Il Candido

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura

Voto:

2.5 (2)
Download:137
Data:08.06.2001
Numero di pagine:89
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
candido_8.zip (Dimensione: 67.49 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_il-candido.doc     192 Kb


Testo

CAPITOLO I
Come Candido è allevato in un bel castello e come n'è cacciato via
Era nella Vesfalia, nel castello del baron di Thunder-ten-tronckh, un giovinetto che aveva avuto dalla natura i più dolci costumi. Se gli leggeva il cuore nel volto. Univa egli a un giudizio molto assestato una gran semplicità di cuore, per la qual cosa, cred'io, chiamavanlo Candido. I vecchi servitori di casa avean de' sospetti ch'ei fosse figliuolo della sorella del signor barone, e d'un buon gentiluomo e da bene di quel contorno, che questa signora non volle mai indursi a sposare perchè non aveva egli potuto provare più di settantun quarti di nobiltà, il resto del suo albero genealogico essendo perito per l'ingiuria de' tempi.
Era il signor barone uno de' più potenti signori della Vesfalia, perchè il suo castello aveva porta e finestre; e di più sala con arazzi. Tutti i cani de' suoi cortili componevano in caso di bisogno una muta di caccia; i suoi staffieri erano i suoi cacciatori, e il piovano del villaggio il suo grande elemosiniere. Gli davan tutti dell'Eccellenza, e ridevano quando contava delle novelle.
La signora baronessa, che pesava circa trecentocinquanta libbre, si attirava per questo un grandissimo riguardo, e faceva gli onori della casa con una dignità che la rendeva più rispettabile ancora. La di lei figlia Cunegonda, in età di diciassett'anni, era ben colorita, fresca, grassotta, da far gola. Il figlio del barone si mostrava tutto degno germe di suo padre. Il precettore Pangloss era l'oracolo di casa, e il giovanetto Candido ne ascoltava le lezioni con tutta la buona fede dell'età sua e del suo carattere.
Pangloss insegnava la metafisico-teologo-cosmologo-nigologia. Provava egli a maraviglia che non si dà effetto senza causa, e che in questo mondo, l'ottimo dei possibili, il castello di S. E. il barone era il più bello de' castelli, e Madama la migliore di tutte le baronesse possibili.
- È dimostrato, diceva egli, che le cose non posson essere altrimenti; perchè il tutto essendo fatto per un fine, tutto è necessariamente per l'ottimo fine. Osservate bene che il naso è fatto per portar gli occhiali, e così si portan gli occhiali; le gambe son fatte visibilmente per esser calzate, e noi abbiamo delle calze, le pietre son state formate per tagliarle e farne dei castelli, e così S. E. ha un bellissimo castello; il più grande de' baroni della provincia dev'essere il meglio alloggiato, e i majali essendo fatti per mangiarli, si mangia del porco tutto l'anno. Per conseguenza quelli che hanno avanzata la proposizione che tutto è bene; han detto una corbelleria, bisognava dire che tutto è l'ottimo.
Candido ascoltava tutto attentamente, e se lo credeva innocentemente; perch'ei trovava Cunegonda bella all'estremo, sebbene non avesse mai avuto l'ardire di dirlo a lei. Egli concludeva che dopo la fortuna di esser nato barone di Thunder-ten-tronckh, il secondo grado di felicità era d'esser Cunegonda, il terzo di vederla tutti i giorni, il quarto di ascoltare il precettore Pangloss, il più gran filosofo della provincia, e in conseguenza del mondo.
Un giorno Cunegonda, passeggiando presso il castello in un boschetto cui si dava il nome di parco, vide tramezzo alle fratte il dottor Pangloss che dava una lezione di fisica sperimentale alla cameriera di sua madre, vezzosa brunetta e docilissima. Cunegonda ritornossene tutta agitata e pensosa, pensando a Candido
L'incontrò ella nel ritornare al castello, e arrossì; Candido arrossì anch'egli; ella gli diede il buon giorno con una voce interrotta, e Candido le parlò senza saper quel ch'ei si dicesse. Il giorno dopo nell'escir da pranzo, Cunegonda e Candido si trovarono dietro a un paravento, Cunegonda si lasciò cascare il fazzoletto, Candido lo raccattò; ella gli prese innocentemente la mano, egli innocentemente baciolla, con una vivacità, con un trasporto, con una grazia particolarissima; le loro bocche s'incontrarono, i loro occhi inffiammaronsi, le lor ginocchia caddero, le mani si strinsero. Il signor barone di Thunder-ten-tronckh passò accanto al paravento, e vedendo questa causa e questo effetto, cacciò via Candido dal castello a pedate. Cunegonda svenne, fu schiaffeggiata dalla baronessa appena rinvenuta che fu, ed ogni cosa fu sottosopra nel più bello e nel più delizioso di tutti i castelli possibili.
CAP 2
Scacciato Candido dal paradiso terrestre, vagò lungo tempo senza saper dove, piangendo, alzando gli occhi al cielo, e spesso rivolgendogli al bellissimo fra' castelli che racchiudeva la bellissima delle baronessine. Si coricò senza cenare in mezzo a' campi fra due solchi, e la neve fioccava. Candido intirizzito dal freddo si strascinò il giorno dopo verso la città vicina che chiamavasi Waldberghoff-trarbk-dikdorff, senza un quattrino, morto di fame, e di stanchezza; si fermò pien di tristezza alla porta di un'osteria. Due uomini vestiti di turchino l'osservarono:
- Camerata, disse un di loro, ecco un giovanotto ben fatto, della statura che si vuole.
S'avanzarono verso Candido, e con tutta civiltà il pregarono a pranzar seco loro.
- Mi fan troppo onore, signori, disse lor Candido con una modestia che incantava, ma io non ho da pagar lo scotto.
- Eh signore, replicogli un di quegli, le persone della sua figura e del suo merito non pagan mai nulla; non è ella cinque piedi e cinque pollici d'altezza?
- Sì, signori, diss'egli, con una bella riverenza, questa è la mia statura.
- Ah signore, si metta a tavola: non solo noi la farem franco di spesa, ma non soffrirem mai che un par suo manchi di danaro. Gli uomini son fatti per soccorrersi scambievolmente l'un l'altro.
- Me l'ha sempre detto il signor Pangloss, riprese Candido; han ragione, ed io vedo chiaramente che tutto è per lo meglio.
Lo pregano di accettare qualche danaro, ei lo prende, e vuol farne l'obbligo; non se ne vuol saper nulla, e si mettono a tavola.
- Non amate voi teneramente?...
- Tenerissimamente io amo, diss'egli, la signora Cunegonda.
- Eh no, replicò un di loro, si chiede se voi amate teneramente il re de' Bulgari.
- Niente affatto, diss'egli, perchè non l'ho mal veduto.
- Come? questo e il più amabile di tutti i re, e s'ha da bere alla sua salute.
- Oh volentierissimo, signori miei; e beve.
- Tanto basta, gli dicono, eccovi l'appoggio, il sostegno, il difensore, e l'eroe dei Bulgari; ecco fatta la vostra fortuna, ecco stabilita la vostra gloria.
Immediatamente gli si mettono i ferri ai piedi, e lo si conduce al reggimento.
Si fa voltare a dritta e a sinistra, levar la bacchetta, rimetter la bacchetta, impostarsi tirare, raddoppiar le file, e gli si regalano trenta bastonate; il giorno dopo fa un po' meno male l'esercizio, e non ne riceve che venti: l'altro giorno non ne ha che dieci, ed è da' suoi camerati riguardato come un prodigio.
Candido stupefatto non sapeva raccapezzare ancor bene, come egli fosse un eroe: s'avvisò in una bella giornata di primavera d'andarsene a passeggiare, marciando di fronte, piè innanzi piè, credendo essere un privilegio della specie umana, come della specie animale, il servirsi delle sue gambe a sua voglia. Non aveva fatto due leghe, che eccoti quattro eroi di sei piedi lo raggiungono, lo legano, e lo conducono in una prigione. Gli si domanda giuridicamente se avea più gusto di passare trentasei volte per le bacchette da tutto il reggimento, o di ricever tutt'a un tratto dodici palle di piombo nel cervello. Aveva un bel dire che le volontà son libere, ch'ei non voleva né l'uno né l'altro; bisognò risolversi a scegliere. In virtù di quel dono di Dio che chiamasi libertà, egli si determinò a passare trentasei volte per le bacchette, e se ne prese due spasseggiate. Il reggimento era composto di duemila uomini e questo gli compose sul fil delle rene quattromila frustate, che dalla nuca del collo per infino al bel di Roma gli scopersero ti muscoli e i nervi. S'era per procedere alla terza carriera, quando Candido non ne potendo più, domandò in grazia che volessero aver la bontà di moschettarlo. Egli ottenne questo favore; gli si bendano gli occhi, lo si fa mettere ginocchioni; il re de' Bulgari passa in quel momento, s'informa del delitto del paziente; e come questo re aveva grand'ingegno, comprese subito da ciò che intese da Candido, esser egli un giovine metafisico, molto ignorante delle cose di questo mondo, e accordogli la grazia con un tratto di clemenza che sarà celebrato da tutti i giornali, e da tutti i secoli. Un bravo chirurgo guarì Candido cogli emollienti insegnati da Dioscoride in tre settimane. Aveva egli rimessa un po' di pelle, e poteva marciare, quando il re de' Bulgari diè battaglia al re degli Abari
3 Come Candido scappò da' Bulgari e quel che gli avvenne.
Non si può dar cosa più bella, più addestrata, più all'ordine, dei due eserciti. Le trombe, i pifferi, gli oboe, i tamburi, i cannoni formavano un'armonia, che non se ne sente una simile a casa al diavolo. Le cannonate buttaron giù al primo saluto vicino a seimila uomini da ambe le parti, quindi la moschetteria portò via dall'ottimo dei mondi nove o diecimila birbanti che ne infettavano la superficie. La bajonetta fu anch'essa la ragion sufficiente della morte di qualche migliajo; in tutto poteva montare a una trentina di mila uomini.
Candido che tremava come un filosofo, si appiattò meglio che potè durante quest'eroico macello.
Finalmente, mentre ognuno nel suo campo facevano i due re cantare il Te Deum, prese il partito d'andarsene a raziocinare altrove degli effetti e delle cause. Passò di sopra a mucchi di morti e di moribondi, e arrivò a un villaggio vicino. Era questo un villaggio degli Abari che i Bulgari, secondo le leggi del gius pubblico, avevan ridotto in cenere. Da una parte vecchi crivellati da' colpi stavano a veder morir scannate le mogli che tenevano i lor bambini alle sanguinanti mammelle; dall'altra fanciulle sventrate dopo aver satollato le brame d'alcuni eroi, rendeano l'ultimo fiato; altre mezzo bruciate chiedevano colle strida che si finisse di ucciderle; ed era coperto il terreno di sparse cervella accanto a braccia e gambe tagliate.
Candido se ne fuggì a tutta furia in un altro villaggio. Apparteneva questo a' Bulgari, ed aveva ricevuto dagli Abari eroi un simile trattamento. Candido, camminando sempre su delle membra ancor palpitanti, e tramezzo alle ruine, arrivò finalmente fuor del teatro della guerra, con qualche piccola provvisione nella bisaccia, e colla memoria ancor fresca della sua Cunegonda. Gli mancaron le provvigioni arrivato che fu in Olanda, ma, avendo sentito dire che quivi tutti eran ricchi, e che era paese di cristiani, non dubitò punto di esser trattato come nel castello del signor barone, prima d'esserne scacciato per i begli occhi di Cunegonda.
Dimandò egli la limosina a molte gravi persone, ma gli fu da tutte risposto che se seguitava a far quel mestiere l'avrebbero ficcato in una casa di correzione, perchè imparasse a vivere.
S'accostò quindi ad un uomo che aveva appunto finito di parlar egli solo per un'ora di seguito in una grande assemblea sulla carità. Questo oratore guardandolo a traverso:
- Che venite voi a far qui? gli disse. Vi siete voi per la buona causa?
- Non si dà effetto senza causa, rispose Candido con tutta modestia; in tutto v'è una concatenazione necessaria, e un'ottima disposizione. È bisognato ch'io sia cacciato via d'appresso a Cunegonda, ch'io sia passato per le bacchette e bisogna ch'io accatti per mangiare finch'io possa guadagnarmelo. Tutto questo non poteva essere altrimenti.
- Amico, gli disse l'oratore, credete voi che il Papa sia l'Anticristo?
- Io non l'avevo ancora sentito dire, rispose Candido ma o lo sia o non lo sia, io non ho pan da mangiare.
- Tu non meriti d'averne, riprese l'altro, monello, birbante, vattene via e non mi venir mai più d'intorno.
La moglie dell'oratore fattasi alla finestra, e scorgendo un uomo che dubitava che il Papa fosse l'Anticristo, gli rovesciò addosso un pien... O cielo! a quale eccesso arriva nelle dame lo zelo di religione.
Un uomo che non era stato battezzato, un buon anabattista nomato Giacomo, vide l'ignominiosa e crudel maniera con cui trattavasi uno de' suoi confratelli, una creatura bipede implume, la quale aveva un'anima; lo condusse in sua casa, lo nettò, gli diè del pane e della birra, gli fe' presente di due fiorini, anzi volle insegnargli a lavorar nella sua fabbrica, alle stoffe di Persia che si fanno in Olanda. Candido inginocchiandosegli innanzi esclamava: «Il maestro Pangloss me l'aveva ben detto che in questo mondo tutto è per lo meglio; io sono infinitamente più commosso dell'estrema vostra generosità, che dell'asprezza di quel signore dal mantello nero e della sua moglie.»
Il giorno dopo andando a spasso s'imbatte in un accattone tutto coperto di bolle, cogli occhi smorti la punta del naso rosicchiata, la bocca storta, i denti neri, la voce affogata, tormentato da una tosse violenta, e che ad ogni nodo di tosse sputava un dente.
CAPITOLO IV
Come Candido ritrova il suo antico maestro di filosofia il dottor Pangloss, e quel che ne segue.
Candido più commosso ancora di compassione che d'orrore, diede a quello spaventevole accattone i due fiorini che avea ricevuti da quell'uom dabbene dell'anabattista Giacomo. Quel fantasma gli fissò gli occhi addosso, cominciò a piangere, e gli saltò al collo. Candido spaventato si tira indietro.
- Ahimè dice un miserabile all'altro, non ravvisate il vostro caro Pangloss?
- Che ascolto? Voi il mio caro maestro! Voi in questo orribile stato! Che sciagura v'è dunque accaduta? Perchè non siete voi più nel bellissimo fra i castelli? E di Cunegonda, la perla delle donzelle, il capolavoro della natura che n'è?
- Io non ne posso più, dice Pangloss.
Candido lo mena immediatamente alla stalla dell'anabattista, ove gli dà del pane a mangiare, e riavuto che fu alquanto:
- Ebbene: e Cunegonda? gli chiese.
- Cunegonda è morta, rispose quegli.
Candido svenne a tai detti; l'amico lo fece ritornare in sè con del cattivo aceto che per caso si trovò nella stalla. Riapre Candido gli occhi:
- Cunegonda è morta! O mondo l'ottimo dei possibili dove sei tu? Ma di qual male è ella morta? Forse d'avermi veduto scacciare dal bel castello del signor padre a furia di gran pedate!
- No, risponde Pangloss, ella è stata sventrata da soldati Bulgari: dopo esser stata oltraggiata quanto esser si possa. Al barone, che voleva difenderla, è stata fracassata la testa; la baronessa tagliata a pezzi, il mio povero pupillo trattato per appuntino come la sorella; e del castello non n'è rimasto pietra sopra pietra, non un granajo, non un montone, non un'anatra, non un sol albero: ma abbiamo avuta la rivincita; perchè gli Abari han fatto l'istesso di una baronia vicina che apparteneva a un signore bulgaro.
A questo discorso Candido tornò a svenire; ma rinvenuto che fu, e detto quel che avea a dire, s'informò della causa e dell'effetto, e della ragion sufficiente, che aveva ridotto Pangloss a un sì compassionevole stato.
- Ahimè disse l'altro, questo è l'amore; l'amore, il conforto dell'uman genere, il conservatore dell'universo, l'anima di tutti gli esseri sensibili, il tenero amore.
- Ahimè, disse Candido, io l'ho conosciuto cotesto amore, cotesto signor de' cuori, cotest'anima dell'anima nostra, egli non mi ha fruttato che un bacio, e venti pedate nel messere. Come mai una sì bella cagione ha potuto produrre in voi un si abbominevole effetto?
Pangloss così rispose:
- O mio caro Candido! voi avete conosciuto Pasquetta, la leggiadra damigella della nostra augusta baronessa, nelle sue braccia ho io gustato le dolcezze del Paradiso; che mi han prodotto questi tormenti d'inferno, onde lacerar mi vedete... Candido andò a gettarsi ai piedi del suo caritatevole anabattista Giacomo, e gli fece un ritratto sì vivo dello stato lacrimevole in cui era ridotto il suo amico, che non esitò punto quell'uomo da bene ad accogliere il dottor Pangloss, e a farlo guarire a sue spese. Altro non perdè Pangloss in questa cura, che un occhio e un orecchio. Egli avea buona mano di scrivere, e sapeva a perfezione far di conto. L'anabattista lo fece suo scritturale. In capo a due mesi essendo per affari del suo commercio obbligato di andare a Lisbona, condusse seco i due filosofi nel suo bastimento. Pangloss gli spiegò come il tutto era l'ottimo. Giacomo era d'un altro parere. Bisogna, ei diceva, che gli uomini abbiano alquanto corrotta la natura, perchè non son nati lupi, e lupi divengono; Dio non ha dato loro nè cannoni da ventiquattro, nè bajonette, ed essi son fatti per distruggersi con bajonette e cannoni. Potrei metter su questo conto e i fallimenti e la giustizia che mette le mani su' beni de' falliti per defraudarne i creditori. - Tutto questo, replicava il guercio dottore, era indispensabile, e le sciagure particolari fanno il bene generale; talmente che più disgrazie particolari vi sono, più tutto è ottimo.
Nel tempo che ei ragiona l'aria si abbuja, si scatenano i venti da quattr'angoli del mondo, e il bastimento è assalito in vista del porto di Lisbona da orribile tempesta.
CAPITOLO V
Tempesta, naufragio, terremoto e quel che avvenne di Pangloss, di Candido e dell'anabattista.
La metà de' passeggieri, languidi, e affranti dalle indicibili angosce che il tentennìo d'un bastimento produce ne' nervi e in tutti gli umori del corpo agitati in contrarie direzioni, non avea nemmeno la forza di mettersi in pena del suo pericolo; l'altra metà gettava delle strida, e innalzava preghiere. Eran lacere le vele, gli alberi spezzati, sdruscito il bastimento. Lavorava chi poteva, non vi era chi s'intendesse, non vi era chi comandasse. L'anabattista dava un po' di ajuto alla manovra; egli era sul cassero; un marinajo furioso lo colpisce malamente, e lo distende sulla coperta, ma dal colpo che diede a lui ebbe egli stesso una scossa sì violente che cadde a capo riverso fuor del bastimento. Restava egli sospeso e abbriccato a un pezzo d'albero rotto. Il buon uomo di Giacomo corre al di lui soccorso, e l'ajuta a risalire, ma dallo sforzo che fece è precipitato egli nel mare in vista del marinajo che non si degnò nemmeno di rimirarlo. Candido si accosta, vede il suo benefattore che ricomparisce a galla un momento, e resta inghiottito per sempre. Vuole egli gettarsegli dietro nel mare, il filosofo Pangloss lo ritiene, provandogli che la spiaggia di Lisbona era stata formata apposta, perchè quest'anabattista vi si annegasse. Mentre lo stava provando a priori, s'apre il bastimento e tutti periscono, a meno di Pangloss, di Candido, e del marinaro brutale che aveva affogato il virtuoso anabattista. Quel birbante nuotò fino alla riva, ove Pangloss e Candido furono trasportati anch'essi sopra d'un asse.
Ritornati che furono un poco in sè, presero il cammino verso Lisbona. Restava a loro qualche denaro con cui speravano di scampar la fame dopo aver scampato il naufragio.
Appena messo piede in città, piangendo la morte del loro benefattore, sentono tremare la terra sotto i lor piedi; il mare si solleva ribollendo nel porto, e fracassa i bastimenti che sono all'áncora. Vortici di fiamme e di cenere coprono le strade o le piazze, crollano gli edifizj, si rovesciano tutti sulle fondamenta, e le fondamenta dispergonsi. Trenta mila abitanti d'ogni età e d'ogni sesso restano schiacciati dalle rovine. Il marinajo fischiando, e bestemmiando dicea fra sè: - Qui v'è da buscar qualche cosa.
- Qual può esser la ragion sufficiente da' un tal fenomeno? dicea Pangloss.
- Questa è la fine del mondo, esclamava Candido.
Il marinajo corre addirittura tramezzo alle rovine ad affrontar la morte per trovar de' quattrini, ne trova, se ne impadronisce, s'ubbriaca, e avendo smaltito il vino, compra i favori della prima ragazza cortese che se gli para davanti, sulle ruine delle case distrutte, e in mezzo dei moribondi e de' morti. Pangloss lo tirava intanto per la manica, «amico, dicendogli, la non va bene, voi mancate alla ragione universale, voi impiegate malamente il tempo.» - Corpo di... sangue di... rispondeva l'altro, son marinajo e nato a Batavia; oh va che tu hai trovato il tuo, colla tua ragione universale!
Candido era stato ferito da alcune scaglie di pietre, e coperto di frantumi di rovine giacea disteso sulla strada. - Ahimè, diceva egli a Pangloss, procurami un po' di vino, e un po' d'olio, ch'io mi muojo. - Questo terremoto rispondeva Pangloss, non è cosa nuova; la città di Lima sofferse in America le stesse scosse l'anno passato: l'istessa cagione produce l'istesso effetto: bisogna che certamente sotto terra vi sia una striscia di zolfo da Lima fino a Lisbona - Non vi è niente di più probabile, diceva Candido, ma datemi per Dio un po' di vino e un po' d'olio. - Come probabile? replica il filosofo; la cosa è evidente, ed io la sostengo.
Candido perdè il lume degli occhi, e Pangloss gli recò dell'acqua d'una fontana vicina.
Il giorno dopo, avendo trovato qualche po' di provvisioni con ficcarsi tramezzo alle rovine, si rinfrancarono un po' di forze, quindi si posero come gli altri a lavorare per sollievo degli abitanti ch'erano scampati alla morte. Alcuni cittadini sovvenuti da essi gli diedero da desinare qual poteva apprestarsi in tanta sciagura. Era il pranzo veramente assai tristo, bagnando i convitati il loro pane di lacrime, ma Pangloss li consolava assicurandoli, che le cose non potevano andare altrimenti; perchè, diceva egli, tutto quel che è, è ottimo, imperocchè se vi è un vulcano a Lisbona non poteva essere altrove non essendo possibile che le cose non sieno dove sono; perchè ogni cosa è bene. Un omiciattolo moro famiglio dell'Inquisizione, che gli era accanto, prese civilmente la parola, e gli disse: - Al vedere il signore non crede al peccato originale; perchè se ogni cosa è per lo meglio, non v'è dunque nè caduta nè castigo. - Domando umilissima scusa a vostra eccellenza, rispose anche più civilmente Pangloss, perchè la caduta dell'uomo e la maledizione entravano necessariamente nell'ottimo de' mondi possibili. - Vossignoria non crede dunque la libertà? riprese il famiglio. - Mi scusi vostr'eccellenza, replicò Pangloss, la libertà può sussistere, con la necessità assoluta, perchè era necessario che noi fossimo liberi, perchè finalmente la volontà determinata...
Pangloss era in mezzo a questo discorso, quando il famiglio fece un cenno al suo staffiere che lo serviva a tavola con del vino di Porto.
CAPITOLO VI
Come si fece un bell'auto-da-fè per impedire i tremoti e come Candido fu frustato.
Dopo il terremoto che avea distrutto tre quarti di Lisbona, i dotti del paese non avevan trovato mezzo più efficace per impedire una total rovina, che di dare al popolo un bell'auto-da-fè. Era stato deciso dall'Università di Coimbra che lo spettacolo di qualche persona bruciata a fuoco lento in gran cerimonia era un segreto infallibile per impedire che la terra non si scuota. Aveano in conseguenza catturato un biscaglino convinto d'aver sposato la comare, e due portoghesi che, mangiando un pollastro, ne aveano levato il lardo; si venne poi dopo pranzo alla cattura del dottor Pangloss, e di Candido suo discepolo; di quello per aver parlato, e di questo per aver ascoltato in aria d'approvazione. Furono tutti e due condotti separatamente in appartamenti freschissimi, ne' quali non s'era mai infastiditi dal sole. Otto giorni dopo furono tutti rivestiti d'un sambenìto, e vennero loro adornate le teste di mitere di carta, la mitera e il sambenìto di Candido eran dipinte con delle fiamme all'ingiù, e con de' diavoli senza granfie e senza coda; ma i diavoli nel sambenìto di Pangloss avean granfie e coda, e le fiamme eran dritte. Andarono così vestiti a processione e sentirono un sermone assai patetico seguito da una bella musica in falso bordone; Candido fu frustato sul messere a tempo di battuta mentre cantavano; il biscaglino e quei due che non avean voluto mangiar del lardo furono bruciati, e Pangloss fu appiccato, benchè non sia questo il costume. Il medesimo giorno vi fu un'altra scossa di terremoto con un fracasso spaventevole. Candido spaventato, confuso, smarrito, tutto insanguinato, tutto affannato dicea fra sè: «Se questo mondo è l'ottimo dei possibili che mai son gli altri? Se io non sono stato altro che nerbato a posteriori, lo sono stato anche fra i Bulgari; ma, o mio caro Pangloss, il massimo de' filosofi, ho io avuto a vedervi impiccare senza ch'i' sappia perchè! Oh mio caro anabattista, ottimo degli uomini, avev'io a vedervi annegare nel porto! O Cunegonda, perla delle fanciulle, er'egli dovere che avessero a spaccarvi la pancia! »
Egli se ne ritornava mal reggendosi in piedi, sermonizzato, ma assoluto e benedetto, quando una vecchia gli si fa innanzi, e gli dice: «Fatevi animo, figliolo mio, e seguitatemi.»
CAPITOLO VII
Come una vecchia prese cura di Candido e come egli ritrova quel che volea.
Candido non si fece animo, nè punto, nè poco, ma seguitò la vecchia in una casupola rovinata, dove diedegli della pomata per strofinarsi, gli lasciò da mangiare, e da bere, un letto molto pulito, e accanto al letto da rivestirsi da capo a piedi. «Mangiate, bevete, e dormite gli diss'ella, la Madonna d'Antiochia, don S. Antonio di Padova, e don S. Giacomo di Galizia abbian cura di voi. Io ritornerò dimattina.» Candido stordito ognor più di quel che avea veduto, di quel che aveva sofferto, e molto più ancora della carità della vecchia, volle baciarle la mano.
- Eh, non è la mia mano, che avete a baciare, rispose la vecchia, io tornerò domani. strofinatevi colla pomata, mangiate e dormite.
Candido, malgrado tante disgrazie, mangiò e dormì. La mattina dopo, la vecchia gli porta da colazione, gli dà una rivista alla schiena, lo stropiccia con dell'altra pomata, gli porta poi da desinare; ritorna sulla sera e gli reca da cena. Il posdomani fa l'istessa cerimonia.
- Chi siete voi? badava a dirle Candido, chi vi ha inspirato tanta bontà? quali grazie poss'io io rendervi?
La buona donna non rispondeva mai nulla; ritornò la sera, e non portò nulla da cena.
- Venite con me, gli diss'ella, e non fiatate.
Se lo prende per braccio e cammina con esso per la campagna circa un quarto di miglio. Arrivano a un casino isolato, circondato di giardini e di canali. Bussa la vecchia a una porticella; si apre; conduce ella Candido per una scaletta segreta in un gabinetto tutt'oro; lo lascia sopra un canapè di broccato, richiude la porta, e se ne va via. Candido si credea di sognare, e considerava tutta la sua vita passata come un sogno funesto, o il momento presente come un sogno dilettevole.
La vecchia ricomparve ben tosto; sosteneva ella a fatica una donna tremante, d'una statura maestosa, tutta rilucente di gioje, e ricoperta da un velo.
- Levate quel velo, disse a Candido la vecchia.
Egli si accosta, alza il velo con mano timorosa. Oh momento! oh sorpresa! Credè di vedere Cunegonda, ei la vedeva in fatti, era ella stessa. Gli mancano le forze, non sa proferir parola, e si lascia cascare a' suoi piedi; e Cunegonda si abbandona sul canapè, la vecchia li carica d'acque odorose, finchè ritornano in sè e possono parlarsi. Non eran sul primo che parole interrotte, domande e risposte, che facevano a urtarsi, sospiri, lacrime e strida. La vecchia lor raccomanda di far meno rumore, e li lascia in libertà. - Come! le dice Candido, voi Cunegonda? voi viva? Voi in Portogallo? Non vi han dunque oltraggiata? - Non v'han spaccata la pancia come mi aveva assicurato Pangloss? - Sibbene, dicea Cunegonda, egli è vero, ma non sempre di questi due accidenti si muore. - Ma vostro padre e vostra madre son eglino stati uccisi? - Pur troppo, disse Cunegonda piangendo, lo sono stati. - E il vostro fratello? - Ucciso ancor egli. - E come siete voi in Portogallo, e come sapeste ch'io vi fossi, e - per quale strana avventura fui condotto in questa casa? - Vi dirò tutto, replicò la donna, ma ditemi prima voi tutto quel che vi è succeduto dopo il bacio innocente che mi deste, e le pedate che ne buscaste.
Candido l'obbedì con un profondo rispetto, e benchè fosse confuso e avesse la voce fievole e tremante, e benchè gli facesse anche un po' male la schiena, le raccontò nella maniera più semplice quel che egli aveva sofferto dal momento della loro separazione. Cunegonda alzava gli occhi al cielo; pianse amaramente alla morte del buon anabattista, e di Pangloss, e parlò quindi in questi termini a Candido, che non ne perdeva una parola, e che la mangiava cogli occhi.
CAPITOLO VIII
Istoria di Cunegonda.
«Ero nel mio letto e dormivo saporitamente, quando al ciel piacque di mandare i Bulgari nel nostro bel castello di Thunder-ten-tronckh; essi scannarono mio fratello e mio padre, e tagliaron mia madre a pezzi. Un gran bulgaro alto sei piedi, vedendo che a un tale spettacolo avevo perduto il conoscimento, mi oltraggiò; questo mi fece rinvenire e ripigliare i miei sensi. Gridai, mi dibattei, morsi, sgraffiai, volli cavar gli occhi a quel bulgaro, non sapendo che tutto quel che accadea nel castello era cosa solita e d'uso. Quel brutale mi diede una coltellata sul fianco sinistro, di cui porto anche il segno. - Ahimè, spero che me lo farete vedere, disse il semplice Candido. - Voi lo vedrete, ma andiamo avanti, disse Cunegonda. - Andiamo pur avanti, disse Candido.
Ella così riprese il filo della sua istoria: «Un capitano de' Bulgari entrò, vide me tutta insanguinata, e il soldato che non facea vista di muoversi. Il capitano in collera pel poco rispetto che avea per lui, quel brutale, me l'ammazzò accosto; mi fece quindi curare, e mi menò prigioniera di guerra nel suo quartiere. Io gl'imbiancavo quelle po' di camicie che aveva, io gli faceva la cucina; egli mi trovava, per dir vero, molta bellezza, ed io nol negherò ch'ei fosse assai ben fatto; del restante niente di spirito e meno di filosofia; si vedeva bene che non era stato allevato dal dottor Pangloss.
«In capo a tre mesi, avendo perduti tutti i quattrini ed essendo ristucco di me, mi vende ad un ebreo chiamato don Issaccar, che negoziava in Olanda, e in Portogallo, e a cui piacevano estremamente le donne. Questo ebreo mi si affezionò moltissimo, ma non potè trionfare della mia ritrosia. L'ebreo mi condusse in questa villetta che voi vedete. Avevo sempre creduto che il castello di Thunder-ten-tronckh fosse quel che vi può esser di più bello nel mondo, ma mi son disingannata.
«Il grand'Inquisitore mi vide un giorno alla messa, mi adocchiò lungamente, e mi fece dire che avea da parlarmi per affari segreti. Fui condotta al suo palazzo, gli scopersi i miei natali, ed egli mi fece delle rimostranze di quanto disconvenisse al mio rango l'esser in balìa d'un ebreo. Fece egli propor per sua parte a don Issaccar di cedermi a monsignore. Ma don Issaccar, ch'è il banchiere di Corte, e un uomo di credito, non ne volle saper niente. L'inquisitore lo minacciò d'un auto-da-fè, sicchè l'ebreo impaurito, concluse un contratto, in virtù del quale e la casa, e la mia persona appartenessero a tutti due loro in comune; ma fecero i conti senza di me, che non voglio alcuno.
«Finalmente per distornare il flagello de' terremoti, e per impaurire don Issaccar, volle monsignor inquisitore celebrare un auto-da-fè, e mi fè l'onor d'invitarmici. Ebbi un buonissimo posto, e fra la messa e il supplizio si servirono i rinfreschi alle dame. Mi raccapricciai per dir vero, a veder bruciar vivi quei due ebrei, e quel galantuomo di Biscaglia, che avea sposata la comare. Ma qual fu la mia sorpresa, il mio raccapriccio, la mia agitazione, quando in sambenito e mitera vidi una figura che rassomigliava a Pangloss! Mi stropicciai gli occhi, lo riguardai attentamente, lo vidi impiccare, e svenni. Ritornata appena in me vi vidi spogliar nudo, e fu per me il colmo del dolore, della costernazione, della disperazione, dell'orrore. Alzai un grido, e fermate, dir volli, o barbari, fermate; ma la voce mancommi, e a nulla avrebbero servito le mie strida. Quando fosti stato ben ben frustato -come mai può darsi, dicea fra me, che l'amabil Candido, e il saggio Pangloss si trovino a Lisbona, uno per pigliarsi cento frustate, e l'altro per farsi impiccare d'ordine di monsignore inquisitore mio cicisbeo? Pangloss mi ha dunque crudelmente ingannata, con dirmi, che tutto quel che segue è per lo meglio?
«Agitata, smarrita, ora fuori di me; ed ora sentendomi morir di debolezza, aveva l'anima ripiena della strage di mio padre, di mia madre, e di mio fratello, di quel birbon di soldato bulgaro, della coltellata che mi aveva data, della mia condizione servile, del mio mestiere di cuciniera, del mio capitano, di quella brutta figura di don Issaccar, di quell'abbominevole inquisitore, dell'impiccatura di Pangloss di quel gran miserere in falso bordone, e sopra tutto del bacio che dato vi aveva dietro un paravento quel giorno che io vi vidi per l'ultima volta. Ringraziai il cielo che a me si riconduceva per tante prove; e mi raccomandai alla mia vecchia, perchè si prendesse cura di voi, e vi conducesse a me più presto che si potesse. Ella ha eseguito a maraviglia la sua commissione, ho gustato il piacere indicibile di rivedervi, di ascoltarvi, di favellarvi. Dovete avere una fame terribile, io ho un grand'appetito, cominciamo a cenare.»
Eccoli tutti e due a tavola, e dopo la cena si ripongono a sedere, quando don Issaccar, un do' padroni di casa, arrivò.
CAPITOLO IX
Quel che successe di Cunegonda, di Candido, del Grand'Inquisitore e d'un Ebreo.
Questo Issaccar era un'ebreo il più collerico che si fosse seduto in Israelle dopo la schiavitù babilonese. - Ah cagna di Galilea, diss'egli, non ti basta l'inquisitore? Vuoi mettermi a parte anco con questo furfante?
In questo cava fuori un lungo pugnale di cui era sempre provvisto, e non credendo provveduto di alcun arme la sua parte avversa si avventa a Candido. Ma il nostro bravo Vesfalo che insieme coll'abito di tutto punto aveva ricevuto dalla vecchia una bella spada, mette mano addirittura, e benchè fosse d'un assai dolce costume, distende morto sul terreno l'israèlita ai piedi di Cunegonda..
- Santissima Vergine! grida ella, che sarà di noi? Un uomo ucciso in mia casa! Se vien la giustizia siamo perduti. - Se Pangloss non fosse stato impiccato, disse Candido, ci daria qualche buon consiglio in simile estremità; egli era un gran filosofo. In sua mancanza consultiamo la vecchia.
Questa era molto prudente, e mentre cominciava a dire il suo parere, eccoti che s'apre un'altra porticina. Era un'ora dopo mezzanotte, ed era il principio della domenica, giorno assegnato a monsignor inquisitore. Entra egli, e vede il frustato Candido colla spada in mano, un cadavere steso per terra, Cunegonda smarrita, e la vecchia a dar consiglio.
Ecco quel che in tal momento si presentò allo spirito di Candido, e come ei ragionò: «se questo sant'uomo grida soccorso mi farà bruciare infallibilmente e potria far l'istesso di Cunegonda. Ei mi ha fatto frustare senza pietà, egli è mio rivale, io ho già preso il verso a ammazzare, e non v'è da esitare un momento.» Questo ragionamento fu semplice e corto, e senza dar tempo all'Inquisitore di rivenire dalla sua sorpresa, lo passa da parte a parte, e lo distende accanto all'ebreo. - Eccoti la seconda di cambio, grida Cunegonda, non c'è più remissione; noi siamo scomunicati, è venuta per noi l'ultim'ora. Come avete potuto fare voi, che siete nato così pacifico, ad ammazzare in due minuti di tempo un prelato ed un ebreo? - Ah, bella Cunegonda, rispose Candido, quando uno è innamorato, geloso e frustato dal Sant'Uffizio, esce fuori di sè.
La vecchia prese allor la parola: «Vi sono, diss'ella, tre cavalli d'Andalusia nella stalla, con tutto il lor fornimento; Candido li metta all'ordine, madama ha delle doppie e delle gioje; montiamo addirittura a cavallo, bench'io non possa star che sopra una parte sola, e andiamocene a Cadice; fa il più bel tempo del mondo, ed è proprio un piacere il viaggiar col fresco della notte.»
Candido mette immediatamente la sella al cavalli; Cunegonda, la vecchia, ed esso fan trenta miglia tutte d'un fiato. Mentre s'allontanavano, arriva alla casa la Santa Hermandad, si sotterra monsignore in una bellissima chiesa, e si butta Issaccar al Campaccio.
Candido, Cunegonda e la vecchia eran già nella piccola città d'Avacèna in mezzo alle montagne della Sierra Morena, e così se la discorrevano in 'osteria.
CAPITOLO X
In quale indigenza Candido, Cunegonda e la vecchia arrivarono a Cadice e del loro imbarco.
- E chi poteva dunque rubarmi le mie doppie e i mie diamanti? dicea Cunegonda piangendo. Come faremo a campare? dove raccapezzare degli inquisitori, e degli ebrei che me ne dieno degli altri? - Ahimè, diceva la vecchia, io ho gran sospetto di un reverendo zoccolante che dormì con noi a Badajoz nell'istessa locanda. Dio mi guardi di fare un giudizio temerario, ma egli entrò due volte nella nostra camera, e partì molto tempo prima di noi. - Ahimè, diceva Candido, me l'aveva sovente provato Pangloss, che i beni di questa terra son comuni a tutti gli uomini, e che ciascheduno v'ha l'istesso diritto. Quel zoccolante doveva bene secondo questo principio, lasciarci da finire il viaggio. Non vi riman dunque nulla nulla, bella Cunegonda? - Nemmeno un picciolo, diss'ella. - A qual partito appigliarci? diceva Candido. - Vendiamo un de' tre cavalli, disse la vecchia; io monterò in groppa dietro alla signora e arriveremo a Cadice.
Vi era nell'istessa locanda un priore de' Benedettini, che comprò il cavallo a buon mercato. Candido, Cunegonda e la vecchia passarono per Lucena, per Chillas, per Lebrixa e finalmente giunsero a Cadice. Vi si equipaggiava una flotta, e vi si radunavan delle truppe per mettere a dovere i reverendi padri gesuiti del Paraguai, i quali eran accusati di aver fatto ribellare una delle migliori provincie contro i re di Portogallo, e di Spagna i presso alla città del SS. Sacramento. Candido, che aveva militato fra i Bulgari, fece l'esercizio alla bulgara dinanzi al generale della piccola armata con tanta grazia, con tanta celerità, con tanta destrezza, con tanta bravura e agilità che gli è dato il comando di una compagnia di fanti. Eccolo fatto capitano; egli s'imbarca con Cunegonda e la vecchia, due servitori, e i due cavalli d'Andalusia, che eran già stati di monsignore di Portogallo.
Durante tutto il passaggio parlarono assai sulla filosofia del povero Pangloss. - Noi andiamo in un altro mondo, diceva Candido, forse è là dove tutto e ottimo; perchè confessar bisogna che vi sarebbe da sospirare di quel che segue nel nostro, tanto in morale che in politica. - Ora vi voglio veramente bene, dicea Cunegonda, perchè ho l'anima anch'io tutta disgustata di quel che vi ho provato e veduto. - Tutto passerà bene, ripetea Candido, in questo novello mondo; il mare istesso è migliore che quel di Europa; egli è più placido, e il vento vi è men variabile. Al vedere è il mondo nuovo il migliore degli universi possibili. - Iddio lo voglia, dicea Cunegonda, ma son stata così orribilmente maltrattata nel mio, che ho il cuore quasi intieramente chiuso alla speranza - Voi vi lamentate, riprese la vecchia, ahimè, che voi non avete provato sciagure simili alle mie.
A Cunegonda scapparon quasi le risa, e le parve molto ridicola quella povera vecchia a pretendere di esser più infelice di lei. - Eh cara mia, le disse ella, quando non siate stata offesa da due Bulgari invece di uno, quando non abbiate ricevuto due coltellate nella pancia, quando non siano stati demoliti due de' vostri castelli e scannati sotto i vostri occhi due vostre madri, e due padri, e frustati due vostri amanti in un auto-da-fè, non vedo che possiate superarmi in disgrazia. Aggiungete che nata son io baronessa con settantadue quarti di nobiltà, e che sonmi ridotta a far da cucina. - Ah signorina, rispose la vecchia, voi non sapete qual è la mia nascita, e se io vi mostrassi il mio bel di Roma non parlereste così, e sospendereste il vostro giudizio. Questo discorso risvegliò nell'animo di Cunegonda e di Candido un'estrema curiosità. La vecchia lor parlò in questi termini:
CAPITOLO XI
Istoria della vecchia.
«Io non son stata sempre cogli occhi cisposi e orlati di scarlatto, il mio naso non è sempre andato a ritoccarsi col mento, nè sempre serva stata son io. Io son figlia di papa Urbano decimo, e della principessa di Palestrina. Fui fino all'età di quattordici anni allevata in un palazzo, a cui tutti i castelli dei vostri baron tedeschi avrian potuto servir di stalla; e valeva più un de' miei abiti che tutte le magnificenze della Vesfalia. Crescevo in bellezza, in grazia, e in talento, in mezzo a' piaceri, agli ossequi ed alle speranze, e inspiravo già amore: quali occhi! quali palpebre! quai ciglia! quali fiammelle scintillavano dalle mie pupille, e oscuravano il fulgore delle stelle! come diceanmi i poeti del luogo.
«Io fui promessa in isposa a un principe sovrano di Massa di Carrara. Che principe! impastato di dolcezza e di vezzi, pieno d'uno spirito brillante, e d'un fervido amore. L'amavo qual suole amarsi ne' primi amori, con idolatria, e con trasporto. Le nozze eran già preparate, con una pompa e una magnificenza inaudita; non si trattava che di feste, di scarrozzate e di burlette in musica a tutto pasto; e si fecero per tutta l'Italia de' sonetti sul mio soggetto, di cui non ve ne fu pur uno di passabile. Ero presso al momento della mia felicità, quando una vecchia marchesa che era stata cicisbea del mio principe, invitollo a prender la cioccolata da lei. Morì egli in men di due ore fra orribili convulsioni; ma questo non è nulla. Mia madre disperava, e pur molto meno afflitta di me, volle per qualche tempo involarsi a un sì funesto soggiorno. Aveva ella una bellissima terra presso Gaeta; c'imbarcammo in una galera del paese, dorata come l'altar di san Pietro, ed ecco che un corsal salettino ci dà addosso, e ci abborda. I nostri soldati si difesero da soldati papalini, si misero tutti in ginocchione, gittando le armi, e chiedendo al corsale un'assoluzione in articulo mortis.
«Furono immediatamente spogliati ignudi come tanti scimmiotti; così mia madre e le nostre damigelle d'onore, e così pur io.
«Non starò a dirvi quanto sia cosa dura per una giovine principessa l'esser condotta schiava al Marocco; voi comprendete benissimo quel che dovemmo soffrire nel bastimento del corsaro. Mia madre era ancora bellissima, le nostre damigelle d'onore, le nostre semplici cameriere aveano più vezzi di quel che possa trovarsene in tutta l'Africa. Io poi ero un incanto, ero la bellezza o la grazia medesima ed ero fanciulla...
«Marocco nuotava nel sangue allorchè vi arrivammo; cinquanta figli dell'imperatore Muley-Ismaele avean ciascuno un partito che produceva in effetto cinquanta guerre civili di neri contro neri, di zaini contro zaini, e di mulatti contro mulatti, ed era un continuo macello in tutta l'estensione dell'impero.
«Fummo appena sbarcate, che alcuni neri di una fazione nemica a quella del nostro corsale si presentarono per involargli la preda. Dopo l'oro e i diamanti eravamo noi quel che egli aveva di più prezioso. Io fui testimone d'una zuffa qual mai non può vedersi nei nostri climi d'Europa. I popoli settentrionali non hanno il sangue troppo bollente, nè il furor per le donne nel grado ch'è ordinario nell'Africa. Par che gli Europei abbiano latte nelle vene laddove è vetriolo e fuoco quel che scorre nelle vene agli abitanti del monte Atlante e dei paesi vicini. Si combatteva col furor de' leoni, delle tigri, de' serpenti della contrada a chi ci avrebbe a possedere. Un moro prese mia madre pel braccio destro, il luogotenente del mio capitano la riteneva per il sinistro, un soldato l'afferrò per una gamba, un de' nostri pirati la ritenne per l'altra, e in un momento tutte le nostre donne trovaronsi nell'istessa guisa tirate da quattro soldati. Il mio capitano mi teneva nascosta dietro a lui, avea impugnata la scimitarra, ed uccideva tutto quel che opponevasi al suo furore. Finalmente vidi tutte le nostre italiane, compresa mia madre, sbranate, trucidate e tagliate a pezzi dai mostri che se le disputavano. Gli schiavi miei compagni, coloro che li avevan presi, soldati marinari, negri, bianchi, mulatti, e finalmente il mio capitano, tutto restò ucciso, ed io rimasi esangue sopra un mucchio di cadaveri. Simili scene seguivano, come è noto, in tutta l'estensione di più trecento leghe, senza si mancasse intanto alle cinque preghiere quotidiane ordinate da Maometto.
«Mi sbarazzai a gran fatica dalla folla di tanti cadaveri sanguinosi ammonticchiati l'uno sull'altro, e mi trascinai sotto un grand'albero d'arancio sul margine d'un ruscelletto vicino. Mi vi abbandonai svenuta dallo spavento, dalla stanchezza, dall'orrore, dalla disperazione e dalla fame. Non andò guari, che i miei sensi oppressi s'abbandonarono a un sonno che aveva più del deliquio che del riposo. Ero in quello stato di debolezza e d'insensibilità fra la morte e la vita, quando sentii qualcuno che mi toccava stranamente. Apersi gli occhi, e vidi un uomo bianco, e di buon aspetto, che dicea sospirando fra' denti: oh che sciagura d'esser... quel che sono!
CAPITOLO XII
Seguito delle sciagure della vecchia.
«Fra lo stordimento e il contento a udire il linguaggio della mia patria, e non meno stupita dalle parole che proferiva colui, gli risposi che vi erano delle disgrazie maggiori di quella di cui lamentavasi. L'istrussi in poche parole delle cose orribili da me sofferte, e caddi in isvenimento. Mi trasportò egli in una casa vicina, mi fece mettere a letto, mi fece dar da mangiare, mi servì, mi consolò, mi accarezzò, mi disse di non aver mai veduta beltà maggiore della mia.
«- Io sono nato a Napoli, mi diss'egli; vi si accapponano tutti gli anni due o tremila ragazzi, altri ne muoiono, altri acquistano una voce più bella di quella delle donne, altri vanno a governar degli Stati. Mi fu fatta questa operazione con grandissimo successo, e sono stato virtuoso della cappella della principessa di Palestina.
«- Di mia madre! esclamai.
«- Di vostra madre! esclamò egli piangendo. Come! sareste voi quella giovine principessa, che io ho allevata fino all'età di sei anni, e che prometteva fin d'allora di dover riuscire quella bellezza, che voi siete?
«- Io son quella stessa; mia madre è lontana di qui quattrocento passi, sbranata in quarti sotto un monte di morti.
«Gli contai tutto quel che mi era accaduto, egli mi narrò finalmente le sue avventure, e mi disse come egli era stato inviato al re di Marocco da una potenza cristiana per concludere con quel monarca un trattato, in virtù del quale gli si somministrerebbe polvere, cannoni e bastimenti per ajutarlo a sterminare il commercio degli altri cristiani.
- La mia commissione è eseguita, continuò quell'onorato eunuco, io devo imbarcarmi a Ceuta e di là ricondurvi in Italia.
«Io lo ringraziai con lacrime di tenerezza, egli invece di condurmi in Italia mi menò ad Algeri, e mi vendè al Deì di quella provincia. Appena fui venduta, quella pestilenza che ha fatto il giro dell'Africa, dell'Asia e dell'Europa si scatenò furiosamente in Algeri. Voi avete udito il terremoto, ma non avete mai signorina mia, provata la peste. Se provata l'aveste, confessereste ch'ella è ben qualche cosa di più che un terremoto. Ella è comunissima in Africa, ed io ne restai infetta. Figuratevi qual condizione per una figlia di papa, in età di quindici anni, che in tre mesi di tempo avea provata la povertà, la schiavitù, aveva veduto spaccare in quarti la madre, avea provata la fame e la guerra, e se ne moriva appestata in Algeri. Io però ne scampai, ma il Deì, e quasi tutto il serraglio d'Algeri perì.
«Passata la prima furia di questa orribile pestilenza si venderono le schiave del Deì. Un mercante mi comprò e mi condusse a Tunisi. Mi vendè egli a un altro mercante che mi rivendè a Tripoli, da Tripoli fui rivenduta al Alessandria, d'Alessandria a Smirne, e da Smirne a Costantinopoli. Toccai finalmente ad un Agà de' giannizzeri ch'ebbe ben tosto il comando di andare a difendere Azof contro i Russi, che l'assediavano. L'Agà, ch'era un onestissimo uomo, condusse seco tutto il suo serraglio, e ci diè quartiere in una fortezza sulla palude Meotide sotto la guardia di due eunuchi, e di venti soldati. Fu ucciso un prodigioso numero di Russi, ma essi si presero ben la rivincita. Azof fu messo a ferro e fuoco, e non si risparmiò nè sesso, nè età. Non vi restò che la nostra piccola fortezza, e i nemici pensarono di prenderci con affamarci. I venti giannizzeri s'erano impegnati con giuramento di non arrendersi mai, e l'estremità della fame a cui furon ridotti, li costrinse a mangiarsi i nostri due eunuchi, per timore di violare il giuramento, e a capo di pochi giorni risolverono di mangiarsi le donne.
«Avevamo un pio Imano molto compassionevole, che fe' loro un bellissimo sermone per persuaderli a non ucciderci affatto. - Tagliate, diss'egli, solamente una parte... carnosa per una a queste signore, e avrete da scialare. Se sarà necessario ritornarci un'altra volta fra pochi giorni, ne avrete altrettanto; il cielo vi saprà buon grado d'un'azione sì caritatevole, e ne sarete soccorsi.
«Siccome era molto eloquente, li persuase; ci fu fatta quest'orribile operazione, e l'Imano ci applicò l'istesso balsamo che si adopra a' bambini dopo la circoncisione; noi eravam tutte per morire.
«Appena avevano i giannizzeri terminato il pasto che noi imbandito loro avemmo, eccoti su de' battelli piatti arrivare i Russi, e neppur un giannizzero si salvò. I Russi non badarono punto allo stato in cui ci trovavamo. Vi son dappertutto dei chirurghi francesi; uno di questi molto bravo prese cura di noi, e ci guarì, ci disse a tutte di consolarci, perchè in molti assedj era stato praticato lo stesso, ed esser così la legge di guerra.
Quando le mie compagne furono in grado di camminare ci mandarono a Mosca. Io toccai in sorte un bojardo; che mi fece sua giardiniera, e mi regalava di venti frustate al giorno; ma questo signore, essendo stato arruotato in capo a due anni con una trentina d'altri bojardi, per impicci di corte, profittai di questa avventura e me ne scappai. Traversai tutta la Russia; fui lungo tempo a servire in una osteria a Riga, indi a Rostock, a Veimar, a Lipsia a Cassel, a Utrecth, a Leida, all'Aja, a Rotterdam; sono invecchiata nella miseria e nell'obbrobrio, ricordandomi sempre d'esser figlia di papa. Ho voluto uccidermi cento volte; ma amavo ancora la vita. Questa debolezza ridicola è forse delle nostre inclinazioni la più funesta. Perchè vi è nulla di più ridicolo che di voler portar continuamente un fardello, che si vorrebbe ad ogni momento buttar giù? Di aver in aborrimento la propria esistenza, e di non poter distaccarsene? D'accarezzar finalmente il serpe che ci divora, finchè non ci abbia mangiato il cuore?
«Ho veduto ne' paesi che la fortuna m'ha fatto scorrere e nelle osterie dove ho servito, un numero prodigioso di persone, che detestavano la propria esistenza, ma otto soli ne ho veduti che abbian volontariamente posto fine alla lor miseria, tre negri, quattro inglesi e un professore tedesco nominato Robek. Finalmente; sono stata a servire in casa dell'ebreo don Issaccar che mi mise appresso di voi signorina mia bella; mi vi sono affezionata, e mi son data più pensiero delle vostre avventure che delle mie. Non vi avrei nemmen parlato mai delle mie disgrazie, se voi non m'aveste un po' piccata e se non fosse l'uso sui bastimenti di contar istorielle per divertirsi. Finalmente, signora, io ho dell'esperienza e conosco il mondo. Pigliatevi un gusto; impegnate i passeggeri a contarvi ognun la sua istoria, e se uno solo se ne trova che non abbia sovente maledetto il punto in cui nacque, e che non abbia sovente detto a sè medesimo d'essere il più infelice che viva, gettatemi a capo all'ingiù nel mare, ch'io mi contento.»
CAPITOLO XIII
Come Candido fu obbligato di separarsi dalla bella Cunegonda e dalla vecchia
La bella Cunegonda udita che ebbe l'istoria della vecchia le fe' tutte le cortesie che a persona del di lei merito e del di lei rango si convenivano, ed avendo accettato il consiglio, impegnò tutti i passeggieri a contare, uno dopo l'altro, le loro avventure, ed ebbe, insieme con Candido, a confessare che la vecchia aveva ragione. - Che peccato, diceva Candido, che il saggio Pangloss sia contro il costume stato impiccato in un auto-da-fè! ei ci direbbe delle cose ammirabili sul mal fisico e sul mal morale onde è coperta la terra e il mare, ed io mi sentirei forza bastante di fargli con tutto il rispetto delle obbiezioni.
A misura che ognuno andava contando la propria istoria il bastimento avanzava cammino. Abbordarono a Buenos-Aires, e Cunegonda, il capitan Candido, e la vecchia andarono a casa del governatore don Fernando d'Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza. Questo signore avea tutta la fierezza che convenivasi a un uomo che portava una sì lunga sfilata di nomi, egli parlava alla gente con un sì nobil disdegno, arricciava talmente il naso, alzava sì spietatamente la voce, prendeva un tuono da imporre talmente e affettava un portamento sì altiero, che faceva venir voglia di bastonarlo a chiunque gli favellava. Amava furiosamente le donne, e Cunegonda gli parve quanto di più bello avesse mai veduto. La prima cosa ch'ei fece, fu di dimandare s'ella era moglie del capitano, e fece questa domanda in un'aria, che mise Candido in apprensione; non ardì egli dire che era sua sorella perchè non lo era nemmeno, quantunque questa bugia officiosa fosse di moda fra gli antichi e potesse essere utile tra i moderni; aveva l'anima troppo pura per avere a tradire la verità. -La signora Cunegonda, diss'egli, deve farmi l'onor di sposarmi, e siamo a supplicar l'Eccellenza Vostra a degnarsi di fare le nostre nozze.
Don Fernando d'Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza, arricciando le basette, sorrise amaramente, e ordinò al capitano Candido d'andare a far la visita della sua compagnia. Candido obbedì; e il governatore si fermò con Cunegonda; le dichiarò la sua passione, le protestò che il giorno appresso l'avrebbe sposata in faccia alla Chiesa, o altrimenti, come più fosse piaciuto alla di lei bellezza; Cunegonda gli domandò un quarto d'ora per raccogliersi, per consultar la vecchia, e determinarsi.
La vecchia diceva a Cunegonda: - Signorina, voi avete settantadue quarti di nobiltà, e nemmeno un picciolo; non sta che a voi il divenir la moglie del più gran signore dell'America Occidentale, e che ha una bella basetta: vorrete voi piccarvi d'una fedeltà a tutta prova?
Voi siete stata oltraggiata da' Bulgari; un ebreo e un inquisitore si sono succeduti. Le disgrazie danno de' privilegi; ed io confesso, che se fossi ne' vostri piedi non mi farei il minimo scrupolo di sposare il signor governatore, e di far la fortuna di Candido.
Mentre la vecchia così parlava con tutta la prudenza che viene dall'esperienza e dagli anni, si vide entrar nel porto un piccolo legno, che portava un alcade, e degli alguazil; ed ecco quel che era successo.
La vecchia aveva molto bene indovinato, che era questi un francescano conventuale, che avea rubato i danari e le gioje di Cunegonda nella città di Badajoz, quando in tutta fretta se ne fuggiva con Candido. Questo frate avendo voluto vendere alcune di quelle gioje a un giojelliere, furon da lui riconosciute per quelle dell'inquisitore, e il francescano aveva, prima di farsi impiccare, confessato d'averle rubate, indicando le persone e la strada ch'esse avean presa. La fuga di Cunegonda e di Candido era già nota, s'inseguirono fino a Cadice, e senza perder tempo si spedì un bastimento per tener lor dietro, ed era già questi nel porto di Buenos-Aires. Si sparse la nuova che era per sbarcarne un alcade, che veniva in traccia degli assassini di monsignore il grand'Inquisitore; e la vecchia prudente, vide in un istante quel che era da farsi. - Voi non potete fuggire, diss'ella a Cunegonda, e non avete nulla da temere. Non siete voi quella che ha ucciso l'inquisitore, e d'altra parte il governatore che vi ama non vi lascerà maltrattare; restate.
Corre immediatamente da Candido, e «fuggite, gli dice, fra un'ora vi bruceranno.» Non vi era un momento da perdere, ma come lasciar Cunegonda, e dove rifugiarsi?
CAPITOLO XIV
Come Candido e Cacambo furono ricevuti da' Gesuiti del Paraguai
Candido aveva condotto da Cadice un servitore di quelli che trovansi in abbondanza sulle coste di Spagna e sulle colonie. Era questi un quarto di spagnuolo nato da un meticcio nel Tucuman, era stato chierico di coro, sagrestano, marinaio, frate, fattore, soldato e lacchè. Si chiamava Cacambo, e amava molto il padrone, perchè il padrone era un bell'uomo. Sellò egli immediatamente i due cavalli d'Andalusia, e «andiamo, disse al padrone, seguitiamo il consiglio della vecchia, partiamo e galoppiamo senza voltarci indietro.» - Oh mia cara Cunegonda, dicea Candido piangendo, ho io ad abbandonarvi adesso che il signor governatore è per stringere i nostri sponsali? Oh Cunegonda, condotta di sì lontano che sarà di voi? - Farà quel che potrà, dicea Cacambo, le donne san ben levarsi d'intrigo. Iddio le provvede, scappiamo. - Dove mi meni tu? dove si va? che farem noi senza Cunegonda? - Per San Jacopo di Compostella, diceva Cacambo, tu andavi a far la guerra a' gesuiti, andiamo a farla per loro, io son pratico delle strade, e vi condurrò nel lor regno, ed essi avranno un gusto grandissimo di avere un capitano che faccia l'esercizio alla bulghera, e voi farete una fortuna prodigiosa. Quando non si trova il suo conto in un mondo si va in un altro, ed è un gran piacere vedere, e far cose nuove. - Tu sei dunque stato altre volte nel Paraguai? disse Candido. - E come! rispose Cacambo, sono stato sguattero nel collegio dell'Assunzione, e conosco il governo de los Padres quanto le strade di Cadice. Che cosa maravigliosa che è quel governo! Il regno ha di già trecento leghe di diametro diviso in trenta provincie. I padri vi hanno tutto e i popoli nulla. Questo è il capo lavoro della ragione e della giustizia. Io non vedo per me niente di sì divino quanto i padri che fan qui la guerra al re di Spagna e di Portogallo, e sono in Europa i lor confessori. Qui ammazzano gli Spagnuoli e a Madrid li mandano in paradiso. È un incanto; tiriamo avanti; voi diventerete il più felice di tutti gli uomini. Che piacere avranno los padres, quando sapranno che vien da loro un capitano, che fa l'esercizio alla bulghera!
Arrivati che furono alla prima barriera, Cacambo disse alla sentinella che un capitano voleva parlare a monsignor comandante. Si andò a darne avviso alla gran guardia. Un uffiziale paraguaino corse a' piedi del comandante a dargliene parte; Candido e Cacambo furono immediatamente disarmati, e furon loro presi i due cavalli d'Andalusia. I due forestieri vengono introdotti in mezzo a due file di soldati, in fondo alle quali era il comandante colla berrettina a tre punte in capo, la toga tirata su, la spada al fianco e lo spuntone In mano. Fece egli un segno, e immediatamente i due forastieri furono circondati da ventiquattro soldati. Gli disse un sergente che conveniva aspettare, che il comandante non potea parlargli, perchè il reverendo padre provinciale non permette ad alcun spagnuolo di aprir la bocca fuorchè in sua presenza, o di restare in paese più di tre ore. - Ma il signor capitano, disse Cacambo, che muor di fame come me, non è spagnuolo, è tedesco; non potrebb'egli intanto che si aspetta Sua Reverenza, far colazione?
Il sergente andò subito a render conto di questo discorso al comandante. - Ringraziato sia Dio, disse questo signore, giacchè è tedesco posso parlargli, conducetelo nella mia pergola.
Candido viene allora introdotto in un gabinetto di verdura adorno d'un bel colonnato di marmo verde venato d'oro, di e belle graticolate con entrovi de' pappagalli, dei colibrì, degli uccelli mosche, dei pintades, e tutti gli uccelli i più rari. Era di già all'ordine in piatti d'oro una colazione squisita, e mentre i paragauini mangiavano del mais in scodelle di legno alla campagna aperta e al bollor del sole, il reverendo padre comandante entrò sotto il pergolato.
Era egli un bel giovanotto, pienotto di viso, di carnagion bianca e colorita, colle ciglia rilevate, l'occhio vivo, l'orecchie rosse, le labbra vermiglie, e l'aria fiera, ma di una fierezza non da spagnuolo e non da gesuita. Furono a Candido e a Cacambo rendute le armi lor prese, come ancora i due cavalli d'Andalusia. Cacambo gli mise a mangiar dell'avena vicino al pergolato, avendo sempre l'occhio addosso a loro per paura di qualche sorpresa.
Candido baciò il lembo della veste al comandante, e quindi si misero a tavola. - Voi siete dunque tedesco, gli disse in quella lingua medesima il gesuita. - Reverendo padre, sì, disse Candido, e l'uno e l'altro in ciò dire si guardavano con estremo stupore e con un'emozione che trattener non. potevano. - E di che paese di Germania siete voi? disse il gesuita. - Della sudicia provincia di Vesfalia. disse Candido; io son nato nel castello di Thunder-ten-tronckh. - Oh cielo! è egli possibile! esclamò il comandante. - Che miracolo! esclamò Candido. - Sareste voi, disse il comandante. Eh eh non può essere disse Candido...
Si lasciano entrambi cadere a traverso, s'abbracciano e versano un fiume di lacrime. - Come? Sareste voi, padre reverendo, il fratello della bella Cunegonda, voi che foste ucciso da' Bulgari! voi il figlio del signor barone! Voi gesuita nel Paraguai! Bisogna confessare che questo mondo è una strana cosa. O Pangloss, Pangloss, qual piacere sarebbe ora il nostro se non foste stato impiccato.
Il comandante fece ritirare gli schiavi negri, e i paraguaini che servivano a tavola recando da bere in gotti di cristallo di rocca; ringraziò Dio e sant'Ignazio mille volte, si stringeva Candido fra le braccia, e il lor viso era bagnato di lacrime. - Voi restereste più stupefatto, più commosso, e più fuor di voi, disse Candido, se lo vi dicessi che Cunegonda vostra sorella, che avete creduta sventrata è piena di sanità. - Dove mai? - Nelle vostre vicinanze, in casa del governatore di Buenos Aires; ed io venivo per farvi la guerra.
Ogni parola che profferivano in questa lunga conversazione accumulava prodigio sopra prodigio. Tutta l'anima volava sulla lingua, era attenta sulle orecchie, brillava loro sugli occhi. Siccome eran tedeschi stettero molto tempo a tavola, aspettando il molto reverendo provinciale; e il comandante così parlo al suo caro Candido.
CAPITOLO XV
Come Candido uccise il fratello della sua cara Cunegonda.
«Mi ricorderò finch'io viva di quel giorno orribile in cui i vidi uccidere mio padre e mia madre, e offender mia sorella. Ritirati che furonsi i Bulgari questa sorella adorabile non si trovo più; si mise in una carretta mia madre, mio padre ed io, con tre altri ragazzi scannati per condurci a seppellire in una cappella di Gesuiti due leghe distante dal castello de' miei maggiori. Un gesuita ci sparse sopra dell'acqua benedetta, che era terribilmente salata, me n'entrarono alcune gocce negli occhi, e quel Padre s'accorse che la mia pupilla facea un piccol moto. Mi pose la mano sul cuore, e lo sentì palpitare; fui dunque soccorso, e in capo a tre settimane era tornato sano. Il reverendo padre Didio superior della casa concepì per me un'affezione la più tenera. Mi diè l'abito di novizio, e qualche tempo dopo fui mandato a Roma. Aveva il padre generale bisogno di reclute di gesuiti tedeschi; perchè i sovrani del Paraguai ricevon men che possono gesuiti spagnuoli; hanno più gusto a' forestieri di cui si credono più assoluti padroni. Fui prescelto a proposito dal padre generale di venire a lavorare in questa vigna, onde partimmo un polacco, un tirolese, ed io. Fui al mio arrivo onorato del suddiaconato e dell'impiego di tenente. Io sono al presente colonnello, e sacerdote. Le truppe del re di Spagna saranno ricevute con vigore, ve ne assicuro io, e saranno scomunicate e battute. La provvidenza vi ha qui mandato per secondarci; ma è egli vero che la mia cara Cunegonda sia qui vicino dal governatore di Buenos Aires?»
Candido l'assicurò con giuramento che era verissimo, e le lor lacrime ricominciarono.
Il barone non sapea saziarsi d'abbracciar Candido chiamandolo suo fratello e salvatore. - Ah forse, diss'egli, potremo entrar assieme trionfanti nella città e ripigliar Cunegonda. - Questo è tutto quel che più bramo, diceva Candido, perchè contavo di sposarla, e lo spero. - Come, insolente, riprese allora il barone, avreste voi la sfacciataggine di sposar mia sorella che vanta settantadue quarti di nobiltà? Mi parete bene sfrontato ad aver l'ardire di parlarmi di un disegno sì temerario.
Candido restò di sasso a questa escita, e: Tutt'i quarti del mondo, replicò, non ci han che far nulla, padre mio reverendo. Io ho levato vostra sorella di mano a un ebreo, e ad un inquisitore; ella mi deve dell'obbligazioni e vuole sposarmi. - Maestro Pangloss mi ha sempre detto che gli uomini son tutti eguali, e sicuramente la sposerò. - Lo vedremo, pezzo di birbante, disse il gesuita baron di Thunder-ten-tronckh, e in queste dire gli diè una gran piattonata sul viso.
Candido pose immediatamente mano alla spada o l'immerse fino all'elsa nel corpo del baron gesuita; ma nel ritirarla tutta fumante si mise a piangere; «ahimè! dicendo, che io ho ucciso il mio vecchio padrone, il mio amico, il cognato, io sono il miglior uomo del mondo, e intanto ho ammazzato già tre persone, e fra queste due sacerdoti.»
Cacambo che faceva la sentinella alla porta del gabinetto accorse, e: - Non ci resta; gli disse il padrone, che a vender cara la nostra vita; entreranno senza dubbio nel gabinetto, bisogna morir coll'armi alla mano.
Cacambo che si era trovato in altri imbrogli non si si smarrì punto, prese egli la toga da gesuita che portava il barone, la mise addosso a Candido, gli diede il berrettino del morto, e lo fece montare a cavallo; tutto questo fu fatto in un batter d'occhio.
«Galoppiamo, padrone, sarete da tutti preso per un gesuita, che va a dar degli ordini, e si saran passate le frontiere prima che vi possan dar dietro.»
Nel dir queste parole volava via gridando in spagnuolo: - Largo, largo, al reverendo padre colonnello.
CAPITOLO XVI
Quel che avvenne a' due viaggiatori con le due femmine, due scimmie, e gli uomini selvaggi chiamati Orecchioni.
Candido e il suo servo si trovarono al di là degli steccati, che nel campo non si sapeva ancora la morte del gesuita tedesco. Il vigilante Cacambo avea pensato a empir la valigia di pane, di cioccolata, di prosciutti e di alcune misure di vino. S'internarono co' lor cavalli andalusi in una contrada incognita, dove non era vestigio di strada alcuna; finalmente si presentò loro una bella prateria, tramezzata di ruscelli. Ivi i nostri viaggiatori fan pascere i lor cavalli; Cacambo propone al suo padrone di mangiare, e glie ne dà l'esempio. - Come vuoi tu, dice Candido che io mangi del prosciutto, quando ho ammazzato il figlio del signor barone, e che mi vedo condannato a non riveder più la bella Cunegonda in tutto il tempo di vita mia? A che mi servirà il prolungare i miei giorni, s'io devo condurli lungi da lei nel rimorso, e nella disperazione? Che dirà il Giornale di Trevoux?
Così parlando, non lasciava però di mangiare. Il sole tramontava, quando i due smarriti sentirono alcune piccole strida, che parean di femmine; essi non sapevano se quelle strida eran di dolore, o di gioja; si alzaron precipitosamente con quella inquietudine, e con quello spavento che tutto inspira in un paese incognito. Quei clamori si partivano da due giovani, che leggermente correvano lungo la sponda della prateria, mentre due scimmie le mordevano alle spalle. Candido ne fu mosso a pietà; aveva egli imparato a tirare da' Bulgari, ed avrebbe colpito una nocciuola in mezzo a un cespuglio, senza toccar le foglie; prende egli il suo fucile spagnuolo a due canne, tira e ammazza le due scimmie. - Dio sia lodato, mio caro Cacambo, io ho liberato da un gran periglio quelle due povere creature; se ho commesso un peccato ammazzando un inquisitore e un gesuita, io vi ho ben rimediato, salvando la vita a due giovani, saran forse due damigelle di condizione, e questa avventura ci può procurare gran vantaggi nel paese.
Volea più dire, ma restò colla parola in bocca quando vide quelle due giovani abbracciare teneramente le due scimmie, cadere piangendo su' loro corpi ed empir l'aria di dolorose grida. - Io non mi aspettava un cuor tanto buono, disse finalmente a Cacambo, il qual gli replicò: - Voi avete fatto un bel servizio padron mio: avete ammazzato i due amanti di quelle damigelle. - I loro amanti! è possibile? Tu mi burli, Cacambo, come posso crederlo? - Mio caro padrone, interrompe Cacambo, voi vi fate sempre maraviglia di tutto; perchè ha egli a parervi strano che in qualche paese vi sieno delle scimmie che ottengano simpatie dalle dame? esse son un quarto d'uomo com'io sono un quarto di spagnuolo. - Ah, ripiglia Candido, mi sovviene d'aver inteso dire dal mio maestro Pangloss, che altre volte sono accaduti simili accidenti, e che avean prodotto degli Egipani, de' Fauni, dei Satiri, stati veduti dai più gran personaggi dell'antichità; ma io la credeva un favola. - Ora dovete esserne convinto, disse Cacambo. Quel che io temo per altro, è che quelle dame non ci pongano in qualche imbroglio.
Queste solide riflessioni determinarono Candido ad abbandonare la prateria, e ad internarsi in un bosco, ove cenò con Cacambo, e dopo d'aver ambedue maledetto l'inquisitor di Portogallo, il governator di Buenos-Aires, e il barone, si addormentarono sull'erba. Al risvegliarsi sentirono che non si potean muovere, e la ragione era che nella notte gli Orecchioni abitanti del paese, ai quali erano essi stati accusati dalle due dame, li avevano ammanettati con corde di scorza d'albero. Si videro noi attorniati da una cinquantina d'Orecchioni armati di frecce, di clave, e di asce di sasso; gli uni facean bollire una gran caldaja, gli altri preparavano degli spiedi gridando tutti: - È un gesuita, è un gesuita, noi saremo vendicati; e faremo un buon pasto, mangiamo un gesuita, mangiamo un gesuita!
- Io ve l'aveva detto, mio caro padrone, grida afflitto Cacambo, che quelle due giovani ci avrebbero fatto un cattivo tiro. Candido, scorgendo la caldaja e gli spiedi grida: «Noi certamente saremo arrostiti e lessati. Ah, che direbbe il maestro Pangloss s'egli vedesse come la pura natura è fatta? Tutto va bene; lo sia pure, ma io provo che è cosa crudele l'aver perduta la bella Cunegonda, e l'esser infilato su uno spiede dagli Orecchioni.»
Cacambo non si smarrì mai: - Non disperate di nulla, diss'egli all'afflitto Candido: io intendo un poco il gergo di questi popoli. - Non lasciate dice Candido, di far loro vedere qual orribile inumanità è quella di cuocer gli uomini, e che non è da cristiani. - Signori, dice Cacambo, voi credete dunque di mangiar oggi un gesuita: benissimo fatto; niente v'è di più giusto che il trattar così i propri nemici; in fatti il diritto naturale c'insegna ad uccidere il nostro prossimo, e questo si costuma ancora in tutta la terra. Se noi non usiamo del diritto di mangiar gli uomini, è perchè abbiamo d'altra parte di che scialare, ma voi non avete il medesim rinfranco di noi; certamente è meglio mangiare i suoi nemici, che abbandonare ai corvi e alle cornacchie i frutti di sua vittoria; ma, signori, voi non vorreste mangiar il vostro amico, voi credete d'infilare e arrostire un gesuita; ed egli è un vostro difensore, un nemico de' vostri nemici: per me, io son nato nel vostro paese, e questo signore che vedete è mio padrone; che ben lungi d'essere un gesuita, ne ha poc'anzi ammazzato uno, e ne porta le spoglie. Ecco l'oggetto del vostro errore. Per verificare quel ch'io vi dico, prendete la sua toga, portatela al primo steccato del regno de los Padres, e informatevi se il mio padrone non ha ammazzato un uffiziale gesuita: poco tempo vi abbisognerà, e potrete sempre mangiarci quando troviate ch'io abbia mentito, ma io vi ho detto la verità: voi conoscete troppo i principj del gius pubblico, i costumi e le leggi per non farci grazia.
Gli Orecchioni trovarono questo discorso molto ragionevole, e deputarono due cittadini de' più ragguardevoli per andar con diligenza a informarsi della verità. I due deputati eseguirono la lor commissione da gente di spirito, e ritornarono ben tosto ad apportar buone nuove.
Gli Orecchioni liberarono allora i due prigionieri, fecero loro ogni sorta di civiltà, offrirono loro delle ragazze, diedero loro rinfreschi, e li ricondussero ai confini dei loro Stati, gridando con allegrezza: Non è gesuita, non è gesuita.
Candido non lasciava di ammirare la sua liberazione - Che popolo! diceva egli, che uomini! Che costumi! Se io non avessi avuta la fortuna di dare una stoccata a traverso il corpo del fratello di Cunegonda, io era mangiato senza remissione; ma finalmente la pura natura è buona, poichè questa gente in luogo di mangiarmi, mi ha fatto mille gentilezze, allorchè han saputo che io non era gesuita.
CAPITOLO XVII
Arrivo di Candido e del suo servo al Paese d'Eldorado e ciò ch'essi vi videro.
Quando furono alle frontiere degli Orecchioni: - Vedete voi, disse Cacambo a Candido, che quell'emisfero non è miglior dell'altro: credete a me, ritorniamocene in Europa per la più corta. - Come ritornarci? disse Candido, e dove andare? Se vado nel mio paese, i Bulgari e gli Abari ci scannano; se ritorno in Portogallo, son bruciato; se restiamo in questo paese, corriamo rischio ogni momento di esser messi sullo spiedo; e poi come risolversi ad abbandonare la parte del mondo ove abita la bella Cunegonda? - Volgiamoci verso la Cajenna, dice Cacambo, noi vi troveremo de' Francesi, i quali vanno per tutto il mondo ed essi potranno ajutarci. Dio avrà forse pietà di noi.
Non era così facile di andare alla Cajenna. Essi sapevano press'a poco qual cammino bisognava prendere, ma fiumi, precipizj, assassini, selvaggi, eran per tutto terribili ostacoli; i lor cavalli morirono di fatica; le loro provviggioni furono consumate, e si nudrirono un mese intero di frutti selvatici; finalmente si trovarorono presso un fiumicello ornato di alberi di cocco, che sostennero la lor vita o le loro speranze.
Cacambo che sempre dava, al par della vecchia, de' buoni consigli, disse a Candido: - Noi non ne possiam più, abbiamo camminato assai, vedo un barchetto vuoto, empiamolo di cocco, e gettiamoci dentro, a discrezione della corrente; un fiume conduce sempre in qualche parte abitata; se non troveremo delle cose aggradevoli, troveremo almen delle cose nuove. - Andiamo, disse Candido, raccomandiamoci alla provvidenza.
Essi vogarono per qualche lega fra ripe or fiorite, ora sterili, or piane, ed ora scoscese. Il fiume si faceva sempre più largo; finalmente si perdeva sotto una volta di spaventevoli scogliere che si ergevano fino al cielo. I due viaggiatori ebbero l'ardire d'abbandonarsi al flutto, sotto quella volta. Il fiume, chiuso in quello stretto, portava con una rapidità e un fracasso terribile. In termine di ventiquattr'ore rividero la luce, ma il lor barchetto si fracassò negli scogli, onde bisognò strascinarsi di rupe in rupe e per una lega intera; finalmente discuoprirono un orizzonte immenso contornato di montagne inaccessibili. Il paese era coltivato sì per piacere, come per bisogno, e da per tutto il prodotto era aggradevole. Le strade eran coperte, o piuttosto adornate di vetture, d'una forma e d'una materia brillante, portando addentro degli uomini e delle donne d'una bellezza singolare, condotte rapidamente da grossi montoni rossi, che sorpassavano in corporatura i più bei cavalli d'Andalusia, di Tituano e di Mequinez.
- Ecco a buon conto, disse Candido, un paese che val più della Wesfalia.
Mise i piedi a terra con Cacambo al primo villaggio che gli si presentò. Alcuni ragazzi, coperti di un broccato d'oro tutto stracciato, giuocavano alle piastrelle all'entrata del borgo. I nostri due uomini dell'altro mondo s'occupavano ad osservarli; le loro piastrelle erano tonde, assai larghe, gialle, rosse, verdi, e gettavano uno splendore singolare; venne voglia ai viaggiatori di raccoglierne alcune, e videro ch'erano d'oro, di smeraldi, di rubini, la minor delle quali sarebbe stato il più grand'ornamento del trono del Mogol. - Senza dubbio, disse Candido, questi ragazzi sono i figli del re del paese, che giocano alle piastrelle.
Apparve in quel momento il maestro del villaggio per ricondurli a scuola: - Ecco, dice Candido, il precettore della famiglia reale.
Quei baroncelli abbandonaron tosto il giuoco, lasciando in terra le lor piastrelle e tutto ciò che aveva servito al lor divertimento. Candido le raccolse, corse dal precettore, e gliele presentò umilmente, facendogli intendere, a forza di cenni, che le loro altezze reali si erano dimenticate del loro oro e delle loro gemme. Il maestro del villaggio, sorridendo, le gettò per terra, guardò un momento la figura di Candido con stupore e continuò il suo cammino.
I viaggiatori non lasciarono di raccorre l'oro, i rubini e gli smeraldi. - Dove siamo noi? grida Candido: bisogna che i figli del re di questo paese sieno bene educati, perché s'insegna loro a sprezzar l'oro e le gemme.
Cacambo n'era meravigliato al par di Candido. Si avvicinarono in fine alla prima casa del villaggio, la quale era fabbricata come un palazzo europeo; una folla di popolo si affrettava verso la porta, e più ancora al di dentro; si faceva sentire una musica graziosissima e un odor delizioso di cucina. Cacambo s'appressò alla porta, e sentì che si parlava peruviano; era questo il suo linguaggio materno, poiché ognun sa che Cacambo era nato al Tucuman, in un villaggio ove non si conosceva che questa lingua. - Io vi servirò d'interprete, disse a Candido; entriamo, qui v'è un'osteria.
Immediatamente due giovani e due ragazze dell'osteria, vestite di drappi d'oro e guarnite i capelli di nastri, li invitano a porsi a tavola. Furon serviti di quattro minestre guarnite ciascuna di due pappagalli, d'un lesso che pesava duecento libbre, di due scimmie arrostite, d'un gusto eccellente, di trecento colibrì in un piatto, e di seicento uccelli mosca in un altro, di ragù squisiti, e di paste deliziose, il tutto in certi piatti d'una specie come di cristallo di rocca, e i giovani e le ragazze versavan loro più liquori estratti da canne da zucchero.
I convitati erano per la maggior parte mercanti e vetturini, tutti d'una somma civiltà; questi fecero alcune domande a Cacambo col più circospetto riguardo, e risposero alle sue con una maniera più che propria a soddisfarlo.
Terminato il pasto, Cacambo e Candido crederono di ben pagare la loro parte col gettare sulla tavola dell'oste due di que' grossi pezzi d'oro che avean raccolti; l'oste e l'ostessa diedero in uno scoppio di risa e si tennero per lungo tempo le coste; finalmente rimessosi: - Signori, disse l'oste, vediamo bene che siete forestieri; noi non siamo soliti a vederne; scusateci perciò se ci siamo messi a ridere quando ci avete offerto i ciottoli delle nostre strade; voi, senza dubbio, non avete moneta del paese, ma non è necessario d'averne per desinar qui: tutte le osterie erette per il comodo del commercio son pagate dal governo: avrete avuto un cattivo trattamento, perchè questo è un povero. villaggio; ma, altrove sarete ricevuti come meritate d'esserlo.
Cacambo spiegò a Candido tutto il discorso dell'oste, e Candido l'ascoltò con la stessa ammirazione, e con lo stesso stupore che ne aveva risentito il suo amico Cacambo. «Che paese dunque è questo, diceva l'uno all'altro, incognito a tutto il resto della terra; e dove la natura è sì diversa dalla nostra? Questo, probabilmente, è il paese dove tutto va bene, giacchè bisogna assolutamente che uno ve ne sia di questa specie: dica quel che vuole il maestro Pangloss, io mi sono spesso avveduto che tutto andava molto male in Wesfalia.»
CAPITOLO XVIII
Ciò che videro nel paese d'Eldorado.
Cacambo testificò al suo oste tutta la sua curiosità; l'oste gli disse: - Io sono molto ignorante, e me ne trovo bene; ma qui abbiamo un vecchio ritiratosi dalla Corte; che è il più sapiente uomo del regno, e il più comunicativo.
Egli condusse Cacambo dal vecchio; Candido allora che non faceva altra figura che di secondo personaggio, seguiva il suo servo. Entrarono essi in una casa molto semplice, poichè la porta non era che di argento, e le soffitte degli appartamenti non erano che d'oro, ma lavorate con gusto tale, che le più ricche soffitte non le oscuravano; l'anticamera non era invero incrostata che di rubini e di smeraldi, ma l'ordine, nel quale tutt'era disposto, correggeva bene quella somma semplicità.
Il vecchio ricevè i due forastieri sopra un sofà spiumacciato di penne di colibrì, fece lor presentare de' liquori in vasi di diamanti, e appagò poi la lor curiosità in questi termini:
- Io sono nell'età di settantadue anni, e ho saputo dal fu mio padre, scudiere del re, le stupende rivoluzioni del Perù, delle quali egli fu testimone. Il regno ove noi siamo è l'antica patria degli Incas che ne uscirono imprudentemente per andare a soggiogare una parte del mondo, e che furono finalmente distrutti dagli Spagnuoli. I principi della lor famiglia che restarono nel lor paese nativo furono più saggi; essi comandarono col consenso della nazione che nessuno abitante non uscisse dal nostro piccolo regno; ed ecco come ci siamo conservati nella nostra innocenza, e nella nostra felicità. Gli Spagnuoli hanno avuta una conoscenza confusa di questo paese; essi l'hanno chiamato l'Eldorado, ed un inglese nominato il cavalier Raleigh ci si avvicinò circa a cent'anni sono; ma siccome noi siamo circondati da scogliere inaccessibili e da precipizj, perciò siamo sempre stati fino al presente al sicuro dalla rapacità delle nazioni d'Europa; che hanno un'avidità incomprensibile per i sassi e per il fango della nostra terra, e che per averne, ci ucciderebbero tutti dal primo all'ultimo.
La conversazione fu lunga, o andò a cadere sulla forma di governo, su' costumi, sulle femmine, su i pubblici spettacoli e sulle arti. Candido infine, che avea sempre piacere alla metafisica, fece dimandare da Cacambo se nel paese vi era una religione.
Il vecchio arrossì un poco - Come dunque, diss'egli, potete voi dubitarne? ci prendete forse per ingrati?
Cacambo gli dimandò umilmente qual era la religione d'Eldorado. Il vecchio arrossì ancora. - Che forse possono esservi due religioni? diss'egli: noi abbiamo la religione, cred'io, di tutto il mondo: noi adoriamo Iddio dalla sera alla mattina. - Non adorate voi che un solo Iddio? disse Cacambo, che serviva sempre d'interprete a' dubbi di Candido - Apparentemente, disse il vecchio non ve ne sono nè due, nè tre, nè quattro: io vi confesso che mi pare che le genti del vostro mondo faccian delle dimande ben singolari.
Candido non lasciava di far interrogare questo buon vecchio: ei volle sapere come si pregava Iddio nell'Eldorado. Non lo preghiamo, disse il buono e rispettabile vecchio: non abbiamo nulla da chiedergli: ei ci dà tutto ciò che ci abbisogna, e noi lo ringraziamo senza fine.
Candido avea la curiosità veder de' preti, e fece domandare se ve n'erano. Il buon vecchio sorrise. - Amici miei, disse egli, noi siamo tutti preti: il re e tutti i capi di famiglia cantan degl'inni di rendimento di grazie; solennemente, e tutte le mattine, e cinque o seimila musici li accompagnano. - Come! voi non avete frati, che insegnino, che disputino, che governino, che brighino e che facciano bruciare la gente che non è del lor parere. - Bisognerebbe che noi fossimo ben pazzi, disse il vecchio: noi siamo tutti di un medesimo sentimento, e non intendiamo ciò che vogliate dire co' vostri frati.
Candido a tutti que' discorsi restava maravigliato, e diceva fra sè medesimo - «Questo paese è ben differente dalla Wesfalia, e dal castello del signor barone: se il nostro amico Pangloss avesse veduto Eldorado non avrebb'egli più detto che il castello di Thunder-ten-tronckh era quel che v'è di meglio sulla terra. È certo che bisogna viaggiare.»
Dopo questa lunga conversazione, il buon vecchio fece, attaccar la carrozza a sei montoni e diede dodici de' suoi domestici ai due viaggiatori per farli condurre alla Corte - Scusatemi, disse loro, se la mia età mi toglie l'onore di accompagnarvi. Il re vi riceverà in una maniera, di cui non sarete mal soddisfatti, e voi perdonerete senza dubbio agli usi del paese, se ve ne sono alcuni che vi dispiacciano.
Candido e Cacambo salirono in carrozza; i sei montoni volavano, e in meno di quattr'ore arrivarono al palazzo del re situato alla cima della capitale. L'ingresso era di duecentoventi piedi di altezza, e cento di larghezza. È impossibile di esprimere qual ne fosse la materia: si può considerare qual prodigiosa superiorità ella doveva avere su que' sassi e su quella sabbia che noi chiamiamo oro e gemme.
Venti belle ragazze della guardia ricevettero Candido e Cacambo al discendere dalla carrozza; li condussero ai bagni, li vestirono di abiti tessuti di piuma di colibrì, e dopo i grand'uffiziali e grand'uffizialesse della corona li introdussero all'appartamento di sua maestà in mezzo a due file ciascuna di mille musici, secondo l'uso ordinario. Quand'essi si avvicinarono alla sala del trono, Cacambo dimandò a un grand'uffiziale come bisognava contenersi per salutare sua maestà: se si stava ginocchioni o colla pancia per terra, se si mettevano le mani sulla testa o sul di dietro, se si leccava la polvere della sala, in una parola qual era il cerimoniale. - L'uso, disse il grand'uffiziale, è di abbracciare il re e baciarlo da una parte e dall'altra.
Candido o Cacambo saltarono al collo di sua maestà, ed egli li ricevè con tutta la grazia immaginabile, e gl'invitò gentilmente a cena.
Frattanto si fece lor vedere la città, gli edifizj pubblici innalzati fino alle nuvole, i passeggi adornati di mille colonne, le fontane d'acqua pura, quelle d'acqua di rosa, quelle di liquor di canna di zucchero, che gettavano zampilli continuamente nelle vaste piazze lastricate di una specie di pietre che tramandavano un odore simile a quello del garofano e della cannella. Candido chiese di vedere il palazzo della giustizia, e il parlamento, o gli si disse che non vi era nulla di questo, nè mai si facean liti. Dimandò se vi erano delle prigioni, e gli si disse che no. Ciò lo stupì d'avvantaggio, e finalmente quel che più gli piacque fu il palazzo delle scienze, nel quale ei vide una galleria di duemila passi, tutta piena di strumenti di fisica.
Dopo di aver trascorsa, tutto il dopo pranzo, press'a poco la millesima parte della città, furono ricondotti dal re. Candido si mise al tavola fra sua maestà, il suo servo Cacambo e molte dame. Non si poteva far miglior pasto, nè si poteva cenare con maggior gusto, di quel che ne provò il re. Cacambo spiegava le idee del re a Candido, e benchè tradotte, eran sempre concettose. Di tutto quel che maravigliava Candido questo non era il meno.
Essi passarono un mese alla Corte; Candido diceva sempre a Cacambo: «È vero, amico, che il paese ov'io son nato non ha nessun grado di comparazione col paese ove siamo, ma finalmente la bella Cunegonda non v'è, e voi ancora avrete senza dubbio qualche amante in Europa. Se noi restiamo qui non vi faremo maggior figura degli altri, invece se torniamo nel nostro mondo con dodici montoni carichi de' ciottoli d'Eldorado, saremo più ricchi di tutti insieme i re: non avremo più inquisitori da temere, e potremo facilmente riprenderci la bella Cunegonda.
Piacque tal discorso à Cacambo; s'ha tanto gusto a gironzare e farsi valere fra i suoi, e far mostra di ciò che s'è veduto viaggiando, che i due fortunati si risolverono di più non esserlo, e di prender congedo da sua maestà.
- Voi fate una pazzia, disse loro il re: so bene che il mio paese è piccola cosa, ma quando si vive passabilmente in qualche luogo, bisogna restarvi; io non ho al certo il diritto di ritenere i forastieri; questa è una tirannia che non è nè secondo i nostri costumi, nè secondo le nostre leggi. Tutti gli uomini sono liberi; partirete quando vorrete, ma sappiate che l'escita è ben difficile. È impossibile di rivalicare il rapido fiume su cui siete qui giunti per miracolo, e che corre sotto a volte di scogliere. Le montagne che chiudono tutto il mio regno, hanno diecimila piedi d'altezza, e son diritte come muraglie; esse occupano in larghezza uno spazio di dieci leghe per ciascuna, e non si può discenderle che per precipizj. Per altro, giacchè volete assolutamente partire, io darò ordine agli intendenti di macchine di farne una che comodamente possa trasportarvi; ma quando sarete condotti a traverso le montagne nessuno vi potrà accompagnare; perchè i miei sudditi han fatto voto di non uscir giammai dal loro recinto, ed essi son troppo saggi per rompere il loro voto; pel resto chiedetemi tutto ciò che vi piacerà. - Noi non chiediamo a vostra maestà, disse Cacambo, che alcuni montoni carichi di viveri, de' ciottoli o del terriccio del paese. - Il re rispose: Io non capisco, qual gusto abbiano le vostre genti d'Europa per la nostra mota gialla; ma portatevene quanta ne vorrete, e buon pro vi faccia.
Egli died'ordine in quell'istante a' suoi ingegneri di fare una macchina per levar in alto, e calar fuor del regno i due uomini straordinari. Tremila bravi fisici vi lavorarono; essa fu pronta in termine di quindici giorni, e non costò più di venti milioni di lire sterline, moneta del paese. Furon messi sulla macchina Candido e Cacambo; vi eran due gran montoni sellati, e brigliati per servir loro di cavalcatura quando avessero scalato lo montagne: venti montoni da basto carichi di viveri, trenta che portavano di regali, consistenti in ciò che il paese aveva di più raro, ed altri cinquanta carichi d'oro, di pietre, e di diamanti. Il re abbracciò teneramente i due forestieri.
Fu un bello spettacolo la lor partenza, e la maniera ingegnosa con cui furono innalzati essi e i lor montoni alla cima delle montagne. I fisici presero da lor congedo. Dopo di averli posti in sicurezza, a Candido non restò altro desiderio che d'andare a presentare i suoi montoni alla sua bella Cunegonda, messa forse a prezzo. - Camminiamo verso la Cajenna, imbarchiamoci, e vedremo in seguito qual regno potremo comprare.
CAPITOLO XIX
Ciò che accadde loro a Surinam e come Candido fece conoscenza con Martino.
Il primo giorno de' nostri viaggiatori fu piacevole. Essi erano incoraggiati dall'idea di vedersi possessori di tesori di gran lunga maggiori di quanti ne avessero potuti riunire l'Asia, l'Europa e l'Africa. Candido entusiasmato, scrisse il nome di Cunegonda sugli alberi. Il secondo giorno due de' lor montoni s'affondarono nelle paludi, e vi subissarono col lor carico; due altri montoni morirono di fatica alcuni giorni appresso; sette o otto perirono in seguito dalla fame in un deserto; altri in termine di alcuni giorni caddero da precipizj; finalmente dopo cento giorni di cammino non restaron loro che due montoni. Candido disse a Cacambo: - Vedete, amico, come le ricchezze di questo mondo son caduche: nulla vi è di stabile come la virtù, e la fortuna di veder Cunegonda. - Lo confesso anch'io, rispose Cacambo; ma ci restano ancor due montoni con più tesori che non avrà mai il re di Spagna e vedo da lontano una città, che io suppongo Surinam, appartenente agli Olandesi. Eccoci al termine dello nostre fatiche e al principio della nostra felicità.»
Avvicinandosi alla città s'incontrarono in un negro disteso in terra, che non aveva che la metà del suo abito, cioè un par di braghe di tela azzurra; mancava a questo povero uomo la gamba sinistra, e la mano dritta. - Mio dio! gli dice Candido, che fai tu là, amico, in questo stato orribile in cui ti vedo? - Attendo il mio padrone il signor Vanderdendur il famoso negoziante, risponde il negro. - E questo signor Vanderdendur, dice Candido, ti ha conciato così? - Sì, signore, risponde il negro, quest'è l'uso: ci vien dato un par di brache di tela per vestito due volte l'anno: quando lavoriamo alle zuccheriere, e che la macina ci acchiappa un dito, ci si taglia la mano; quando vogliam fuggire ci si taglia la gamba; a questo prezzo voi mangiate dello zucchero in Europa. Intanto, allorchè mia madre mi vendè per dieci scudi patacconi sulla costa di Guinea, ella mi diceva: figliuol mio, benedici i nostri feticci, adorali tutti i giorni, essi ti faran vivere fortunato; tu hai l'onore d'essere schiavo de' nostri signori i bianchi, e tu fai la fortuna di tuo padre e di tua madre. Ah! io non so se ho fatto la lor fortuna, so bene che essi non han fatto la mia: i cani, le scimmie, i pappagalli son mille volte meno disgraziati di noi. I feticci olandesi che mi han convertito, mi dicon tutte le domeniche che noi siamo tutti figli d'Adamo, bianchi e neri; io non sono genealogista, ma se quei predicatori dicono il vero noi siam tutti fratelli cugini; or voi converrete che non si possono usare tra parenti trattamenti più orribili.
- O Pangloss! grida Candido, tu non avevi pensato a questa abominevole circostanza; ed è pur cosa di fatto; bisognerà finalmente che io rinunzii al tuo ottimismo. - Che cos'è quest'ottimismo? dice Cacambo. - Ah, risponde Candido, è la maniera di sostenere che tutto va bene quando si sta male.
Intanto versava lagrime riguardando il negro, e piangendo entrò in Surinam.
La prima cosa di cui essi s'informarono, fu se v'era nel porto alcun vascello che si potesse spedire a Buenos-Aires. Quello a cui si presentarono era appunto un padrone spagnuolo, che si offrì di far con essi un onesto partito, e disse loro d'andare a far capo a un'osteria. Candido e il fedele Cacambo vi andarono, e ivi l'aspettarono co' loro due montoni. Candido che aveva il cuor sulle labbra, raccontò allo spagnuolo tutte le sue avventure, e gli confessò che volea rapire Cunegonda. - Io mi guarderò bene di darvi il passaggio a Buenos-Aires, disse il padrone. Saremmo impiccati ambedue; la bella Cunegonda è l'amante favorita di sua eccellenza.
Questo fu un colpo di fulmine per Candido; diede in dirotto pianto, e infine tirò a parte Cacambo: - Ecco, o caro amico, gli dic'egli, ciò che hai da fare: abbiamo ciascuno di noi nella tasca cinque o sei milioni di diamanti; tu sei più abile di me, va a prendere Cunegonda a Buenos-Aires; se il Governatore fa delle difficoltà dàgli un milione; se non s'arrende, dagliene due; tu noi hai ammazzato inquisitori, né sarai per conto alcuno persona sospetta; io noleggerò un altro bastimento, ed andrò ad attenderti a Venezia; questo è un paese libero dove non vi sono da temere nè Bulgari, nè Abari, nè Ebrei, nè inquisitori.
Cacambo applaudì una sì saggia risoluzione; gli dispiaceva di separarsi dal suo buon padrone, divenuto suo intimo amico, ma il piacere d'essergli utile prevalse al dolore d'abbandonarlo. Si abbracciarono colle lagrime agli occhi; Candido gli raccomandò di non scordarsi della buona vecchia, e Cacambo partì il giorno stesso. Era pure il buon uomo questo Cacambo!
Candido soggiornò per qualche tempo in Surinam, aspettando che qualche altro padrone lo conducesse in Italia coi due montoni che gli restavano. Ei prese de' domestici, e comprò tutto quel che gli era necessario per un lungo viaggio; infine il signor Vanderdendur padrone di un grosso bastimento venne a presentarglisi.:
- Quanto volete voi, disse Candido a costui, per condurre addirittura a Venezia me, la mia gente, il mio bagaglio e que' due montoni là?
Il padrone chiese dieci mila piastre; Candido non fiatò.
- Oh oh, disse fra sè il prudente Vanderdendur, questo forastiere accorda diecimila piastre tutte a un colpo! bisogna ch'egli sia ben ricco.
Gli si fece avanti un momento dopo, e gli significò che non poteva partire per meno di ventimila. - E bene, voi le avrete, rispose Candido.
- Capperi! quest'uomo, disse fra sè il mercante, dà ventimila piastre sì facilmente come diecimila; ritorna di nuovo, e gli dice che non poteva condurlo per meno di trentamila piastre. - Voi ne avrete dunque trentamila, rispose Candido.
- Oh oh, dice nuovamente fra sè il mercante olandese, trentamila piastre non son niente a quest'uomo; senza dubbio i due montoni portano tesori immensi; non insistiamo di più, facciamogli pagar subito le trentamila piastre, e poi vedremo.
Candido vendè due piccoli diamanti, il minore dei quali valeva più del danaro che chiedeva il padrone, e pagò anticipatamente. I due montoni furono imbarcati, e mentre Candido andava per raggiungere in un piccolo battello il bastimento alla rada, il padrone coglie il tempo, si mette alla vela, leva l'ancora e il vento lo favorisce. Candido smarrito e stupefatto lo perde di vista, e: - Ahimè! grida, ecco un tratto degno del vecchio mondo. Ritorna al porto assorto nel suo dolore, poichè finalmente avea perduto tanto da fare la fortuna di venti monarchi.
Si trasferisce dal giudice olandese, e brusco come egli era, picchia fieramente alla porta; entra, espone il suo caso, e grida in tuono un poco più alto di quel che conveniva. Il giudice comincia a fargli pagare diecimila piastre per lo strepito ch'egli aveva fatto; indi l'ascoltò pazientemente; gli promette d'esaminare il caso tosto che il mercante sia tornato, e si fa pagare diecimila altre piastre per le spese dell'udienza.
Una tale procedura pose in disperazione Candido; egli aveva in vero provato delle disgrazie mille volte più triste, ma la pacatezza del giudice, e quella del padrone, da cui era stato truffato, accese la sua bile, e lo gettò in una nera melanconia; la perfidia degli uomini si presentava alla di lui mente in tutta la sua laidezza, ed egli non si nutriva che di torve idee. Finalmente un vascello francese essendo sul punto di partire per Bordeaux, giacchè egli non aveva più montoni carichi di diamanti da imbarcare, pattuì una camera su quello a giusto prezzo, e fece intendere nella città, ch'ei pagherebbe il passaggio, il nutrimento, e darebbe duemila piastre a un galantuomo che volesse fare il viaggio con lui, a condizione ch'ei fosse il più contento del proprio stato, e il più sventurato della provincia.
Gli si presentò una folla tale di pretendenti che una flotta non avrebbe potuto contenerla. Candido, volendo fare una scelta di quelli che ne avevano più l'apparenza, distinse una ventina di persone che a lui pareano assai sociabili, e che pretendevano tutte di meritar la preferenza. Egli le adunò nella sua osteria, e diè loro da cena, a condizione che ciascuno giurasse di raccontar fedelmente la sua istoria; promettendo di sceglier quello ch'ei avrebbe giudicato il più scontento del proprio stato a più giusto titolo, e di dare agli altri qualche gratificazione.
La seduta durò sino alle quattro del mattino; e Candido, ascoltando tutte le loro avventure, si ricordava di ciò che gli aveva detto la vecchia, andando a Buenos-Aires, e della scommessa che aveva fatta, che non v'era alcuno sul bastimento a cui non fossero occorse delle grandi sciagure; pensava egli altresì a Pangloss in ciascuna avventura che gli si raccontava e diceva: - Questo Pangloss sarebbe bene imbrogliato a far valere il suo sistema; io vorrei ch'ei fosse qui. Certamente se tutto va bene, tutto va bene nell'Eldorado, e non già in tutto il resto della terra. Finalmente si determinò a favore d'un povero letterato che avea lavorato dieci anni per le librerie d'Amsterdam giudicando che niun altro mestiere potesse darsi al mondo, di cui si potesse essere più malcontenti.
Questo letterato era d'altra parte un buon uomo; era stato tradito dalla sua moglie, bastonato dal figlio, e abbandonato dalla figlia, che s'era fatta rapire da un portoghese; era stato privato di un modesto impiego da cui traeva la sua sussistenza, e i predicatori di Surinam lo perseguitavano perchè lo credevano un socciniano. Bisogna confessare che gli altri eran forse più disgraziati di lui, ma Candido sperava che il letterato lo avrebbe divertito nel viaggio; tutti gli altri suoi rivali si lamentavan con Candido della grand'ingiustizia che lor faceva, ma egli gli acquietò, dando a ciascuno cento piastre.
CAPITOLO XX
Ciò che accadde sul mare a Candido e a Martino.
Il vecchio letterato che si chiamava Martino, s'imbarcò dunque per Bordeaux con Candido. L'uno e l'altro avean troppo veduto e troppo sofferto; e quando il bastimento avesse dovuto far vela da Surinam al Giappone, per il capo di Buona Speranza avrebbero avuto con che trattenersi sul male morale e sul male fisico in tutto il viaggio
Intanto Candido aveva un gran vantaggio sopra Martino; egli aveva la speranza di riveder Cunegonda, e Martino nulla aveva da sperare; di più aveva egli dell'oro e de' diamanti, e sebbene avesse perduto cento grossi montoni rossi carichi de' più gran tesori della terra, sebbene avesse sempre sul cuore la ribalderia del padrone olandese, pure, quand'egli pensava a ciò che gli restava in tasca, e quando parlava di Cunegonda, specialmente in fin di tavola, pendeva verso il sistema al Pangloss.
- Ma voi, signor Martino, diceva egli al letterato, che pensate voi su tutto questo? qual è la vostra idea sul mal morale, o sul mal fisico? - Signore, risponde Martino, i miei preti mi hanno accusato di essere socciniano; ma la verità del fatto è che io son manicheo. Voi mi burlate, dice Candido, non vi son più manichei al mondo - Vi son io, dice Martino: non so che farvi, ma non; posso pensate altrimenti. Bisogna che voi abbiate il diavolo addosso, dice Candido. - Ei si mescola tanto nelle cose del mondo, dice Martino, che potrebbe esser ben nel mio corpo, come in ogni altra parte; ma io vi confesso che dando un'occhiata su questo globo, o piuttosto su questo globetto, io penso che Dio l'abbia abbandonato a qualche essere malefico, eccettuato sempre Eldorado; io non ho mai veduto città che non desideri la rovina della città vicina: niuna famiglia che non voglia sterminare qualche altra famiglia: per tutto i deboli hanno in esecrazione i potenti, innanzi a' quali s'avviliscono, e i potenti trattano quegli come le pecore, di cui si vende la lana e la carne; un milione d'assassini arruolati, corre da una parte all'altra dell'Europa, esercitando l'omicidio e la ruberia con disciplina, per guadagnare il pane, perchè non hanno più onesto mestiere; e nelle città che sembrano goder la pace, e dove fioriscono l'arti, gli uomini son divorati da più gare, più pensieri, e più inquietudini, che una città assediata non prova fiamme; le tristezze secrete sono ancor più crudeli che le miserie pubbliche: in una parola io ho veduto tanto e tanto ho provato, che son manicheo.
- Vi è per altro del buono, replicava Candido. - Può essere, diceva Martino, ma io non lo conosco. A mezzo di questa disputa si sente uno strepito di cannone, lo strepito cresce a ogni istante, e ciascuno prende il suo cannocchiale. Si scorgono due vascelli che combattono tre miglia distante; il vento conduce l'uno e l'altro sì vicino al vascello francese, che si ha il piacere di vedere il combattimento a tutt'agio; infine uno di quegli scarica sull'altro una fiancata sì bassa, e sì ben misurata, che lo cola a fondo; Candido e Martino videro distintamente un centinajo d'uomini sul cassero del vascello che andava a picco, che alzavano tutti le mani al cielo, e gettavano spaventevoli strida; ad un tratto tutto fu inghiottito.
- Ebbene, dice Martino, ecco come gli uomini si trattano gli uni cogli altri. - È vero, dice Candido: v'è qualche cosa di diabolico in questo.
Così discorrendo ei scorge un non so che di rosso lucente, che nuotava verso il suo bastimento. Fece staccare la scialuppa per conoscere ciò che poteva essere; era uno de' suoi montoni, e Candido in ritrovare quel montone, provò un contento maggiore dell'afflizione che avea provata in perderne cento tutti carichi di grossi diamanti d'Eldorado.
Il capitano francese conobbe tosto che il capitano del vascello vittorioso era spagnuolo, e quel del vascello sommerso era un pirata olandese, ed era quello stesso che avea tradito Candido. Le ricchezze immense di cui quello scellerato si era impadronito, furono seppellite con lui nel mare: un montone solo s'era salvato. - Voi vedete, dice Candido a Martino: il delitto alcuna volta è punito: questo furfante di padrone olandese ha avuto la sorto che meritava. - Sì, dice Martino, ma i passeggieri non han dovuto perire anch'essi? Dio ha punito quel briccone, e il diavolo ha annegati gli altri.
Intanto il vascello francese e lo spagnuolo continuarono il lor cammino e Candido continuò le sue conversazioni con Martino. Essi disputarono quindici giorni di seguito e in que' quindici giorni essi eran tanto avanzati quanto il primo; ma finalmente parlavano, si comunicavano delle idee, e si consolavano. Candido accarezzava il suo montone. -
Giacchè io ho ritrovato te, diceva, potrò ben ritrovare la mia bella Cunegonda.»
CAPITOLO XXI
Candido e Martino si avvicinano alle coste di Francia e ragionano.
Si scorsero infine le coste di Francia. - Siete mai stato in Francia, signor Martino? dice Candido. - Sì, risponde Martino, io ne ho trascorso più provincie, ve ne sono alcune dove una metà degli abitanti sono pazzi, alcune dove son molto astuti, altre dove son assai minchioni, altre dove si fa il bello spirito; ed in tutte la principale occupazione è l'amore, la seconda il mormorare, e la terza il dir scempiaggini. - Signor Martino, avete voi veduto Parigi? - Sì, l'ho veduto: là vi sono tutte queste specie: e un caos, e, una calca dove ciascuno cerca il piacere, e dove quasi nessuno lo trova almen per quanto mi è parso: io vi ho dimorato poco, e vi fui derubato di tutto ciò che avevo al mio arrivo da' ladri della fiera di San Germano: indi io stesso fui preso per un ladro, e stetti otto giorni in prigione, dopo di che mi feci correttore di stamperia, Per guadagnare tanto da ritornare a piedi in Olanda. Io vi ho conosciuto la canaglia degli scrittori, la canaglia de' cavillatori e la canaglia de' convulsionari; si dice che vi è della gente assai civile in quel paese: io voglio crederlo.
- Per me, io non ho niuna curiosità di veder la Francia, dice Candido; voi vi persuaderete facilmente, che quando sl è passato un mese nell'Eldorado non viene voglia di veder altro sulla terra, che la bella Cunegonda; io vado ad aspettarla a Venezia; noi traverseremo la Francia per passare in Italia, non mi accompagnerete voi? - Volentierissimo, risponde Martino; si dice che Venezia non è buona che per i nobili veneziani, ma che intanto si son ben ricevuti i forastieri, quand'essi però hanno molto danaro: io non ne ho punto, voi ne avete, ed io vi seguirò per tutto. - A proposito, dice Candido, pensate voi che la terra sia stata originariamente un mare, come si assicura in quel grosso libro appartenente al capitano del vascello? - Io non credo niente affatto a questo, risponde Martino, e neppure di tutti i sogni che si spacciano da qualche tempo. - Ma a qual fine questo mondo è stato dunque formato? ripiglia Candido. - Per farci arrabbiare, risponde Martino. - Credete voi, dice Candido, che gli uomini si siano sempre vicendevolmente straziati, come lo fanno al presente? ch'essi siano sempre stati bugiardi, furbi, perfidi, ingrati, assassini, pieni di debolezze, ladri, vili, invidiosi, ingordi, ubbriaconi, avari, ambiziosi, sanguinari, calunniatori, discoli, fanatici, ipocriti e pazzi? - Credete voi, dice Martino, che gli sparvieri abbian sempre mangiato degli uccelli quando ne han trovati? - Sì, senza dubbio, dice Candido.
Ebbene, soggiunge Martino, se gli sparvieri han sempre avuto il medesimo carattere, perchè volete voi che gli uomini abbian cambiato il loro? - Oh, dice Candido, vi è ben differenza perchè il libero arbitrio.... Così ragionando arrivarono a Bordeaux.
CAPITOLO XXII
Ciò che accadde in Francia a Candido e a Martino.
Candido non si trattenne in Bordeaux che tanto tempo quanto gliene abbisognò a vendere de' ciotoli d'Eldorado, e per provvedersi d'una buona carrozza a due posti, non potendo più discostarsi dal suo filosofo Martino. Si separò solamente, e con rincrescimento dal suo montone, lasciandolo all'Accademia delle scienze di Bordeaux, la quale propose per soggetto del premio di quell'anno di trovare perchè la lana di quel montone era rossa; ed il premio fu assegnato ad un sapiente del nord, che dimostrò per A più B meno C diviso per Z, che il montone dovea esser rosso o dovea morire.
Intanto tutti que' viaggiatori che Candido incontrava nell'osteria per la strada che faceva, gli dicevano: «noi andiamo a Parigi.» Questa festa universale fece finalmente anche a lui venir la voglia di vedere quella capitale, tanto più che non molto si discostava dal cammino per Venezia.
Entrò egli per il borgo di San Marcello, e credè di essere nel villaggio più vile della Wesfalia.
Appena Candido giunse al suo albergo fu assalito da una leggiera malattia causata dalle sue fatiche, e siccome aveva in dito un diamante smisurato, e si era veduta fra il suo equipaggio una cassetta eccedentemente pesante, egli ebbe immediatamente presso di lui due medici, stati mandati da alcuni intimi amici, che non l'abbandonavano, e due bacchettone gli facevano scaldare le bevande; Martino diceva: - Mi ricordo di essere stato ammalato anch'io a Parigi nel mio primo viaggio, e perchè ero molto povero, non ebbi nè amici, nè bacchettone, nè medici, eppur guarii.
Intanto a forza di medicine e cavature di sangue, la malattia di Candido divenne seria. Un abitante del quartiere venne con dolcezza a chiedergli un biglietto pagabile al latore per l'altro mondo; Candido non volle farlo; le bacchettone l'assicurarono che questa era un nuova moda; Candido rispose ch'ei non era punto uom alla moda; Martino volea gettar colui fuori della finestra; un chierico giurò che non si sarebbe sotterrato Candido; Martino giurò ch'ei seppellirebbe il chierico se continuava ad importunarlo: la contesa si riscaldò e Martino lo prese per le spalle, e lo scacciò fieramente. Questo cagionò un grave scandalo, e se ne fece un processo verbale.
Candido guarì e nella sua convalescenza ebbe una buonissima compagnia a cenar seco lui. Si giuocava di grosso e Candido si stupiva di veder che non gli venivano mai gli assi; ma non se ne stupiva Martino.
Fra quei che facevano gli onori della città vi era un abatino di Perigord, uno di quei tipi sempre officiosi, sfrontati, adattabili a tutto, che corteggiano i forastieri che raccontan loro l'istoria scandalosa della città e offrono loro i piaceri a ogni prezzo; questo condusse subito Candido e Martino al teatro della Commedia; si recitava una tragedia nuova; Candido si trovò fra alcuni belli spiriti; questo non gl'impediva di piangere su certe scene perfettamente rappresentate; ma uno de' ragionatori gli disse in tempo di un intermezzo: - Voi avete torto di piangere: quell'attrice è molto cattiva, l'attore che recita seco è cattivo anch'egli, il contenuto della tragedia è peggiore degli attori, l'autore non sa una parola araba, e intanto la scena è in Arabia; di più egli è un uomo che non crede alle idee innate; io vi farò vedere domani venti libercoli contro di lui. - Signore, gli dice l'abate di Perigord avete voi osservato quella giovinetta che ha un volto sì attraente, e un personale sì ben composto? ella non vi costerà che diecimila franchi il mese e cinquantamila scudi di diamanti.
«- Io non ho tempo di occuparmi di lei, dice Candido perchè son chiamato a Venezia per un affare che mi preme. La sera, dopo cena, l'insinuante Perigordino raddoppiò le sue convenienze e le sue attenzioni. - Voi avete dunque, signore, una cosa di premura a Venezia. - Sì signor abbate, dice Candido, bisogna assolutamente che io vada a trovar madamigella Cunegonda.
E qui impegnato dal piacere di ciò che amava, contò secondo il suo uso una parte de' casi suoi con quella illustre wesfaliana.
- Io credo, disse l'abate, che Cunegonda, abbia molto spirito, e che ella scriva delle lettere graziose. - Io non ne ho mai ricevute, disse Candido, perchè figuratevi che, essendo stato scacciato dal castello per amor di lei, io non potei scriverle: che immediatamente dopo, seppi che ella era morta: che in seguito la ritrovai e la perdei, e che le ho inviato un espresso lontan di qui duemila e cinquecento leghe, e ne aspetto la risposta.
L'abate ascoltava attentamente, e pareva un poco pensieroso; ei si licenziò finalmente dai forastieri dopo averli teneramente abbracciati; il giorno appresso riceve Candido, all'alzarsi dal letto, una lettera concepita in questi termini:
«Signore; amante mio carissimo, sono otto, giorni che sono ammalata in questa città; so che voi vi siete; volerei nelle vostre braccia, se io potessi muovermi: ho saputo il vostro passaggio a Bordeaux; io vi ho lasciato il fedele Cacambo, e la vecchia, che devono ben tosto seguirmi. Il governatore di Buenos-Aires ha preso tutto, ma mi resta il vostro cuore. La vostra presenza o mi renderà la vita, o mi farà morir di piacere.»
Questa graziosa lettera, questa lettera inaspettata trasportò Candido in una gioja inesprimibile, e la malattia della sua cara Cunegonda lo oppresse di dolore; diviso così fra un sentimento e l'altro, ei prende il suo oro, e i suoi diamanti, e si fa condurre con Martino all'albergo ove dimorava Cunegonda. Ivi entra tutto tremante, tutto agitato; gli palpita il cuore, singhiozza, vuole aprire le cortine del letto, vuol far portare il lume. - Avvertite di non farlo, gli dice la servente: il lume l'ammazza, e immantinente ella serra la cortina - Mia cara Cunegonda, dice Candido piangendo, come state? Se voi non potete vedermi, parlatemi almeno. - Ella non può parlare, dice la servente.
La dama allora leva una mano pienotta, e Candido la bagna di lacrime; l'empie in seguito di diamanti, e lascia sulla sedia un sacco d'oro.
A mezzo i suoi trasporti giunge il bargello seguito dall'abate perigordino e da una squadra. - Questi son dunque, dic'egli, que' due forastieri sospetti?
Ei li fa tosto legare, e ordina ai suoi famigli di condurli in prigione. - Non si trattan così i forastieri nell'Eldorado, dice Candido. - Io son manicheo più che mai, dice Martino. - Ma, signore, dove ci conducete? soggiunse Candido. - In un fondo di segreta, risponde il bargello.
Martino, riprendendo la sua mente fredda, giudicò che la dama che si pretendeva Cunegonda fosse una furfante; un furfante il signor abate; che si era così presto servito dell'innocenza di Candido, e un altro furfante il bargello, da cui si potessero facilmente sbrogliare.
Candido, piuttosto che esporsi alle procedure della giustizia, e d'altra parte impaziente di rivedere la vera Cunegonda, si attenne al consiglio di Martino, e offrì al bargello tre piccoli diamanti di circa tremila pezze l'uno. - Ah signore, gli disse l'uomo del baston d'avorio, quando aveste commessi tutti i delitti immaginabili, siete il più galantuomo del mondo: tre diamanti! Signore, io mi farei ammazzar per voi, non che condurvi in carcere: tutti i forastieri si arrestano; ma lasciate fare a me: ho un fratello a Dieppe in Normandia, voglio condurvici, e se avete qualche diamante da dargli egli avrà cura di voi, come io stesso.
- E perchè si arrestano i forastieri? - Perchè, dice allora l'abate perigordino prendendo la parola, un birbante del paese d'Atrebazia ha sentito fare e tanto e bastato per fargli commettere un parricidio, non come quello del 1610 del mese di maggio ma come quello del 1513 nel mese di dicembre, e come diversi altri commessi in altri anni, e in altri mesi da altri birbanti, che avevano inteso dello sottigliezze.
Il bargello spiegò allora di che si trattava. - Ah, mostri dell'umanità, gridava Candido; tali orrori fra un popolo che balla e che canta! non potrei io uscire al più presto di questo paese ove le scimmie attizzano le tigri? Io ho veduto degli orsi nel mio paese, e non ho veduto degli uomini che nell'Eldorado. In nome di Dio, signor bargello, menatemi a Venezia, ove devo attendere la mia Cunegonda. - Io non posso menarvi che nella bassa Normandia, dice il bargello.
Immantinente gli fa levare i ferri, dicendo d'aver preso uno sbaglio; licenzia la sua gente, conduce a Dieppe Candido e Martino, e li lascia nelle mani di suo fratello. V'era piccolo vascello olandese alla rada; il normanno o coll'ajuto di tre altri diamanti diviene l'uomo più officioso del mondo, e imbarca Candido colla sua gente nel vascello, che facea vela per Portsmouth in Inghilterra. Non era questo il cammino per Venezia, ma Candido credeva di liberarsi dall'inferno e facea conto di riprendere la via per Venezia alla prima occasione.
CAPITOLO XXIII
Candido e Martino arrivano sulle coste d'Inghilterra e ciò che vi vedono.
- Ah Pangloss! Pangloss! ah Martino! Martino ah mia cara Cunegonda! che mondo è questo? dice Candido sul vascello olandese. - Qualche cosa di ben pazzo e di ben abominevole, diceva Martino. - Voi conoscerete forse l'Inghilterra; vi sono là dei pazzi come in Francia? - Là v'è un'altra specie di pazzia, dice Martino: voi sapete che queste due nazioni sono in guerra per alcune staja di terreno nevoso verso il Canada, e ch'essi spendono per questa bella guerra molto più di quanto vale tutto il Canada; il dirvi precisamente se vi sian più pazzi in un paese, o nell'altro, la mia debole cognizione non mel permette: solamente so che in generale le genti che stiamo per vedere sono molto barbare.
Discorrendo così approdarono a Portsmouth; una moltitudine di popolo cuopriva la riva e attentamente osservava un omaccione che stava ginocchioni cogli occhi bendati sul cassero d'una nave da guerra; quattro soldati impostati dirimpetto a lui gli tirarono ciascuno una fucilata a tre palle nel cranio con la maggior placidezza del mondo, e tutta l'assemblea se ne ritornò estremamente soddisfatta. - Che cosa è questa? dice Candido: qual demonio mai esercita per tutto il suo impero? chi era quell'omaccione che han ammazzato in cerimonia?
E gli si risponde: Questo è un ammiraglio. - E perchè ammazzare quest'ammiraglio? - Perchè, gli vien detto, non ha fatto ammazzare della gente abbastanza: ei diede una battaglia navale a un ammiraglio francese e si è saputo che egli non era abbastanza vicino al nemico. - Ma l'ammiraglio francese, dice Candido, era egli egualmente lontano dall'altro? - Senza dubbio, gli si replica, ma in questo paese è bene ammazzare di tempo in tempo un ammiraglio per incoraggiare gli altri.
Candido restò sì stordito e sì commosso da ciò che vedeva e da ciò che udiva, che non volle neppure metter piede a terra, ma pattuì col padrone olandese (non credendolo un ladro come quello di Surinam) per farsi condurre senza dilazione a Venezia.
Il padrone olandese fu lesto in termine di due giorni; si costeggiò la Francia, si passò alle viste di Lisbona e Candido ivi raccapricciò: s'entrò nello stretto, indi nel Mediterraneo e infine si approdò a Venezia. - Sia lodato Iddio, disse Candido abbracciando Martino, qui rivedrò la bella Cunegonda; io conto su Cacambo come su me stesso. Tutto è bene, tutto va bene, tutto va alla meglio che sia possibile.
CAPITOLO XXIV
Visita al signor Pococurante, nobile veneziano.
Tosto che ei fu a Venezia fece cercar Cacambo in tutte le osterie, in tutti i caffè, e non si trovò; ei mandava tutti i giorni a fare scoperta di tutti i vascelli, di tutte le barche; non si sentiva nulla di Cacambo. - Come, diceva egli a Martino, io ho avuto il tempo di passare da Surinam a Bordeaux, d'andare da Bordeaux a Parigi, da Parigi a Dieppe, da Dieppe a Portsmouth, di costeggiare il Portogallo e la Spagna, di traversare tutto il Mediterraneo, di passare qualche mese a Venezia e la bella Cunegonda non è arrivata! Io non ho riscontrato che una tristanzuola in vece sua, e un abate di Perigord! Cunegonda è morta senza dubbio e non resta anche a me che morire. Ah! era meglio rimanere nel paradiso d'Eldorado che tornare in questa maledetta Europa. Voi avete ragione, mio caro Martino, tutto non è che illusione e calamità.
Ei cadde in una nera malinconia e non prestò attenzione alcuna all'opera alla moda, ne ad alcun altro divertimento del carnevale, e niuna dama diè a lui la minima tentazione. Martino gli diceva: - Voi siete pur buono, a figurarvi che un servo bastardo che ha cinque o sei milioni in tasca vada a cercare la vostra amante in capo al mondo e ve la conduca a Venezia! ei la prenderà per sè, se la trova, e se non la trova ne prenderà un'altra; io vi consiglio a scordarvi del vostro servo Cacambo e della vostra amante Cunegonda
Martino non era troppo consolante; la malinconia di Candido s'aumenta, e Martino non cessa di provargli che vi era poca virtù e poca felicità sulla terra, eccettuato forse nell'Eldorado, dove nessuno poteva entrare.
- Si parla, dice Candido, d'un certo senatore Pococurante che abita in quel bel palazzo sulla Brenta, che è tanto compito co' forastieri. Si pretende che questo sia un uomo che non abbia mai provata tristezza. - Io vorrei vedere una specie sì rara, dice Martino
Candido manda immediatamente a chiedere al signor Pococurante la permissione di visitarlo il giorno appresso. Candido e Martino andarono in gondola sulla Brenta, ed arrivarono al palazzo del nobil Pococurante. I giardini erano di buon gusto, ed ornati di belle statue di marmo, e il palazzo di bellissima architettura. Il proprietario del luogo, uomo di sessant'anni, molto ricco, ricevè con molta compitezza i due visitatori, ma con altrettanta freddezza, il che sconcertò Candido, e non dispiacque punto a Martino.
Tosto due belle ragazze, portarono la cioccolata, che avean fatta bene spumare. Candido non potè fare a meno di lodare la loro bellezza, la loro grazia, la loro attività. - Queste sono buonissime creature, disse il senatore Pococurante; non mi dispiacciono perchè sono stufo delle:. dame della città, per le loro civetterie, per le loro contese, per i loro capricci, per il loro orgoglio, per le loro bassezze, per lo loro pazzie, e per i sonetti che bisogna fare, o far fare per loro. Ma anche queste due ragazze cominciano ad annojarmi.
Candido dopo la colazione passeggiando in una lunga galleria, fu colpito dalla bellezza de' quadri; dimandò di quale artista erano i due primi. - Son di Raffaello, disse - il senatore; li comprai a caro prezzo per vanità, anni or sono: si dice che non vi è cosa più bella in Italia, ma a me non piacciono niente affatto; il colore è cupissimo, le figure non son bene arrotondate, e non risaltano abbastanza; il panneggiamento non somiglia punto a un panno insomma, checchè se ne dica, io non vi trovo una vera imitazione della natura: a me non piacerà un quadro se non allora che vi vedrò la natura medesima: di questa: specie non ve ne sono: io ho molti quadri, ma non li guardo mai.
Pococurante, aspettando il desinare, si fece eseguire un concerto; a Candido parve la musica graziosissima - Questo suono, dice Pococurante, può divertire per una mezz'ora, ma se dura di più annoja tutti, sebbene nessuno ardisca di confessarlo: la musica oggigiorno non è altro che un'arte di eseguir cose difficili, e ciò che è solamente difficile, a lungo andare piace. Io avrei forse maggior piacere all'opera se non si fosse trovato il secreto di farne un mostro, che mi fa stomacare: vada chi vuole a veder delle cattive tragedie in musica, ove le scene non son fatte che per introdurre male a proposito due o tre ariette ridicole che fanno valere il gorgozzulo d'un'attrice; si intenerisca di piacere chi vuole, o chi può, vedendo un castrato trillare sulla parte di Cesare, e di Catone, e passeggiare goffamente sul palco; per me, io ho rinunziato da gran tempo a tali leggerezze, che fanno la gloria oggigiorno del teatro italiano, e che son pagate da' sovrani a carissimo presso.
Candido contese un poco su questo, ma con discrezione, e Martino fu interamente del sentimento del senatore.
Si misero a tavola, e dopo un eccellente desinare entrarono nella biblioteca. Candido, vedendo un Omero magnificamente legato, lodò l'illustrissimo, sul suo buon gusto. - Ecco, dic'egli, un libro che era la delizia del gran Pangloss, il miglior filosofo dell'Alemagna. - Non è già la mia, risponde freddamente Pococurante: mi si diede ad intendere in passato, che io provavo piacere a leggerlo, ma quella ripetizione continua di combattimenti che sempre si rassomigliano, quegli Dei che agiscon sempre per non concluder nulla, quell'Elena ch'è il soggetto della guerra che appena comparisce sulla scena, quella Troja che si assedia, e non si prende mai, tutto mi cagionava una noja mortale: io ho dimandato qualche volta ad alcuni letterati se s'annojavano come me in quella lettura: i più sinceri mi han confessato che il libro cadeva lor dalle mani, ma che bisognava per altro averlo nella biblioteca, come un monumento dell'antichità, e come quelle medaglie rugginose, che non sono buone a spendersi.
- Vostr'Eccellenza non penserà così di Virgilio, dice Candido. - Io convengo, risponde Pococurante, che il secondo, il quarto e il sesto libro della sua Eneide sono eccellenti: ma per quel suo pio Enea e il forte Cloante, e l'amico Acate, e il piccolo Ascanio, e il melenso re Latino, e la villanzona Amata, e l'insipida Lavinia, io non credo che vi sia niente di più freddo, e di più disaggradevole; stimo meglio il Tasso, e le fandonie dell'Ariosto, sebbene sonniferi da fare dormire uno in piedi.
- Signore, disse Candido, non avete un gran piacere a leggere Orazio? - Vi sono delle massime, risponde, Pococurante, dalle quali un uomo di mondo può ricavar del profitto, e che, essendo raccolte in versi, che hanno molta forza, s'imprimono più facilmente nella memoria; ma io fo pochissimo caso, del suo viaggio a Brindisi, e della sua descrizione di un cattivo desinare, e della contesa de' facchini tra un certo Rupilio, le cui parole, dic'egli, erano piene di marcia, ed un altro le cui parole erano aceto; io non ho letto, che con infinito disgusto i suoi versi grossolani contro le vecchie, e contro le streghe, e non so qual merito possa egli avere per dire al suo antico Mecenate che se fosse stato da lui aggregato alla schiera de' poeti lirici, avrebbe colla sua fronte sublime dato di cozzo alle stelle. I pazzi ammiran tutto, in un autore stimato; io non leggo che per me, e non ho piacere se non a quel che mi aggrada.
Candido, ch'era stato educato a non giudicar cosa alcuna da per sé stesso, era molto stupefatto di ciò che sentiva, e Martino trovava la maniera di pensare di Pococurante assai ragionevole.
- Oh, ecco un Cicerone, dice Candido, io credo che vostr'eccellenza non lascerà punto di leggere cotesto grand'uomo. - Io non lo leggo mai, risponde il Veneziano: che m'importa ch'egli abbia difeso la causa di Rabirio o di Cluenzio? Ne ho d'avanzo de' processi da giudicare; mi sarei adattato a leggere le sue opere filosofiche, ma quando mi son accorto che ei dubitava di tutto, ho concluso che io ne sapeva quanto lui, e che non avevo bisogno d'alcuno per essere ignorante.
- Oh, ecco là ottanta volumi di raccolte d'un'accademia di scienze, dice Martino, può essere che in quelle vi sia del buono. - Ve ne sarebbe, risponde Pococurante, se un degli autori di coteste bagatelle avesse inventato almen l'arte di far delle spille; ma non v'è in tutti que' libri che vani sistemi, e niuna cosa utile.
- Quante opere di teatro io vedo là! dice Candido, in italiano, in spagnuolo, e in francese. - Sì, osserva il senatore. Ve ne son tremila, ma non ve ne saran tre dozzine delle buone. Quelle raccolte poi di sermoni, che tutti insieme non vagliono una pagina di Seneca, e tutti que' gran volumi di teologia, credetelo, non si aprono mai, né da me né da alcuno.
Vide Martino degli scaffali carichi di libri inglesi. - Io credo, diss'egli, che un repubblicano abbia ordinariamente ad aver piacere di cotesti libri, scritti liberamente. - Sì, rispose Pococurante, è bello scrivere ciò che si pensa, ed è questo un privilegio dell'uomo: in tutta la nostra Italia non si scrive se non quel che non si pensa. Coloro che abitano la patria di Cesare, e degli Antonini non osano aver un'idea, senza la permissione di un domenicano. Io sarei contento della libertà che inspirano gl'ingegni inglesi, se la passione, e lo spirito di partito non corrompesse totalmente ciò che quella preziosa libertà ha di stimabile.
Candido scorgendo un Milton gli dimandò se considerava quell'autore per un grand'uomo. - Chi? dice Pococurante, quel barbaro che fa un lungo commentario, in dieci libri di versi duri, del primo capitolo della Genesi, quel grossolano imitator de' Greci, che disfigura la creazione, e che mentre fa da Mosè rappresentar l'Ente increato che produce il mondo con una parola, fa prendere un gran compasso dal Messia, in un armadio del cielo, per disegnar la sua opera? Io dovrei forse stimar colui che ha guastato l'inferno e il diavol del Tasso: che Trasforma Lucifero ora in gigante, e ora in pigmeo: che gli fa ribattere cento volte i medesimi discorsi: che lo fa disputare sulla teologia, che imitando seriamente l'invenzione comica dell'armi da fuoco dell'Ariosto, fa sparare il cannone nel cielo da' diavoli? Né io, né alcun altro in Italia ha potuto trar piacere da queste triste stravaganze; e il maritaggio del peccato colla morte, e i serpi che partorisce il peccato, non fanno vomitare ogni uomo che ha il gusto un poco delicato? Quel poema oscuro, bizzarro e disgustevole fu schernito fin dalla sua nascita, ed io lo tratto oggi come lo fu nella sua patria da' contemporanei; del resto, io dico ciò che penso, e curo pochissimo che gli altri pensino come me.
Candido era mal soddisfatto di que' discorsi; egli rispettava Omero, ed amava Milton. - Ahimè, diss'egli sottovoce a Martino, io ho ben paura che quest'uomo abbia un sommo disprezzo per i nostri poeti alemanni. - Non vi sarebbe gran male, dice Martino. - Oh che uomo superiore! dicea pur Candido fra' denti. Che spirito è questo Pococurante! Non può niente piacergli.
Dopo di aver fatta così la rivista di tutti i libri, discesero nel giardino; Candido ne lodò tutte le bellezze. - Io non so di cattivo gusto, disse il padrone: noi abbiam qui delle figurine, ma dopodomani voglio farvene porre d'un disegno più nobile.
Allorchè i due visitatori si furono licenziati da sua eccellenza, Candido chiese a Martino:
- Voi dunque converrete meco, che quello è il più felice di tutti gli uomini, perché è al di sopra di tutto ciò che possiede.
- E non vedete voi, rispose Martino, che di tutto ciò che possiede egli è disgustato? Platone disse, molto tempo fa, che i migliori stomaci non son quelli che rigettano tutti gli alimenti.
- Ma, disse Candido, non è un piacere a criticar tutto? A trovar de' difetti, dove gli altri uomini credon vedere delle bellezze?
Intanto i giorni e le settimane passavano; Cacambo non tornava, e Candido era immerso nel dolore.
CAPITOLO XXV
D'una cena che Candido e Martino fecero con sei forestieri, e chi erano.
Una sera che Candido, seguitando Martino andava a porsi a tavola co' forestieri che alloggiavano nella stessa osteria, un uomo col viso color di fuliggine, gli andò di dietro, e gli disse:
- Siate pronto a partir con noi; non mancate.
Ei si voltò, e vide Cacambo. Non v'era che la vista di Cunegonda, che potesse stupirlo d'avvantaggio; ei fu sul punto d'impazzire dall'allegrezza: abbraccia il caro amico.
- Cunegonda è qui senza dubbio; dove è ella? menatemi da lei, ond'io con lei muoja di gioja.
- Cunegonda non è qui, rispose Cacambo; ella è a Costantinopoli. - Cielo! a Costantinopoli! ma foss'ella anche nella China, io vi volo, partiamo.
- Partiremo dopo cena, ripigliò Cacambo, non posso dirvi di più: io sono schiavo, il mio padrone mi aspetta, bisogna ch'io vada a servirlo a tavola; non fate parola, e tenetevi pronto.
Candido, fra l'allegrezza ed il dolore, felice d'aver riveduto il suo fedele agente, stupito di vederlo schiavo, pieno dell'idea di ritrovare la sua amata, col cuore agitato, coll'animo scomposto, si mette a tavola con Martino (il quale non si scompose a tutte quelle avventure) e co' sei forestieri che eran venuti a passare il carnevale a Venezia.
Cacambo, che dava da bere ad uno di que' tre forestieri, s'avvicina all'orecchio del suo padrone sul fin della tavola, e gli dice: - Sire, vostra maestà partirà quando le piace; il bastimento e pronto.
Dette queste parole esce. Stupiti i convitati si guardavano l'un l'altro, senza far parola; quando un altro domestico, avvicinandosi all'altro suo padrone, gli dice:
- Sire, la sedia di Vostra Maestà è a Padova, e la barca è pronta.
Il padrone fa un cenno e il domestico parte; i convitati tornano a guardarsi, e raddoppia lo stupore di tutti. Un terzo servo, avvicinandosi pure a un terzo forestiero gli dice: - Sire, vostra maestà faccia a mio modo, non si trattenga di più: io vado a preparare il tutto.
Tosto sparisce
Candido e Martino non ebbero più dubbio allora che quella non fosse una mascherata da carnevale. Viene un quarto domestico, e dice a un quarto padrone:
- Vostra maestà partirà quando vorrà; e parte. - Un quinto domestico dice altrettanto a un quinto padrone; ma il sesto servo parla direttamente al sesto forestiero, che era accanto a Candido e gli dice: - In fede mia, sire, non si vuol dar credenza a vostra maestà, e neppure a me, ed io e voi potremmo esser benissimo carcerati in questa notte: io vado a provvedere a' miei affari: addio.
Spariti tutti i domestici, i sei forestieri, Candido e Martino, restarono in un profondo silenzio; infine, proruppe Candido: - Signori, questa è una burla singolare: perché farvi tutti re? per me io vi confesso che nè io, nè Martino non lo siamo.
Il padrone di Cacambo prese allora a parlare gravemente, e disse in italiano: - Per me non è punto una burla. Io mi chiamo Acmet III; sono stato gran sultano per più anni; levai dal trono mio fratello; e mio nipote ne ha levato me; si tagliò la testa a' miei visiri; io termino i miei giorni nel vecchio serraglio: mio nipote il gran sultano Mahmud mi permette di viaggiare qualche volta per mia salute, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Un altro uomo giovine, che era accanto ad Acmet, parlò dopo di lui, e disse: - Io mi chiamo Ivan; sono stato imperatore di tutte le Russie; fui detronizzato in cuna; mio padre e mia madre furono rinserrati; io allevato in prigione; qualche volta ho la permissione di viaggiare accompagnato da coloro che mi guardano, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Il terzo disse: - Io son Carlo Odoardo re d'Inghilterra: mio padre mi ha ceduti i suoi diritti al regno; ho combattuto per sostenerlo; è stato strappato il cuore a ottocento de' miei partigiani e si è tolta loro ogni speranza; sono stato in carcere; or vado a Roma a fare una visita al re mio padre, detronizzato come me, e come mio nonno, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Indi il quarto prese a parlare, e disse: - lo son re de Polacchi: la sorte della guerra mi ha privato de' miei stati ereditari; mio padre provò le stesse avversità; io mi rassegno a]la Provvidenza come il sultano Acmet l'imperator Ivan, e il re Carlo Odoardo, che Dio conceda lor lunga vita; e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Disse il quinto: - Sono ancor io re de' Polacchi: ho perduto due volte il mio regno ma la Provvidenza mi ha dato un altro stato, nel quale ho fatto miglior fortuna di quella che han fatta tutti insieme i re de' Sarmati sulle sponde della Vistola; io ancora mi rassegno alla Provvidenza, e son venuto a passare il carnevale a Venezia.
Restava a, parlare il sesto monarca: - Signori, diss'egli io non sono sì gran signore come voi, ma finalmente fui re al pari d'ogni altro; sono Teodoro, eletto re in Corsica; fui chiamato maestà, e presentemente mi si dà appena del signore; feci batter moneta., ed ora non possiedo un danaro; ebbi due secretari di Stato, ed ora ho appena un servitore; mi vidi sul trono, e poi per lungo tempo in prigione a Londra sulla paglia; temo d'esser trattato egualmente qui, benchè io sia venuto come le maestà vostre a passare il carnevale a Venezia.
I cinque altri re ascoltarono questo discorso con una nobile compassione; ciascuno di essi dette venti zecchini al re Teodoro per comprarsi degli abiti e delle camicie, e Candido gli regalò un diamante di due mila zecchini. - Chi è dunque, diceano gli altri cinque re, questo semplice particolare che è in istato di dare cento volte più di ciascuno di noi, e che lo dà?
Nell'istante in che s'usciva da tavola, ecco nell'osteria quattro altezze serenissime che avean pure perduti i lor Stati per la sorte della guerra, e che venivano a passare il resto del carnevale a Venezia: ma Candido non ci badò nemmeno, non pensando ad altro che di andare a trovar la sua cara Cunegonda a Costantinopoli.
CAPITOLO XXVI
Viaggio di Candido a Costantinopoli
Il fedele Cacambo avea già ottenuto la permissione da padrone turco, che andava a ricondurre il sultano Acmet a Costantinopoli, di potere ricevere a bordo Candido e Martino. L'uno e l'altro vi si trasferirono dopo d'essersi inchinati avanti a sua miserabile altezza. Candido, nell'andare a bordo, disse a Martino: - Ecco intanto sei re detronizzati, co' quali abbiamo cenato, e fra questi sei re ve n'è ancora uno a cui ho fatto l'elemosina, Vi saranno forse altri principi molto più infelici; per me io non no perduto se non cento montoni, e volo nelle braccia a Cunegonda: mio caro Martino, qualche volta Pangloss avea ragione tutto è bene. - Io lo desidero, rispose Martino. - Ma, ripigliò Candido, è un'avventura ben poco verosimile quella che ci si è presentata a Venezia; non si era giammai veduto nè udito che sei re detronizzati si trovassero a cenar insieme all'osteria. - Questo non è più stravagante, disse Martino, di tante altre cose che ci sono accadute. È cosa comunissima che vi sieno de' re balzati dal trono, e rispetto all'onore che abbiamo avuto di cenar con loro, è una bagattella che non merita la nostra attenzione.
Appena che Candido fu nel vascello, saltò al collo del suo antico servo, del suo amico Cacambo: - Ebbene, gli disse, che fa Cunegonda? è ella sempre un prodigio di bellezza? mi ama ella sempre? come sta ella? Tu gli hai senza dubbio comprato un palazzo a Costantinopoli?
- Mio caro padrone, rispose Cacambo, Cunegonda rigoverna le scodelle sulle sponde della Propontide, in casa di un principe che ha pochissime scodelle; ella è schiava in casa d'un antico sovrano chiamato Ragotski, a cui il Gran Turco dà tre scudi il giorno, e l'asilo; ma ciò che è ben più tristo, si è che ella ha perduta la sua bellezza ed è diventata orribilmente brutta. - Ah! o bella o brutta, dice Candido, io son galantuomo, e il mio dovere è di amarla sempre; ma come mai può ella essersi ridotta in uno stato si miserabile co' cinque o sei milioni che tu avevi portati? - Buono! dice Cacambo, non mi è abbisognato di dare due milioni al signor don Fernando d'Ibaraa y Figueora y Mascarenes y Lampourdos y Souza, governatore di Buenos-Aires, per ottenere Cunegonda? Ed un pirata non ci ha bravamente spogliati di tutto il resto? Questo pirata non ci ha egli condotti al capo di Matapan, a Milo, a Nicaria, a Samos, a Petra, a Dardanelli, a Marmora, a Scutari? Cunegonda e la vecchia servono quel principe, di cui vi ho parlato, ed io son schiavo del sultano detronizzato. - Che spaventevoli calamità concatenate le une alle altre! dice Candido; ma finalmente io ho ancora alcuni diamanti, e libererò facilmente Cunegonda. Ma è un peccato che sia divenuta sì brutta.
Indi rivolgendosi a Martino: - Chi pensate voi che sia più degno di compassione l'imperatore Acmet, l'imperatore Ivan, il re Carlo Odoardo, od io?
- Non lo so, risponde Martino, bisognerebbe che io fossi ne' loro cuori per saperlo. - Ah, dice Candido, se fosse qui Pangloss ei lo saprebbe. - Io non so, ripiglia Martino con quali bilance il vostro Pangloss potrebbe pesare l'infelicità degli uomini e valutare i lor dolori; io son di sentimento che vi sieno de' milioni d'uomini sulla terra da compiangersi molto più del re Carlo Odoardo, dell'imperatore Ivan e del sultano Acmet. - Potrebb'essere risponde Candido.
Arrivarono in pochi giorni sul canale del mar Nero. Candido cominciò dal riscattare Cacambo a caro prezzo e senza perder tempo, s'imbarcò sopra una galera co' suoi compagni, per andare sulla riva della Propontide a cercar Cunegonda, per quanto brutta esser potesse.
Vi erano fra la ciurma due forzati che remavano malissimo, e a' quali il padrone levantino applicava di tempo in tempo alcune nerbate sulle nude spalle. Candido, per una naturale compassione, gli osservava più attentamente degli altri galeotti, e s'avvicinò tutto pietoso verso di loro. Alcuni tratti del viso disfigurato di due di quei miserabili gli parvero aver qualche similitudine con Pangloss, e col disgraziato gesuita, quel barone, quel fratello di madamigella Cunegonda. Tali somiglianze lo intenerirono e lo attristarono; e sempre più considerandoli attentamente, disse a Cacambo: - Se io non avessi veduto impiccare il maestro Pangloss, e se non avess'io, per mia disgrazia, ammazzato il barone, crederei che fossero quelli là che remano.
Al nome del barone e di Pangloss, i due forzati alzarono delle strida, si fermarono sul loro banco, e si lasciarono cadere i remi. Il padrone levantino accorse, e raddoppiò loro lo nerbate. - fermate, fermate, signore, grida Candido, io vorrei... - Come! questo è Candido! si dicono l'un l'altro i due forzati. - Sogno, dice Candido, o son desto? Son io in questa galera? È quello là il signor barone che ho ammazzato? e quello là il maestro Pangloss, che io ho veduto impiccare?
- Siamo noi, siamo noi, rispondean essi. - Come! è quello là il gran filosofo? dicea Martino. - Eh, signor padrone! dice Candido, qual somma volete voi per il riscatto di Thunder-ten-tronckh, uno de' primari baroni dell'impero, e del signor Pangloss, il più profondo metafisico dell'Alemagna? - Can di cristiano, risponde il levantino padrone, giacchè questi due cani di forzati cristiani son baroni e metafisici, che sono, senza dubbio, dignità grandi nel lor paese, tu mi darai cinquantamila zecchini. - Voi li avrete, signore, conducetemi come un fulmine a Costantinopoli, e li avrete addirittura; ma no, conducetemi da madamigella Cunegonda. Il padrone levantino, alla prima offerta di Candido, aveva girata la prora verso la città, e facea remare con maggior impeto d'un uccello che fenda l'aria.
Candido abbracciò cento volte il barone e Pangloss. - E come non vi ho io ammazzato mio caro barone? e come, mio caro Pangloss siete restato in vita dopo d'avervi veduto impiccare? e perchè siete tutti e due in galera in Turchia? - È vero che mia sorella sia in questo paese? diceva il barone. - Sì, rispose Cacambo. - Io rivedo dunque il mio caro Candido, gridava Pangloss.
Candido presentò loro Martino e Cacambo; tutti si abbracciarono, e parlavan tutti a una volta; la galera volava ed eran già nel porto. Si fece venire un ebreo a cui Candido vendè per cinquantamila zecchini un diamante del valor di centomila, perchè l'ebreo giurò per Abramo che non potea pagarlo di più. Candido pagò incontanente il riscatto del barone o di Pangloss. Questi gettossi ai piedi del suo liberatore e lo bagnò di lacrime; l'altro lo ringraziò con un segno di testa, e promise di rendergli il danaro alla prima occasione.
- Ma è possibile, diceva questi, che mia sorella sia in Turchia? - Niente di più possibile, riprese Cacambo, giacchè ella lava i piatti in casa di un principe di Transilvania.
Si fecero immediatamente venir due ebrei; Candido vendè nuovamente alcuni diamanti, e tutti si rimbarcarono in un'altra galera per andare a liberare Cunegonda.
CAPITOLO XXVII
Ciò che accade a Candido, a Cunegonda, a Pangloss, a Martino, ecc.
- Perdono, per questa volta, dice Candido al barone, perdono, mio reverendo padre, di avervi dato una stoccata traverso il corpo. - Non ne parliamo più, risponde il barone: io fui un po' troppo vivo, lo confesso ma giacchè, volete sapere per quale avventura mi avete veduto in galera, vi dirò, che dopo d'essere stato guarito della mia ferita dal padre speziale del collegio, fui attaccato e preso da un partito spagnuolo, e fui messo in prigione a Buenos-Aires nel tempo che mia sorella ne partiva. Chiesi di tornare a Roma presso il padre generale, e fui nominato per servire quale elemosiniere a Costantinopoli l'ambasciatore di Francia. Non erano otto giorni ch'io era entrato in funzione, quando trovai sulla sera un giovine turco; facea molto caldo; il giovine volle bagnarsi, ed io presi quell'occasione per bagnarmi anch'io. Io non sapea che fosse un delitto capitale per un cristiano l'esser trovato nudo con un giovine musulmano; un cadì mi fece dare cento bastonate sotto le piante de' piedi, e mi condannò alla galera. Io credo che non possa darsi una più orribile ingiustizia. Ma vorrei sapere perchè mia sorella è nella cucina d'un principe di Transilvania, rifugiato fra' Turchi? -.
- Ma voi, mio caro Pangloss, come può darsi che io vi riveda? - È vero, dice Pangloss che voi mi avete veduto impiccare; io dovea naturalmente esser bruciato, ma vi ricorderete che piovve a distesa, allorchè si volea cuocermi; la tempesta fu sì violenta, che si disperò di accendere il fuoco; fui impiccato, perchè non si potea fare di meglio; un chirurgo comprò il mio corpo, e mi condusse a casa sua per notomizzarmi. Mi fece tosto un'incision crociale dall'ombelico fino alla clavicola. Io non, potea essere stato impiccato peggio di quel che lo era: l'esecutore dell'alte opere della santa Inquisizione, il quale era suddiacono, bruciava invero la gente a maraviglia, ma non era accostumato ad impiccare: la corda era bagnata, e scorse male: il nodo era altresì mal fatto; insomma io respirava ancora. L'incisione crociale mi fece alzare un sì gran strido, che il mio chirurgo cadde indietro, e credendo di notomizzare il diavolo, mezzo morto di paura fuggì ruzzolando per la scala. A quello strepito corse la moglie da un gabinetto vicino e vedendomi disteso sulla tavola coll'incision crociale, ebbe maggior paura di suo marito, fuggì e cadde sopra di lui. Quando furono un poco rinvenuti, io sentii che la chirurga diceva al chirurgo: - Mio caro, perchè proporti di notomizzare un eretico? non sai che il diavolo e sempre nei corpi di simil gente? Io vado ora a cercare un prete per esorcizzarlo.
Raccapricciai a tal proposizione, e raccolsi le poche forze che mi restavano per gridare: -Abbiate pietà di me. Allora il barbiere portoghese riprese l'ardire, e ricucì la mia pelle; la sua moglie medesima prese cura di me, ed io fui libero in termine di quindici giorni. Il barbiere mi trovò da servire, e mi fece lacchè d'un cavalier di Malta che andava a Venezia, ma non avendo il mio padrone di che pagarmi, io mi misi al servizio di un mercante veneziano, e lo seguii a Costantinopoli.
Un giorno mi venne la fantasia di entrare in una moschea; non v'era che un vecchio imano, e una giovine bacchettona molto bella che diceva i suoi paternostri; sul seno aveva un bel mazzetto di tulipani, di rose, d'anemoni, di ranuncoli, di giacinti e d'orecchie d'orso. Ella lasciò cadere il suo mazzetto, ed lo con una fretta rispettosissima glielo raccolsi, ma l'imano entrò in collera, e vedendo che io era cristiano gridò al sacrilegio. Fui menato dal cadì, egli mi fece dare cento staffilate sotto le piante de' piedi, e mi condannò alla galera. Fui incatenato appunto nella galera e al banco medesimo del signor barone. V'erano in quella galera quattro giovani marsigliesi, cinque preti napolitani, e due frati di Corfù, i quali ci dissero che simili avventure accadevano tutti i giorni. Il signor barone pretendeva d'aver sofferto una ingiustizia maggiore della mia; noi disputavamo senza fine, e ricevevamo venti nerbate il giorno, quando il concatenamento degli eventi di quest'universo vi ha a noi condotto.
- Ebbene, mio caro Pangloss, gli dice Candido, quando voi siete stato impiccato, notomizzato, arruotato, ed avete remato nella galera, avete sempre pensato che tutto andava ottimamente? - Io son sempre del mio primo sentimento, risponde Pangloss, perchè finalmente essendo io filosofo, non mi conviene il disdirmi. Leibnitz non può aver torto, e l'armonia prestabilita è la più bella cosa del mondo, come il pieno e la materia sottile
CAPITOLO XXVIII
Come Candido ritrova Cunegonda e la vecchia.
Mentre Candido, il barone, Pangloss, Martino e Cacambo raccontavano le loro avventure, e ragionando sugli avvenimenti contingenti e non contingenti di quest'universo, disputavano sugli effetti e le cause, sul mal morale e sul mal fisico, sulla libertà e la necessità, sulle consolazioni che si possono provare trovandosi in galera in Turchia, approdarono sulle rive della Propontide alla casa del principe dì Transilvania. I primi oggetti che si presentarono loro furono Cunegonda e la vecchia, che stendevano alcuni tovagliuoli sopra le funi per farli asciugare. Il barone impallidì a quella vista; il tenero amante Candido vedendo la sua bella Cunegonda imbrunita, cogli occhi scerpellati, il petto risecco, le gote aggrinzite, le braccia abbronzite e scagliose, si ritirò tre passi indietro pieno d'orrore; s'avanzò poi per convenienza, ed ella abbracciò Candido e il suo fratello; fu abbracciata la vecchia e furono ricomprate tutte due.
V'era un piccolo podere nel vicinato; la vecchia propose a Candido di comprarlo, aspettando che tutta la truppa avesse un miglior destino. Cunegonda non sapea d'esser così imbruttita, perchè di ciò niuno l'avea prevenuta. Ella fece ricordare a Candido le di lui promesse con un parlar sì assoluto che egli non osò di far ripulsa. Egli fece dunque intendere al barone che volea maritarsi colla sua sorella. Io non soffrirò giammai, disse il barone, una tal bassezza dalla parte sua, e una tale insolenza dalla vostra: questa infamia non mi sarà giammai rimproverata: i figli di mia sorella non potrebbero entrare nei capitoli d'Alemagna: no, la mia sorella non sposerà giammai altri che un barone dell'impero.
- Cunegonda si gettò a' suoi piedi, e li bagnò di lagrime; egli fu inflessibile. - Bel mio stivale, gli disse Candido, io ti ho scampato dalla galera, io ti ho pagato il tuo riscatto, io ho pagato quello di tua sorella - ella lavava qui le stoviglie, ella è brutta, io ho la bontà di farla mia moglie, e tu pretendi anche di opportici? io ti riammazzerei, se mi lasciassi vincere dalla collera - Tu puoi pure ammazzarmi, disse il barone, ma non sposerai la mia sorella, me vivente.
CAPITOLO XXIX
Conclusione della prima parte.
Candido nel fondo del buon cuore non aveva alcuno stimolo di sposare Cunegonda; ma l'estrema impertinenza del barone lo determinava a concludere il maritaggio, o Cunegonda lo pressava sì vivamente ch'ei non poteva ritirarsene. Consultò egli Pangloss, Martino e il fedele Cacambo. Pangloss fece un bel discorso, col quale ei provava che il barone non aveva alcun diritto sulla sorella, e che ella poteva, secondo tutte le leggi dell'impero, sposar Candido colla mano sinistra.
Martino concluse di gettare il barone nel mare; Cacambo decise che doveasi renderlo al padrone levantino e rimetterlo in galera per poi rimandarlo a Roma al padre generale col primo bastimento. Il progetto fu trovato assai buono; la vecchia l'approvò; non se ne disse niente alla sorella, la cosa fu eseguita mediante qualche danaro, e s'ebbe il piacere d'ingannare un gesuita, e di punir l'orgoglio di un barone tedesco
Egli era ben naturale immaginarsi che dopo tanti disastri, Candido maritato, e in compagnia del filosofo Pangloss, del filosofo Martino, del prudente Cacambo e della vecchia, avendo di più portato tanti diamanti dalla patria degli antichi Incas, dovesse condurre la vita più deliziosa del mondo; ma egli fu tanto truffato dagli ebrei, che non gli restò null'altro che la sua villetta. La sua consorte, divenendo ogni giorno più brutta, era altresì inquieta e insopportabile la vecchia era inferma, e di peggiore umore di Cunegonda. Cacambo che lavorava al giardino e andava a vendere i legumi a Costantinopoli, era oppresso dalle fatiche e malediceva il suo destino. Pangloss era in disperazione per non poter fare il bello in qualche università d'Alemagna. Martino poi, era persuaso che si stava ugualmente male da per tutto, e prendeva ogni cosa con pazienza. Candido, Martino e Pangloss disputavano qualche volta sulla metafisica, e sulla morale. Si vedevano spesso passare sotto le finestre della villetta, dei battelli carichi di effendi, di bascià e di cadì, che si mandavano in esilio a Lemno, a Metelino e ad Erzerum, e si vedean tornare altri cadì, altri bascià e altri effendi, che andavano a occupare i posti degli esiliati. Si vedevano delle teste decentemente impalate, che si andavano a presentare alla Porta. Questi spettacoli facevano aumentare le dissertazioni; e quando non si disputava, era così eccessiva la noja che la vecchia osò un giorno dir loro: - Io vorrei sapere qual è la peggiore cosa, o l'essere offesa cento volte dai pirati negri, il passare per le bacchette fra' Bulgari, l'esser frustato e Impiccato in un auto-da-fè, l'essere notomizzato remare in galera, provare infine tutto le miserie che noi abbiamo passate, oppure il restar qui a non far niente. - Questa è una gran questione, disse Candido.
Un tal discorso fece nascere nuove riflessioni e Martino soprattutto concluse che l'uomo era nato per vivere fra le agitazioni dell'inquietudine e nel letargo della noja. Candido non ne conveniva, ma non assicurava nulla.
Pangloss confessava d'aver sempre orribilmente sofferto ma siccome aveva sostenuto una volta che tutto andava a maraviglia, seguitava a sostenerlo, e non credeva a niente.
Vi era nel vicinato un dervis famosissimo che passava per uno de' migliori filosofi della Turchia; essi andarono a consultarlo; Pangloss si fece avanti e disse: - Maestro, noi veniamo a pregarvi di dirci perchè un animale sì stravagante come l'uomo è stato formato.
- Di che ti occupi tu? disse il dervis tocca egli a te? - Ma reverendo padre, disse Candido, vi sono de' mali orribili sulla terra. - Che t'importa, soggiunse il dervis, che vi sia del male o del bene? Quando sua altezza spedisce un vascello in Egitto, s'imbarazza ella se i topi vi sieno a lor agio o no? - Che bisogna dunque fare? disse Pangloss. - Tacere, rispose il dervis. - Io mi lusingava, disse Pangloss di ragionare un poco con voi degli effetti e delle cause dei migliore de' mondi possibili, dell'origine del male, della natura dell'anima e dell'armonia prestabilita.
Il dervis a tali parole gli serrò l'uscio in faccia.
- Nel tempo di questa conversazione si sparse la nuova che erano stati strangolati a Costantinopoli due visiri del soglio ed il muftì, e che erano stati impalati diversi loro amici. Questa catastrofe fece per tutto un grande strepito di poche ore. Pangloss, Candido e Martino, ritornando alla villetta s'incontrarono in un buon vecchio, che prendeva il fresco sulla sua porta sotto un pergolato d'aranci; Pangloss che era altrettanto curioso quanto ragionatore, gli dimandò come si chiamava il muftì che era stato strangolato. - Io non so niente, rispose il buon uomo, e non ho mai saputo il nome di alcun muftì, nè di alcun visir, anzi ignoro il caso di cui mi parlate; son di parere bensì che generalmente coloro che si mescolano negli affari pubblici, qualche volta miseramente periscono, e non senza lor colpa; ma non m'informo mai ai ciò che si fa a Costantinopoli. Mi contento di mandare a vendervi le frutta del giardino che io coltivo
Dopo tali parole egli fece entrare i forestieri nella sua casa. Due sue figlie, e due suoi figli presentaron loro diverse qualità di sorbetti, che essi facevano, di kaimak macolato, di scorze di cedrato candito, d'aranci, di cedri di limoni, di pistacchi e di caffè di Moca, che non era punto mescolato col cattivo caffè di Batavia e dell'Isole dopo di che le due ragazze di quel buon musulmano profumarono le barbe a Candido, a Pangloss ed a Martino - Voi dovete avere, disse Candido al turco, una vasta e magnifica terra. - Io non ho che venti staja, rispose il turco; le coltivo co' miei figli, ed il lavoro allontana da noi tre mali: la noja, il vizio e il bisogno.
Candido ritornando alla sua villetta fece delle profonde riflessioni sul discorso del turco, e disse a Pangloss ed a Martino: - Quel buon vecchio sembra che siasi fatta una sorte ben preferibile a quella de' sei re, co' quali avemmo l'onore di cenare. - Le grandezze, disse Pangloss, sono molto pericolose, secondo ciò che ne dicono tutti i filosofi; perchè finalmente Eglon, re de' Moabiti, fu assassinato da Aod; Assalonne restò appiccato per i capelli e ferito da tre lancie; il re Nadab figlio di Geroboamo, fu ucciso da Zambri; Giosia dal Jehu; Atalia da Jojada; il re Gioachimo, Jeconia, Sedecia andarono schiavi. Voi sapete come perirono Creso, Dario, Dionigi di Siracusa, Pirro, Perseo, Annibale, Giugurta, Ariovisto, Cesare, Pompeo, Nerone, Ottone, Vitellio, Domiziano, Riccardo II d Inghilterra, Odoardo II, Enrico VI, Riccardo III, Maria Stuarda, Carlo I, i tre Enrichi di Francia. l'imperatore Enrico IV? Voi sapete... - Io so ancora, disse Candido, che bisogna coltivare il nostro giardino. - Voi avete ragione, ripetè Pangloss, poichè quando l'uomo fu messo nel giardino d'Eden vi fu messo ut operaretur eum, perchè lavorasse; ciò che prova che l'uomo non è nato per il riposo. - Lavoriamo senza ragionare, disse Martino; questo, è il solo mezzo di render la vita sopportabile.
Tutta la piccola società prese parte in quel lodabile disegno; ciascuno si mise ad esercitare i suoi talenti. La piccola terra fruttò molto. Cunegonda era invero ben deforme, ma ella divenne un'eccellente pasticciera; la vecchia ebbe cura della biancheria; Pangloss diceva qualche volta a Candido. - Tutti gli avvenimenti sono concatenati nel miglior de' mondi possibili, perchè finalmente se voi non foste stato scacciato a pedate da un bel castello per amor di Cunegonda, se voi non foste stato messo all'Inquisizione, se non aveste scorso l'America a piedi, se non aveste dato una stoccata al barone, se non aveste perduto tutti i vostri montoni del buon paese d'Eldorado, voi non mangereste qui dei cedri canditi e de' pistacchi. - Benissimo detto, rispondea Candido, ma intanto bisogna coltivare il giardino.

1

Esempio