Paradiso, Divina Commedia

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Testo

Dante Alighieri, LA DIVINA COMMEDIA (PARADISO).
Giovanna Pertile

Dopo aver ottenuto la beatitudo huius vitae ed aver compiuto la cerimonia purificatoria, Dante (agens) sale in Paradiso, terza ed ultima parte dell’iter ad Deum: se l’Inferno rappresenta la constatazione e il superamento del peccato e il Purgatorio rappresenta il momento progrediente, il Paradiso diventa dunque il momento unitivo che conduce l’io al beato esse. Si tratta di un itinerarium mentis che culmina con la visio Dei secondo la più tipica visione medioevale di Dio come principio e fine di ogni cosa e in base alla quale tutto tende a riunirsi al proprio principio. L’esperienza della graduale unione a Dio è un’esperienza soprannaturale, dell’ineffabile. Da sempre la critica si è posta il problema della poesia del Paradiso. Da De Sanctis a Croce (critica idealista) ci si pose di fronte a questa cantica con qualche riserva: De Sanctis considerava infatti l’Inferno come il momento poetico più alto di Dante, dove avviene la “fusione perfetta tra forma e materia”, ma, mano a mano che si sale verso il Paradiso, resta troppo evidente la struttura ideologica, che non viene adeguatamente tradotta in poesia; Croce (concezione della poesia come intuizione pura e assoluta) differenziava la struttura, cioè le spiegazioni dottrinali, dalla parte poetica, che nel Paradiso apparirebbe solo a brevi squarci. Tutto il lavoro della critica successiva è stato quello di recuperare l’unità della Commedia, proponendo come soluzione quella di riportare l’opera alle categorie estetiche dell’epoca, di “farci lettori del Trecento” (Singleton), in cui non esisteva distinzione tra poesia e scienza; Auerbach poi, proponendo di applicare alla Commedia l’interpretazione figurale, ha spiegato che il vero problema della poesia del Paradiso non sta nel rinchiudersi nell’astrazione ma nello sforzo che Dante fa per tradurre nel linguaggio terreno, per visibilia, l’esperienza soprannaturale, ad invisibilia.

La visione cosmica
Dante distingue nell’Universo il mondo della materia dal mondo dello spirito. L’Universo è formato da cinque elementi fondamentali: terra, acqua, aria, fuoco, etere (in ordine di pesantezza); i cieli che formano il Paradiso sono costituiti di etere, e sono sfere concentriche e concolori al cui interno stanno i pianeti (Luna, Mercurio, Venere, Sole , Marte, Giove e Saturno); l’ottavo è il cielo delle stelle fisse, il nono è il Primo Mobile. Il decimo cielo è l’Empireo, costituito di pura luce ed immobile, nel quale hanno sede Dio e i beati. Attorno a Dio stanno le gerarchie celesti, i cori angelici; i beati sono invece disposti a forma di anfiteatro nella candida rosa, divisa in due parti tra i beati del Vecchio Testamento, credenti “in Cristo venturo”, e quelli del Nuovo Testamento, credenti “in Cristo venuto”. Da Dio emana la Grazia che, assorbita dalle creature celesti, viene trasmessa ai cieli che per questo motivo ruotano in maniera graduata. Secondo il principio aristotelico, riletto in chiave cristiana, Dio diventa il Motore immobile. Dante accetta inoltre la teoria aristotelica degli influssi celesti, che influenzano chi nasce sotto una determinata stella e derivano, naturalmente, da Dio che assomma in sé tutte le qualità.
Tema dell’unità e della gradualità della Grazia divina: nel Paradiso le anime dei beati si trovano tutte nella candida rosa ma, per un atto di bontà, si mostrano a Dante di cielo in cielo, quello di cui da vivi hanno subìto gli influssi.

L’ascesa di Dante
L’ascesa verso l’alto è presentata come un processo di “transumanazione”, cioè il passaggio da una condizione umana ad una sovrumana, per visualizzare e poi tradurre per verba l’itinerarium mentis ad Deum (es. metafore estratte dalla Fisica). L’elemento preferito da Dante è la luce, che si fa via via più intensa fino alla visio Dei. E’ questo il principio della metafisica della luce, per cui Dio è divinum lumen diffusum per omnia: in sostanza, la Grazia divina si manifesta come luce che espandendosi per l’Universo costituisce l’esse (il corpo) e l’essentiam (l’anima) delle creature.
Altro elemento fondamentale è quello del suono: i cieli, girando, producono una superiore armonia che sfugge all’orecchio umano. Tale elemento, qui reinterpretato in chiave cristiana, è di origine pitagorica, ripreso in seguito dagli Stoici e da Cicerone nel Somnium Scipionis.
Dante dunque si avvicina a Dio attraverso la luce e il suono. Pur basata su una visione teologica, l’ascesa di Dante è il lento elevarsi dell’intelligenza che acquista le singole verità e giunge alla Verità prima: Virgilio, sua guida nell’Inferno e nel Purgatorio, rappresenta la razionalità umana; Beatrice, guida nel Paradiso, è la teologia, che gli svela i misteri della Chiesa, portando luce e verità nell’intelletto; S. Bernardo, che sostituisce Beatrice al momento della visio Dei, chiede a Dio di mostrarsi/darsi a Dante, ed Egli appare, come una folgorazione. Questa esperienza somiglia alla visio in somnis, il metodo per trascrivere esperienze avvenute fuori dal tempo e dai parametri tradizionali; somiglia all’excessus mentis, il momento in cui la mente umana attinge, elevandosi, ad una dimensione sovrumana, nel corso della quale ha una visione eccezionale che, al ritorno, può riferire solo per quel poco che può ricordare; somiglia, infine, all’esperienza di Riccardo da S. Vittore, rappresentante di una corrente mistico/intellettualistica, che in un trattato sulla Grazia descrisse i momenti in cui la mente si eleva (dilatio, sublevatio, alienatio).

Il rapporto tra realismo e misticismo
E’ questo un motivo molto discusso nel corso del Medioevo: per raggiungere Dio bisogna affidarsi alla ragione o alla fede? (in Dante la tendenza mistica è rappresentata da S. Bonaventura, quella razionale da S. Tommaso) Nella cultura dell’epoca erano presenti due ordini monastici con posizioni diverse in materia: i domenicani trovavano il loro fondamento nella cultura e nello studio teologico, che preparavano predicatori in grado di affrontare l’eresia e i problemi interni alla Chiesa; i francescani, invece, ponevano in secondo piano la cultura e privilegiavano l’ardore di carità e lo slancio mistico. Dante venne a contatto con entrambe le posizioni, oltre che con i vittorini di Parigi, e scelse per il Paradiso un itinerarium misto, che fondeva le due tendenze, per giungere a Dio. Infatti, se all’inizio del percorso egli dice “fu’io, e vidi” (c. I, v.5), in cui spicca l’atto del vedere con i propri occhi, alla fine prevalgono sia l’atto del vedere che quello dell’amare.

Paradiso (giardino). I pianeti hanno influsso sul carattere. I beati godono di differenti gradi di beatitudine, ma ogni beato è ricolmo al massimo di beatitudine per lui. Ognuno è infinitamente beato. La cime del purgatorio è il punto limite dove un uomo può arrivare senza grazia divina. Infatti da qui in pio sarà Beatrice a seguire Dante L’anima tende naturalmente a Dio, e l’uomo non vola perché ancorato a terra dai peccati. Dante ha creduto di avere un compito religioso da portare a termine. La divina commedia è un testo che si apparenta a quelli sacri. Credeva davvero di avere visto Dio. Si sente profeta, crede che Dio parli attraverso gli uomini. La sua è finzione altrimenti sarebbe sacrilegio. San Bernardo prega la vergine di far vedere a Dante Dio. Dante nell’inferno pensa ancora di poter rientrare a Firenze, poi si rende conto dell’impossibilità di tornare e si sposta sempre di più su posizioni filo imperiali 8ghibelline). Nel paradiso appare più reazionario ha come sogno un restaurazione (sacro romano impero) guarda all’indietro ma il passato è idealizzato. Ideologicamente è arretrato. Rimane però contro la fastosità ghibellina, è una adesione ideologica.
16-17-18: incontro con Cacciaguida (nel cielo di Marte perché cromato), parente di Dante. Ricalcato da Virgilio (Enea-Anchise). E’ fonte di una scoperta (Enea chiede lo scopo della sua esistenza: fondare Roma che porterà ovunque la pace. Enea, dolore del singolo, porterà la pace collettiva). 16: Cacciaguida: la colpa è della chiesa che ha rotto l’impero. 17: Dante chiede del suo futuro a Cacciaguida, il quale gli profetizza l’esilio. Dante deve tornare al mondo per dare testimonianza.

CANTO I
La retorica del tempo prevedeva che la parte iniziale di un’opera fosse divisa in propositio (vv.1-12), in cui si esplica il contenuto dell’opera, invocatio (vv.13-36), in questo caso rivolta ad Apollo, e dedicatio (che qui manca ma che Dante spiega nella lettera a Cangrande della Scala). La pars retorica del Paradiso è molto ampia rispetto a quella dell’Inferno e del Purgatorio, ma qui l’elemento centrale non è più l’io del poeta ma Dio; infatti i primi tre versi sono autonomi rispetto al resto della protasi e descrivono il Paradiso e l’ordine universale, che Beatrice spiegherà poi nella prima zona teologica, nella seconda parte del canto (per questo si parla di struttura ad anello).
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove. (vv.1-3)
La gloria (lumen divinum) è quella di colui che tutto move (Primo Mobile) nel senso che Dio è grazia e amore che si riflette e si rifrange nei cieli determinando il movimento come bisogno delle creature per ricongiungersi a Dio (principio); l’universo è tutto il creato suddiviso in quattro beni primi: angeli, cieli, materia prima (natura), anima. Dai beni primi, creati da Dio, derivano i beni secondi. Il lumen penetra in tutto questo, riferito all’essenza (anima), e risplende nell’esistenza (corpo). Tale manifestarsi avviene in una parte più e meno altrove, cioè in maniera differente, a sottolineare la gradualità della capacità di accogliere Dio. E’ il tema dell’unità (Dio) e della gradualità (creato) della Grazia, concepibile ponendosi in una condizione “transumana”. Dopo aver esaltato Dio, nelle tre terzine successive Dante parla di sé stesso, ponendo l’accento sull’io poetico ed esponendo la poetica del Paradiso, definita “dell’ispirazione divina” o “del poeta teologo”.
Nel ciel che più de la sua luce prende
Fu’io, e vidi cose che ridire
Né sa né può chi di là sù discende; (vv.3-6)
Egli si è ritrovato nell’Empireo e ha visto (è sottolineato, anche grazie alla cesura fu’io, e vidi, l’atto del vedere con i propri occhi) cose che sono troppo alte per essere totalmente comprese dagli esseri umani. A tal proposito si noti l’uso di parole monosillabiche per indicare la difficoltà di ciò che sta per raccontare.
Perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire. (vv.7-9)
Avvicinandosi a Dio (al suo disire), infatti, il nostro intelletto si profonde a tal punto che la nostra immaginativa (memoria), in questa condizione di excessus mentis, non riesce a ricordare tutto.
Veramente quant’io del regno santo
Ne la mia mente potei far tesoro,
sarà ora materia del mio canto. (vv.10-12)
Questa terzina spiega la poetica dello Stilnovo, la cui novità sta nel fatto che “quando amor mi ditta io vo significando”. Poiché l’amore per eccellenza è Dio, che penetra nella mente del poeta, Dante diventa
semplice scriba Dei, il quale non inventa nulla ma trascrive soltanto:
Dante è così notarius, Dio dictator.
La poetica del Paradiso risulta allora concentrata su tre elementi
fondamentali:
1. Visio (Dante vede e conosce)
2. 2. Memoria (Dante ricorda ciò che ha visto)
3. 3. Verbum (Dante traduce per ispirazione divina)
L’invocazione è rivolta ad Apollo, che si presenta come umbra futurorum di Cristo, chiamato in causa perché entri nel suo pectus e dia forma alla materia, con quella stessa potenza che mostrò nella gara contro Marsia (l’excessus corporis di Marsia è chiamato a modello per l’excessus mentis del poeta). Con la vicenda di Marsia, Dante cita un
mito di superbia punita, come se volesse allontanare da sé ogni ipotesi di atto di superbia, visto che la sua poesia non sfida la divinità, ma, anzi, è da essa voluta.
I vv.28-36 si presentano come una condanna nei confronti della corruzione del mondo terreno, ma viene anche proposto al mondo contemporaneo un progetto correttivo di società (vedi canto sesto): emerge, come diceva De Sanctis, che “la città celeste parla alla città terrena per correggerla”, perciò la poesia terrena diventa uno strumento per realizzare tale progetto.
B. Nardi sostiene che l’ideologia dantesca è suddivisibile in tre fasi:
1. Firenze è città autonoma (città-Stato) da difendere contro ogni interferenza (Papa, Impero). La fazione cui apparteneva Dante, quella dei Guelfi bianchi, venne sconfitta ed egli fu mandato in esilio.
2. Approdò così a posizioni meno estremistiche, proponendo il ritorno ad un regno universale governato da Chiesa e Impero uniti. Tali teorie universalistiche, di origine averroista, lo portarono a sostenere la superiorità della ragione sulla fede. Si parla perciò di fase razionale.
3. Questa terza fase è rispecchiata nel Paradiso e propone una correzione fondata sugli spiritualia documenta. Lo Stato è chiamato a governare in accordo con la Chiesa, che dovrebbe combattere la corruzione, rifiutare il potere temporale e ritrovare la purezza delle origini. Scagliandosi contro il “maledetto fiorino” egli propone dunque un progetto ecclesiologico-pauperistico.
Dopo l’invocazione, Dante comincia a trascrivere l’esperienza dell’ineffabile, cioè il suo passaggio dall’ambito umano (Inferno, Purgatorio) a quello sovrumano, in cui l’io si fonde in Dio (per questo motivo si parla di “indiamento”). Attraverso un’ampia perifrasi astronomica, si viene a conoscenza che la stagione è quella dell’equinozio di primavera, che corrisponde ad una condizione astrale particolarmente benigna, al momento della rinascita (13 aprile), poiché il sole si trova nel segno dell’Ariete come al momento della creazione del mondo e della nascita di Gesù; l’ora è quella di mezzogiorno, la più luminosa (si ricordi che all’Inferno corrisponde la notte, al Purgatorio l’alba). Dante immagina che la linea d’orizzonte, il primo cerchio e l’equatore si incontrino, quattro cerchi giugne con tre croci (v.39), secondo una descrizione astronomico-allusiva (i quattro cerchi rappresentano le virtù cardinali, le tre croci le virtù teologali), dando avvio alla stagione più lieta, che la mondana cera/più a suo modo tempera e suggella (vv.41-42).
L’incontro con Beatrice avviene già nel canto secondo dell’Inferno, attraverso le parole di Virgilio, e il poeta la incontra dal vivo nella vetta del Purgatorio: se nell’Inferno ella era una delle tre Grazie, ora diventa la vera Teologia, espressione della Grazia in atto che lo conduce a Dio facendogli acquisire intellettualmente la verità attraverso le zone teologiche. Applicando la lettura figurale, Auerbach riconobbe nella donna-angelo Beatrice la figura impleta della Beatrice storica e protagonista della Vita nova. Beatrice è in atto di fissare il disco del sole (che, in S. Francesco “de te altissimo porta significatione”) come se dovesse indicargli il cammino, e Dante fa lo stesso, iniziando a transumanar (v.70) come il mitico Glauco, che fu trasmutato da uomo in divinità marina. Beatrice, con un linguaggio che per forma ed argomento (di origine aristotelica) è elevato, spiega al pellegrino che stanno risalendo ai cieli e gli descrive l’ordine dell’universo, il cui principio è:
(…) “Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questo è forma
che l’universo a Dio fa simigliante. (vv.103-105)
Con questo primo canto, Dante tenta di far capire all’uomo il processo di transumanazione, che avviene per elevamento dell’intelletto verso Dio e che il poeta rende servendosi del metodo scolastico (cui si affida anche Beatrice nel testo) basato su principi non dimostrati da cui vengono poi dedotte le verità.

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