli spiritualisti napoletani dopo il trasferimento a Napoli in casa di Antonio Ranieri.
• L’assidua pratica della filologia, improntata a severo rigore scientifico, nella ricerca di risposte non evasive né fideistiche al dramma esistenziale.
• La scoperta del linguaggio satirico come strumento espressivo del titanismo e del pessimismo.
• La lettura di Epitteto (filosofo stoico greco, autore del Manuale) e di Teofrasto (discepolo di Aristotele, propugnatore dell’empirismo materialistico).
• Il superamento dell’etica stoica e dell’atteggiamento apolitico (dall’atarassia alla partecipazione).
• L’esigenza di un atteggiamento eroico e di una morale costruttiva, fondata esclusivamente sull’uomo e aliena dal trascendente.
Nel ricostruire, attraverso i documenti, le tappe di questa fase del pensiero leopardiano, troviamo nel Dialogo di Plotino e di Porfirio del 1827 la prima espressione della necessità di una solidarietà umana di fronte al destino. Il dialogo, incentrato sul tema del suicidio e volto a chiarire le ragioni che lo respingono come soluzione al dramma esistenziale, si conclude con un‘appassionata esortazione rivolta da Plotino all’amico: "Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve. E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora."
Due anni più tardi L., in una famosa pagina dello Zibaldone, dissipa con forza i sospetti di misantropia di cui era fatto oggetto il suo pensiero: "La mia filosofia non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbero esser chiamati né creduti misantropi, portano però cordialmente ai loro simili (…). La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera dei mali dei viventi."
Ma L. non trova rispondenza né comprensione nella classe politica e intellettuale del suo tempo, la quale professa fiducia nelle magnifiche sorti e progressive. Contro l’ottimismo storicistico del secolo, che egli giudica stolto, e contro lo stesso impegno politico e legislativo, che egli vede animato dalla sterile e ridicola pretesa di procurare agli stati il benessere e la felicità ignorando le reali esigenze degli individui, L. intraprende una vigorosa crociata solitaria. In una lettera al Giordani del 1828 scrive: "Mi comincia a stomacare il superbo disprezzo che qui si professa di ogni bello e di ogni letteratura: massimamente che non mi entra poi nel cervello che la sommità del sapere umano stia nel saper la politica e la statistica. Anzi, considerando filosoficamente l’inutilità quasi perfetta degli studi fatti dall’età di Solone in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la felicità dei popoli, mi viene un poco da ridere di questo furore di calcoli e di arzigogoli politici e legislativi; e umilmente mi domando se la felicità dei popoli si può dare senza la felicità degl’individui." La polemica di L. è particolarmente dura contro il liberalismo cattolico e moderato, come attesta la satira dei Nuovi credenti, e la sua condanna coinvolge ogni tipo di conformismo, sia reazionario, sia liberale.
Negli ultimi anni L. abbandona il pessimismo più "metafisico" per acquisire un atteggiamento più "relativistico", fondato sul riconoscimento di un doppio piano della verità, quello dell’"ordine delle cose" e quello del "modo dell’esistenza", e, di conseguenza, di una duplice matrice del dolore. "C’è il dolore che deriva dall’ordine delle cose, dunque legato all’essenza stessa della vita e, come tale, è ineliminabile se non a costo della rinuncia alla vita stessa (si tratta del dolore inflitto all’uomo dai "mali esterni", ai quali non ci si può sottrarre: malattie, eventi atmosferici, cataclismi, deperimento dovuto a vecchiaia). C’è poi un altro tipo di sofferenza, che invece rimanda al mondo dell’esistenza, cioè alla qualità della vita, alla storia, alla cultura. Questo secondo tipo di dolore può essere invece combattuto e rimosso in quanto dipende non dalla natura, ma dall’uomo: di qui il recupero del vitalismo e la scoperta, da parte della poesia leopardiana, della dimensione sociale.
Il male storico dipende dal libero sfogo dell’egoismo umano: noi viviamo tutti per la morte e, anche se accomunati dalla stessa miseria della vita e dall’odio implacabile della Natura, tendiamo a contrapporci l’un l’altro per desiderio di affermarci, voglia di prevalere, che sono la manifestazione degli istinti più bassi. Così accresciamo il già grande male di vivere. Ma l’uomo è essere razionale, soggetto di cultura, dunque può controllare i bassi istinti, che sono fondamentalmente antisociali, e produrre valori alternativi come la compassione, la solidarietà, l’amicizia, che invece fondano la società. E’ questo il compito della ‘filosofia dolorosa ma vera’, che riconosce francamente il male della vita e mostra concretamente come esso possa essere mitigato. Questo è il compito del nuovo poeta, che così recupera la funzione di vate al servizio tanto della verità quanto dell’intera umanità e si fa promotore di autentica cultura e autentico progresso sociale."
L’etica della solidarietà è il tema centrale della Ginestra, concepito come un messaggio indirizzato sia ai contemporanei sia ai posteri: si impone una grande alleanza fra tutti gli uomini, una social catena che coalizzi i mortali contro l’empia Natura e abbia il coraggio della verità, rifiutando l’idea di una Provvidenza e le superbe fole del secol superbo e sciocco.
Il messaggio finale di L. è frutto di un razionalismo irriducibile. Progressismo e pessimismo convivono in quest’ultima fase del suo pensiero, caratterizzata dalla speranza che la riconquista del giusto sapere sia il fondamento di una società nuova, costruita con le sole forze umane.
INTRODUZIONE AI PARALIPOMENI
A cura di Giuseppe Bonghi
Leopardi scrive questo poemetto satirico di otto canti in ottave, presentandolo come continuazione del poema pseudomerico Batracomiomachia, che era stato tradotto per ben tre volte dal Leopardi:
1815 La guerra dei topi e delle rane
1821-1822 Guerra de' topi e delle rane
1826 Guerra dei topi e delle rane
Leopardi finge che il poema sia tratto da antiche pergamene e che sia all’improvviso interrotto e non continuabile, per quanto abbia interrogato le antiche fonti.
Incerta è la data di composizione del poemetto, che sicuramente non viene cominciato prima del 1831, e questo lo si può dedurre dall’accenno alla sconfitta dei Belgi a Lovanio il 12 agosto 1831 e alla morte del Niebuhr avvenuta il 2 gennaio 1831. Quasi certamente vi lavorò mentre si trovava a Napoli nel 1834 e vi lavorò fino alla morte lasciandolo incompiuto, nel senso che non riuscì a dargli una veste definitiva. In una lettera scritta l’11 dicembre 1846 da Giuseppe Giusti a Vincenzo Gioberti.
Dei Paralipomeni abbiamo due copie manoscritte: una è fra le carte napoletane ed è di mano di Antonio Ranieri (ma il primo canto è di mano del poeta); l’altra è fra le carte che il Ranieri lasciò alla biblioteca nazionale di Napoli, ed è interamente di mano del poeta. Fu pubblicato per la prima volta nel 1842 a Parigi, per i tipi della Libreria europea di Baudry.
Con i Paralipomeni Leopardi scrive dei suoi tempi, ma erano tempi legati a un certo immobilismo: la napoletanità di Topaia, la città-stato dei Topi lo dimostra. Ma ne parla in modo letterario, lontano dai veri problemi sociali e politici che affannavano l’epoca della Napoli che lui ha conosciuto negli ultimi anni della sua vita, che non gli entrerà mai dentro e della quale conoscerà a malapena certi aspetti esteriori, riassumibili nelle vicende di Pulcinella e Colombina, che venivano rappresentati dai teatranti di strada col teatro dei pupi, unico divertimento della gente che si accalcava davanti al teatrino e partecipava in modo diretto alle vicende con incitamenti e richieste che spesso cambiavano la stessa vicenda come in una specie di "Commedia dell'arte" . È vero che i Topi sono i liberali italiani, le Rane i papalini e i Granchi i reazionari austriaci e l’autore crede di essere il Malpensante, il personaggio Assaggiatore, cioè l’uomo antiretorico e anticonformista, ma è anche vero che di quell’epoca non riesce a cogliere né la realtà storica né la realtà umana della gente che lo circondava, troppo assorbito forse dalla vasta e profondamente dolorosa vicenda personale.
I Paralipomeni sono un poemetto incompleto, perché manca una conclusione strutturalmente valida (troppo debole e letteraria risulta il marchingegno della trovata del manoscritto interrotto) e manca soprattutto un’idea-guida intorno alla quale far girare l’intera vicenda, che pure non manca di spunti importanti e sul piano poetico di ottave interessanti: e l’idea-guida poteva essere solo, in quei frangenti storici e la presenza dei tre gruppi Topi-Rane-Granchi, la soluzione di un’Italia unita; ma noi non sapremo mai, leggendo questo poemetto, cosa veramente Leopardi pensasse dell’Italia e della sua unificazione.
Dei Paralipomeni così scrive Novella Bellucci in Per leggere Leopardi, (Bonacci, Roma 1988, p. 194): "Con questa satira politica … Leopardi ha insegnato ai posteri una lettura certamente non conformista degli eventi prerisorgimentali, elaborata sullo sfondo di uno scenario di cui ormai l’autore ha smascherato ogni ornamento pseudoculturale o ideologico, ogni supporto aprioristico e consolatorio. Va tenuto presente che lo spirito polemico del poemetto è indirizzato verso dei destinatari concreti, i liberali in genere (molti Leopardi ne aveva conosciuti e frequentati nel soggiorno fiorentino), ma soprattutto gli spiritualisti cattolici della Napoli in cui si trovò a vivere negli ultimi anni della vita; eppure le ottave dei Paralipomeni, mentre si misurano con la polemica concreta, si situano anche in una prospettiva più generale, si riconducono al complessivo discorso poetico dell’ultimo Leopardi: sopra e oltre le vicende degli uomini, le loro micro e macro storie, incombe un "sistema" antiprovvidenziale, ugualmente indifferente a umani e bestie, impossibilitato nei suoi meccanismi essenziali a mutare o migliorare, identificabile con una natura "carnefice e nemica" o almeno non finalizzata alla cura degli eventi."
Queste parole sono apparentemente chiare, ma difficili da capire per i nostri magri studenti (avrebbe, ad esempio, almeno potuto spiegare che cosa significa supporto aprioristico e consolatorio in un autore che chiede così poco di essere consolato ma tanto di sentire vicino una presenza amica); e noi le abbiamo riportate perché ci servono per mettere in evidenza due elementi, che appartengono non solo alla comprensione di questo poemetto, ma all’intera poetica leopardiana e che possiamo così enucleare:
1) il poemetto è indirizzato realisticamente a certi gruppi di persone, i liberali che aveva conosciuto soprattutto a Firenze e gli spiritualisti cattolici di Napoli eredi delle vittoriose giornate contro la Repubblica partenopea del 1799 e che continuavano imperterriti a fare disastri politici ed economici nella Napoli della prima metà dell’Ottocento;
2) ogni cosa è sottoposta a un sistema esterno e superiore all’individuo (identificabile con la Natura matrigna) che tutto vede e a tutto provvede senza tener conto degli individui ma perseguendo fini misteriosi ai quali l’uomo è completamente estraneo e contro i quali si rende conto di essere impotente. Se estendiamo questo concetto dal piano religioso a quello politico, ci accorgiamo che in effetti la situazione non cambia: il potere politico resta qualcosa di inaccessibile all’uomo che si rende conto allo stesso modo di essere estraneo e impotente.
Ma, al di là di queste due considerazioni, assodato che questo poemetto leopardiano viene letto solo dagli studiosi e da qualche appassionato, ci dobbiamo rendere conto che Leopardi stesso vive in una realtà sociale, politica e religiosa che gli resta estranea: non è l’interprete di quella realtà, come non può esserlo il romantico in genere tutto preso dai suoi grandi ideali che appartengono a una realtà storica sicuramente più evoluta, ma solo il visionario che con la realtà tende molto spesso a scontrarsi. Il romantico lotta per un’idea, non per la realtà, lotta per la libertà come ideale non per la libertà di un popolo che è anche progresso dell’uomo e non ci può essere progresso sociale se non si cancellano privilegi che allora come ora erano forti e tenacemente legati al modo di vivere e di pensare di coloro che in qualunque modo avevano in mano le leve del potere sia a livello generale che a livello locale.
Per avere scrittori che siano anche interpreti della realtà bisognerà aspettare almeno i poètes maudits e i veristi o naturalisti, che descriveranno la realtà come credevano che essa fosse. Insomma:
a) i romantici hanno una visione personale della realtà,
b) i romantici non sono interpreti della realtà.
Personaggi del poemetto
(I nomi di alcuni personaggi appartenevano già alla Batracomiomachia)
Miratondo, un guerriero dei Topi
Mangiaprosciutti, Re dei Topi, morto in battaglia
Leccamacine, figlia di Mangiaprosciutti, sposa di Rodipane
Rodipane, sposo di Leccamacine, successore di Mangiaprosciutti per elezione e quindi per volontà popolare
Rubabriciole, figlio di Rodipane e Leccamacine, per la cui morte scoppia la guerra fra Rane e Topi
Rubatocchi, generale dei Topi, valoroso come Achille, l'unico a morire eroicamente nella battaglia contro i Granchi
Leccafondi, Conte e Signore di Pesafondi e Stacciavento (identificato con Gino Capponi o Pietro Colletta)
Brancaforte, Generale dei Granchi (qualcuno lo ha voluto identificare col generale austriaco di origine italiana Federico Bianchi, che nel maggio del 1815 sconfisse Gioacchino Murat a Tolentino)
Senzacapo, Re dei Granchi (probabile allusione a Francesco I di Lorena, diciannovesimo imperatore della casa d’Asburgo, appartenente alla dinastia iniziata da Francesco di Lorena e Maria Teresa)
Camminatorto, ministro reazionario imposto dai Granchi a Rodipane
Assaggiatore, generale, che rispecchia idee e scelte dell’autore
Riassunto del poemetto
(I numeri tra parentesi indicano le ottave)
Canto primo:
Nella guerra tra Topi e Rane, scoppiata per la morte del principe Rubabriciole, nipote di Mangiaprosciutti re dei Topi e figlio di Leccamacine, i Topi sconfitti sono costretti a una ritirata precipitosa (1-4); morto in battaglia il loro re Mangiaprosciutti, durante una sosta eleggono il valoroso Rubatocchi come capo provvisorio (5-13) e inviano il conte Leccafondi come ambasciatore al campo nemico (32-47). Lunga digressione sull’antica grandezza d’Italia (14-31).
sconfitta dei topi
riferimento alla battaglia di Tolentino (3 maggio 1815) nella quale l’esercito napoletano comandato da Gioacchino Murat fu sconfitto dagli Austriaci venuti in soccorso delle truppe pontificie
fuga dei topi
terza ottava: viene paragonata a quella delle truppe pontificie nel corso della prima campagna d’Italia di Napoleone (1797), guidate dal generale imperiale Michelangelo Alessandro Colli-Marchini
fuga dei topi
quarta ottava: sconfitta degli Olandesi a Lovanio (12 agosto 1831) con una fuga interrotta dal soccorso delle truppe francesi di Luigi Filippo
nona ottava
riferimento all’episodio narrato da Senofonte nell’Anabasi, dei diecimila mercenari greci che, dopo aver partecipato alla sfortunata spedizione
Lucerniere
antico topolino filosofante, al quale è stata eretta una statua
Canto secondo:
Viaggio notturno del Conte Leccafondi (1-10) e descrizione del suo arrivo al campo dei Granchi (11-27); Brancaforte, generale dei Granchi, dapprima si rifiuta di riconoscere il mandato di Leccafondi; poi, per ordine del suo re Senzacapo, detta al conte le condizioni di pace: nomina, da parte dei Topi, di un re legittimo e insediamento di un presidio di trentamila granchi in Topaia, la capitale sotterranea dei vinti Topi e infine illustra la politica del suo sovrano, basata sui princìpi dell’equilibrio e del diritto d’intervento (28-46). Da notare che nelle ottave 30-39 è satireggiato il principio dell’equilibrio europeo, obiettivo della politica austriaca posteriore al congresso di Vienna.
Topaia
La città stato dei Topi, identificabile con la città di Napoli e/o col Regno di Napoli
Mezzofanti
cardinale Giuseppe Gaspare Mezzofanti (1774-1849), famoso poliglotta, professore all’Università di Bologna (sembra conoscesse una ventina di lingue)
Brancaforte
Generale dei Granchi (qualcuno lo ha voluto identificare col generale austriaco di origine italiana Federico Bianchi, che nel maggio del 1815 sconfisse Gioacchino Murat a Tolentino): è comunque l’emblema del militare austriaco rozzo e ottuso
Senzacapo (ott. 26)
probabile allusione a Francesco I di Lorena, diciannovesimo imperatore della casa d’Asburgo, appartenente alla dinastia iniziata da Francesco di Lorena e Maria Teresa
ottava 42
Forse c’è un riferimento alla guarnigione che l’Austria impose al Regno di Napoli nel 1821
Canto terzo
Rubatocchi, che ha condotto in salvo l’esercito dei Topi in salvo nella città-stato di Topaia (1-19), rinuncia al potere che gli viene offerto; digressione sul secolo XVI (20-34). I Topi instaurano allora un regime costituzionale ed eleggono come loro Re Rodipane, genero di Mangiaprosciutti (35-45).
Topaia
nella descrizione di Topaia Leopardi ha tenuto presente Napoli
ottava 7
Il castello di Topaia è paragonato alla città di Trevi con una lunga similitudine che si estende per tre ottave
Canto quarto
Dopo una lunga digressione satirica sui primordi della società umana in polemica con le teorie provvidenzialistiche della storia (1-25), il racconto riprende dalle elezioni di Rodipane: viene costituito un governo liberale, nel quale il liberale Leccafondi è nominato consigliere del re e ministro degli interni, e si adopera per il progresso culturale, civile ed economico del popolo (26-42. Ma Senzacapo, il re dei Granchi, non tollera questa svolta pericolosa ed invia a Topaia il suo messo Boccaferrata (43-47)0.
Senzacapo
nel ritratto di Senzacapo c’è un probabile riferimento a Francesco I d’Austria, il quale "si occupava personalmente di regolare con editti e decreti il numero e le qualità delle percosse, e la qualità della verga che era, secondo i casi, o bastone o verga di vimini. Francesco I fu veramente sonatore di violino e faceva parte di un quartetto speciale" (Allodoli)
Canto quinto
Lungo discorso (1-15) di Boccaferrata che cerca di costringere Rodipane di "legittimare" il suo potere, rifiutando la sua elezione avvenuta per volontà popolare e sancendo che il potere gli spetta per diritto dinastico. Rodipane si rifiuta (16-20) e scoppia la guerra: il popolo dei Topi approva sdegnati l’atteggiamento del suo re e si prepara allo scontro con i Granchi (21-34); ma alla sola vista del nemico i Topi fuggono e vengono sconfitti (35-48): tanto grandiosa ed epica è la descrizione della preparazione alla battaglia (basta vedere l’elenco dei personaggi mitici nominati). L’unico a non fuggire è Rubatocchi, contro il quale si rivolgono le schiere nemiche: dopo il tramonto del Sole, quando il buio è ormai completo, cade "ma il suo cader non vide il cielo".
Canto sesto
Cade Topaia e cade il suo regime liberale (1-6): Camminatorto, il ministro reazionario che i Granchi impongono a Rodipane, abroga tutti i provvedimenti che aveva preso l’illuminato Leccafondi (7-13). A Topaia i Topi cominciano a tramare congiure velleitarie, mentre Leccafondi viene esiliato (14-23); durante la tempesta in una notte d’autunno trova rifugio nel palazzo di Dedalo (unico personaggio umano del poema) (24-36), che lo ospita generosamente e al quale narra le sue peripezie, come Enea a Didone (37-45).
Canto settimo
Ritratto di Dedalo che fa vedere a Leccafondi la sua biblioteca e le opere antiche e moderne dei Topi (1-7), convinto assertore dell’immortalità dell’anima delle bestie, guida Leccafondi verso l’Averno degli animali. Muniti di ali, i due sorvolano la meta Europa, Asia e Africa rappresentate in età preistorica (20-31) e infine raggiungono l’Averno degli animali (32-51).
Canto ottavo
Leccafondi discende nell’Averno dei Topi (1-19) e a fatica riesce a strappare un consiglio ai Topi defunti: rientri in Topaia e si rivolga al vecchio e prode generale Assaggiatore (20-31). Tornato in patria, il conte interroga più volte invano il generale (32-41); finalmente egli parla ma le sue dichiarazioni non possono essere riferite perché proprio a questo punto s’interrompe il manoscritto sul quale il poeta finge di aver condotto la sua storia (42-46) e più a nulla vale la conoscenza celata in mille biblioteche e in tante lingue diverse, antiche o moderne.
"Sotto le vesti animalesche si nascondono i contendenti dei moti risorgimentali dal 1821 al 1831, con particolare riferimento alle vicende napoletane: i topi sono liberali, le rane rappresentano i conservatori (con specifica allusione alle truppe pontificie), i granchi invece rappresentano gli Austriaci. Resta fondamentale il giudizio espresso sul poemetto da Vincenzo Gioberti (cfr. Il gesuita moderno, vol. III, Losanna, Bonamici 1847, pag. 484): "I popoli italiani sono forse educati alle grandi imprese? Il Leopardi verso la fine della sua vita scrisse un libro terribile, nel quale deride i desideri, i sogni, i tentativi politici degl’Italiani con un’ironia amara che squarcia il cuore, ma che è giustissima. Imperocchè tutto ciò che noi abbiam fatto in opera di polizia da un mezzo secolo in qua è così puerile, che io non vorrei incollerire contro gli stranieri quando ci deridono se anch’essi non fossero intinti più o meno della stessa pece".
Alla fine resta la penosa impressione dell’esercito dei Topi che, schierato e pronto ormai per la battaglia, all’improvviso si slancia in una irrefrenabile fuga e giunge ad accalcarsi davanti alle quattro sole porte d’entrata nella città di Topaia, raggiunto e inesorabilmente decimato dall’esercito dei Granchi, dopo che era stato abbattuto l’ultimo eroico inutile baluardo, rappresentato dalla figura del generale Rubatocchi: una morte tanto eroica quanto farsesca se si pensa alla contemporanea oscena fuga del suo esercito.
Proprio le due dicotomie eroismo-farsa e storia-apparenza, introducono alla dicotomia più interessante presente nel poemetto e che affonda le sue radici nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese, quella fra potere regio e potere popolare, che così male era rappresentata dall’esercito francese in Italia, sia per quanto riguarda le esperienze infelici di Monaldo Leopardi, sia per le esperienze altrettanto infelici dei tempi di Giacomo; proprio quest'ultima dicotomia è ben rappresentate dalla presenza di Boccaforte che cerca di obbligare Rodipane a cambiare la legittimità della sua elezione da popolare in una più tradizionale, quella del potere che deriva dal diritto divino.
INTRODUZIONE ALLE OPERETTE MORALI
A cura di Giuseppe Bonghi
Le Operette Morali, progettate sin dal 1820 in un progetto "vago e sovrabbondante", con l'idea di riprendere il genere dei Dialoghi dello scrittore greco Luciano, vengono scritte nel 1824 (le prime venti) e stampate a Milano dall'editore Angelo Stella nel 1827, dopo che tre di esse erano uscite nel 1826, due sul numero di gennaio dell'Antologia (Dialogo di Timandro e di Eleandro, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare e Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez) del Viesseux e successivamente su due numeri del Nuovo Ricoglitore.
L'edizione completa con l'aggiunta delle ultime quattro scritte negli ultimi anni, uscirà nel 1835 a Napoli presso l'editore Saverio Starita, un'edizione che non ottenne il permesso di pubblicazione ufficiale, ma che ebbe lo stesso un buon successo. Nelle Operette Leopardi esprime la sua diagnosi della realtà, trattando la sua visione con assoluta libertà proprio assumendo le vesti più disparate dei personaggi dei suoi Dialoghi, che discutono con i morti o sono semplicemente animali domestici come il gallo silvestre; guida i suoi lettori verso traguardi noti a lui solo, a scoprire la vera essenza del quotidiano, quasi anticipando l'analisi umoristica pirandelliana, facendoci vedere l'altro aspetto della realtà, non quello più nascosto, ma quello più difficile da cogliere se si analizzassero le cose col solito modello di pensiero. Invita i lettori a svestorisi del proprio modo di pensare per vedere non dentro le cose (un'operazione che tutti fanno), ma dalla parte opposta e simmetrica, a sentire l'altro suono della campana.
Il ricorso alla fantasia della rappresentazione non si scontra mai con l'analisi della realtà, non è un'operazione dell'immaginazione, ma della logica seguendo strutture di ragionamento diverse, come diverse sono le epoche in cui sono situati i personaggi, come diversi sono i modi di pensare e di vedere: ma tutti dovrebbero condurre a una sola unità d'intenti, a una sola visione, agli stessi valori ed ideali, eliminando arrivismi ed egoismi che tutto distruggono.
Analizzando proprio il Dialogo cancellato dal poeta possiamo capire come i grandi valori sociali (la patria, l'onore) siano diventati la ricchezza sfrenata, i divertimenti, la voglia di primeggiare. Le Operette esprimono la meditazione leopardiana sulla condizione umana sospesa tra passato e presente, tra aspettative naturali e realizzazione pratica, sul destino, sull'aspirazione di ogni uomo a una felicità che sembra raggiungibile nella prima giovinezza ma che si rivela ad ogni anno che passa (Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere) sempre più un sogno impossibile; non a caso si aprono con la Storia del genere umano, in cui Leopardi rappresenta la successione delle tappe della sua storia spirituale che riflette quelle della storia del genere umano in generale, e si chiudono con il Dialogo di Tristano e di un amico che rappresentano la "virile attesa della morte, solo rimedio all'inutile miseria della vita... sottolineando così la sua solitudine e il coraggio con cui ricercava il vero, fra gli uomini che preferivano banali e confortanti illusioni. Scritte nel 1824, rappresentano la presa di coscienza del crollo delle sue illusioni giovanili, tornando a Recanati, il "natìo borgo selvaggio", dopo che fiducioso tre anni prima era corso incontro al mondo allontanandosi da casa, in cui gli sembrava impossibile vivere e raggiungere un'accettabile condizione di vita felice.
L'ironia che le pervade non sono una ricerca spirituale di distacco dall'amarezza che la materia trattata gli infonde, ma sono la scoperta del senso fondamentale della vita che si nasconde dietro le banali apparenze quotidiane della cultura e dei modi di vivere. Proprio questa scoperta sarà alla base della sua grande poesia a partire dal 1827. É una scoperta dolorosa, ma rappresenta anche l'accettazione del male della vita, esclusa da ogni speranza di bene o contento, come dirà nel Canto notturno, che altri forse avrà, ma che lui non potrà mai raggiungere perché questa è la condizione umana.
Le domande che si pone, e che scaturiscono dai Dialoghi, rimangono senza risposta; il dialogo stesso diventa fittizio e apparente, perché resta un monologo che scaturisce dai due aspetti della realtà che lo affascina e lo intristisce, una, quella dell'apparenza, che l'uomo vive nella fiduciosa giovinezza, nel momento in cui le cose appaiono, e l'altro che si afferma all'apparir del vero.
Per questo le Operette rappresentano un punto di partenza fondamentale per la formazione umana e sociale dell'uomo moderno, lontano da tutto ciò che impoverisce l'esistenza umana, appiattendola su apparenze vuote o sospingendola verso chimeriche forme di vita ultraterrena; in esse il poeta tocca e rivela i più profondi motivi del nulla, della noia-angoscia, della vita come morte, senza mai cadere nel patetico, ma sempre stimolando l'energia virile dell'uomo ad affrontare l'esistenza con il coraggio che deve portare alla ricerca della verità.
Biografia
di
Giacomo Leopardi
Prima parte
"Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo."
Così scriveva di sé Leopardi nello Zibaldone mentre si trovava in Firenze il 23 luglio 1827, quando stava per cominciare la sua grande stagione poetica.
Spesso ha cambiato città: Roma, Bologna, Milano, Firenze, Pisa, Napoli e ovviamente Recanati le città nelle quali ha abitato e lasciato una traccia evidente del suo passaggio, mai naturalizzato in luogo alcuno, neanche nella sua Recanati, di cui sentiva una vaga nostalgia quando si trovava lontano, ed è la stessa nostalgia che soffrono gli esuli quando si trovano lontano dalla patria, perché viene a mancare qualcosa che sia in grado di dare veramente sicurezza. L'esule, come dicono i francesi, sarà sempre un déraciné, uno sradicato, sempre legato alla terra d'origine, anche quando tutti i legami sembrano spezzati, e mai inserito veramente nella terra d'arrivo, nella quale si vive la vita come sospesi in un vuoto che non è vuoto perché c'è l'esistenza da affrontare giorno per giorno.
Leopardi vive sospeso tra la speranza di qualcosa di veramente vivo in cui trovarsi bene e realizzarsi e la disillusione creata da una realtà quotidiana che non è mai quella che si aspettava; crede che tutti gli uomini debbano essere pronti a riconoscere in lui un uomo e magari un uomo superiore, ma ben presto resta disilluso dal fatto che tutti gli uomini pensano innanzitutto a se stessi e che la solidarietà resta un fatto puramente letterario. In ogni luogo si trova privo di ogni speranza, una privazione che, succeduta al suo primo ingresso nel mondo, a poco a poco spegne in lui quasi ogni desiderio, per cui si trova "nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio, e più speranze che desiderii ec. (Pisa. 19. 1828.)". Siamo nel mese di gennaio del 1828.
Sono giorni di chiarificazione intima per arrivare a una accettabile collocazione della propria esistenza nel mondo e preparano il terreno alla poesia dei Grandi Idilli:
“Uno de' maggiori frutti che io mi propongo e spero da' miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de' miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d'altri: (Pisa. 15. Apr. 1828.) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch'io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. (Pisa. 15. Feb. ult. Venerdì di Carnevale. 1828.).”
L’INFANZIA
I PRIMI ANNI
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798, verso sera, da Adelaide dei Marchesi Antici (1778-1857) e dal conte Monaldo (1776-1847) che si erano sposati il 27 settembre 1797. Così venne scritto nel documento di nascita: Die 30 junii, 1798. – Iacobus Taldegardus Franciscus Sales Xaverius Petrus, natus heri hora 19 ex cive Monaldo quondam Iacobi Leopardi et Adelaide filia civis Philippi quondam Josephi Antici legitimis coniugibus ex hac civitate et parochia, baptizatus fuit de licentia a reverendo patre Aloysio Leopardi ex oratorio Divi Philippi. Patrini fuere Philippus Antici et Virginia Mosca Leopardi (Luigi Leopardi, Filippo Antici e Virginia Mosca erano rispettivamente zio, suocero e madre di Monaldo Leopardi).
Giacomo avrà altri undici fratelli, come afferma lo stesso Monaldo nelle sue memorie, ma molti di essi sopravvissero solo pochi giorni; importanti ai fini della storia della vita di Giacomo furono Carlo (1799-1878) e Paolina (1800-1869), che furono i compagni di gioco dell’infanzia di Giacomo e i suoi confidenti per tutta la sua esistenza, e Pierfrancesco (1813), che erediterà il maggiorasco, che continuerà la stirpe dei Leopardi, e morirà ancor giovane a soli 38 anni nel 1851, quasi della stessa età di Giacomo.
Gli ultimi anni del secolo furono molto importanti per Recanati, a causa degli scontri militari fra le truppe repubblicane francesi e quelle papaline; dal 1797 al ’99 le Marche furono occupate dalle truppe francesi, alle quali Monaldo dovette pagare tasse ingenti per le casse già abbastanza esauste della sua famiglia; all’inizio del ’99 i francesi vengono cacciati da “una grossa mano di briganti” (popolani ribelli contro il governo francese) e Recanati viene proclamata Repubblica Democratica, e, tra le altre cose, prende anche l’impegno di eliminare titoli e privilegi nobiliari (sulla falsariga di quanto era avvenuto in Francia nella notte fra il 4 e il 5 agosto 1789 con l’abolizione dei diritti feudali) e Monaldo nominato addirittura governatore. Ma una settimana dopo le truppe francesi tornano, i briganti spariscono e Monaldo resta solo ad affrontare il ritorno del nemico: viene immediatamente arrestato e dapprima condannato a morte, poi la sentenza fu tramutata in un provvedimento di demolizione del suo palazzo, infine in una grossa ammenda. Pochi mesi dopo con l’aiuto delle truppe austriache (che comprendevano soldati appartenenti a molte nazioni europee), le Marche si liberano dei Francesi che vengono infine assediati in Ancona e sconfitti. L’anno successivo, il 23 giugno, il nuovo Papa Pio VII,
Niente opponendosi al suo venire in Roma egli si imbarcò in Venezia, ed approdò a Pesaro, da dove continuando il viaggio per terra giunse in Loreto il giorno 23 di giugno. In quella sera andarono ad ossequiarlo quattro Deputati della nostra città ed io fra essi. La matina delli 25 il Santo Padre venne in Recanati. Alla pianura fra la Pittura del Braccio e il convento degli Osservanti, i marinai del nostro porto vestiti in pompa alla foggia loro, levarono i cavalli dalla carrozza, e legatovi un canape ornato pulitamente, la portarono a mano fino alla Catedrale fra gli evviva dell'immenso popolo, concorso ancora dai paesi circonvicini. La città era tutta adobbata con gusto e magnificenza sicché formava uno spettacolo molto vago. Il Papa scese alla Catedrale dove assisté alla benedizione data col Venerabile. (Monaldo Leopardi, Autobiografia)
Certamente Monaldo non è stato un oculato amministratore dei beni della famiglia; per liberarsi di un’incauta promessa di matrimonio fatta alla marchesina Diana Zambeccari di Bologna, attraverso la mediazione di un sensale, è costretto a pagare circa ventimila scudi, poi il matrimonio con Adelaide Antici, avversato da sua madre che arrivò ad inginocchiarsi davanti al figlio pur di distoglierlo dal suo proposito; quindi le avversità dell’occupazione francese e investimenti sbagliati, tanto che sei anni dopo il matrimonio Adelaide Antici prende in mano la situazione, perché gli interessi sui debiti contratti che bisognava pagare ogni anno ammontavano ormai all’intero reddito familiare. Monaldo è costretto ad accettare questa nuova situazione di fatto, ma si consolava come poteva nella coltivazione degli studi e nella compilazione dei troppi trattati di teologia e politica. Ebbe perfino l’idea di far resuscitare l’accademia poetica de “I disuguali placidi”, ospitando le sedute nel suo palazzo e pagando di tasca sua la musica per le serate finché la sede fu spostata nel Palazzo Pubblico. A queste riunioni parteciperanno anche Paolina, col nome di Doralice e Giacomo col nome di Tirso Licedio.
Monaldo e Adelaide avevano due caratteri profondamente diversi: tanto buono e debole era il padre, quanto la madre era inflessibile e soprattutto incapace di manifestare i suoi sentimenti e il suo affetto per i figli, che non riceveranno da lei mai una carezza. Adelaide il giorno in cui diventa amministratrice dei beni della famiglia, vende tutti i suoi gioielli privandosi d’ogni piacere e d’ogni lusso, e anno dopo anno, scudo dopo scudo, rimette in sesto il patrimonio della famiglia, pur non rinunciando a un solo domestico e tenendo aperto il palazzo come per il passato per mantenere il decoro della famiglia. È una donna che non sa esprimere i suoi sentimenti, ma li prova: una volta, “dopo una lunga assenza del marito, svenne di commozione mentre scendeva lo scalone per andarlo ad accogliere”, narra Iris Origo e “di tutte le cose terrene amava singolarmente i fiori più delicati e fragranti, il mughetto, la mammola, la resèda, le gaggie, che non fanno spicco ed emanano profumo solo per chi se li tiene accanto”: è il ritratto di una donna intimamente delicata, che si presentava all’esterno fredda e controllata, addirittura stoica nel dolore fisico e che non vezzeggiava mai i suoi figli, ma, come scriveva Paolina al fratello, li comprendeva benissimo: “In verità, caro Giacomuccio mio, che non v’intendevamo allora, fuori di Mamà che vi comprendeva benissimo.”
I coniugi Leopardi erano assidui nel vigilare sulla salute morale e fisica dei figli: Monaldo fece perfino vaccinare i primi tre figli, facendo arrivare il vaccino da Genova, e fu il primo tra i recanatesi ad avere un simile pensiero. Furono molto attenti almeno alle cose esteriori, ma forse un po’ meno a quelle intime, quelle che tanti problemi generano soprattutto in chi è dotato di una sensibilità fuori del comune, come Giacomo.
I PRIMI STUDI: gli anni della poesia
Il primo educatore di Giacomo è il cappellano di famiglia, Don Vincenzo Diotallevi, dal quale imparò l’alfabeto e il catechismo, un uomo semplice che i bambini di casa Leopardi ogni tanto prendevano in giro bonariamente o al quale facevano qualche scherzo che però non faceva imbizzire il vecchio prelato: “pare che una sera, tornando dalla loro fattoria per una solitaria strada di campagna, Giacomo e i fratelli, mascherati, si siano divertiti a preparare un agguato per il vecchio precettore, Don Vincenzo, il pedante rigido, chiedendogli in tono faceto la borsa o la vita” (Iris Dorigo). Lo stesso episodio racconta Leopardi nella poesia giovanile La Dimenticanza. Don Vincenzo è anche un po’ il confidente dei ragazzini: è lui, ad esempio, a ricevere le lettere segrete che Paolina scambia, di nascosto dalla madre, con Marianna ed Anna Brighenti, l’editore di Giacomo, scrivendole di notte: quando arrivava una lettera Don Vincenzo metteva un vasetto fiorito sul davanzale della propria finestra per comunicare la buona notizia, poi di notte Paolina sgattaiolava nella biblioteca a recuperare la lettera.
Ma le prime vere lezioni Giacomo le riceve da don Giuseppe Torres, un gesuita di Vera Cruz, già precettore di Monaldo che di lui così dice: “A lui debbo la mia educazione, i miei principi, e tutto il mio essere di cristiano e di galantuomo”; e subito dopo sinceramente aggiunge che quello stesso precettore, con il suo pretendere che egli recitasse a memoria la lezione ‘senza sbagliare una sillaba’, era stato “l’assassino degli studi miei”. Successivamente viene affidato alle cure dell’abate Sebastiano Sanchini di Saludeccio di Pesaro e al profugo francese, l’abbé Borne, per le prime lezioni di francese. Sanchini, che non aveva una conoscenza accurata del latino, “ammaestrò Giacomo e il suo minore Carlo fino alli 20 di luglio del 1812, in cui diedero ambedue pubblico esperimento di filosofia”: così scrive Monaldo in una lettera-memoriale indirizzata ad Antonio Ranieri; ma Giacomo in una nota autobiografica, inviata a Carlo Pepoli nel 1826, ricorda come era già indipendente e senza maestro all’età di dieci anni.
Da quella data Giacomo e Carlo continuarono gli studi da soli, non avendo altri a disposizione che avessero una cultura così vasta da poter loro insegnare qualcosa. Si dedica a uno studio fecondo di carattere filologico, erudito e filosofico in senso lato, componendo numerose Dissertazioni filosofiche. Con il 1812 si chiude il primo periodo della formazione culturale di Giacomo, incentrato soprattutto su una produzione di poesie e di traduzioni da poeti latini e greci, culminante nella tragedia Pompeo in Egitto, avente per tema il culto della libertà e una certa avversione per Cesare, rappresentato come tiranno e usurpatore, che Giacomo donerà al padre alla vigilia di Natale (1812), all’età di soli 14 anni. “Nei primi lavori di Giacomo si avverte chiaramente l’influenza esercitata su di lui dall’eredità classica e dai pregiudizi politici paterni, ma si sente anche il peso della mano materna e gesuitica sui temi a sfondo religioso” (Origo); sono lavori che preannunciano in qualche modo il futuro grande poeta, come questa delicata favola, scritta nel 1810, intitolata L’Ucello, che, commenta Maria Corti, “È il primo grido di evasione del ragazzo, in nome della libertà:
L’Ucello
Entro dipinta gabbia
Fra l’ozio ed il diletto
Educavasi un tenero
Amabile augelletto.
A lui dentro i tersissimi
Bicchieri s’infondea
Fresc’acqua, e il biondo miglio
Pronto a sue voglie avea.
Pur de la gabbia l’uscio
Avendo un giorno aperto,
Spiegò fuor d’essa un languido
Volo non ben esperto.
Ma quando a lui s’offersero
Gli arbori verdeggianti
E i prati erbosi e i limpidi
Ruscelli tremolanti,
De l’abbondanza immemore
E de l’usato albergo,
L’ali scotendo, volsegli,
Lieto e giocondo, il tergo.
Di libertà l’amore
Regna in un giovin core.
I SETTE ANNI DI STUDIO MATTO E DISPERATISSIMO
gli anni della filologia
Il 1809 è un anno importante: il 9 aprile riceve la Prima Comunione e si rafforza in lui quello spirito religioso che per alcuni anni ha portato molti della sua famiglia a pensare che anche lui avrebbe seguito le orme di numerosi familiari abbracciando la vita sacerdotale; ma proprio in quell’anno comincia anche quel periodo di studi che più tardi Giacomo definirà “matto e disperatissimo”, che durerà per sette anni fino al 1816.
Nel 1809 potè cominciare ad usare la ricca biblioteca paterna e a partire dal 1812, in coincidenza con l’apertura al pubblico recanatese della fornita biblioteca paterna (ma quasi sempre resterà deserta), accedere alla parte riservata della biblioteca stessa, che conteneva i libri proibiti dalla Chiesa, per leggere i quali occorreva una speciale dispensa che il padre gli fa ottenere in quell’anno. A conferma della inclinazione di Giacomo a una profonda “divozione” e del fatto che era “pochissimo dato ai sollazzi puerili”, il 19 agosto 1810 riceve, com’era costume dei nobili, la tonsura da monsignor Bellini, vescovo di Recanati.
Di questi anni ricordiamo lo studio del greco e dell’ebraico, del francese e perfino dell’aramaico, in cui scrive opere come il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815, in cui il giovane autore disserta su 24 errori degli antichi secondo questo indice:
Capo primo
Idea dell’opera
Capo secondo
Degli dei
Capo terzo
Degli oracoli
Capo quarto
Della magia
Capo quinto
Dei sogni
Capo sesto
Dello sternuto
Capo settimo
Del meriggio
Capo ottavo<
Dei terrori notturni
Capo nono
Del sole
Capo decimo
Degli astri
Capo decimoprimo
Dell’astrologia, delle eclissi, delle comete
Capo decimosecondo
Della terra
Capo decimoterzo
Del tuono
Capo decimoquarto
Del vento e del tremuoto
Capo decimoquinto
Dei pigmei e dei giganti
Capo decimosesto
Dei centauri, dei ciclopi, degli arimaspi, dei cinocefali
Capo decimosettimo
Della fenice
Capo decimottavo
Della lince
Capo decimonono
Ricapitolazione

Ricordiamo ancora numerose dissertazioni filosofiche e traduzioni dal Greco (gli Idilli di Mosco, il I libro dell’Odissea, la Titanomachia di Esiodo) e dal latino (il II libro dell’Eneide).
Così scrive all’amico Pietro Giordani il 2 marzo 1818
“… Io per lunghissimo tempo ho creduto fermamente di dover morire alla più lunga fra due o tre anni. Ma di qua ad otto mesi addietro, cioè presso a poco da quel giorno ch’io misi piede nel mio ventesimo anno … ho potuto accorgermi e persuadermi, non lusingandomi, o caro, né ingannandomi, che il lusingarmi e l’ingannarmi pur troppo m’è impossibile, che in me veramente non è cagione necessaria di morir presto, e purché m’abbia infinita cura, potrò vivere, bensì strascinando la vita coi denti, e servendomi di me stesso appena per la metà di quello che facciano gli altri uomini, e sempre in pericolo che ogni piccolo accidente e ogni minimo sproposito mi pregiudichi o mi uccida: perché in somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s’andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l’aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell’uomo, che è la sola a cui guardino i più; e coi più bisogna conversare in questo mondo: e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s’attrista, e per forza di natura che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d’amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorché l’anima. Questa ed altre misere circostanze ha posto la fortuna intorno alla mia vita, dandomi una cotale apertura d’intelletto perch’io le vedessi chiaramente, e m’accorgessi di quello che sono, e di cuore perch’egli conoscesse che a lui non si conviene l’allegria, e quasi vestendosi a lutto, si togliesse la malinconia per compagna eterna e inseparabile. Io so dunque e vedo che la mia vita non può essere altro che infelice: tuttavia non mi spavento, e così potesse ella esser utile a qualche cosa, come io proccurerò di sostenerla senza viltà. Ho passato anni così acerbi, che peggio non par che mi possa sopravvenire: contuttociò non dispero di soffrire anche di più: non ho ancora veduto il mondo, e come prima lo vedrò, e sperimenterò gli uomini, certo mi dovrò rannicchiare amaramente in me stesso, non già per le disgrazie che potranno accadere a me, per le quali mi pare d’essere armato di una pertinace e gagliarda noncuranza, né anche per quelle infinite cose che mi offenderanno l’amor proprio, perché io sono risolutissimo e quasi certo che non m’inchinerò mai a persona del mondo, e che la mia vita sarà un continuo disprezzo di disprezzi e derisione di derisioni; ma per quelle cose che mi offenderanno il cuore: e massimamente soffrirò quando con tutte quelle mie circostanze che ho dette, mi succederà, come necessarissimamente mi deve succedere, e già in parte m’è succeduta una cosa più fiera di tutte, della quale adesso non vi parlo.”
Abbiamo riportato quasi per intero la lettera, perché ci sembra molto significativa sul piano della coscienza di come l’avevano ridotto sette anni di studio matto e disperatissimo e di come avrebbe dovuto affrontare da quel momento in poi la sua vita. A diciotto anni, avrebbe detto circa un secolo dopo Pirandello, le sue idee non sarebbero state viste nella loro interezza, ma avrebbero avuto il colore e il calore di un corpo deforme e dalla complessione “dispregevolissima”. Da quel momento in poi le cose avrebbero potuto solo peggiorare, anche perché forte stava diventando il desiderio di allargare i propri angusti orizzonti con la conoscenza del mondo e degli uomini che si trovano oltre i confini della piccola Recanati: e per questa conoscenza ci sarebbe voluta una forza quasi eroica che avrebbe potuto permettere di superare disprezzi e derisioni.
Il Conte Monaldo certo non era insensibile alla salvaguardia fisica dei suoi figli, ma forse l’orgoglio di avere un figlio che da solo e in così tenera età stava diventando “dottissimo” deve avergli >chiuso gli occhi di fronte alla misera e dura realtà che si stava verificando, anche se qualcuno aveva cercato di aprirgli gli occhi, come già nel 1813 lo zio marchese Carlo Antici in una lunga lettera di ammonimento: “Voi mi dite che il vostro impareggiabile Giacomo studia ora, senza maestro, la lingua greca di cui spera farsi padrone in un anno, e che in seguito vuole studiare l’ebraica: Io mi rallegro con voi, con lui, col sacerdozio cui sembra sin da ora chiamato; ma permettetemi che io vi esterni la mia apprensione per la sua salute” (Origo p. 89), e concludeva la lettera pregando il cognato di mandare Giacomo a Roma ospite suo, perché lì il ragazzo, pur proseguendo i suoi studi con eminenti studiosi, avrebbe potuto anche condurre una vita più attiva.
Il conte Monaldo non capì e rispose che non poteva privarsi dell’unico amico che aveva o sperava di avere in Recanati. E non capì, né poteva prevederlo, che quell’unico amico che credeva e sperava di avere, qualche anno dopo si sarebbe ribellato con tutte le sue forze alla tirannia di essere relegato in un paese provinciale e soffocante come Recanati.
In quegli stessi anni il rapporto di Giacomo con Recanati si spezza, reso difficile prima dalla stessa posizione sociale dei conti Leopardi, che impediva di fatto ogni rapporto di Giacomo coi suoi coetanei, poi dalla malattia che aveva colpito il ragazzo durante i sette anni di studio matto e disperatissimo: l’isolamento e la deformità fisica eccitavano i ragazzi recanatesi, fra i quali spiccava il nipote del parroco della chiesa di Santa Maria di Montemorello, uno dei tre borghi in cui si divideva il paese, e che dava sullo stesso spiazzo su cui si affacciava palazzo Leopardi. “Altri ragazzi – scrive Rolando Damiani - tra cui il figlio del «cacciarolo» dei conti, schiamazzavano con lui quando intonava la filastrocca: «Gobbus esto fammi un canestro: fammelo cupo gobbo fottuto». Per i ragazzi Giacomo era diventato Il gobbo di Montemorello e in termini più dispregiativi l’eremita, il saccentuzzo, il filosofo che per un orribile scherzo della natura si credeva un grand’uomo. Tutto questo ricorderà Leopardi ne Le ricordanze:
Nè mi diceva il cor che l'età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
aggior di se, ma perchè tale estima
Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de' malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch'ho appresso...
I due grandi elementi importanti per la crescita di ogni individuo, la famiglia e il rapporto sociale, si vestono di una profonda negatività, per cui non resta che la biblioteca paterna nella quale consumerà la gioventù e la propria sanità fisica, contraendo una malattia, agli occhi e nel fisico indebolendo gli apparati respiratorio e digerente. La generale precarietà delle condizioni fisiche lentamente lo porterà a vivere lunghi mesi di sofferenza intervallati da brevi periodi in cui il dolore diventa sopportabile; ed è in questi momenti di benessere sempre più rari e brevi, che sembra illudersi di essere guarito da tutto.
E L’AMORE?
L’11 dicembre 1817 da Pesaro giunge ospite la cugina ventiseienne di Monaldo, Geltrude Cassi sposata col conte Giovanni Giuseppe Lazzari, una donna dalla bellezza giunonica e dalla corporatura robusta, nata nel 1791 (sette anni prima di Giacomo) e di 31 anni più giovane del marito (nato nel 1760), che si sarebbe trattenut a in casa Leopardi per un paio di giorni: per la prima volta “colle sue burlette” Giacomo aveva fatto ridere “una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone molte parole e sorrisi” giocando con lei a carte durante la seconda serata; ma il gioco viene troppo presto interrotto dalla madre, per cui si deve allontanare “scontentissimo e inquieto”.
Geltrude rappresenta il primo amore di Giacomo, che così descrive il primo sorgere del sentimento che mai sarà realizzato nel corso della sua vita:
“Avea giuocato senza molto piacere, ma lasciai anche con dispiacere, pressato da mia madre: La Signora m’avea trattato benignamente, ed io per la prima volta avea fatto ridere colle mie burlette una dama di bello aspetto, e parlatole, e ottenutone per me molte parole e sorrisi. Laonde cercando fra me perché fossi scontento, non lo sapea trovare. Non sentia quel rimorso che spesso, passato qualche diletto, ci avvelena il cuore, di non esserci ben serviti dell’occasione. Mi parea di aver fatto e ottenuto quanto si poteva e quanto io m’era potuto aspettare. Conosceva però benissimo che quel piacere era stato più torbido e incerto, ch’io non me l’era immaginato, ma non vedeva di poterne incolpare nessuna cosa. E ad ogni modo io mi sentiva il cuore molto molle e tenero, e alla cena osservando gli atti e i discorsi della signora, mi piacquero assai, e mi ammollirono sempre più; e insomma la Signora mi premeva molto: la quale nell’uscire capii che sarebbe partita l’indomani, né io l’avrei riveduta.”
Da questa esperienza scaturiranno Il primo amore e il Diario del primo amore.
Per capire queste parole bisogna ritornare in casa Leopardi, a come era organizzata la vita nella casa, a come vivevano i ragazzi, lontano da qualsiasi tipo di rapporti umani con qualsiasi tipo di persona in modo ravvicinato: l'unico rapporto poteva essere quello epistolare (vedi il caso di Paolina) o libresco (vedi il caso di Giacomo). I rapporti tra genitori e figli sono improntati a un formalismo che bandisce quasi del tutto l’affetto: la madre è una sfinge che ha rinunciato e che si è posta due fini: la salvezza dell’anima delle persone che fanno parte della sua famiglia (parenti e servi) e la salvezza del patrimonio familiare. Giacomo non si leverà mai di dosso questa freddezza, sembra quasi che non diventi mai adulto se per adulto intendiamo colui che prende da sè tutte le decisioni senza dipendere da nessuno: è un atteggiamento mentale che verrà analizzato nel Discorso sopra lo stato presente degli italiani, in cui afferma:
Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia. E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti o di non farla ( al che basterebbe il volere); e facendola del resto con pienissima indifferenza, senz’attaccarvi importanza alcuna, senza che l’animo né lo spirito nazionale, o qualunque, vi prenda alcuna parte, considerando per egualmente importante il farla che il tralasciarla o il contraffarle, non tralasciandola e non contraffacendole appunto perché nulla importa, e per lo più con disprezzo, e sovente, occorrendo con riso e scherno di quel tal uso o costume.
L’uomo è animale imitativo e d’esempio. Questa è cosa provata. Tale egli è sempre, anche dopo emancipato (se egli arriva mai ad esserlo) dal giogo delle credenze e del modo di pensare e di vedere altrui; anche filosofo: egli lo è men degli altri, ma pure in gran parte. Questa sua imitazione è volta principalmente a’ suoi simili, questo esempio ch’ei ne prende, da loro principalmente lo piglia. Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo della sua condotta, non solo del suo carattere, de’ suoi costumi, non solo del suo animo generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo modo di pensare, dipende, imita, si regola, è modificata dall’esempio altrui, cioè precisamente e massimamente di quella parte de’ suoi simili colla quale ei convive, sia che ei conviva per mezzo della lettura, sia specialmente colla persona, sia come si voglia.
E qui l’esempio di imitazione e di educazione è, innanzitutto, l’atteggiamento morale e religioso di mamma Adelaide, mentale e culturale di papà Monaldo che tanta parte avrà nella formazione di Giacomo e tanta influenza eserciterà con una presenza costante nella mente del figlio anche se non effettiva fisicamente.
Nel suo epistolario si conservano solo cinque lettere scritte alla madre (a fronte delle circa 270 scritte ai familiari: al padre 136, a Paolina 55, Carlo 51, Pierfrancesco 16, Carlo Antici 9). Anzi, con l’uscita di casa riceve espressamente la proibizione di scrivere alla madre: così infatti scrive da Roma:
[Roma] 22 gennaio 1823
Cara Mamma. Io mi ricordo ch’Ella quasi mi proibì di scriverle, ma intanto non vorrei che pian piano, Ella si scordasse di me. Per questo timore rompo la sua proibizione e le scrivo, ma brevemente, dandole i saluti del Zio Carlo e del Zio Momo. Sono in piedi oggi per la prima volta dopo otto giorni intieri di letto, e la mia piccola piaga è ben chiusa. Se non si riapre, che spero di no, son guarito. S'ella non mi vuol rispondere di sua mano, basterà che lo faccia fare, e mi faccia dar le sue nuove, ma in particolare, perché le ho avute sempre in genere. La prego a salutare cordialmente da mia parte il Papà e i fratelli; e se vuol salutare anche D. Vincenzo, faccia Ella. Ma soprattutto la prego a volermi bene, com’è obbligata in coscienza, tanto più ch’alla fine io sono un buon ragazzo, e le voglio quel bene ch’Ella sa o dovrebbe sapere. Le bacio la mano, il che non potrei fare in Recanati. E con tutto il cuore mi protesto Suo figlio d’oro Giacomo-alias-Mucciaccio.
È un Giacomo che cerca affetto, che cerca di scherzare col nomignolo di Mucciaccio e di figlio d’oro e che soprattutto chiede che gli voglia un poco di bene perché alla fin dei conti è un bravo ragazzo e per questo è obbligata in coscienza. Così, parlando della religione, la descrive Giacomo nello Zibaldone:
Quanto anche la religion cristiana sia contraria alla natura, quando non influisce se non sul semplice e rigido raziocinio, e quando questo solo serve di norma, si può vedere per questo esempio. Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perchè questi eran volati al paradiso senza pericoli, e avean liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli. Trovandosi più volte in pericolo di perdere i suoi figli nella stessa [354] età, non pregava Dio che li facesse morire, perchè la religione non lo permette, ma gioiva cordialmente; e vedendo piangere o affliggersi il marito, si rannicchiava in se stessa, e provava un vero e sensibile dispetto. Era esattissima negli uffizi che rendeva a quei poveri malati, ma nel fondo dell'anima desiderava che fossero inutili, ed arrivò a confessare che il solo timore che provava nell'interrogare o consultare i medici, era di sentirne opinioni o ragguagli di miglioramento. Vedendo ne' malati qualche segno di morte vicina, sentiva una gioia profonda (che si sforzava di dissimulare solamente con quelli che la condannavano); e il giorno della loro morte, se accadeva, era per lei un giorno allegro ed ameno, nè sapeva comprendere come il marito fosse sì poco savio da attristarsene. Considerava la bellezza come una vera disgrazia, e vedendo i suoi figli brutti o deformi, ne ringraziava Dio, non per eroismo, ma di tutta voglia. Non proccurava in nessun modo di aiutarli a nascondere i loro difetti, anzi pretendeva che in vista di essi, rinunziassero intieramente alla vita nella loro prima gioventù: se resistevano, se cercavano il contrario, se vi riuscivano in qualche minima parte, n'era indispettita, scemava quanto poteva colle parole e coll'opinion sua i loro successi (tanto de' brutti quanto de' belli, perchè n'ebbe molti), e non lasciava [355] passare anzi cercava studiosamente l'occasione di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce. Sentiva i cattivi successi de' suoi figli in questo o simili particolari, con vera consolazione, e si tratteneva di preferenza con loro sopra ciò che aveva sentito in loro disfavore. Tutto questo per liberarli dai pericoli dell'anima, e nello stesso modo si regolava in tutto quello che spetta all'educazione dei figli, al produrli nel mondo, al collocarli, ai mezzi tutti di felicità temporale. Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ec. non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o quando erano malati, se mostravano rassegnazione ec. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea. Questa donna aveva sortito dalla natura un carattere sensibilissimo, ed era stata così ridotta dalla sola religione.
La nota dello Zibaldone porta la data del 25 novembre 1820, ed anche se in seguito non metterà queste pagine, compilando l’indice dello stesso Zibaldone fra le Memorie della mia vita ma fra i passi che si riferiscono alla Natura degli uomini e delle cose, resta comunque una descrizione terribile, frutto non di una impressione fuggevole, ma di un pensiero meditato, che da anni si andava approfondendo, almeno dalla fine del 1817, da quando cioè Giacomo prende coscienza della deformità del proprio corpo in rapporto alla bellezza statuaria e un po’ giunonica della cugina Gertrude Cassi. La descrizione ci porta a capire due cose importanti:
1) tutta l’affettuosità che mamma Adelaide provava per i suoi figli era stata chiusa in una parte ben nascosta del suo cuore, conseguenza dell’educazione tipica delle signore della vecchia nobiltà di quel tempo che aveva come segni caratteristici “una decorosa semplicità di modi, per cui nulla aborrivano più che l’enfasi, l’affettazione, l’abito professorale” (Filippo Crispolti, 1929). D’altronde la crisi economica della famiglia (il risparmio era un obbligo per salvare la casa dai debiti) ha portato in casa Leopardi una vera rivoluzione in quanto a gusti e aspetti della vita quotidiana insieme a un senso profondo di disagio per la nuova situazione sentita come una degradazione;
2) la situazione affettiva in seno alla famiglia Leopardi era una cosa tutto sommato normale nelle famiglie sia nobili che borghesi dell’epoca; in Giacomo la situazione affettiva era sentita penosamente grave proprio in conseguenza delle sue condizioni fisiche, debilitate dai sette anni di studio matto e disperatissimo, che gli hanno distrutto non solo il fisico, ma lo hanno intaccato nello spirito, iniettandogli il malessere profondo della depressione unito alla coscienza dolorosa del proprio corpo che lo porta a vivere un’esistenza senza felicità sentita come aspettazione della morte.
Questa difficoltà di stringere rapporti umani in tutta serenità, in una situazione aggravata dalle sue condizioni di salute che lentamente peggiorano ad ogni mese che passa, durerà tutta la vita e lo porterà a vivere una condizione psicologica che lui stesso descriverà al Vieusseux in una lettera del 4 marzo 1826:
... La mia vita, prima per necessità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione nata dall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sempre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più absent di quello che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell’absence è in me incorreggibile e disperato. Se volete persuadervi della mia bestialità, domandatene a Giordani, al quale, se occorre, do pienissima licenza di dirvi di me tutto il male che io merito e che è la verità. Da questa assuefazione e da questo carattere nasce naturalmente che gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in sé, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare. Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar l’esistenza; ma non so quanto possa esser utile alla società ...
In questa condizione mentale e di generale educazione, Geltrude diventa allora un “caso letterario”, nel senso che fra i due personaggi della ‘storia d’amore’ non intercorre né uno sguardo né una parola che sia fuori dalle regole di normale convivenza sociale e civile, non abbiamo nessuna sensazione della donna né alcun atteggiamento né alcuna parola né alcuno sguardo, ma solo una ‘visione’ di Giacomo e di ciò che lui sente; l’intera vicenda è un qualcosa che entra profondamente nell’animo del poeta, e direi che non verrà mai più provato perché non esisterà nessun’altra visione che possiamo vedere così vicina a lui perché nessun’altra realizzerà una vicinanza ‘fisica e mentale’ così vitale.
Le altre donne, come Silvia alias Teresa Fattorini o Nerina alias Maria Belardinelli, assumono la veste di una evanescente presenza più intellettiva che reale. Su di esse tanti e valenti critici si sono affannati inutilmente con immaginazioni spesso fantasiose e lontane da una realtà apprezzabilmente documentata, e soprattutto sono rimasti lontani da una complessiva valutazione dei pochissimi indizi di cui siamo in possesso, dei quali abbiamo testimonianza nella sua vita e nelle sue opere, e che sono abbastanza tenui e sfumati, lasciando le conclusioni alla ragione e alla intelligenza che non sempre hanno messo in evidenza "l'uomo". Soprattutto Silvia è una voce che porta a un mondo umano (e troppo umano) così diverso da quello suo; ed è una voce che si accompagna a quelle dela sua famiglia: di una madre, di un padre...
... Del resto la facoltà di assuefazione in che consiste la memoria è indipendente in molte parti dalla volontà, come altre assuefazioni materiali e fuor della mente ec. Il che si vede sì per mille altre cose, sì perchè spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama alla memoria un'altra provata per l'addietro, senza che la volontà contribuisca, o abbia pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci richiama per esempio quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto ec. 4 agosto 1821...
... un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte; un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s'ode suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di notte, si è più disposti a questi effetti, perchè nè l'udito nè gli altri sensi non arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue concomitanze. 16 ott. 1821 Zibaldone...
Sia Silvia-Fattorini che Nerina-Belardinelli, entrambe di condizione modesta, e quindi lontane dalle possibilità di ‘aprire’ un possibile dialogo con il conte Giacomo, morirono nella prima gioventù e sono le sole presenze che egli ricorderà senza nessuna amarezza e che saranno l’ispirazione dei celebri canti di A Silvia e de Le ricordanze (il 30 settembre Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi, muore di tisi a 21 anni).
a soprattutto pensiamo ragionevolmente che queste siano delle presenze evocate da una voce, da un canto, da un vocio indistinto eppure così profondamente incidente nel suo intimo. Continuiamo pure a pensare e a parlare di Teresa Fattorini, o della Belardinelli, ma occorre evitare veramente di condurre il pensiero a qualsiasi connotazione realistica della loro esistenza: esse sono vissute per sè, non nell'intimo di Leopardi

Altre donne, altri amori non si conoscono. Né d’altronde crediamo che potrebbero venire alla luce dopo tutto quel che ha scritto lo stesso Leopardi intorno alla propria vita sia intima che sociale.
L’amore per Giacomo è stata una idealità tutta personale e mentale; nella realtà della sua esistenza, ristretta prima all’ambito recanatese, poi allargata a confini e limiti sempre più ampi ed extrarecanatesi, ma solo apparentemente perché ormai i limiti erano nella mente stessa del poeta, resta una idealità tutta personale e mentale, quasi un sogno, originato dalla coscienza della precarietà della vita e dello sfinimento fisico determinato dalle sue condizioni patologiche che abbiamo già evidenziato e che accompagneranno il poeta fino alla morte.
La donna per Giacomo Leopardi sarà sempre qualcosa di sfuggente sul piano reale e fisico e sarà relegata al piano mentale e spirituale, a una pittura visionaria idealistica che richiama alla mente le donne del Trecento, ma molto sottovoce, in tono dimesso, come se l’amore, pur così profondamente sentito, fosse un qualcosa di secondario e da tacere, un tabù radicato profondamente nell’animo dall’educazione ricevuta dalla madre e dai sentimenti religiosi così intimamente assaporati, tanto da predestinarlo in qualche modo, come abbiamo visto, alla vita sacerdotale.
Ma dentro di sé il Leopardi ha immaginato, sognato e desiderato; e dopo aver immaginato e sognato ha desiderato con forza e dolcezza, quella forza che derivava dalla sua giovane età e quella dolcezza che derivava dalla sua coscienza di essere divenuto ormai spregevolissimo nella conformazione fisica all’idealità dei più: con questo sentimento l’amore gli sarà per sempre negato.
Seconda parte
La giovinezza
1817-1818
Il 1817 è un anno assai importante non solo per la formazione culturale, ma anche per la sua esistenza. Nel mese di marzo, infatti, comincia la sua corrispondenza epistolare con Pietro Giordani. All’inizio dell’anno invia una copia della sua traduzione del secondo libro dell’Eneide ai tre letterati più in vista in quel momento: Vincenzo Monti, Angelo Mai e Pietro Giordani, accompagnando i tre manoscritti con lettere umili ma che denotavano le grandi aspettative del giovane. Monti risponde complimentandosi con formalità; il Mai consiglia Giacomo ad uscire da Recanati; col Giordani comincia un vero e proprio scambio epistolare.
“La prima lettera dell’Abate fu, in verità, cortese ma laconica; le lusinghe espresse da Giacomo erano state così eccessive ch’egli temeva di essere canzonato. Ma quando seppe dall’editore di Leopardi quanto giovane era lo scrittore, ed ebbe letto più attentamente il suo lavoro, fece partire in gran fretta una seconda lettera.” (Origo, cit. p. 110)
Per la prima volta scrive ad una persona che è veramente disposta ad ascoltarlo, a leggere i suoi sfoghi ma anche le sue aspettative e i suoi dubbi culturali ed esistenziali, a dargli aiuti e consigli, ad offrirgli amicizia. Abbiamo così le confidenze, gli sfoghi di un ragazzo che vede ormai intorno a sé tristezza e malinconia che lo studio accresce e sente di vivere in un clima mutabile e umido che non è solo quello meteorologico, ma soprattutto quello spirituale. Giordani promette di andare a trovare il giovane amico, e dopo tanti tentennamenti, durati più d’un anno, finalmente arriva a Recanati il 10 settembre 1818 (Origo, cit. pag. 117) e vi resta per cinque giorni, che avranno per tutta la famiglia Leopardi un grandissimo peso sia perché porteranno Giacomo a prendere definitiva coscienza di sé e della propria misera condizione a Recanati e nella casa paterna che ormai sentiva troppo stretta per le sue aspirazioni, sia per i due genitori, e per Monaldo in particolare che si rimprovererà “ di aver acconsentito, fatto senza precedenti, che Giacomo accompagnasse il Giordani dalla mattina alla sera a Macerata”, una giornata in cui comincerà l’influenza diabolica del maturo abate sul giovane inesperto.
Nei due mesi successivi al soggiorno recanatese di Giordani, Leopardi compone All’Italia (settembre 1818) e Sopra il Monumento di Dante (settembre-ottobre 1818), due Canzoni che avranno una larga eco non solo per il contenuto patriottico (di cui tra l’altro parleranno Settembrini, Carducci e De Sanctis), che anticipa largamente gli umori risorgimentali, ma anche perché rivelatori di un Grande della Letteratura; ma sono due Canzoni che susciteranno molta apprensione in Monaldo, uomo timoroso e rispettoso della legge, che già aveva subito, come abbiamo visto, una brutta avventura colle truppe francesi nel 1801. Monaldo si preoccupava che Giacomo abbracciasse gli ideali che erano professati da oscuri cospiratori, da patrioti carbonari di provincia che ben pochi legami comunque avevano colla vasta rete carbonara delle grandi città, ma che pure rendevano talvolta torbida l’atmosfera della piccole cittadine come Recanati.
La presenza del Giordani nella vita di Leopardi è importante soprattutto perchè attraverso lo scambio epistolare Giacomo prende coscienza della propria situazione concreta, della propria orrenda e infelicissima vita: prima la conosce soltanto, ora ne prende coscienza e questo prendere coscienza lo porta a prendere le distanze da quella vita, a voler fuggire da Recanati rifiutando tutto quanto il paese e la famiglia hanno rappresentato per lui: da un lato vengono messi la casa paterna e Recanati ormai intesi come carcere, la arretrata cultura della Marca Picena e in genere dello Stato Pontificio, dall’altro lato “le sue aspirazioni di vita, i suoi ideali liberali e patriottici, la sua crescente spregiudicatezza religiosa e filosofica, la sua ansia di intervento e collaborazione nella cultura più vasta del proprio tempo. Così scrive Walter Binni:
L’incontro con Pietro Giordani – di cui il giovane Leopardi sentì il fascino della personalità non grande, ma certo generosa, ... fu eccezionalmente fecondo e decisivo quanto più si consideri l’obbiettiva superiorità del Giordani rispetto all’ambiente erudito-letterario fino allora sperimentato da Leopardi, l’immagine alta che il giovane se ne fece in questo periodo e la situazione di un giovane, bisognoso di un’amicizia appassionata e liberatrice... Quell’incontro permetteva al Leopardi di espandere pienamente il suo animo, riboccante di affetti e di tensioni ideali e culturali ..., come gli permetteva, nel dialogo con l’amico così fervidamente acuto nell’intuizione e nel riconoscimento della sua grandezza, di prendere più chiara coscienza di sè, della propria nobiltà spirituale e morale, del proprio bisogno di vita e della propria situazione bloccata e infelice...
1819
Il 1819 è un anno molto intenso per l’attività poetica del Leopardi: nei primi mesi coi tipi di Bourlié a Roma, ma con la data del 1818, con una lettera dedicatoria a Vincenzo Monti, escono le due canzoni citate e soprattutto matura la cosiddetta conversione filosofica, cioè il passaggio dalla condizione antica, caratterizzata dal dominio della fantasia generatrice di poesia, alla condizione moderna, caratterizzata dalla dolorosa scoperta dell’arido vero, che è “l'affogamento che nasce dalla certezza e dal sentimento vivo della nullità di tutte le cose, e della impossibilità di esser felice a questo mondo, e dalla immensità del vuoto che si sente nell'anima” (Zibaldone). Dal mese di marzo è costretto per una malattia agli occhi a restare quasi al buio per nove mesi: Da Marzo in qua mi perseguita un’ostinatissima debolezza de’ nervi oculari che m’impedisce non solamente ogni lettura, ma anche ogni contenzione di mente, scrive al Giordani il 21 giugno e sempre a Giordani torna a scrivere il 26 luglio:
sono quattro mesi che m’hanno lasciato essi per debolezza d’occhi, e la mia vita è spaventevole. Nell’età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io vo scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà temporali mi abbandonano a una a una.
L’infermità del 1819 è lo stato in cui Leopardi studia se stesso. Senza una tale pausa dalla «distrazione» dei libri, durante la quale «si volge a pensare», non potrebbero stagliarsi sul cielo nero di Recanati le prime stelle di poesia leopardiana” (Damiani, Album Leopardi, p. 61). Leopardi si dà alla meditazione: passa dall’aspetto filologico degli studi in cui privilegia la comprensione del testo scritto, all’aspetto filosofico in cui privilegia i perché della scrittura e della vita umana.
I lamenti disperati per la sua salute malferma che peggiora lentamente diventano un cupo e doloroso ritornello; così scrive all’amico Pietro Giordani il 21 giugno 1819: Della salute ho cura più che non merita né la mia né quella di nessun uomo. Da Marzo in qua mi perseguita un'ostinatissima debolezza de' nervi oculari che m'impedisce non solamente ogni lettura, ma anche ogni contenzione di mente. Nel resto mi trovo bene del corpo, e dell'animo, ardentissimo e disperato quanto mai fossi, in maniera che ne mangerei questa carta dov'io scrivo. Il dolore personale, col passare degli anni, diventa dolore universale, quasi una legge universale della vita umana. A confortarlo rimane la sorella Paolina, che gli fa compagnia leggendo e conversando, e talvolta Carlo.
In quest’anno scrive i Ricordi d’infanzia e d’adolescenza (tra marzo e maggio), L’infinito (settembre), l’idillio Alla luna; fin dai primi mesi comincia a soffrire di una grave malattia agli occhi, causata soprattutto da una congenita debolezza generale ai nervi, e ordisce il primo progetto di fuga da Recanati, che però viene scoperto dal padre. Per uscire dallo Stato Pontificio (o anche solo per viaggiare all’interno dello Stato) c’era bisogno di un “passaporto”, che Giacomo richiede a Macerata al Conte Saverio Broglio d’Ajano con una lettera del 29 luglio e per orchestrare bene la fuga scrive che chiede il favore del suo intervento, e ringrazia, anche a nome del padre in modo che il Broglio non capisca i disegni di fuga del giovane. Il Broglio ottiene il passaporto grazie al capo della polizia di Macerata marchese Filippo Solari, che conosce i Leopardi e scrive a Monaldo augurando un felice viaggio per il figlio; Monaldo chiede allora spiegazioni e il marchese invita il Broglio ad inviare il passaporto direttamente al padre, che cerca di far capire al figlio le difficoltà insite nel vivere lontano da casa, e pur dicendo di volerlo assecondare e di volergli dare il “passaporto”, di fatto congela tutta la situazione, promettendo a Giacomo di passargli un mensile, se proprio vuole andare a vivere fuori da Recanati, che gli possa permettere di vivere decorosamente. Ma Giacomo si sente ingannato, e così descrive la sua sensazione al Broglio in una lettera del 13 agosto 1819:
... La risoluzione ch’io aveva presa non era né immatura né nuova. Io l’aveva fissata già da un mese, e l’avea concepita fin da quando conobbi la mia condizione, e i principii immutabili di mio padre, cioè da parecchi anni. Io non sono né pentito né cangiato. Ho desistito dal mio progetto per ora, non forzato, né persuaso, ma commosso e ingannato. Persuaso non poteva essere, come né anche persuadere, perché le nostre massime sono opposte, e perciò fuggo ogni discorso su questa materia, giacché il discorso non può esser concorde quando i fondamenti sono discordi. Se mi opporranno la forza, io vincerò, perché chi è risoluto di ritrovare o la morte o una vita migliore, ha la vittoria nelle sue mani. Le mie risoluzioni non sono passeggere, come quelle degli altri, e come mio padre stimo che si persuada, per dormire i suoi sonni in pace, come si suol dire. Io non voglio vivere in Recanati. Se mio padre mi procurerà i mezzi di uscire, come mi ha promesso, io vivrò grato e rispettoso, come qualunque ottimo figlio, se no, quello che doveva accadere e non è accaduto, non è altro che differito.
Mio padre crede ch’io da giovanastro inesperto non conosca gli uomini. Vorrei non conoscerli, così scellerati come sono. Ma forse sono più avanti ch’egli non s’immagina. Non creda d’ingannarmi. Se la dissimulazione è profonda ed eterna, sappia però ch’io non mi fido di lui, più di quello ch’egli si fidi di me. Si vanti, se vuole, d’avermi ingannato, dicendomi a chiare note, ch’egli non volendomi forzare in nessunissima guisa, non facea nessun passo per intercettarmi il passaporto. Mi parve di vedergli il cuore sulle labbra, e feci quello che non avea fatto da molti anni: gli prestai fede, fui ingannato, e per l’ultima volta. ...
Giacomo si sente ingannato e questo brano ci serve per poter meglio capire la sua personalità, combattiva e razionale perché tende a mettere gli affetti sul piano di una reciproca fiducia: l’amore non è fatto di inganni, nemmeno tra padri e figli, come l’amicizia; l’uomo che inganna può essere definito in un solo modo: scellerato. La conseguenza più evidente è che diventa praticamente un segregato, perchè, come scriverà lo stesso Giacomo all’avvocato Brighenti il 21 aprile dell’anno successivo, viene sorvegliato in continuazione, sorveglianza che lo fa soffrire intimamente e di cui spesso si lamenterà. Monaldo si giustificherà a più riprese dicendo che lo fa perché ha timore che il figlio, che aveva intrapreso una corrispondenza epistolare con persone ferventi di sentimenti liberali e già abbastanza chiaramente patriottico-risorgimentali, seppure ancora a un livello più letterario che pratico, possa incorrere in gravi guai con la giustizia.
Gli anni seguenti furono pieni di attività e scrive tra l’altro Ad Angelo Mai, La sera del dì di festa, La vita solitaria, Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Ultimo canto di Saffo, Inno ai Patriarchi. Dal 1818 cominceranno ad essere stampate, prima a Roma nel 1818, poi a Bologna presso Jacopo Marsigli nel luglio 1820 la canzone ad Angelo Mai e infine sempre a Bologna presso Nobili nel 1823.
Contrastate anche dal padre, le varie pubblicazioni, tanto che si parla anche di un sequestro di copie da parte della polizia (V. S. si mostra informata che mio padre impedì che non si stampasse una altra mia canzone. Avrebbe impedito anche questa - la canzone Ad Angelo Mai, ndr - se l'avesse veduta. Oltracciò ella è stata interdetta e sequestrata per comando supremo in tutta la Lombardia e la Venezia: e in questo medesimo Stato, de' pochi esemplari che n'ho spedito in diverse parti, io non credo ch'abbia avuto ricapito se non quello c'ho mandato a V. S. , scrive a Giannantonio Roverella da Recanati il 20 novembre 1820)
Pessimismo storico
Gli anni 1819-1822, dalla tentata e non riuscita fuga alla partenza per Roma, sono caratterizzati dal pessimismo storico: l’uomo anticamente era felice, viveva a contatto con la natura, madre benigna; ma le condizioni di vita non sempre erano facili, i pericoli erano sempre in agguato, ed erano creati non solo dagli animali selvaggi, ma anche dagli altri uomini, che si spostavano di luogo in luogo in cerca di cibo. Ecco allora la necessità di allearsi con altri uomini, di stringere vincoli di amicizia e di parentela che erano il punto di partenza della creazione di piccoli gruppi, che col tempo divennero sempre più numerosi. Si avvertì allora la necessità di regolare i rapporti interpersonali con delle norme: nasce la legge, che diventa il punto di partenza dell’infelicità umana.
In effetti più che di pessimismo dobbiamo parlare in Leopardi di infelicità storica, perché mai nelle sue opere il poeta accenna al pessimismo se non in una sola occasione nello Zibaldone e certamente per rifiutarlo, tenendo conto che il pessimismo è una condizione mentale e razionale dello spirito nei confronti delle cose e dell’esistenza, mentre Leopardi assume sempre una condizione affettiva e “sentimentale” di fronte alla Natura, al destino, alle origini dell’uomo, ai fini della vita umana, all’universo e all’eternità. Sono i grandi interrogativi che l’uomo si pone di fronte alla vita, ai quali cerca di dare una risposta o di tipo filosofico e razionale oppure di tipo poetico e affettivo: entrambe le risposte avranno conseguenze importanti sulla vita quotidiana senza che l’una neghi o elimini necessariamente l’altra.
La cosiddetta conversione filosofica del 1819 (il passaggio dall’aspetto rigidamente filologico a quello generalmente filosofico) ci porta a capire che il pensiero del Leopardi non porta a un sistema filosofico come quello di Platone o di Hegel, ma alla volontà di “approfondire l’idea della problematicità della condizione umana, rigettando ogni conforto illusorio” (Mario Pazzaglia, III, p. 285) ed ogni spunto esistenziale banalmente compensatorio delle difficoltà quotidiane. L’approdo di questo approfondimento sul piano espressivo è rappresentato prima dalle Operette morali e successivamente dai grandi Idilli del 1828-1830, passando attraverso il pessimismo cosmico o meglio l’infelicità cosmica. È il momento in cui acquistano forza le illusioni, come la virtù e la patria, l’amore e la gloria, che cozzano però con la realtà quotidiana, vanificando gli sforzi degli individui per approdare a un sistema nel quale possa diventare preminente la felicità dell’uomo: ciò che conta “non è il loro soddisfacimento, riconosciuto impossibile, bensì il loro essere e vivere nella coscienza”. Paradossalmente il nulla dell’illusione diventa la realtà dell’animo, diventa il non cedere a un destino che condanna l’uomo alla frustrazione totale e mette in risalto quella dignità dell’io che è superiore alla miseria della condizione umana.
Così scrive nello Zibaldone
[165] Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempierci l'animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo, forse proviene da una cagione semplicissima, e più materiale che spirituale. L'anima umana (e così tutti gli esseri viventi) desidera sempre essenzialmente, e mira unicamente, benchè sotto mille aspetti, al piacere, ossia alla felicità, che considerandola bene, è tutt'uno col piacere. Questo desiderio e questa tendenza non ha limiti, perch'è ingenita o congenita coll'esistenza, e perciò non può aver fine in questo o quel piacere che non può essere infinito, ma solamente termina colla vita. E non ha limiti 1. nè per durata, 2. nè per estensione. Quindi non ci può essere nessun piacere che uguagli 1. nè la sua durata, perchè nessun piacere è eterno, 2. nè la sua estensione, perchè nessun piacere è immenso, ma la natura delle cose porta che tutto esista limitatamente e tutto abbia confini, e sia circoscritto. Il detto desiderio del piacere non ha limiti per durata, perchè, come ho detto non finisce se non coll'esistenza, e quindi l'uomo non esisterebbe se non provasse questo desiderio. Non ha limiti per estensione perch'è sostanziale in noi, non come desiderio di uno o più piaceri, ma come desiderio del piacere. Ora una tal natura porta con se materialmente l'infinità, perchè ogni piacere è circoscritto, ma non il piacere la cui estensione è indeterminata, e l'anima amando sostanzialmente il piacere, abbraccia tutta l'estensione immaginabile di questo sentimento, senza poterla neppur concepire, perchè non si può formare idea chiara di una cosa ch'ella desidera illimitata....
[183] Conseguito un piacere, l'anima non cessa di desiderare il piacere, come non cessa mai di pensare, perchè il pensiero e il desiderio del piacere sono due operazioni egualmente continue e inseparabili dalla sua esistenza. (12-23. Luglio 1820.).
L’infelicità storica è legata soprattutto all’età moderna, perché in questo tempo il prevalere delle leggi e della ragione sull’individuo è essenziale e porta inevitabilmente al dolore, contro il quale si erge la volontà di costruire un mondo di affetti generosi di eroismo e di solidale pietà per l’uomo da opporre alla Natura, indifferente al suo dolore, anzi creatrice della sua infelicità. È la stagione delle grandi Canzoni, nelle quali notevole diventa proprio la solidarietà e l’unità d’intenti, mentre il poeta è abbastanza sicuro della buona riuscita del progresso, ed è cosciente che quando questo viene a mancare non ci può essere che il dolore e l’infelicità, di cui maggiore responsabile è la Natura che impedisce all’uomo il godimento del piacere che comincia ad essere caratterizzato come momentanea sospensione del dolore e dell’infelicità, che è condizione affettiva, ma non del pessimismo, che è condizione intellettiva.
La solitudine e la grave malattia agli occhi lo hanno portato a una serie di considerazioni sulla natura e sulla ragione che lo portano alla scoperta del nulla, che avrà una grande importanza nella sua poesia. Importantissima, a questo riguardo può risultare la lettura della lettera al Giordani del 20 marzo 1820:
… Sto anch'io sospirando caldamente la bella primavera come l'unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell'animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un'aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com'è seguito, m'agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi faceano così beato non ostante i miei travagli. Ora sono stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l'entrata di questa povera anima, e la stessa onnipotenza eterna e sovrana dell'amore è annullata a rispetto mio nell'età in cui mi trovo. Intanto io ti fo questi racconti che non farei a verun altro, in quanto mi rendo certo che non gli avrai per romanzeschi, sapendo com'io detesti sopra ogni cosa la maledetta affettazione corruttrice di tutto il bello di questo mondo, e che tu sei la sola persona che mi possa intendere, e perciò non potendo con altri, discorro con te di questi miei sentimenti, che per la prima volta non chiamo vani. Perché questa è la miserabile condizione dell'uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre e solamente giusto e vero. E se bene regolando tutta quanta la nostra vita secondo il sentimento di questa nullità, finirebbe il mondo e giustamente saremmo chiamati pazzi, a ogni modo è formalmente certo che questa sarebbe una pazzia ragionevole per ogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze sarebbero pazzie, giacché tutto a questo mondo si fa per la semplice e continua dimenticanza di quella verità universale, che tutto è nulla. Queste considerazioni io vorrei che facessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano dello smisurato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità umana sia riposta nella cognizione del vero, quando non c'è altro vero che il nulla, e questo pensiero, ed averlo continuamente nell'animo, come la ragion vorrebbe, ci dee condurre necessariamente e dirittamente a quella disposizione che ho detto, la quale sarebbe pazzia secondo la natura, e saviezza assoluta e perfetta secondo la ragione.
Il primo viaggio
Il 17 novembre 1822 finalmente parte per Roma, dove arriva il 23, ospite dello zio materno Carlo Antici, nel palazzo Antici-Mattei che si trova nell’attuale via Michelangelo Caetani; il viaggio lo fa ospite di una delle due carrozze con le quali lo zio, dopo aver trascorso l’estate a Recanati, ritorna a Roma. Monaldo finalmente si era arreso alle ragioni di Giacomo e della famiglia Antici; il viaggio dura sei giorni attraverso uno dei paesaggi più belli d’Italia: ma di nulla abbiamo testimonianza, perché tutto gli era ugualmente indifferente; solo un piccolo incidente accaduto a Spoleto, nella locanda dove trascorse la prima notte fuori di Recanati, così raccontato al fratello Carlo in una lettera del 25 nov.:
scrissi in tavola fra una canaglia di Fabrianesi, Iesini ec. i quali s’erano informati dal Cameriere dell’esser mio, e già conoscevano il mio nome e qualità di poeta ec. ec. E un birbante di prete furbissimo ch’era con loro, si propose di dar la burla anche a me, come la dava a tutti gli altri: ma credetemi che alla mia prima risposta, cambiò tuono tutto d’un salto, e la sua compagnia divenne bonissima e gentilissima come tante pecore.
A Roma, comunque, si trova subito male, non solo perché la vastità del nuovo mondo, incomparabile con quello della piccola Recanati, fa perdere il senso della misura
"Tutta la grandezza di Roma non serve ad altro che a moltiplicare le distanze, e il numero de’ gradini che bisogna salire per trovare chiunque vogliate. Queste fabbriche immense, e queste strade per conseguenza interminabili, sono tanti spazi gittati fra gli uomini, invece d’essere spazi che contengano uomini"
e gli fa capire di essere un niente sconosciuto, ma soprattutto perché ciò che aveva immaginato della città, della vita in casa Antici, della cultura è lontano mille miglia dalla realtà che vede coi suoi occhi. Questo è ad esempio il ritratto di Francesco Cancellieri, un erudito romano che era in rapporti con Carlo Antici, lo zio romano presso il quale il poeta era ospite, che aveva avuto il merito di averlo nominato per primo nell’operetta Dissertazione intorno agli uomini dotati di gran memoria e verso il quale Leopardi aveva provato sentimenti di gratitudine nel 1815:
Ieri fui da Cancellieri, il qual è un coglione, un fiume di ciarle, il più noioso e disperante uomo della terra; parla di cose assurdamente frivole col massimo interesse, di cose somme colla maggior freddezza possibile; ti affoga di complimenti e di lodi altissime, e ti fa gli uni e l’altre in modo così gelato e con tale indifferenza, che a sentirlo, pare che l’esser uomo straordinario sia la cosa più ordinaria del mondo.
Il ritratto del Cancellieri, col quale, così anche con Angelo Mai, fu impossibile andare al di là di rapporti di semplice cortesia, è in fin dei conti il ritratto dei "tanti" uomini di cultura che si aggirano per Roma, gente oziosa che vive «d’intrigo, d’impostura e d’inganno», colla quale però non si confonde la ristretta cerchia di studiosi stranieri, che privilegia soprattutto il salotto dell’ambasciatore olandese Reinhold, dove il poeta conosce Niebuhr, Bunsen, Jacopssen.
Arrivando a Roma aveva creduto di entrare nel giro dei grandi eruditi, come Cancellieri e Angelo Mai o dei grandi artisti come Canova; ma l’accoglienza è dappertutto di maniera, fatta di apparenze e sostanzialmente di indifferenza. Tra una frustrazione e l’altra, nella difficoltà di stringere qualche amicizia con le donne “difficili da fermare in Roma come in Recanati, anzi molto più, a causa dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza”, comincia a vacillare anche la speranza che lo aveva sempre sostenuto:
“Fuori del ristretto cerchio della città natale, doveva, secondo lui, esserci indubbiamente una donna più sensibile, più spirituale, più gentile, capace di dimenticare i difetti del corpo nella tenerezza del cuore, una donna che malgrado tutto, avrebbe il coraggio di amarlo” (Origo, cit., p. 208).
La consapevolezza della sua deformità comincia a fargli vivere la sua vita come una lunga malattia, portandolo a una solitudine sdegnosa e malinconica molto simile a quella che viveva a Recanati, ma più grave perché un’altra delle illusioni giovanili, quella di un ambiente vivibile diverso da Recanati, era ormai andata in frantumi, tanto da fargli scrivere nello Zibaldone qualche anno dopo:
Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente. Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all'esterna. Io era allora incapace di conciliar l'una vita coll'altra; tanto incapace, che io giudicava questa riunione impossibile, e mi credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti a vivere esternamente, non provassero più vita interna di quella ch'io provava allora, e che i più non l'avessero mai conosciuta. La sola esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su questo articolo. Ma quello stato fu forse il più penoso e il più mortificante che io abbia passato nella mia vita; perch'io, divenuto così inetto all'interno come all'esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita. (1. Dic. 1828.).
Deluso dall’ambiente e visto vano il tentativo di ottenere un impiego nell’amministrazione pontificia (si parlò di incarichi di vario genere fra cui quello di bibliotecario), il 28 aprile 1823, come aveva anticipato al padre in una lettera del 22, parte da Roma per far ritorno a Recanati, dove giunge il 3 maggio. In questo anno scrive una sola poesia, Alla sua donna, la più breve delle sue Canzoni: di essa così leggiamo nella prefazione all’edizione Nobili di Bologna del 1824.
La donna, cioè l’innamorata, dell’autore, è una di quelle immagini, uno di quei fantasmi di bellezza e virtù celeste e ineffabile, che ci occorrono spesso alla fantasia, nel sonno e nella veglia, quando siamo poco più che fanciulli, e poi qualche rara volta nel sonno, o in una quasi alienazione di mente, quando siamo giovani. Infine è la donna che non si trova. L’autore non sa se la sua donna (e così chiamandola, mostra di non amare altra che questa) sia mai nata finora, o debba mai nascere; sa che ora non vive in terra, e che noi non siamo suoi contemporanei; la cerca tra le idee di Platone, la cerca nella luna, nei pianeti del sistema solare, in quei de’ sistemi delle stelle. Se questa Canzone si vorrà chiamare amorosa, sarà pur certo che questo tale amore non può né dare né patir gelosia, perché fuor dell’autore, nessun amante terreno vorrà fare all’amore col telescopio.
Fino al 1827, tranne qualche eccezione, non scriverà più poesie, ma userà la prosa per esprimere quanto si agita nella sua anima.
1823-1824
La sera del 3 maggio 1823 Giacomo risale i gradini dello scalone di casa Leopardi, che aveva lasciato solo sei mesi addietro così pieno di speranze e di desideri, con l’unico vero bagaglio nuovo della sua inabilità a vivere, come scrive da Roma il 26 aprile, alla vigilia della partenza, a Pietro Giordani:
Fuor del vigore che non riacquisterò mai più, e della piena signoria de’ miei occhi e della mia testa, che parimente ho perduto per sempre posso dir che la mia salute è non solamente buona ma ottima. Non così bene posso dire del mio spirito , il quale assuefatto per lunghissimo tempo alla solitudine ed al silenzio, è pienamente ed ostinatissimamente nullo nella società degli uomini, e tale sarà in eterno, come mi sono accertato per molte anzi continue esperienze.
Ritornato da Roma trascorre a Recanati poco più di due anni, e sono pieni di solitudine e di noia, di ritorno all’antico, tanto che gli sembra di essere ritornato nel sepolcro di sempre. Ma sono due anni fecondi e vivi. Proseguendo l’approfondimento dei temi dell’esperienza esistenziale umana e dei perché che affannano l’uomo sin dalla sua nascita, riprende un progetto di cui parla già nel settembre 1820 in una lettera al Giordani: In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche; l’abbozzo diventerà più chiaro nei mesi seguenti, tanto che da Recanati l’11 maggio 1821 scriverà, riferendosi a Pietro Giordani, a Pietro Brighenti a Bologna: sto preparando un'operetta in prosa, che forse non gli sarà discaro di vedere.
Nel 1824 porta a compimento, quindi, le Operette morali, e forse nel mese di marzo il Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani; in agosto intanto esce, coi tipi del Nobili, un opuscolo che contiene le dieci Canzoni.
Nell’edizione definitiva del 1845 Le Operette morali sono 24, delle quali 19 scritte nel 1824, 1 nel 1825, 2 nel 1827, e le ultime due nel 1832: (l’ordine è della pubblicazione definitiva del 1845)

1
Storia del genere umano
19/1-7/2 1824
2
Dialogo d’Ercole e d’Atlante
10-13 febbraio 1824
3
Dialogo della moda e della Morte
15-18 febbraio 1824
4
Proposta di premi fatta dall’Accademia dei Sillografi
22-25 febbraio 1824
5
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo
2-6 marzo 1824
6
Dialogo di Malambruno e di Farfarello
1-3 aprile 1824
7
Dialogo della Natura e di un’Anima
9-14 aprile 1824
8
Dialogo della Terra e della Luna
24-28 aprile 1824
9
La scommessa di Prometeo
30/4-8/5 1824
10
Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
14-19 maggio 1824
11
Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare
1-10 giugno 1824
12
Dialogo della Natura e di un Islandese
21-30 maggio 1824
13
Parini, ovvero della gloria
6/7-13/8 1824
14
Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie
16-23 agosto 1824
15
Detti memorabili di Filippo Ottonieri
29/8-26/9 1824
16
Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez
19-25 ottobre 1824
17
Elogio degli uccelli
29/10-5/11 1824
18
Cantico del gallo silvestre
10-16 novembre 1824
19
Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco autunno
1825 (Bologna?)
20
Dialogo di Timandro e di Eleandro
14-24 giugno 1824
21
Il Copernico (Dialogo)
1827
22
Dialogo di Plotino e di Porfirio
Firenze? 1827
23
Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere
Firenze? 1832
24
Dialogo di Tristano e di un amico
Firenze? 1832
Le Operette sono un’opera maturata lentamente e profondamente sentita, tanto che così scrive all’editore Stella presentandogli il manoscritto il 12 marzo 1826:
Ha ella veduto il numero 61 dell’Antologia, gennaio 1826? È penetrato, ed ha avuto corso in cotesti Stati? Vi ha ella veduto il Saggio delle mie Operette morali? Le parlai già in Milano di questo mio ms. Ne abbiamo pubblicato questo Saggio in Firenze per provare se il ms. passerebbe in Lombardia. Giudica Ella che il ms. faccia a proposito per Lei? Bisognerebbe che si compiacesse di darmene una risposta non affatto indecisa, perché io ho esibizioni ed istanze di stamparlo da Firenze, da Torino, ed anche da Napoli, nei quali luoghi il mio nome non ha la disgrazia di essere così profondamente disprezzato come nella dotta e grassa Lombardia. La pregherei dunque di leggere, se le piace, con qualche attenzione quel Saggio, e dirmene il suo parere; perché piacendo a lei, rifiuterò qualunque altra occasione, come ho sospeso di accettarle fin qui, per intendere il piacer suo. Tutte le altre operette sono del genere del saggio, se non che ve ne ha parecchie di un tuono più piacevole. Del resto in quel ms. consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io l’ho più caro de’ miei occhi.
Giacomo ci tiene molto all’opera, tanto da scrivere in questi termini all’editore Stella il 6 dicembre 1826:
Colla schiettezza dell’amicizia le confesso che mi affligge un poco l’intendere il pensiero che Ella ha, di stampare le mie Operette morali nella Biblioteca amena; pensiero del quale io non aveva finora avuto altro cenno. Le opere edite non perdono nulla, entrando nelle Raccolte; ma io ho conosciuto per prova che le opere inedite, se per la prima volta escon fuori in una Collezione, non levano mai rumore, perché non si considerano se non come parti e membri di un altro corpo, e come cose che non istanno da sé. Poi, un libro di argomento profondo e tutto filosofico e metafisico, trovandosi in una Biblioteca per Dame, non può che scadere infinitamente nell’opinione, la quale giudica sempre dai titoli più che dalla sostanza. La leggerezza di una tal collezione è pregio del suo genere, ma non quando sia applicata al mio libro. Finalmente l’uscir fuori a pezzi di 108 pagine l’uno, nuocerà sommamente ad un’opera che vorrebb’esser giudicata dall’insieme, e dal complesso sistematico, come accade di ogni cosa filosofica, benchè scritta con leggerezza apparente. È vero che Ella darà poi tutto il libro in un corpo, ma il primo giudizio del pubblico sarà già stato formato sopra quei pezzi usciti a poco a poco, e molto lentamente: e il primo giudizio, è quello che sempre resta. – Malgrado di tutto ciò, se la cosa è assolutamente di sua convenienza, io farò un sacrifizio del mio amor proprio e della tenerezza particolare che ho per quel libro; e non mi opporrò; sebbene mi sarei certamente opposto a qual si fosse altro in tal caso. Ma se Ella non s’induce a inserir queste operette nella Biblioteca amena, se non per dar loro un qualche luogo; e del resto è indifferente su questo particolare; e non trova il suo conto a pubblicarlo altrimenti; io la pregherei a volermi rimandare il manoscritto per via sicura: e troverò altra occasione di darlo fuori, o lo riterrò presso di me più volentieri.
Sarebbe stato quindi disposto a non pubblicare l’opera piuttosto che vederla uscire nella Biblioteca amena per Dame.
Le Operette morali sono dialoghi o prose continuate, scritte con l’intento di offrire un ideale di prosa artistica degna della grande prosa classica applicata a un contenuto moderno, sul modello dei Dialoghi di Luciano, e quindi con un iniziale sentimento satirico. Per Leopardi rappresentano una meditazione sulla vita umana, alla scoperta delle origini dello stato d’infelicità nel quale il genere umano vive la sua quotidiana esperienza esistenziale. L’uomo ha accettato il suo destino di uomo solo e il suo dialogo è quello intimo col suo destino, con la natura, con la felicità sognata e sperata e mai raggiunta.
Ancora nella lettera del 6 maggio 1825 al Giordani, Leopardi sembra aver perso ogni speranza di poter uscire dal "sepolcro" di Recanati, con la possibilità di vivere senza l’aiuto economico dei suoi genitori; ma l’occasione si presenta nello stesso mese: Antonio Fortunato Stella aveva in programma un’edizione completa delle opere di Cicerone, alla quale avrebbero partecipato diversi autori con traduzioni e annotazioni e chiede al Leopardi di partecipare all’edizione. Leopardi risponde con una lettera del 18 maggio, confessandosi costretto a rifiutare l’offerta perché non disponeva dei mezzi finanziari sufficienti per mantenersi a Milano; alla nuova offerta di Stella, che avrebbe pagato spese di viaggio e lo avrebbe ospitato a casa sua, Leopardi non oppone più alcun rifiuto, ma si precipita ad accettare.
Terza parte
La maturità: i grandi Idilli
Il 12 o 13 luglio del 1825 parte per Milano, dopo aver ricevuto il permesso del padre, che facilmente glielo concede, (ma gli “spiccioli” per il viaggio deve chiederli allo zio Ettore), giungendovi il 30 dopo una sosta a Bologna dal 18 al 27. A Bologna rivede Giordani e conosce l’editore Pietro Brighenti che pubblica tra l’altro il «Caffè di Petronio», sul quale appare anonimo Il sogno. Il 27 parte controvoglia per Milano, ma durante il viaggio lo colpisce un violento dolore intestinale, che si acuisce col caldo e che lo farà soffrire per ben 14 mesi e di cui guarirà solo nell’inverno del 1827 (mi sono guarito nel cuor dell’inverno, di quel mio male del ventre, duratomi quattordici mesi, scrive infatti al Brighenti il 9 febbraio 1827). Questo male comunque tornerà spesso ad affliggerlo tanto da obbligarlo a non viaggiare più durante l’estate, quando potrà affrontare solo brevi viaggi e di notte. Il 29 giunge a Piacenza, dove pernotta, e il 30 giunge a Milano, accolto dall’editore Stella che lo aveva atteso alla fermata della carrozza.
A Milano, come abbiamo già detto, è ospite dell’editore Stella, nella casa situata vicino al Teatro alla Scala; ma il soggiorno milanese non è molto apprezzato dal poeta, attratto dal capoluogo bolognese, che spesso rimpiange sognando le passeggiate nel quartiere di San Petronio, anche se la capitale del Lombardo-Veneto è la città più moderna ed europea d’Italia, il vero centro della cultura così piena dei nuovi fermenti del Romanticismo, così vicina com’è alle nazioni europee di cultura francese e tedesca; ed è un soggiorno poco apprezzato anche perché gli uomini, come nella sua respinta Recanati, squadrano gli altri da capo a piedi allo stesso modo della gente di Montemorello alla ricerca degli altrui difetti, come scrive al fratello Carlo già il 31 luglio, il giorno dopo l’arrivo; poco di un mese dopo, il 7 settembre precisa il suo giudizio:
Ma tu non hai ben compreso il sentimento della mia lettera. L’imbarazzo di cui ti parlava, nasceva solamente dal tuono mercantile di questa casa, la quale mi parve a prima vista la peggior locanda che mi fosse toccata nel viaggio. Poi le cose si sono un poco accomodate, e io mi sono assuefatto, e fin dalla prima sera, quantunque mi paresse di non poter durare, io era però intrepido, perchè la mia pazienza non ha confini conosciuti. Del resto, e in casa e in Milano, io sono stato sempre très - à mon aise. Quello spirito di osservazione curiosa e insolente che tu notasti in Sinigaglia vi fu notato anche da me, e mi parve che arrivasse a un grado da far perdere la pazienza anche a un mio pari; quantunque io trovassi la città già piena di gente e di fracasso, ch’era un inferno. Ma da ciò tu non devi prendere idea delle capitali. Quel che ti scrissi di Milano, fu una mia osservazione precipitata. Il fatto si è che in Milano nessun pensa a voi, e ciascuno vive a suo modo anche più liberamente che in Roma.
A Bologna tornerà da Milano il 29 settembre, prendendo in subaffitto un appartamentino in casa di Vincenzo Aliprandi, nei pressi del teatro Nuovo, con l’aiuto di Pietro Brighenti, trattato con ogni riguardo; la paga che mensilmente gli passava l’editore Stella non bastava per i suoi bisogni più immediati, per cui fu costretto a racimolare qualche soldo dando lezioni private, a un certo Papadopoli, di cui diverrà abbastanza amico, e a un certo Polidoros: non era il massimo, ma certamente gli permetteva di sbarcare il lunario, conquistando un minimo d’indipendenza: ma quando verranno a mancare le lezioni private, sospese per motivi di salute o per impegni vari, diventerà indispensabile l’aiuto del padre. In questo periodo cerca invano, anche con l’aiuto di personaggi influenti, come Karl Bunsen ambasciatore Prussiano presso la Corte Papale, un’occupazione.
A Bologna stringe nuove amicizie, come quella con Carlo Pepoli (nel marzo 1826 scriverà Al conte Carlo Pepoli). Intanto, dopo essersi svincolato dall’impresa ciceroniana, lavora per l’editore Stella, con un accordo che gli assicura un assegno mensile, con l’impegno di curare l’edizione di alcune grandi opere classiche della Letteratura italiana; nel mese di giugno usciranno infatti le Rime di Francesco Petrarca con «l’interpretazione composta dal conte Giacomo Leopardi», nel ‘27 la Crestomazia italiana della prosa e nel ‘28 la Crestomazia italiana poetica, due antologie che andava già preparando da un paio d’anni.
Il soggiorno bolognese però non gli fa avere nuove grandi conoscenze: trascorre giornate vuote. “lontano da casa non aveva scoperto né le donne, come si era augurato a Roma, né le distrazioni, ma soltanto la sua incapacità di vivere con gli altri. Il suo habitat ideale era proprio quello coltivato da Monaldo: lo scrittoio di una camera affastellata di libri con le finestre chiuse e all’improvviso aperte come d’impeto, per ascoltare il rumore del mondo” (Damiani, All’apparir del vero, Mondadori, p. 261). La passione per Bologna era ormai svanita e nelle lunghe passeggiate novembrine verso la chiesa di San Luca e nell’ambiente circostante cerca reminiscenze di Recanati.
Trascorre così il lungo inverno, triste e freddo, allietato talvolta dalle visite in casa del medico Tommasini, di cui diventa amico e dall’affettuosa amicizia di Adelaide, la giovane figlia che sposerà un certo Maestri e che diventerà amica anche di Paolina Leopardi.
Il lunedì di Pasqua 1826 all’Accademia dei Felsinei legge l’ode A Carlo Pepoli, in una serata lunga e piena di noia: l’esibizione di Leopardi delude tutti e viene definita quella d’un dotto letterato di tetro umore. Alla seduta partecipa anche Teresa Carniani Malvezzi, nata a Firenze nel 1785 e sposatasi sedicenne con il conte Francesco Malvezzi de’ Medici, amica e corrispondente del Monti, gentildonna dilettante di letteratura, poetessa desiderosa di trovarsi al centro dell’attenzione, non bella. Teresa aveva assunto il nome arcadico di Ipsinoe Cidonia e teneva un salotto “letterario” a Bologna; si vantava di aver studiato geometria da bambina e di averne ripreso gli studi, dopo il matrimonio, insieme a quello delle letterature classiche, della filosofia e delle lingue moderne col celebre Mezzofanti, che si diceva conoscesse una ventina di lingue, parlandole abbastanza correntemente. Giacomo comincia a frequentare il suo salotto; e lui che non aveva ancora conosciuto una donna in grado di capire ciò che lui le diceva, provò per Teresa, per la prima volta in vita sua una sconvolgente e inebriante sensazione mai provata prima. Così ne parla in una lettera al fratello Carlo:
Bologna 30 maggio 1826
...
Sono entrato con una donna (Fiorentina di nascita) maritata in una delle principali famiglie di qui, in una relazione, che forma ora una gran parte della mia vita. Non è giovane, ma è di una grazia e di uno spirito che (credilo a me, che finora l’avevo creduto impossibile) supplisce alla gioventù, e crea un’illusione meravigliosa. Nei primi giorni che la conobbi, vissi in una specie di delirio e di febbre. Non abbiamo mai parlato di amore se non per ischerzo, ma viviamo insieme in un’amicizia tenera e sensibile, con un interesse scambievole, e un abbandono, che è come un amore senza inquietudine. Ha per me una stima altissima; se le leggo qualche mia cosa, spesso piange di cuore senz’affettazione; le lodi degli altri non hanno per me nessuna sostanza, le sue mi si convertono tutte in sangue, e mi restano tutte nell’anima. Ama ed intende molto le lettere e la filosofia; non ci manca mai materia di discorso, e quasi ogni sera io sono con lei dall’avemaria alla mezzanotte passata, e mi pare un momento. Ci confidiamo tutti i nostri secreti, ci riprendiamo, ci avvisiamo dei nostri difetti. In somma questa conoscenza forma e formerà un’epoca ben marcata della mia vita, perché mi ha disingannato del disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili, e che io sono ancor capace d’illusioni stabili, malgrado la cognizione e l’assuefazione contraria così radicata, ed ha risuscitato il mio cuore, dopo un sonno, anzi una morte completa, durata per tanti anni.
Tanti, crediamo, quanti ne sono passati dall’incontro con la cugina Geltrude Cassi nel lontano 1817; ma l’amicizia così intensa non poteva passare inosservata agli occhi del marito di Teresa che talora la rimprovera di trattenere l’ospite fino a mezzanotte, come afferma lei stessa in una lettera inviata a Giacomo:
“Gentilissimo Leopardi, iersera mi sono buscata una bella chiassata per avere avuto l’indiscrezione di trattenervi sino a mezza notte. La mia cara metà si adombra di tutte le visite che mi vengono fatte frequenti e lunghe. Ed io sono al mondo per soffrire una dose di più degli altri viventi, e per tenermi sempre esercitata nella virtù dell’asino, nella santa pazienza”.
La relazione con Teresa si interrompe nel mese di ottobre, per naturale consunzione, vista l’impossibilità di qualsiasi altro sbocco; così le scrive Giacomo per l’ultima volta:
Bologna s.d., ma Ottobre 1826
Contessa mia. L’ultima volta che ebbi il piacere di vedervi, voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite. Non crediate ch’io mi chiami offeso; se volessi dolermi di qualche cosa, mi dorrei che i vostri atti, e le vostre parole, benché chiare abbastanza, non fossero ancora più chiare ed aperte. Ora vorrei dopo tanto tempo venirvi a salutarvi, ma non ardisco di farlo senza vostra licenza. Ve la domando istantemente, desiderando assai di ripetervi a voce che io sono, come ben sapete, vostro vero e cordiale amico Giacomo Leopardi.
Una breve parentesi è il viaggio che compie a Ravenna su invito di un lontano parente, il marchese Antonio Cavalli, che desiderava mostrargli una traduzione di Cavalli, da pubblicare magari con lo Stella e che uscirà in effetti l’anno successivo ed avrà un discreto successo di pubblico. Leopardi parte da Bologna il 2 agosto e vi fa ritorno il 13, un breve soggiorno durante il quale visita la tomba di Dante, che però non gli dà le stesse profonde sensazioni della tomba di Tasso. A Ravenna viene trattato con molti riguardi dai genitori di Antonio Cavalli, che lo induce a scrivere una lettera di raccomandazione per l’editore Stella, che rifiuterà comunque la pubblicazione.
Il 3 novembre 1826 lascia Bologna e rientra a Recanati dove giunge il 10 dopo un cattivo viaggio e un giro poco felice per la Romagna, dopo 15 mesi di assenza durante i quali era riuscito a mantenersi da solo, ma non aveva avuto quella fortuna, ch’era lecito aspettarsi, vista la qualità e l’importanza di chi cercava di aiutarlo (basta ricordare l’erudito Karl Bunsen che svolgeva a Roma incarichi diplomatici come segretario dell’ambasciata di Prussia, successore di Niebhur, che dal 1816 al 1823 era stato l’incaricato di affari del governo Prussiano presso la Curia Romana), che gli permettesse di avere un impiego stabile: dalle stanze vaticane arrivarono soltanto promesse, concrete ma solo promesse.
Per tutto l’inverno Leopardi vive praticamente recluso nella casa di Montemorello e dal suo arrivo la prima volta che uscirà sarà il giorno della partenza per Bologna (come scrive a Puccinotti il 21 aprile: Quanto a me, la prima volta che in Recanati sarò uscito di casa, sarà dopo dimani, quando monterò in legno per andarmene) e trascorre l’intera giornata nella biblioteca paterna, concedendosi solo qualche passeggiata lungo lo stretto corridoio sul quale si aprono le varie stanze della casa, e alla sera soffre il freddo, anche se non come quello sofferto nell’inverno precedente a Bologna.
Alla fine del mese di febbraio 1827 comincia la correzione delle bozze delle Operette morali, che aveva consegnato il 12 maggio dell’anno prima al Moratti, agente dell’editore Stella colla promessa che sarebbe stato stampato nella collana “Biblioteca amena ed istruttiva per le donne gentili” “se l’autore non si fosse opposto”, proposito che, come abbiamo visto, scatena la reazione negativa di Leopardi che ottiene che la pubblicazione avvenga in volume unico e al di fuori di qualsiasi collana come a se stante nel 1827.
Il “pessimismo cosmico”
Gli anni dal 1823 con i viaggi a Milano e Bologna, la composizione delle Operette morali, il soggiorno a Recanati portano il poeta a un approfondimento delle problematiche umane, andando al di là del pessimismo storico. La coscienza dell’infelicità umana lo porta alla concezione del pessimismo cosmico. La Natura non è più la madre benefica che a tutto provvede e sparge speranze nell’età giovanile a piene mani e si manifesta nella bellezza del mondo, ma diventa una forza meccanica che affatica tutte le cose di moto in moto, in ogni momento dell’esistenza degli uomini degli animali e delle piante nel ciclo perenne di trasformazione della materia. In questo universo, di cui l’uomo ignora ragioni e finalità, anche se una divinità superiore e inconoscibile dovrebbe conoscere tutto (la luna nel Canto notturno):
E tu certo comprendi
Il perchè delle cose, e vedi il frutto 70
Del mattin, della sera,
Del tacito, infinito andar del tempo.
Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore
Rida la primavera,
A chi giovi l'ardore, e che procacci 75
Il verno co' suoi ghiacci.
Mille cose sai tu, mille discopri,
Che son celate al semplice pastore.
...
A che tante facelle?
Che fa l'aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?
...
Uso alcuno, alcun frutto
Indovinar non so....
Ma a differenza degli animali e delle cose l’uomo ha il dono funesto della ragione e della coscienza dell’esistenza e del trascorrere sulla propria pelle, fino alla morte, alla caduta nell’orrido abisso del nulla, che non è da intendere semplicemente come ciò che non esiste, ma come il vuoto che precede il mondo sensibile nel quale noi viviamo, un mondo sconosciuto e inconoscibile che è orrido come orrido è tutto ciò che non assume le forme note del mondo che noi conosciamo
Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male; l'esistenza è un male e ordinata al male; il fine dell'universo è il male; l'ordine e lo stato, le leggi, l'andamento naturale dell'universo non sono altro che male, nè diretti ad altro che al male. Non v'è altro bene che il non essere; non v'ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose: tutte le cose sono cattive. Il tutto esistente; il complesso dei tanti mondi che esistono; l'universo; non è che un neo, un bruscolo in metafisica. L'esistenza, per sua natura ed essenza propria e generale, è un'imperfezione, un'irregolarità, una mostruosità. Ma questa imperfezione è una piccolissima cosa, un vero neo, perchè tutti i mondi che esistono, per quanti e quanto grandi che essi sieno, non essendo però certamente infiniti nè di numero nè di grandezza, sono per conseguenza infinitamente piccoli a paragone di ciò che l'universo potrebbe essere se fosse infinito; e il tutto esistente è infinitamente piccolo a paragone della infinità vera, per dir così, del non esistente, del nulla.
Questo sistema, benchè urti le nostre idee, che credono che il fine non possa essere altro che il bene, sarebbe forse più sostenibile di quello del Leibnitz, del Pope ec. che tutto è bene. Non ardirei però estenderlo a dire che l'universo esistente è il peggiore degli universi possibili, sostituendo così all'ottimismo il pessimismo. Chi può conoscere i limiti della possibilità?...
Così scrive sullo Zibaldone in Bologna il 19 aprile 1826; e queste poche parole ci fanno capire due cose fondamentali: 1) in Leopardi non si può parlare con rigore di pessimismo (il brano riportato sopra è l’unico in cui compare la parola pessimismo); 2) in Leopardi dobbiamo mettere l’attenzione sulle due dicotomie felicità-infelicità e finito-infinito, la prima riguarda essenzialmente l’esistenza umana, la seconda ciò che si trova al di là della vita e l’eternità, cioè il nulla eterno, ciò che non può essere compreso dalla mente umana perché questa è limitata e finita.
Non possiamo parlare a rigor di logica di pessimismo storico o cosmico, ma di infelicità storica o cosmica, e quindi di un’esistenza infelice che finisce nel nulla eterno, per cui in questa esistenza tutto diventa vano e inutile e all’uomo non resta che avere la coscienza di questa vita, in cui la sofferenza quotidiana è nobilitata dalla dignità umana e dalla non rassegnazione al meccanicismo universale. Così scrive nello Zibaldone in Bologna il 13 luglio 1826:
Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità, ossia il minor grado possibile d'infelicità, consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. (13 luglio 1826)
Siamo con questo giunti alla fine del secondo dei tre stadi della gioventù, che è quello della “disperazione furibonda e renitente”, elencati in modo aparentemente arido nello Zibaldone alla data del 3 Giugno 1826, mentre si trovava in Bologna:
Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione rassegnata.
È una delle concenzioni più profondamente umane e sofferte dell'anima leopardiana sull'età della gioventù, un pensiero che si stacca nettamente non solo dalla morale corrente, ma anche dalla concezione religiosa e cattolica della vita, perché sgancia il pensiero umano dai concetti rigidi della formulazione dogmatica della Chiesa per calarli nell'humus stesso delle radici del vivere quotidiano che si sostiene sui tre pilastri della concezione religiosa, della concezione politica e della concezione familiare. Tre concezioni che non potranno mai essere in contrasto fra loro senza creare il rischio di una disintegrazione statuale o di una crisi individuale-umana o di una rivoluzione sociale.
I tre stati della gioventù vanno ben al di là della concezione romantica, perché pongono il problema dell'uomo sul piano eminentemente filosofico... ma le concezioni filosofiche avevano preso ben altra via e quelle del Leopardi non potevano essere prese veramente sul serio, perché facevano intravvedere una commistione di piani (filosofico, religioso e umano-sociale) che risultano difficilmente conciliabili.
Ecco: il difficile è proprio conciliare questi tre stati della gioventù con con i tre stati generali dell'uomo.
1827-1837
1827: Bologna – Firenze
Il 23 aprile riparte da Recanati per Bologna dove giunge il 26 d’aprile e vi si trattiene per quasi due mesi; alloggia alla Locanda della Pace, dove nella prima decade di giugno lo raggiunge l’editore Stella, che alloggia per cinque giorni nella stessa locanda per aver più agio di parlare con Leopardi, che nel frattempo soffre di una aggravata flussione agli occhi, che non si presentava in questo modo dal 1819, quasi consigliere oltre che autore; è in quei giorni che Leopardi consegna il manoscritto della Crestomazia e discute di altri progetti, come di una “enciclopedia delle cognizioni inutili e delle cose che non si sanno”, congegnata con i materiali dello Zibaldone, sul modello del Dizionario filosofico di Voltaire; in giugno esce la prima edizione delle Operette morali.
Il 20 giugno parte da Bologna in compagnia di don Luigi Masi, amico di Brighenti, spia tra l’altro del governo pontificio, che nella vita di Leopardi rappresenta un elemento più negativo che positivo, anche se era stato sempre trattato amichevolmente e con fiducia dal poeta recanatese. Il 21 arriva a Firenze dove si sistema all’albergo della Fontana nei pressi del Mercato del grano e di Palazzo Vecchio su consiglio di Giordani e dello stesso Brighenti. A Firenze frequenta l’ambiente del Gabinetto Vieusseux, entrando in contatto con Gino Capponi, Niccolò Tommaseo, Pietro Colletta, Alessandro Poerio e dove conosce il giovane esule napoletano Antonio Ranieri, che una grande parte avrà nella sua vita. Ma le condizioni spirituali, determinate da una triste meditazione su quanto aveva raggiunto fino a quel momento, lo gettano in una disperazione un po’ sorda, tanto da fargli scrivere all’amico Francesco Puccinotti di Macerata il 16 agosto:
Sono stanco della vita, stanco della indifferenza filosofica, ch'è il solo rimedio de' mali, e della noia, ma che in fine annoia essa medesima. Non ho altri disegni, altre speranze che di morire. Veramente non metteva conto il pigliarsi tante fatiche per questo fine.
Il 3 settembre, durante un ricevimento offerto dal Gabinetto Vieusseux in onore di Alessandro Manzoni, avviene l’incontro tra il poeta recanatese e il grande scrittore e poeta milanese, che aveva appena pubblicato I promessi sposi; così descrive al padre Monaldo l’avvenimento qualche giorno dopo:
Firenze 8 settembre 1827
Carissimo Signor Padre. Rispondo pur troppo tardi alla cara sua ultima, ma Ella non si può immaginare la pena che mi dà lo scrivere, a causa del cattivo stato de’ miei occhi. Sono costretto a mancare non solo all’affezione, ma anche alla creanza, lasciando senza risposta parecchie lettere che mi vengono da persone degne di riguardo. La mia debolezza d’occhi è la più grave ed ostinata che io abbia sofferto da otto anni in qua: tuttavia spero nell’inverno; ma l’autunno al solito me la rende più molesta. Del rimanente, grazie a Dio, sto bene, eccetto incomodi leggeri di flussioni e di stomaco. Ella indovina assai bene che io non posso curarmi molto di certe alte conoscenze, dalle quali anche non potrei sperar nulla. Me la passo con questi letterati, che sono tutti molto sociali, e generalmente pensano e valgono assai più de’ bolognesi. Tra’ forestieri ho fatto conoscenza e amicizia col famoso Manzoni di Milano, della cui ultima opera tutta l’Italia parla, e che ora è qui colla sua famiglia. ...
Sono parole fredde, di circostanza, come quelle che scrive all’amico Brighenti lo stesso giorno: Io qui ho avuto il bene di conoscere personalmente il signor Manzoni, e di trattenermi seco a lungo: uomo pieno di amabilità, e degno della sua fama., che corregge in parte ciò che allo stesso Brighenti aveva scritto il 30 Agosto: Qui si aspetta Manzoni a momenti. Hai tu veduto il suo romanzo, che fa tanto rumore, e val tanto poco?; e questo è anche l’unico cenno al romanzo, che Leopardi fino a quel momento non aveva neanche visto e ne aveva sentito leggere qualche pagina in una delle serate alle quali partecipava a Firenze.
Il nove di novembre si trasferisce a Pisa, facendo il viaggio in compagnia di Gaetano Cioni che accompagnava all’Università pisana il figlio Girolamo; il viaggio dura l’intera giornata, comprese due ore di sosta a Pontedera per permettere al poeta di far colazione; grazie al Cioni trova alloggio in un piccolo appartamento di via della Faggiuola, a casa di Giuseppe Soderini, soprannominato Nocciolo, di modesta ma decorosa condizione sociale; Soderini, come l’Aliprandi di Bologna, fornisce camere in affitto praticando prezzi per studenti. A Pisa trova le condizioni climatiche più adatte alle sue malferme condizioni di salute ed entra in rapporto con diversi ambienti mondani e culturali, dove viene accolto con molto favore.
In casa Soderini conosce Teresa Lucignani, cognata del padrone di casa, bionda con gli occhi azzurri e una folta capigliatura di boccoli inanellati, che lo incantava con la sua freschezza. La donna “non aveva ricevuto una vera istruzione e questo apparente difetto conferiva una grazia particolare alle sue maniere dolci, alle sue parole timide”. Ancora nella sua vecchiaia, intervistata dalla «Gazzetta letteraria» ricordava “il poeta come un uomo abitudinario e curioso, che osservava per strada con tale attenzione le coppie di innamorati da essere in grado di descrivere nei minimi dettagli i loro abiti, gli accenti della voce, le andature. Spesso si metteva alla finestra a spiare il passare delle donne” (Damiani, p. 330). Teresa rimase affezionata nel tempo all’omino deforme, che passava per uno scienziato pur studiando poco e solo alla luce del giorno e alla domenica non andava a messa. L’incontro con Teresa lo aceca riportato ai primi moti del cuore vissuti nella sua Recanati, una via di Pisa, in particolare, nella quale andava a passeggiare e che aveva ribattezzato Via delle Rimembranze, aveva risvegliato in lui sentimenti sopiti, sensazioni che sembravano passate. Ed è proprio allora che ritorna alla poesia: comincia il periodo dei Grandi Idilli. Una qualche importanza ha certamente avuto per il suo ritorno alla poesia il personaggio di Teresa, una delle pochissime persone che poteva chiamarlo Giacomo e non conte, e Pisa, che univa in sè la caratteristica della grande città e l’intimità del borgo paesano.
1828
Il 1828 è contrassegnato dalla rinata vena poetica, da cui sgorgano versi veramente all’antica: in aprile nasce A Silvia e il 2 maggio così scrive alla sorella Paolina (riportiamo la lettera integralmente):
Pisa 2 Maggio 1828
Paolina mia. Tu ti lagni del mio lungo silenzio. Ma io, dopo aver risposto a Pietruccio, ti scrissi poco fa, e ti feci la stessa lagnanza, ora vedo che quella lettera non ti è arrivata. Le nuove che tu mi dài degli incomodi sofferti da Babbo e da Mamma e da voi altri, benché gl’incomodi, grazie a Dio, siano stati leggeri, mi hanno dispiaciuto molto; anzi mi tengono ancora angustiato; e ti prego per carità, che appena avrai ricevuto questa, mi scriva subito per dirmi che tutti siete guariti perfettamente e state bene. Dimmi ancora se domani sarete andati a fare la vostra solita scampagnata. Fatti anche dare la lettera che scrissi a Pietruccio, e rispondi a un’interrogazione che ci troverai. Io, grazie a Dio, non ho avuto mai febbre, come voi altri: la primavera mi ha incomodato e m’incomoda ancora molto, ma non mi ha mai fatto ammalare, e gl’incomodi sono passeggeri. Ma veramente la stagione è stata cattiva ancor qui, non tanto per il freddo, quanto per l’incostanza, e per il caldo fuor di tempo. Qui e in Firenze il terremoto non si è sentito, se non da certi pochi che l’hanno detto dopo che l’han visto annunziato nella gazzetta. Dimmi se costì è stato tanto forte da metter paura. Dì a Carlo che per baratto di copie della Crestomazia, ho acquistato qui, fra certi libri, la storia di Ginguené, edizione francese, che mi ricordo che egli leggeva con piacere. Bacia la mano a Babbo e Mamma: salutami tutti: abbiti cura, e non stare al sole. Io ho finita ormai la Crestomazia poetica: e dopo due anni, ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel mio cuore d’una volta. Addio, addio.
Il 4 maggio muore di tisi il fratello Luigi ventiquattrenne e grande è il dolore di Giacomo che avrebbe voluto recarsi subito a Recanati per stare vicino ai suoi familiari, ma la salute glielo impedisce: la stagione calda è già inoltrata e non può viaggiare di giorno; leggiamo integralmente la lettera inviata al padre Monaldo:
Pisa 18 maggio 1828
Mio carissimo Signor Padre. Non le parlerò del mio dolore, il quale è tanto, che io non giungo ad abbracciarlo tutto intero. Sento troppo bene quanto Ella abbia bisogno di consolazioni piuttosto che d’altro; e il pensiero dello stato suo, e di quello della Mamma e dei fratelli, è uno dei principali fra quelli che mi fanno pianger tanto.
Fino dal momento che ricevetti la cara sua dei 2, la lontananza in cui mi trovo da loro cominciò a diventarmi acerbissima. Ora poi essa mi riesce quasi insopportabile; e se tutto il viaggio di qui a Recanati si potesse far di notte, come si fa con sicurezza di qui a Firenze, io l’accerto senza alcuna esagerazione, che a quest’ora o sarei già in cammino alla volta loro, o sul punto di partire. Ma perché conosco che avendo a viaggiar di giorno, in questa stagione già per me inoltrata, non potrei reggere al caldo, dal quale ancor qui bisogna che mi abbia una cura straordinaria, sono costretto con mia gran pena ad aspettare fino alla stagione più fresca; nel qual tempo, se Dio mi darà vita, e tanta salute da poter solamente salire in un legno, non vi sarà cosa al mondo che mi impedisca di mettermi in viaggio per tornar fra loro. Intanto, per questi pochi mesi, la supplico a fare ch’io abbia le loro nuove colla maggior frequenza possibile: non potrei più viver quieto in nessuna maniera, se mi trovassi per qualche tempo senza notizie precise dello stato loro. Io per la mia parte non mancherò d’informarla del mio con altrettanta frequenza. Ora, grazie a Dio, sto bene, e rassegnato al voler divino.
Ebbi la sua lettera ier l’altro; ma quel giorno non ebbi forza di scrivere. Non ho veduto Rossi, e non me ne maraviglio, perché Ella non avrà potuto sapere il suo nome di battesimo (Antonio), ed essendo qui moltissimi i Rossi, è difficile che la lettera sia capitata al suo destino. I miei teneri saluti a tutti. Ella si abbia cura, e mi benedica. Il suo Giacomo.
Il male che si porta dietro è già tanto pesante da sopportare che bisogna che stia attento a tutto, e soprattutto ai viaggi e al caldo, perché la sua sofferenza maggiore riguarda lo stomaco, così sensibile ai cambiamenti di calore, i nervi; proprio la respirazione, sulla carrozza unitamente al caldo del giorno, diventa molto pericolosa: un male questo che lo affliggeva già dal 1825 manifestatosi durante il primo viaggio a Milano e che ben per 14 mesi lo fece star male.
Dopo il viaggio di una notte, la mattina del 10 giugno ritorna a Firenze e nei primi giorni del soggiorno fiorentino viene colpito di nuovo dal disturbo agli intestini che lo aveva colpito a Milano, come scrive ad Adelaide Maestri. Quest’ennesimo malanno serve solo a convincerlo che il suo corpo mal sopporta i viaggi e ha bisogno di una vita più tranquilla e sedentaria, contrariamente a quanto avverrà. Il soggiorno a Firenze è caratterizzato da una salute particolarmente precaria, con emicranie troppo frequenti e gonfiori agli occhi che gli impedivano di leggere e scrivere e quasi di pensare. Deve perfino rifiutare l’offerta di una cattedra di studi danteschi all’Università di Bonn, offertagli da Karl Bunsen, rifiuto determinato soprattutto dall’incapacità di sopportare il freddo di Bonn e in piccola parte dal timore di lasciare i suoi affetti più cari.
Il rapporto con Firenze e coi fiorentini diventa in questo periodo un po’ difficile, per le insistenti lamentele di Giacomo, difficili da sopportare quando diventano continue e immutabili senza lo spiraglio di una reazione accettabile di fronte agli eventi pur negativi della sua salute. Ben altra avrebbe dovuto essere l'aria nei salotti e il poeta sempre più viene sentito come un "oggetto" estraneo e fastidioso sul quale corrono dicerie malevole e pettegolezzi pronunciati a bassa voce.
In questo periodo conosce Vincenzo Gioberti, che nutrirà una sconfinata ammirazione per la poesia leopardiana per il cui autore nutriva una istintiva affinità sentimentale e culturale, fatta di una idealità un po’ staccata dalla realtà e dalla praticità quotidiana. Il soggiorno fiorentino dura fino al 10 novembre, quando parte per l’ultima volta per Recanati, proprio con Gioberti che trascorrerà anche una notte in casa del poeta. Sarà l’ultima volta che si vedranno: la lontananza di Torino, e soprattutto la diversità delle vicende che caratterizzeranno le loro esistenze non permetteranno alcun altro incontro; e certamente questo influì in modo negativo sulla spiritualità di Giacomo e sulla sua capacità di accettare la vita.
Recanati
Dopo 11 giorni di viaggio, il 21 novembre ritorna a casa e non sa quanto vi si fermerà: “forse per sempre”: vi trascorrerà sedici mesi, fino alla partenza definitiva, sempre col desiderio vivissimo di scappare via, come scrive ad Adelaide Maestri il 31 dicembre:
Lo stato della mia salute è l’ordinario; e questo valga a dispensarmi dall’entrare in una materia che mi annoia. Quanto a Recanati, vi rispondo ch’io ne partirò, ne scapperò, ne fuggirò subito ch’io possa; ma quando potrò? Questo è quello che non vi saprei dire. Intanto siate certa che la mia intenzione non è di star qui, dove non veggo altri che i miei di casa, e dove morrei di rabbia, di noia e di malinconia, se di questi mali si morisse.
Le chiede anzi di guardarsi attorno con discrezione per vedere se “si potesse trovare costà in Parma un impiego letterario onorevole, e di non troppa fatica; tale, che si potesse accordare colla mia salute”. Ed un lavoro in effetti viene trovato: una cattedra di insegnamento di Storia naturale all’Università di Parma, per interessamento dell’amico Tommasini, padre di Adelaide Maestri: ma non se ne fa niente anche perché il “salario” mensile di soli quattro luigi al mese non avrebbe permesso al poeta di essere economicamente indipendente dai suoi genitori. L’implorazione ad Adelaide Maestri viene rivolta anche ad altri amici. Nel mese di febbraio del ’29, mentre il padre Monaldo si trova a Roma per un impegno, Carlo si sposa segretamente con Paolina Mazzagalli, bella ma squattrinata, scatenando una reazione abbastanza violenta nella famiglia; viene perdonato dal padre, ma di fatto per 12 anni la sposa non potrà mettere piede in casa Leopardi. Giacomo perde il fratello, che va a vivere in casa della sposa, l’amico e il confidente, perché le loro strade ormai divergono nettamente e a parte alcune lettere non si incontreranno più.
Con l’uscita di casa del fratello, la sua solitudine diventa più dolorosa e aspra, tanto da ridursi non solo a mangiare da solo, e una sola volta al giorno, ma anche a vedere poco gli stessi familiari, rintanato nella sua camera e nella biblioteca paterna. Senza compagni né tranquillità, incapace di evadere da se stesso e dalle sue ossessioni, visse sprofondato in uno scoramento peggiore di quanti ne aveva conosciuti mai. Persino i suoi congiunti, osservandolo, dovettero ammettere che “in nessun posto era infelice quanto a casa sua” (Origo, p. 315). Oltretutto l’aggravarsi dell’oftalmia tra settembre e novembre, tale da impedirgli persino di leggere e scrivere, lo aveva nuovamente strappato alle sue letture. Ma neanche una situazione così drammatica sul piano spirituale riuscì a smuovere i coniugi Leopardi dal tendere una mano al figlio e permettergli di uscire da Recanati aiutandolo economicamente.
Questo soggiorno recanatese (21 novembre 1828 – 29 aprile 1830) è uno dei più fecondi della poesia leopardiana; nascono i grandi idilli: Il passero solitario, Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia.
All’inizio del 1830 riceve un’ennesima delusione: il 9 febbraio viene tenuta la rituale adunanza dell’Accademia della Crusca per l’assegnazione, che avveniva ogni 5 anni, di un premio di mille scudi destinato a un’opera che congiungesse «purità ed eleganza di stile ... all’importanza della materia»; i voti vengono così distribuiti: 13 a Carlo Botta per la sua Storia d’Italia dal 1789 al 1814, uno a un certo Michelangelo Lanci che aveva pubblicato un’opera sulla Sacra scrittura illustrata con monumenti assiri ed egiziani ed infine uno a Leopardi per le sue Operette morali, dato da Gino Capponi o più probabilmente dall’amico Niccolini. Alcuni membri dell’Accademia non votarono il Leopardi per il tono antireligioso, per cui non potevano in effetti dirsi morali, ed altri non amavano il tono fantastico di alcune operette, specialmente La storia del genere umano.
Il 23 marzo riceve una lettera di Pietro Colletta che gli comunica l’invito a nome di «amici di Toscana» a trasferirsi a Firenze, come loro ospite, con un prestito, per un anno, di «18 francesconi al mese: questa una parte della lettera del Colletta, che comunque faceva seguito a una proposta che aveva fatto già al Leopardi il 18 aprile di un anno prima, invitandolo a seguire le orme del Botta (“Non potreste far voi come fece il Botta? Ossia, ricevere un assegnamento mensuale; lavorare a volontà, vendere i lavori, restituire le somme ricevute...”):
Sta a voi venire a viver tra noi, provvedere alla vostra salute, compiacere i vostri amici. Mi diceste una volta che 18 francesconi al mese bastavano al vostro vivere: ebbene 18 francesconi al mese Voi avrete per un anno, a cominciare, se vi piace, dal prossimo aprile. Io passerò in vostre mani, con anticipazione da mese a mese, la somma suddetta, ma non avrò altro peso ed ufficio che passarla: nulla uscirà di mia borsa: chi dà non sa a chi dà; e Voi che ricevete, non sapete da quali. Sarà prestito, qualora vi piaccia di rendere le ricevute somme; e sarà meno di prestito, se la occasione di restituire mancherà...
Giacomo, che aveva rifiutato la precedente proposta
“ma vi confesso ch’io non mi so risolvere a pubblicare in quel modo la mia mendicità. Il Botta ha dovuto farlo per mangiare: io non ho questa necessità per ora; e quando l’avessi, dubito se eleggerei prima il limosinare, o il morir di fame. E non crediate che questa mia ripugnanza nasca da superbia; ma primieramente quella cosa mi farebbe vile a me stesso, e così mi priverebbe di tutte le facoltà dell’animo; poi non mi condurrebbe al mio fine, perché stando in città grande, non ardirei comparire in nessuna compagnia, non godrei nulla, guardato e additato da tutti con misericordia.” 26-4-1829).
così risponde:
Recanati 2 aprile 1830
Mio caro Generale. Né le condizioni mie sosterrebbero ch’io ricusassi il benefizio, d’onde e come che mi venisse, e voi e gli amici vostri sapete beneficare in tal forma, che ogni più schivo consentirebbe di ricever benefizio da’ vostri pari. Accetto pertanto quello che mi offerite, e l’accetto così confidentemente, che non potendo (come sapete) scrivere, e poco potendo dettare, differisco il ringraziarvi a quando lo potrò fare a viva voce, che sarà presto, perch’io partirò fra pochi giorni. Per ora vi dirò solo che la vostra lettera, dopo sedici mesi di notte orribile, dopo un vivere dal quale Iddio scampi i miei maggiori nemici, è stata a me come un raggio di luce, più benedetto che non è il primo barlume del crepuscolo nelle regioni polari.
Io abitai costì tre mesi in via del Fosso (che è confusa per lo più con via Fiesolana), al numero 401, primo piano, con certe signore Busdraghi, buone persone e discrete. Se avrete tanta bontà di mandare a queste a chiedere se hanno camera per me che sia disoccupata, e in caso che l’abbiano, farmene avviso a Bologna, mi farete cosa carissima ed utile, perch’io andrò diritto a smontare a quell’alloggio. In caso che non l’abbiano, basterebbe, senz’altro scrivere, che vi compiaceste di fare avvisare quelli della Fontana che vedano di tenermi libera la camera che io abitava.
Addio, mio caro Generale. Non vi chiedo né della salute vostra né della storia, perché spero di parlarvene presto, e ne parleremo assai. Il vostro Leopardi.
Quarta parte
La ginestra
Addio Recanati
La mattina del 30 aprile 1830 lascia Recanati per l’ultima volta, perché non vi farà più ritorno e non vedrà più i suoi parenti; sua madre e Paolina lo abbracciarono teneramente, Carlo non c’era, il padre nemmeno, perchè forse non avrebbe retto al dolore per la partenza del figlio, che aveva salutato quasi di sfuggita la sera precedente. Sosterà a Bologna dal 3 al 9 maggio all’albergo della Pace in strada Santo Stefano e passerà qualche ora serena in casa Tommasini, uno dei migliori medici dell’Università di Bologna, conosciuto come paziente e in breve tempo divenuto amico, insieme alla moglie Antonietta e alla figlia sposata, la delicata e romantica Adelaide Maestri, di cui abbiamo già fatto cenno. Il 10 maggio giunge a Firenze e si ferma alla locanda della Fontana; il 10 giugno va ad abitare in Borgo degli Albizi ed alla fine dell’estate in via del Fosso (ora via Verdi), in due stanze presso le sorelle Busdraghi.
La fallita rivoluzione napoletana del 1820 e dei moti libertari sia del ’21 che del ’31, gli suggerisce una narrazione burlesca degli eventi, i Paralipomeni della Batracomiomachia, prendendo spunto proprio dalla Storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, che l’autore stesso leggeva a Leopardi per averne un disinteressato parere o qualche correzione. La Batracomiomachia riguarda la guerra tra Rane e Topi e la sconfitta di questi; nei Topi venivano raffigurati gli italiani insorti, nei Granchi gli austriaci della Santa Alleanza e nelle Rane i preti.
Sono mesi che comunque Leopardi vive nel timore d’essere costretto, se fosse venuto a mancare il sussidio dei 18 francesconi di Colletta e del suoi amici, a tornare nell’odiato sepolcro di Recanati. Per aiutarlo gli amici decidono di aiutarlo a pubblicare in Firenze un’edizione dei suoi Canti e nel luglio 1830 redigono un manifesto di presentazione e di sottoscrizione in cui per la prima volta compare il titolo Canti; riportiamo il testo:
Si pubblicherà in breve un volume intitolato Canti di Giacomo Leopardi. Saranno parte ristampati, parte nuovi: gli stampati si troveranno riformati molto dall’autore. Tutte le poesie pubblicate dal medesimo per lo passato, che non si leggeranno in questo volume, e così le altre edizioni fatte, sono rifiutate. Le prose che nelle altre edizioni andavano colle poesie, parimente essendo rifiutate, non si ristamperanno: ma in quella vece si darà una lunga prosa nuova, di argomento compagno a quello di uno di questi Canti. Alcune poche note si troveranno appiè di ciaschedun Canto a cui fossero a proposito.
La valuta d’ogni esemplare ordinario, per quelli che saranno associati alla stampa, la quale sarà nitida di caratteri e di carta consisterà in Paoli cinque di moneta toscana, cioè in franchi 2,80.
Le associazioni si ricevono in Firenze al Gabinetto Scientifico-letterario G.P. Vieusseux; nelle altre Città della Toscana presso i principali librai.
Le associazioni alla stampa si ricevevano anche a Milano, Venezia, Torino, Genova, Roma, Napoli e perfino Palermo. L’autore avrebbe dovuto promuovere il suo libro procurandosi un certo numero di sottoscrizioni (che ai primi di settembre sono di circa seicento) e manda il manifesto anche alla sorella Paolina, ad Adelaide Maestri, a Papadopoli, Carlo Pepoli ed altri conoscenti. Pietro Colletta si interessa anche alle trattative con il tipografo Guglielmo Piatti, con il quale viene stipulato un accordo difficile che prevede il pagamento a favore di Leopardi di un compenso di ottanta zecchini.
La lunga prosa nuova comunque al momento della consegna del manoscritto non c’è perché Leopardi si convince che è meglio un’edizione di soli versi, anche perché impedito da una nuova malattia agli occhi a comporre una nuova prosa, una malattia dichiarata alla sorella in una lettera del ventuno agosto, in cui si dichiara vittima di una semicecità che gli impedisce comunque di lavorare e di scrivere lettere e quindi di potersi tenere in relazione con gli stessi familiari: la malattia gli impediva di “scrivere e dettare lungamente”, ed era una debolezza che si presentava in modo intermittente, tanto che la sua reale malattia resta ancor oggi un mistero per tutti. Così ne scrive il Ranieri:
Il male del Leopardi era indefinibile, perché, consistendo nelle più riposte fonti della vita, era, come la vita stessa, inesplicabile. Le ossa si rammollivano e disfacevano ogni dí più, e negavano il loro, ancorché debole, sostegno alle misere carni che le ricoprivano. Le carni stesse dimagrivano e isterilivano ogni dí, perché i visceri del nutrimento ne rifiutavano loro l'assimilazione. I polmoni, stretti in troppo angusto spazio, e parte non sani, si dilatavano a fatica. A fatica il cuore si sprigionava dalla linfa, onde uno stanco riassorbimento lo gravava. Il sangue, che mal si rinnovava nello stentato ed affannoso respiro, si rivolgeva freddo, bianco e lentissimo per le vene affievolite. E, in somma, tutto il misterioso circolo della vita, che a cosí grande stento si moveva, sembrava ad ora ad ora di dover fermare per sempre. Forse che la grande spugna cerebrale, principio e fine di quel misterioso circolo, aveva succhiato prepotentemente tutte le forze vitali e consumato, ella sola, ed in poco d'ora, quel ch'era destinato a bastare, e per gran tempo, al tutto. Ma, che che si sia, la vita del Leopardi non era più un correre, come in tutti gli uomini, ma più veramente un precipitare verso la morte.
Il volume uscirà nell’aprile 1831, con la celebre dedica Agli amici suoi di Toscana:
Agli amici suoi di Toscana
La mia favola breve è già compita,
E fornito il mio tempo a mezzo gli anni
PETRARCA
Amici miei cari,
Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (né posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. Sperai che questi cari studi avrebbero sostenuta la mia vecchiezza, e credetti colla perdita di tutti gli altri piaceri, di tutti gli altri beni della fanciullezza e della gioventù, avere acquistato un bene, che da nessuna forza, da nessuna sventura mi fosse tolto. Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta, mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre. Ben sapete che queste medesime carte io non ho potuto leggere, e per emendarle m’è convenuto servirmi degli occhi e della mano d’altri. Non mi so più dolere, miei cari amici; e la coscienza che ho della grandezza della mia infelicità, non comporta l’uso delle querele. Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena. Se non che in questo tempo ho acquistato voi e la compagnia vostra, che n’è in luogo degli studi e in luogo d’ogni diletto e di ogni speranza, quasi compenserebbe i miei mali, se per la stessa infermità mi fosse lecito di goderla quant’io vorrei; e s’io non conoscessi che la mia fortuna assai tosto mi priverà di questa ancora, costringendomi a consumar gli anni che mi avanzano, abbandonato da ogni conforto della civiltà, in luogo dove assai meglio abitano i sepolti che i vivi. L’amor vostro mi rimarrà tuttavia, e mi rimarrà forse ancor dopo che il mio corpo, che già non vive più, sarà fatto cenere. Addio
Il vostro LEOPARDI
In quello stesso mese, ricevuti i soldi pattuiti per la stampa, viene a esaurirsi da parte degli amici di Toscana la rata mensile dei 18 francesconi, ma Leopardi in quella dolcissima primavera non ne risentì molto; il suo timore per l’avvenire era molto scemato, di fronte a una salute migliore che per il passato (finalmente respirava abbastanza bene), e soprattutto di fronte alla soddisfazione che gli veniva dalla frequentazione dei salotti di Firenze: il futuro non gli metteva in quei mesi nessuna angoscia.
Fanny
A Firenze rallenta molto la vita letteraria, ma aumenta la vita di società; la sua salute non lo fa soffrire molto e la sua cera è quasi buona, non tale comunque da far pensare a un uomo malato. È in questo periodo che l’amico Alessandro Poerio lo accompagna nel salotto di Fanny Ronchivecchi, moglie del professor Antonio Targioni Tozzetti, nata nel 1805 (all’epoca aveva quindi venticinque anni) e morta nel 1889, donna assai in vista nella società fiorentina per la sua bellezza e per le sue pretese letterarie, ma anche per i pettegolezzi che circolavano sul suo conto (si racconta che quando la conosce Leopardi avesse ben quattro amanti contemporaneamente) per la quale concepirà un amore appassionato e come al solito pieno di sottomissione che gli ispirerà i cinque canti del cosiddetto “ciclo di Aspasia” (Il pensiero dominante, Amore e Morte, Consalvo, A se stesso, Aspasia). Ma Fanny appartiene all’orizzonte di Ranieri “e appena un riflesso si accorge di Leopardi”.
È una donna attraente che con esemplare civetteria giunge ad accusarsi in una lettera ad Antonio Ranieri del novembre 1831, di «ocaggine» e di essere vittima di un destino che l’ha «fatta più per soffrire che per godere». Giacomo può innamorarsi di lei in virtù del suo legame con il bel napoletano e attirarne l’attenzione affettuosa soltanto in un ruolo secondario. (Damiani, 405).
D’altronde la Fanny non avrebbe potuto, lei così bella e affascinante, restare incantata da un personaggio che aveva così poca cura della sua persona (“Leopardi non stà bene di occhi, ed è ostinato non voler far niente, mi sembra anche poco tenerli netti...”, scrive nel marzo 1833 a Ranieri che si trovava a Napoli mentre Leopardi era ancora a Firenze, lei che pure soffriva in quel periodo agli occhi, ma non sono nemica dell’acqua. in che modo avrebbe potuto provare del tenero la Fanny per un simile uomo?).
A Fanny Leopardi regala una copia dell’edizione Piatti dei suoi Canti, “legata in marocchino e oro”, che molti anni dopo verrà comprata per cinquecento lire da Benedetto Croce e collocata nella sua Biblioteca. I rapporti tra Fanny e Giacomo sono sempre stati abbastanza cordiali, ma mai avrebbero potuto sfociare in “amore” per una sorta di naturale repulsione fisica che la donna, come abbiamo visto, provava per il poeta, per il quale sentiva comunque ammirazione e una specie di affetto che sicuramente era qualcosa di diverso dall’amicizia e dall’affetto fraterno. Sicuramente il Leopardi un giorno le ha confessato il suo amore, e questo ci viene confermato da una delle lettere di Fanny al Ranieri, nella quale si dice chiaramente che il poeta fu uno dei suoi ammiratori, che lei lo respinse con tale garbo che tra i due non vi fu nessuna rottura, ma continuò una certa “amicizia”. Così scrive infatti Fanny al Ranieri nel 1833:
E di Leopardi che ne è? io già sono nella sua disgrazia non è vero?, e il grande amore si convertì in ira; ciò mi è accaduto sovente, perché nella filsa dei miei adoratori ho avuto certi camorri (persona uggiosa e seccante, oltre che persona malaticcia, ndr) da far paura; e con quelli che non erano in questa categoria è perché non ho potuto mai spogliarmi da quel maledetto, e brutto pensar volgare del quale mi avete sempre accusata.
Conosciuta la notizia della morte di Leopardi così scrive a Ranieri, dopo un periodo di un paio d’anni di silenzio, il 24 giugno 1837: sono parole sentite, ma il pensiero non va a Giacomo, quanto piuttosto all'amico Antonio:
La disgrazia della morte del povero nostro Leopardi mi ha annientata; sì pel bene che gli volevo, sì pella perdita fatta; sì pell’interesse che io prendo, a tutto ciò che vi riguarda. Io partecipo grandemente al vostro dolore, io sento il vuoto che proverete nelle vostre abitudini, e quel male che cagiona la perdita d’un’amico che si amava, e stimava, male che le parole non valgono ad esprimere, male che il tempo non basta a dissipare. Quantunque io sappia e creda fermamente che io non sono nulla per voi, pure pagherei non so cosa per potervi vedere almeno un’ora in questa circostanza! mi pare che io sarei più contenta, perché potrei non fosse altro accertarmi del genere di dolore che patite, e non figurarmi sempre il peggio come io faccio. Voi sarete forse in collera meco perché non vi ho scritto, ma la vostra ultima lettera era tale, da diacciare un cuore più freddo del mio, da reprimere ogni espansione amichevole, da farmi sentire che per certi sentimenti noi siamo agli antipodi, che voi non avete mai letto nella mia anima, e che non vi leggerete mai più... Nella dolorosa circostanza però in cui vi trovate spero che non vorrete disdegnare affatto l’espressione del mio cordoglio e che non saprete pagar d’ironia l’ironia che viene a partecipare il vostro dolore...
Nella successiva lettera Fanny con Ranieri è anche più affettuosa, ma ancora una volta la sua attenzione non è rivolta al Leopardi, come uomo o come poeta, ma all’amico Ranieri, per il quale il suo cuore aveva tremato d’amore, anche se di un amore che non si realizzerà mai oltre il sentimento “platonico”. Fanny conforta l’amico spinta dal dolore che questi prova per la perdita dell’amico, ma non usa nessuna parola di ricordo affettuoso per un uomo che di lei si era sicuramente innamorato e che questo amore aveva espresso in versi di grande poesia nel ciclo di Aspasia.
Proprio l’identificazione con Aspasia Fanny cerca con forza di respingere; e quando Ranieri le scrive affermando di vedere proprio in lei l’Aspasia leopardiana, così gli risponde la donna il 20 gennaio 1838:
Se non vi conoscessi così propenso al farmi arrabbiare, e canzonare direi che siete stato cattivo nel tentare di darmi un dispiacere colla risposta sull’Aspasia. Voi più d’ogni altro sapete se mai diedi la menoma lusinga a quel pover’uomo del Leo..., e se il mio carattere è tale da prendersi gioco d’un infelice, e d’un brav’uomo come lui. Quando me ne parlava, in certi tempi, io m’inquietavo, e non volevo, manco credere vere certe cose, come non le credo ancora, ed il bene che io gli volevo glie lo voglio ancora tal quale, abbenché ei più non esista. Siate dunque buono per me, vi prego, non mi dite più delle simili sciocchezze, e risparmiate una pena al mio cuore, nel togliermi l’idea che senza volerlo potei dar trista idea di me stessa a persona così disgraziata
Fanny, donna «famosa» per bellezza, innamorata della vita con malinconico piacere, amata con maggiore o minor fortuna da molti uomini, si svela donna di buon senso, lontana dal suscitare sogni irrealizzabili, concreta e sensibile, ma sempre animata da una certa ragionevolezza, con la quale affrontava la vita e le amicizie. E proprio in conto di questa ragionevolezza la Fanny non avrebbe mai potuto accettare l’amore di Leopardi, ma l’avrebbe sempre trattato con gentilezza e un certo affetto anche perché amico del bel napoletano per il quale la donna aveva sentito un certo trasporto amoroso mai scaduto nella volgarità. Certamente la donna non negò al Leopardi l’affetto che viene dalla stima, forse anche per la pietà che derivava dalle sofferenze di cui era intessuta l’esistenza del poeta: ma di questo amore il Leopardi non sapeva che farsene. Di qui parte quell’idealizzazione che ritroviamo nel ciclo di Aspasia, una idealizzazione che nasce anche dall’impaccio del poeta con le donne in generale e con Fanny in particolare, come risulta dalla lettera che le invia durante il soggiorno romano:
Cara Fanny. Non vi ho scritto fin qui per non darvi noia, sapendo quanto siete occupata. Ma in fine non vorrei che il silenzio vi paresse dimenticanza, benché forse sappiate che il dimenticar voi non è facile. Mi pare che mi diceste un giorno, che spesso ai vostri amici migliori non rispondevate, agli altri sì, perché di quelli eravate sicura che non si offenderebbero, come gli altri del vostro silenzio. Fatemi tanto onore di trattarmi come uno de’ vostri migliori amici; e se siete molto occupata, e se lo scrivere vi affatica, non mi rispondete. Io desidero grandemente le vostre nuove, ma sarò contento di averne da Ranieri o dal Gozzani, ai quali ne domando.
Delle nuove da me non credo che vi aspettiate. Sapete ch’io abbomino la politica, perché credo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma di governo; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e rido della felicità delle masse, perché il mio piccolo cervello non concepisce una massa felice, composta d’individui non felici. Molto meno potrei parlarvi di notizie letterarie, perché vi confesso che sto in gran sospetto di perdere la cognizione delle lettere dell’abbiccì, mediante il disuso del leggere e dello scrivere. I miei amici si scandalizzano; ed essi hanno ragione di cercar gloria e di beneficare gli uomini; ma io che non presumo di beneficare, e che non aspiro alla gloria, non ho torto di passare la mia giornata disteso su un sofà, senza battere una palpebra. E trovo molto ragionevole l’usanza dei Turchi e degli altri Orientali, che si contentano di sedere sulle loro gambe tutto il giorno, e guardare stupidamente in viso questa ridicola esistenza.
Ma io ho ben torto di scrivere queste cose a voi, che siete bella, e privilegiata dalla natura a risplendere nella vita, e trionfare del destino umano. So che ancor voi siete inclinata alla malinconia, come sono state sempre e come saranno in eterno tutte le anime gentili e d’ingegno. Ma con tutta sincerità, e non ostante la mia filosofia nera e disperata, io credo che a voi la malinconia non convenga, cioè che quantunque naturale, non sia del tutto ragionevole. – Almeno così vorrei che fosse.
... Addio, cara Fanny: salutatemi le bambine. Se vi degnate di comandarmi, sapete che a me, come agli altri che vi conoscono, è una gioia e una gloria il servirvi.
È una lettera venata di impaccio e timidezza, che rivela una certa sottomissione che non sempre è sintomo evidente di amore. Noi pensiamo che la coscienza della propria deformità, le disillusioni provate negli anni precedenti e infine un bisogno di tenerezza raggelato dalla freddezza della madre, abbia provocato in Giacomo una profonda sfiducia in se stesso e inibito la naturalezza dei rapporti con le donne creando una sorta di timore di essere considerato ridicolo. Anche se la lontananza da Fanny durante il soggiorno romano gli fu quasi intollerabile, questo non lo si può capire né da questa lettera né dai pochi altri indizi che abbiamo.
Ranieri
All’inizio dell’autunno, in settembre, ancora una volta con la presenza del Poerio, comincia la sua amicizia, che durerà fino alla morte, con Antonio Ranieri, quasi un eroe romantico, anche se dal carattere estroverso e loquace: esule dalla patria e viaggiatore attraverso l’Europa, e quindi conquistatore di cuori femminili. Il Ranieri decide allora di “prendersi cura” di Leopardi, ma il suo non è un vero atteggiamento da mecenate, preso com’era da un lato dalla vita brillante e dall’altro dalle stesse difficoltà economiche del poeta: nell’aprile 1831 sarebbe scaduta l’ultima rata dei 18 francesconi degli amici toscani e in luglio Ranieri veniva privato dell’assegno mensile paterno. Il 23 ottobre conosce Louis De Sinner, un trentenne filologo svizzero, laureato presso l’Università di Tubinga, col quale stringerà un rapporto abbastanza amichevole e che agli occhi di Giacomo appare proficuo perché avrebbe potuto allargare all’Europa la fama di Leopardi.
Il 4 marzo un’assemblea di cinquantaquattro notabili, giunti a Bologna da diversi luoghi in cui si era verificata la sollevazione contro il governo pontificio, proclamava il «Governo delle Province unite italiane», affidando a Terenzio Mamiani il ministero degli Interni e al professor Orioli quello di ministro dell’istruzione. Il territorio viene diviso in distretti e ogni distretto avrebbe dovuto nominare un rappresentante deputato. Anche il paese di Recanati viene elevato al rango di distretto e il 20 marzo nomina proprio Leopardi Deputato rappresentante all’Assemblea di Bologna. Il Comitato, presieduto dal conte di Colloredo, manda a Leopardi un caloroso messaggio invitandolo ad andare a Bologna a ritirare le relative credenziali presso l’avvocato Brighenti che Giacomo conosceva bene e che nessuno credeva fosse anche una spia al soldo degli austriaci e del papa. Il poeta, comunque, sulla spinta degli eventi (gli austriaci stavano conquistando l’Emilia ed erano ormai a Cento) e del padre, mette un freno all’iniziativa; così infatti scrive al Comitato che lo aveva eletto:
Sono infinitamente sensibile all’onore fattomi dalle V.e Signorie Illustrissime e dal Consiglio di cotesta Città, di eleggermi a loro Rappresentante nell’Assemblea nazionale che era per tenersi a Bologna, secondo mi viene notificato dal lor venerato dispaccio del 21 cadente. Suppongo ora le SS. VV. informate della occupazione di Bologna fatta già molti giorni addietro dalle truppe austriache, e della partenza del Governo Provvisorio da quella città, per porre la sua residenza in luogo più sicuro. Di questo luogo, il quale anco sembra cambiarsi di giorno in giorno, non è facile qui aver notizia precisa, e impossibile sarebbe poi ottenere passaporti a quella volta. Le circostanze cambiate rendono dunque, almeno per il momento, ineseguibili le disposizioni delle SS. VV. Ill.me a me relative, ma non distruggono né la gratitudine ben viva che io sento alla confidenza dimostratami da esse SS. VV., né il desiderio ardentissimo di servire cotesta mia patria, a qualunque mio costo e fatica, ogni volta che lo consentano i tempi, e che l’opera mia non paia dover essere, come in questo caso, del tutto fuori di luogo.
Il mandato di fatto verrà annullato con l’arrivo degli Austriaci a Bologna.
Il primo ottobre 1831 parte con l’amico Ranieri alla volta di Roma, insieme all’amante di questi, l’attrice Maria Maddalena Signorini di Pelzet della compagnia Mascherpa, dove giunge la sera del 5 e si stabilisce al numero 63 di via delle Carrozze e in Novembre si trasferisce con l’amico in via Condotti 81. Ma vi restano pochi mesi: il 17 marzo 1832 tornano a Firenze, dove arrivano il 22, sempre seguendo la compagnia Mascherpa, dopo che Giacomo aveva scritto al padre chiedendo un disperato aiuto economico, mentre gli restavano soldi per vivere a Firenze solo per una settimana. Arrivati a Firenze si deve accontentare di un umido alloggio presso una certa Teresa Terreni e il giorno dopo riceve dal padre un aiuto di sessanta scudi; in aprile va a vivere in un una camera in via dei Banchi che ha due finestre su piazza Santa Maria Novella.
Dal 1832 rallenta molto la sua attività letteraria per le condizioni fisiche che peggiorano inesorabilmente. Trascorre da solo l’estate, mentre l’amico Ranieri è a Bologna, occupato in quel suo amore che, secondo il Leopardi, lo fa soffrire e lo rende infelice. Le condizioni economiche sono diventate ormai disperate: il 3 luglio scrive al padre quella lettera d’aiuto che mai avrebbe scritto, orgoglioso com’era, se non fosse stato ridotto dal destino all’ultimo vero passo. Riportiamo quasi per intero questa drammatica lettera:
Io credo ch’Ella sia persuasa degli estremi sforzi ch’io ho fatti per sette anni affine di proccurarmi i mezzi di sussistere da me stesso. Ella sa che l’ultima distruzione della mia salute venne dalle fatiche sostenute quattro anni fa, per lo Stella, al detto fine. Ridotto a non poter più nè leggere nè scrivere nè pensare (e per più di un anno nè anche parlare), non mi perdetti di coraggio, e quantunque non potessi più fare, pur solamente col già fatto, aiutandomi gli amici, tentai di continuare a trovar qualche mezzo. E forse l’avrei trovato, parte in Italia, parte fuori, se l’infelicità straordinaria de’ tempi non fosse venuta a congiurare colle altre difficoltà, ed a renderle finalmente vincitrici. La letteratura è annientata in Europa: i librai, chi fallito, chi per fallire, chi ridotto ad un solo torchio, chi costretto ad abbandonare le imprese meglio avviate. In Italia sarebbe ridicolo ora il presumere di vender nulla con onore in materie letterarie, e di proporre ai librai delle imprese nuove: da Francia, Germania, Olanda dove io aveva mandata una gran quantità di mss. filologici con fondatissime speranze di profitto, non ricevo, invece di danari, che articoli di Giornali, biografie e traduzioni. Mi trovo dunque, com’Ella può ben pensare, senza i mezzi di andare innanzi.
Se mai persona desiderò la morte così sinceramente e vivamente come la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mi fu superiore. Chiamo Iddio in testimonio della verità di queste mie parole. Egli sa quante ardentissime preghiere io gli abbia fatte (sino a far tridui e novene) per ottener questa grazia; e come ad ogni leggera speranza di pericolo vicino o lontano, mi brilli il cuore dall’allegrezza. Se la morte fosse in mia mano, chiamo di nuovo Iddio in testimonio ch’io non le avrei mai fatto questo discorso: perchè la vita in qualunque luogo mi è abbominevole e tormentosa. Ma non piacendo ancora a Dio d’esaudirmi, io tornerei costà a finire i miei giorni, se il vivere in Recanati, soprattutto nella mia attuale impossibilità di occuparmi, non superasse le gigantesche forze ch’io ho di soffrire. Questa verità (della quale io credo persuasa per l’ultima acerba esperienza ancor Lei), mi è talmente fissa nell’animo, che malgrado del gran dolore ch’io provo stando lontano da Lei, dalla Mamma e dai fratelli, io sono invariabilmente risoluto di non tornare stabilmente costà se non morto. Io ho un estremo desiderio di riabbracciarla, e solo la mancanza de’ mezzi di viaggiare ha potuto e potrà nelle stagioni propizie impedirmelo: ma tornar costà senza la materiale certezza di avere il modo di riuscirne dopo uno o due mesi, questo è ciò sopra di cui il mio partito è preso, e spero che Ella mi perdonerà se le mie forze e il mio coraggio non si estendono fino a tollerare una vita impossibile a tollerarsi.
Non so se le circostanze della famiglia permetteranno a Lei di farmi un piccolo assegnamento di dodici scudi il mese. Con dodici scudi non si vive umanamente neppure in Firenze, che è la città d’Italia dove il vivere è più economico. Ma io non cerco di vivere umanamente: farò tali privazioni, che a calcolo fatto, dodici scudi mi basteranno. Meglio varrebbe la morte, ma la morte bisogna aspettarla da Dio. In caso che Ella potesse e volesse questo, non avrebbe che a porre di due in due mesi a mia disposizione la somma di 24 scudi presso qualche suo corrispondente in Roma, avvisandomi la persona; sopra la quale io trarrei di qua la detta somma per cambiale. Avrei caro che il suo ordine fosse per 24 francesconi, il che a Lei non porterebbe grande aumento di spesa, e a me farebbe gran divario, essendoci ora grandissima perdita nel cambio degli scudi romani o colonnati con francesconi. Ed Ella sa che i francesconi si spendono qui come costà i colonnati.
Se le circostanze, mio caro Papà, non le consentiranno di soddisfare a questa mia domanda, la prego con ogni possibile sincerità e calore a non farsi una minima difficoltà di rigettarla. Io mi appiglierò ad un altro partito: e forse a questo avrei dovuto appigliarmi senza altrimenti annoiar Lei con questo discorso: ma come il partito ch’io dico, è tale, che stante la mia salute, non è verisimile che io in breve tempo non vi soccomba, ho temuto che Ella avesse a fare un rimprovero alla mia memoria dell’averlo abbracciato senza prima confidarmi con Lei sopra le cose che le ho esposte. Del rimanente, io da un lato provo tanto dolore nel dar noia a Lei, e dall’altro sono così lontano da ogni fine capriccioso e da ogni lieta speranza nel voler vivere fuori di costà che ho perfino desiderato, ed ancora desidererei, che mi fosse tolta la possibilità di ogni ricorso alla mia famiglia, acciocchè non potendo io mantenermi da me, e molto meno essendomi possibile il mendicare, io mi trovassi nella materiale, precisa e rigorosa necessità di morir di fame.
Scusi, mio caro Papà, questo malinconico discorso che mi è convenuto tenerle per la prima e l’ultima volta della mia vita. Si accerti della mia estremissima indifferenza circa il mio avvenire su questa terra, e se la mia domanda le riesce eccessiva, o importuna, o non conveniente, non ne faccia alcun caso.
Al Leopardi, vissuto per più d’un anno alla cessazione dell’assegno procurato dal Colletta, falliti tutti i piani di sopravvivenza senza l’aiuto della famiglia, non riuscendo a guadagnarsi da vivere coi suoi scritti a causa della profonda crisi editoriale che sconvolgeva tutta l’Europa, il padre, dopo aver aspettato un mese, concede al figlio il permesso di firmare una cambialina per la cifra richiesta: era la stessa cifra concessa a Carlo quando se ne era andato via da casa e promessa da Francesco Ranieri al figlio Antonio. L’estate viene trascorsa nella solitudine, mentre Ranieri rincorreva il suo amore e la Fanny si trovava fuori Firenze. In novembre a Giacomo giunge l’assenso definitivo con l’avallo della madre.
Napoli
Il 2 settembre 1833 parte con Ranieri da Firenze in compagnia di Luigi Minchioni, un viaggio in sette tappe, scandito da pernottamenti nelle migliori locande e da laute cene. Il 9 settembre giungono a Roma e si fermano nella capitale fino alla fine del mese; lo zio Carlo Antici gli versa l’assegno del padre con l’aggiunta di 20 scudi (bontà paterna) da utilizzare per il viaggio, e intanto la salute migliora leggermente ottenendo un beneficio attraverso il cambiamento di clima. Nel frattempo si diffonde la falsa notizia di un suo arresto, subito smentita (c’era stato uno scambio di persona e l’arrestato si chiamava Pier Silvio Leopardi, collegato a Mazzini).
Il viaggio riprende il 30 settembre, su una comoda carrozza costata più di 24 scudi, e i due giungono a Napoli il 2 ottobre, andando ad alloggiare in un appartamentino di Costantino Margaris, amico di Antonio e Paolina Ranieri, in via San Mattia 88 al secondo piano del palazzo Berio vicino piazza San Ferdinando a pochi passi da Toledo. Il soggiorno napoletano viene caratterizzato quasi subito da difficoltà finanziarie, visto che non usufruiva più dei famosi dodici ducati che il padre gli aveva concesso; per questo è costretto ben presto a rivolgersi nuovamente al padre e allo zio Carlo Antici. Lo stesso Ranieri, forse assorbito dall’assistenza che doveva all’amico, non guadagnava più di tanto col suo lavoro di avvocato presso il foro napoletano.
L’anno successivo, abbandonato l’appartamento di via San Mattia, in quanto la proprietaria quasi inorridiva quando vedeva Leopardi perché lo riteneva ammalato di tisi, a causa del suo aspetto macilento, i due amici vanno ad abitare nel palazzo Cammarota, al numero 35 della strada nuova Santa Maria Ognibene, sotto la Certosa San Martino. Nel maggio 1835 i due amici lasciano anche palazzo Cammarota e vanno ad abitare in un alloggio nuovo a Capodimonte in una delle zone meno affollate di Napoli, dove la salute di Leopardi subisce qualche miglioramento. Intanto Paolina, la sorella di Ranieri, ottiene finalmente di andare a vivere coi due amici e la sua presenza ha indubbiamente qualche benefico effetto sul poeta anche perché nel nome e nella devozione gli riporta alla mente la sorella rimasta a Recanati. D’altronde Leopardi non era un ospite facile né un paziente docile per i suoi numerosi disturbi fisici e per la sua irritabilità
In estate Leopardi compone Aspasia dopo la Palinodia al Marchese Gino Capponi, una satira politica e sociale in versi sciolti, rivolta contro le aspirazioni e le illusioni dei suoi vecchi amici fiorentini e in particolare contro i vantaggi del progresso materiale e scientifico: non vede di buon occhio la diffusione della stampa, le nascenti “strade ferrate” o i palloni aerostatici; la Palinodia verrà pubblicata nell’edizione Starita del 1835 insieme ai canti per Aspasia e a due nuove canzoni sepolcrali composte in quella primavera: Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna, scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, con i temi fondamentali della poetica leopardiana: l’inevitabile fine della bellezza e il contrasto tra le illusioni dell’uomo e la natura inesorabile. Forse in questo stesso lavora ai Paralipomeni della Batracomiomachia cominciati già nel ’31, sui quali lavorerà fino alla morte.
Il 9 maggio 1835 si trasferisce col Ranieri in una casa del Rione Sanità, al n. 2 di Vico Pero; il 9 luglio conclude un contratto con l’editore Saverio Starita, che si impegna a pubblicare entro dieci mesi tutte le opere del Leopardi in 6 volumi e in estate esce la celebre edizione napoletana dei Canti, la cosiddetta edizione Starita, che sarà sequestrata nel 1836 per ordine del governo borbonico. Nel gennaio 1836, sempre presso Saverio Starita, esce la terza edizione delle Operette morali, anch’essa sequestrata; in aprile, per sfuggire al colera, va ad abitare con Ranieri e Paolina, nella villa Ferrigni, di proprietà dell’avvocato Giuseppe Ferrigni, cognato del Ranieri), alle pendici del Vesuvio fra Torre del Greco e Torre Annunziata: forse in questo periodo compone la sua ultima poesia, La ginestra, l’affermazione ultima della dura realtà dell’infelicità umana e della distruzione definitiva di ogni illusione ma anche l’accettazione “eroica” dell’esistenza.
“L’uomo è nudo e nullo; vani sono i suoi sogni di dominazione, di progresso, d’immortalità; ma se accetta questa verità, e ne attribuisce la colpa alla “rea natura”, che ci è stata “madre di parto e di voler matrigna, potrà trovare conforto nell’umana compagnia”, ricondotto
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino
E giustizia e pietade...
È questa affermazione che, come nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, rappresenta il vero testamento del Leopardi: il suo dono agli uomini non d’amore, ma di compassione e fratellanza” (Origo, p. 393)
Leopardi ha occupato un posto abbastanza importante nella cultura napoletana, anche se il suo aspetto e il suo atteggiamento non sempre sono stati accettati. Fra coloro che lo hanno stimato ricordiamo almeno Francesco De Sanctis, il primo che attribuisce al poeta di Recanati il posto che merita nel panorama della letteratura italiana, in un misto di critica letteraria e di incondizionato entusiasmo che è ben messo in luce nella sua opera autobiografica: “Si recitavano i suoi Canti, - scrive ne “La giovinezza”, - tutti con eguale ammirazione; non c’era ancora un gusto così squisito da fare distinzioni; e poi ci sarebbe parsa un’irriverenza”.
Il 16 febbraio del 1837 rientra a Napoli nell’appartamento di Vico Pero, mentre il colera non era ancora stato debellato del tutto. Il rinfocolarsi dell’epidemia li consiglia a ripartire per Torre del Greco, ma per molte settimane Giacomo e Ranieri rimandano la partenza, anche perché trattenuti dalle condizioni fisiche del poeta che si aggravano sempre più, tanto da non permettergli agevolmente il viaggio. Il 27 maggio scrive la sua ultima lettera al padre, e la conclude così:
Se scamperò dal choléra e subito che la mia salute lo permetterà, io farò ogni possibile per rivederla in qualunque stagione, perchè ancor io mi do fretta, persuaso oramai dai fatti di quello che sempre ho preveduto che il termine prescritto da Dio alla mia vita non sia molto lontano. I miei patimenti fisici giornalieri e incurabili sono arrivati con l’età ad un grado tale che non possono più crescere: spero che superata finalmente la piccola resistenza che oppone loro il moribondo mio corpo, mi condurranno all’eterno riposo che invoco caldamente ogni giorno non per eroismo, ma per il rigore delle pene che provo.
Ringrazio teneramente Lei e la Mamma del dono dei dieci scudi, bacio le mani ad ambedue loro, abbraccio i fratelli, e prego loro tutti a raccomandarmi a Dio acciocchè dopo ch’io gli avrò riveduti una buona e pronta morte ponga fine ai miei mali fisici che non possono guarire altrimenti. Il suo amorosissimo figlio Giacomo.
Giacomo si spegne il 14 giugno; è il pomeriggio inoltrato, quando il cocchiere giunge davanti al portone per riportarlo a villa Ferrigni, il poeta si accinge a mettersi a tavola per pranzare, un denso brodo previsto nel suo menù di malato; chiede a Paolina un sorbetto al limone, che lo aiutasse a digerire i confetti sulmonesi che il giorno precedente aveva mangiato in abbondanza, ma non riesce più a continuare a mangiare. Sente l’asma crescere e dice a Ranieri che desidera vedere il medico; Ranieri esce in cerca del medico e con la carrozza va a prendere il dottore a casa sua. Il medico lo visita sommariamente e si rende subito conto della situazione. Così Ranieri racconterà questi ultimi momenti di vita del poeta in Supplemento alla notizia intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi:
... Si rallegrò del nostro arrivo, ci sorrise; e, benché con voce alquanto più fioca e interrotta dell’usato, disputò dolcemente col Mannella del suo mal di nervi, della certezza di mitigarlo col cibo, della noia del latte d’asina, de’ miracoli delle gite e del voler di presente levarsi per andarne in villa. Ma il Mannella, tiratomi destramente da parte, mi ammonì di mandare incontanente per un prete; che di altro non v’era tempo. Ed io incontanente mandai e rimandai e tornai a rimandare al prossimo convento degli agostiniani scalzi. In questo mezzo, il Leopardi, mentre tutti i miei gli erano intorno, la Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore che veniva giù a goccioli dall’ampissima fronte, ed io, veggendolo soprappreso da un certo infausto e tenebroso stupore, tentavo di ridestarlo con gli aliti eccitanti or di questa or di quella essenza spiritosa; aperti più dell’usato gli occhi mi guardò più fisso che mai. Poscia: - Io non ti veggo più – mi disse come sospirando. E cessò di respirare; e il polso né il cuore non battevano più; ed entrava in quel momento stesso nella camera frate Felice di Sant’Agostino, agostiniano scalzo; mentre io, come fuori di me, chiamavo ad alta voce il mio amico e fratello e padre, che più non mi rispondeva, benché ancora pareva che mi guardasse. ...
Padre Felice da Cerignola recita le preghiere per i defunti, mentre il Ranieri continua a chiamare ad alta voce l’amico. Il Ranieri riesce a stento a sottrarre il corpo dell’amico alla fossa comune, che era la destinazione imposta dalle autorità proprio a causa della violenta epidemia di colera. Ottiene dall’amico Marchese di Pietracolle e dal ministro del Carretta una specie di assenso, o perlomeno di non opposizione affinché il poeta non fosse sepolto nel cimitero; convoca un imbalsamatore per ritardare la decomposizione del cadavere e chiede allo scultore Angelini di modellare la maschera del volto. Quindi si fa prestare due carrozze e al buio, la sera del 15, la salma viene quasi di nascosto accompagnata verso la chiesa di San Vitale Fuorigrotta, nella diocesi di Pozzuoli; il parroco, che aveva ricevuto in regalo un cesto di calamari e di triglie, apre la chiesa e la bara viene deposta nella cripta.
In San Vitale la bara resta per sette anni, quando la cassa viene trasferita nel vestibolo della chiesa; fa murare la cassa a proprie spese sotto un piccolo monumento su quale fa incidere sulla lapide questa epigrafe dettata dall’amico abate Pietro Giordani:

AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE
FILOLOGO AMMIRATO FUORI D’ITALIA
SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIA ALTISSIMO
DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI
CHE FINÌ DI XXXIX ANNI LA VITA
PER CONTINUE MALATTIE MISERISSIMA
FECE ANTONIO RANIERI
PER SETTE ANNI FINO ALLA ESTREMA ORA CONGIUNTO
ALL’AMICO ADORATO. MDCCCXXXVII
corredo del monumento c’è il disegno di un gufo, simbolo della saggezza di Atene, e due fronde, una d’alloro per il poeta e una di quercia “per il filosofo e benefattore dell’umanità”.
Il 21 luglio 1900 la tomba di Leopardi viene dichiarata monumento nazionale e sistemata nel nuovo pronao della chiesa alla presenza del ministro Mariotti in rappresentanza del Governo e di rappresentanti della famiglia Leopardi. In questa occasione si scopre con dolorosa sorpresa di tutti che dalla bara manca addirittura il teschio sostituito da un grosso pezzo di tavola.
Infine il 2 febbraio 1939 “la cassa che conteneva le spoglie del poeta fu trasportata, in un lenzuolo piombato e sotto la stessa lapide che la sovrastava a San Vitale, sulle pendici della collina di Posillipo, che allora non era ancora circondata dal cemento armato che oggi stringe Napoli nella sua morsa. Qui, presso una piccola costruzione circolare dell’epoca romana finalmente riposa quel poco che ancora rimane del corpo di Giacomo Leopardi” (Origo, p. 413).

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