Alessandro Manzoni

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Testo

ALESSANDRO MANZONI (1785-1873)
Il 1810 rappresenta l’anno crucciale nella vita di Manzoni: è l’anno della cosiddetta conversione, ovvero del suo ritorno alla fede, che il Manzoni stesso narrò come un evento improvviso, ma che in realtà fu lo sbocco di una crisi spirituale in atto da lungo tempo. Questo ritorno alla fede non significa, peraltro, il rifiuto degli ideali democratici appresi dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese, anzi, i temi della giustizia e dell’uguaglianza rimangono centrali nell’ideologia manzoniana e acquistano, ora, una nobiltà più alta, in quanto poggiano non su un pensiero laico, ma sulla rivelazione contenuta nei Vangeli. Per qualche tempo si è insistito su un supposto giansenismo di Manzoni, (tesi oggi quasi concordemente rifiutata), forse per il fatto che Manzoni aveva avuto, in collegio, degli insegnanti religiosi attenti alle idee gianseniste, e a Parigi aveva conosciuto molti intellettuali giansenisti.
[Il Giansenismo è la corrente religiosa del ‘600, derivante dal nome del vescovo olandese Jiancen, che nutriva un profondo pessimismo sulla capacità dell’uomo di fare il bene, avvicinandosi alle tesi calviniste della predestinazione, corrente condannata poi dalla Chiesa]
In realtà, oggi si rifiuta la tesi di un Manzoni giansenista, anche se questa corrente ha lasciato in lui delle influenze, sia nel rigorismo morale, ostile ad ogni compromesso mondano, sia nella sua sostanziale sfiducia sull’agire degli uomini, sfiducia che culmina nella scena del monologo di Adelchi morente, ma che non verrà mai pienamente superata. Ne troviamo un esempio anche nel capitolo XIX dei Promessi Sposi, in particolare nell’incontro del Padre Provinciale col Conte Zio, quando Don Rodrigo vuole togliere dal convento Padre Cristoforo, per allontanarlo da Lecco ed evitare che protegga Lucia dagli interessi di Don Rodrigo; il Padre Provinciale cede per ragioni politiche, per mantenere buoni rapporti col potere civile, nonostante ritenga Padre Cristoforo una persona integerrima; il giudizio di Manzoni è fortemente critico nei confronti del Padre Provinciale e del suo compromesso morale.

LA POESIA RELIGIOSA.
La conversione del 1810 induce Manzoni ad un profondo ripensamento sulla funzione dell’arte, che ora non può più trastullarsi nelle eleganze neoclassiche (come in “Urania”), ma deve fare i conti con le grandi scelte che l’uomo deve operare; deve, cioè, svolgere un compito di educazione morale. Con l’entusiasmo del neofita, a partire dal 1812 fino al 1815, Manzoni dà inizio al suo progetto di 12 Inni Sacri, dei quali, peraltro, ne scrive solo cinque, “Il Natale”, “La Passione”, “La Resurrezione”, “Il nome di Maria” e “La Pentecoste” (conclusa solo nel 1822), più un frammento, “Ognissanti”.
Se l’arte deve essere morale, essa deve ispirarsi al vero e cosa c’è di più morale e interessante che le grandi verità della fede che il poeta intende celebrare? Con gli Inni Sacri, Manzoni rompe con decisione con la tradizione petrarcheggiante, collegandosi semmai con l’innografia latina, con gli Inni Sacri di un S.Ambrogio; è questa, come dice il Sapegno, una lirica sliricata che abbandona l’auscultazione dei tormenti individuali dell’anima (come faceva Petrarca), per scegliere una dimensione narrativa e corale che esalti la fede di tutto un popolo. Tra i temi prediletti da Manzoni negli Inni Sacri vi è sicuramente quello dell’uguaglianza tra gli uomini e della partecipazione al dramma degli sfruttati. Certo non possiamo pretendere che il Manzoni si faccia portavoce di istanze rivoluzionarie, ma pure egli è convinto che il Vangelo non rappresenti solo la speranza di un premio futuro per chi lo segue, ma che esso vada realizzato già sulla terra. Nelle sue istanze democratiche, Manzoni è, infatti, uno degli esponenti di punta del cattolicesimo liberale italiano, cioè di quella corrente che vuole che il credente agisca anche per migliorare la società, per eliminarne le ingiustizie sociali.
I primi quattro inni sono riusciti solo parzialmente, in quanto hanno una struttura rigida che si ripete nei suoi tre momenti: indicazione dell’evento, narrazione del momento centrale dell’evento, conseguenze dell’evento.
Solo la Pentecoste ha una struttura più libera, e in essa si indaga il significato, sia remoto che attuale, della discesa dello Spirito Santo sugli uomini. L’inno si conclude con un’altissima preghiera finale, in cui si invita lo Spirito Santo a discendere continuamente sugli uomini per rafforzare i loro propositi.
Un’altra opera strettamente legata al discorso religioso è “Osservazioni sulla morale cattolica”, del 1819, con cui Manzoni risponde allo storico svizzero Sismond, che aveva accusato la religione cattolica di aver corrotto l’animo degli italiani; per Manzoni, invece, la fede è fonte di tutto ciò che è buono e vero ed è una morale valida per tutti gli uomini e per tutti i tempi.

LA POETICA MANZONIANA.
La conversione pone a Manzoni, in termini nuovi, il problema della funzione dell’arte, che non può più costituire un mero diletto per i lettori (come facevano le sue opere più recenti, quelle del 1809); lo stesso Manzoni, parlando di Urania, affermò “..scriverò forse versi meno belli, ma mai così inutili...”. Il fatto è che Manzoni sta maturando il concetto di arte educatrice, e si convince che tale funzione pedagogica può essere svolta soltanto dal vero: solo la verità è morale, l’invenzione è falsa e immorale. In questo modo si collegava ai versi sciolti del carme “In morte di C. Imbonati”, del 1805, dove l’Imbonati gli raccomandava: “il santo vero mai non tradir”. La verità, che era allora circonfusa di una santità tutta laica, riceve, ora, nuova linfa dalla fede e gli Inni Sacri furono appunto la prima espressione di questa nuova arte supremamente vera, e in quanto tale, utile e morale. Parecchi anni dopo, scriverà ancora Manzoni nella “Prefazione al Fermo e Lucia”: “..se le lettere dovessero aver per fine di divertire quella classe di uomini che non fa altro che divertirsi, sarebbero la più frivola, la più servile, l’ultima delle professioni..”. Quando, poi, nel 1816 nacque a Milano la polemica classico-romantica, le scelte manzoniane si indirizzarono spontaneamente verso il Romanticismo realistico e oggettivo, che gli consentiva di proseguire quella poetica del vero che era strettamente collegata ai problemi reali della società, e, al tempo stesso, di mantenere vivo il legame con l’Illuminismo milanese, al quale lo legavano ragioni familiari (il nonno Cesare Beccaria era l’autore del trattato “Dei delitti e delle pene”) e la sua stessa formazione giovanile.
Manzoni scrisse tre saggi di poetica: “Lettera a Monsieur Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia” del 1820, “Lettera sul Romanticismo al marchese Cesare D’Azeglio” del 1821 (C. D’Azeglio, classicista, era un parente del più famoso Massimo D’Azeglio), e “Discorso sul romanzo storico e sui componimenti misti di storia e invenzione” del 1830. Questi saggi vennero pubblicati molti anni dopo la loro composizione, in quanto Manzoni non amava assumere posizioni aperte e combattive.
La “Lettera a M. Chauvet” venne scritta all’indomani della pubblicazione della tragedia “Il Conte di Cramagnola”, in cui Manzoni aveva rispettato la sola unità d’azione, suscitando le critiche di M. Chauvet. Manzoni, con questa lettera, intendeva replicare che l’osservanza dell’unità di tempo e di luogo contrasta con la verosimiglianza dei fatti e va a discapito della verità storica dell’evento narrato, nonché dell’autenticità psicologica dei personaggi. Infatti non è credibile che quell’evoluzione psicologica che determina la vicenda finale possa avvenire nell’arco di una sola giornata. In primo piano, dunque, viene posto il problema del rispetto del vero, che è il nodo cruciale della poetica manzoniana. In questa lettera, Manzoni affronta poi un tema nuovo: il rapporto tra vero storico e vero poetico. Un critico, infatti, potrebbe obiettare a Manzoni che il vero è appannaggio degli storici, non dei poeti. Manzoni, allora, individua una soluzione originale, scrivendo che gli storici raccolgono la verità dei fatti e dei personaggi storici, ma essi non narrano tutto quello che questi protagonisti hanno sperato, sofferto, temuto: tutto ciò non è di competenza dello storico, me è il regno della poesia. Nell’esempio specifico del “Conte di Carmagnola”, lo storico ci potrebbe raccontare la vicenda che ha interessato quell’uomo, come egli fu condannato a morte dalla repubblica di Venezia; il poeta, invece, conformemente al ruolo che gli spetta, si insinua nell’animo del personaggio e illustra allo spettatore i suoi palpiti di umanità, il suo dolore per l’amico che l’ha tradito (testimoniando contro di lui), il suo dolore nel salutare moglie e figlia all’entrata nel carcere. In questa lettera, Manzoni individua anche il concetto di catastrofe, che è quell’avvenimento (spesso tragico) intorno al quale ruotano tutti gli altri. In questo caso, la catastrofe consiste nella condanna a morte del conte, evento che scatena tutte le passioni, tutti i drammi del personaggio.
La “Lettera sul Romanticismo” è il più ampio documento manzoniano sulla poetica. Nella prima parte (pars destruens, detta così appunto perché Manzoni smonta le tesi della precedente poetica), vengono ribaditi i capisaldi della nuova arte: il rifiuto delle regole, del principio di imitazione, e della mitologia, espressione di un mondo pagano, passato, per cui essa diventa inconciliabile con la modernità dell’opera d’arte. Manzoni aggiunge anche che la mitologia è immorale in quanto falsa (solo il vero, infatti, è morale). Nella seconda parte della lettera (pars costruens, detta così perché qui Manzoni fissa le nuove regole poetiche), egli sostiene che: l’oggetto dell’arte è il vero, il fine è l’utile, mentre lo strumento, il mezzo, è l’interessante. Poi, Manzoni torna sul problema del vero poetico, e questa volta arretra rispetto alla “Lettera a M. Chauvet”, in quanto non riesce più ad individuare con chiarezza cos’è il vero poetico; scrive soltanto che esso è un vero specialissimo che si può trovare “même la fable” (perfino nella favola), ma non riesce comunque a definire questo vero e a distinguerlo dal vero storico.
Il terzo saggio, “Discorso sul romanzo storico e sui componimenti misti di storia e invenzione” (1830) segna una svolta decisa nella poetica manzoniana, in quanto Manzoni nega che i componimenti in cui la storia si mescola all’inventato possano avere validità, e in questo modo prende le distanze dal suo stesso capolavoro pubblicato nel 1827 (I promessi sposi), che, essendo un romanzo storico, mescolava realtà e finzione. Questa svolta è determinata da scrupoli moralistici, in quanto nei componimenti misti il lettore non è in grado di distinguere ciò che è vero (quindi utile per la sua formazione), da ciò che è inventato (e dunque trascurabile).
Questi stessi scrupoli moralistici porteranno più tardi Manzoni (la cui attività creatrice si concluse molto precocemente, appunto nel 1827) a scrivere nel trattato “Dell’invenzione” che lo scrittore non crea nulla, ma si limita a scoprire ciò che esiste ab aeterno nella mente di Dio. Manzoni, cioè, sulle orme dell’amatissimo frate e filosofo Rosmini, giunge a negare all’artista quella stessa capacità creatrice di cui egli stesso aveva dato grandi prove.

Le tragedie.
Nel 1816, Manzoni inizia la stesura della sua tragedia “Il conte di Carmagnola”, che verrà conclusa solo nel 1820. Ad essa seguirà l’ ”Adelchi”, composto tra il ’20 e il ’22. La vocazione manzoniana per il teatro tragico ha, dunque, inizio nel momento in cui in Italia prende avvio il dibattito romantico, e non a caso egli si volge ad un genere che, se da un lato è un genere illustre, di tono alto, dall’altro ha anche una valenza maggiormente popolare perchè gli consente un rapporto diretto con il pubblico. Manzoni può ora tradurre in pratica i principi della nuova poetica (quella romantica) prediligendo senza esitazioni il filone realistico e, in particolare, quella poetica del vero che in seguito teorizzerà nei suoi saggi. Dopo il vero della fede, Manzoni si volge, ora, al vero della storia, convinto che solo la verità possa educare ed ammaestrare sul piano morale. L’artista non ha bisogno di inventare i fatti perché già la storia contiene in sé una vasta gamma di eventi drammatici che devono essere ricostruiti nella loro dinamica interna. Il poeta dovrà, invece, completare i fatti storici con i cosiddetti “battiti di umanità”, cioè deve calarsi nell’interiorità dei suoi personaggi storici per coglierne i sentimenti più riposti. Per esempio, la storia ci dice che Francesco di Bussone, conte di Carmagnola (Piemonte) fu un famoso capitano di ventura del 1400 che da ultimo prestò la sua opera ai veneziani e vinse contro i milanesi (Visconti) nella battaglia di Maclodio, ma talune esitazioni nella tattica della battaglia e il misterioso rilascio dei prigionieri lo resero sospetto ai magistrati della repubblica, che lo fecero arrestare; Carmagnola venne, quindi, condannato a morte. Tuttora gli storici dubitano della sua reale innocenza, o addirittura propendono per la sua colpevolezza. Manzoni, invece, sposa la tesi dell’innocenza del Carmagnola. Questa scelta ha una formidabile rilevanza sul piano ideologico perché il risultato è quello del sacrificio di un innocente, che muore tradito anche dal suo amico più caro (Marco), che testimonia contro di lui. Ne deriva una visione pessimistica della storia. La conversione (il ritorno alla fede) non ha dato a Manzoni delle certezze terrene, nel senso che egli è sempre più convinto che la storia umana sia violenta e che sacrifichi gli innocenti. Tra il piano del divino (dell’eterno) e il piano della storia sussiste una frattura incolmabile: sulla terra, infatti, trionfano la forza e il tradimento. Sul piano artistico, la tragedia è riuscita solo parzialmente perché si è rilevata una incoerenza psicologica del protagonista: per quattro atti egli è una figura coraggiosa, a tutto tondo, salvo poi, nel quinto atto, divenire una figura elegiaca, malinconica e commovente (v. addio alla moglie e alla figlia). Nel pieno rispetto della poetica del vero, Manzoni premette alla tragedia una “Notizia storica” in cui spiega come è giunto a convincersi dell’innocenza del Carmagnola, e in cui distingue i personaggi in storici e di fantasia. Nel segno della oggettività del dramma è anche il coro, che si differenzia dal coro dell’antica tragedia greca. In essa, infatti, il coro è una sorta di personaggio, che ha una valenza narrativa, fa progredire l’azione, invece il coro manzoniano è una pausa lirica, è un commento all’azione, nel segno dell’oggettività, è, come afferma lo stesso Manzoni, “un cantuccio riservato a me stesso per poter commentare liberamente l’azione, senza prestare le mie idee ai personaggi”: l’azione ha un suo meccanismo, in cui l’autore non deve intervenire; se vuole farlo, lo fa attraverso il coro.
Più riuscita, artisticamente, la seconda tragedia, “Adelchi”, in cui vi è una più intensa azione drammatica, e i caratteri sono disegnati con maggiore finezza. Essa si svolge nell’ottavo secolo (fine 700), quando Carlo Magno viene in Italia per difendere lo Stato della Chiesa attaccato dai Longobardi.
Anche nell’ ”Adelchi” risalta il pessimismo manzoniano circa il mondo della storia perché, ancora una volta, si affermano i campioni della forza (Carlo Magno) o del tradimento (Svarto e Guntigi, i duchi longobardi traditori del loro re), mentre soccombono i campioni della nobiltà di cuore, dell’ideale, come Ermengarda (sposa fedele e oltraggiata dal ripudio) e Adelchi stesso, che odia la violenza, e serve il padre solo per carità di figlio, non perché crede nella forza. E’ proprio nelle parole di Adelchi morente che il dramma raggiunge l’apice del pessimismo storico manzoniano, in quanto Adelchi lancia al pubblico un desolato messaggio: non c’è spazio sulla terra per una azione innocente; l’agire del potente porta sempre con sé la violenza. Adelchi pare, dunque, teorizzare l’inazione come unico antidoto contro la violenza storica; egli è un idealista travolto dalla violenza della storia.
Eppure, in questa tragedia, Manzoni delinea una via d’uscita da questo desolato pessimismo circa la storia umana: tale via d’uscita è rinvenibile nel coro dell’atto IV, in cui assistiamo alla morte di Ermengarda. E’ qui che Manzoni espone la sua visione della “provida sventura”, vale a dire che il dolore innocente ha una sua giustificazione provvidenziale. Ermengarda è una creatura pura, travolta da un dolore inestinguibile che la porta alla morte (era stata ripudiata dal marito Carlo Magno). Questo soffrire la purifica dalla sua colpa d’origine, cioè “essere discesa dalla stirpe longobarda degli oppressori, che tante violenze hanno operato contro gli italiani”. Manzoni, dunque, ha già individuato, al tempo dell’Adelchi (’20-’22), il significato profondo del dolore degli innocenti: esso è una prova che ci purifica e ci rende graditi agli occhi di tutti.
La “provida sventura” di questo coro già anticipa il significato (“sugo”) finale del romanzo, quando Lucia si domanda cos’ha fatto lei di male per meritare tanti guai: alla fine Lucia e Renzo comprendono che il dolore va comunque accettato nel nome di Dio, e che esso è comunque utile per la vita futura.
[ Il coro dell’atto III dell’Adelchi presenta un’ispirazione politica e una religiosa.]

I Promessi Sposi.
L’approdo manzoniano al romanzo risponde a ragioni sia di ordine morale che di ordine poetico; d’ordine morale in quanto c’è in Manzoni una volontà di ammaestramento morale che viene in qualche modo mortificata dalle rigide esigenze della poesia e che quindi necessita, per esprimersi compiutamente, di uno strumento più libero come la prosa; d’ordine poetico in quanto il romanzo rappresentava un genere popolare, un genere che, secondo i dettami romantici, per troppo tempo era stato condizionato dai giudizi dei retori, che lo ritenevano meno nobile dei generi canonici come l’epica o la tragedia. Con Manzoni, finalmente, anche l’Italia avrà quel romanzo moderno che gli altri Paesi già possedevano da molti decenni (in Inghilterra “Ivanhoe”). [L’Italia era troppo legata a tradizioni classiciste.]
La scelta manzoniana si orienta su quel genere romanzesco che in Europa stava riscuotendo grandi consensi, cioè il romanzo storico, che Walter Scott aveva portato al successo con “Ivanhoe”. Il romanzo storico comportava una fusione fra storia e invenzione, fra la macrostoria dei grandi personaggi e le microstorie inventate di tanti personaggi minori, comportando, quindi, anche una parallela fusione tra figure storiche e figure inventate (che sono per forza persone di basso rango). Manzoni è un ammiratore dello Scott, e in particolare del suo “Ivanhoe”, ma al tempo stesso, in una lettera al Fauriel del 1822, sottolinea alcuni limiti dell’opera dello storico, cioè il suo gusto eccessivo per il romanzesco, che lo induce a non essere molto curato nelle rievocazioni storiche. Manzoni, invece, si documentò con molto rigore sulle condizioni storico-economiche della Lombardia del XVII° secolo, una volta scelti gli anni 1628-1630 come ambientazione per la sua vicenda. Secondo ciò che racconta Manzoni stesso, l’idea di scrivere un romanzo sull’impedimento di un matrimonio, gli venne dalla lettura di quella stessa “grida” che Azzeccagarbugli legge a Renzo, all’interno del romanzo, nella quale si proibisce di proibire i matrimoni.

Ricordiamo, per inciso, che il romanzo storico ebbe grande successo per tutta la prima metà del secolo: opere come “Ettore Fieramosca”, “Marco Visconti”, “Beatrice Cenci” conobbero una larga diffusione per quei tempi (in cui le tirature arrivavano solo a centinaia di copie) fino al celebre “Le confessioni di un italiano” di Nievo che di fatto segnò la fine del romanzo storico, perché all’ambientazione del passato (per lo più medievale) si sostituisce un’ambientazione contemporanea. (a causa della censura, Nievo fu costretto a cambiare il titolo del suo romanzo in “Le confessioni di un ottuagenario”). In questo romanzo, l’anziano Carlo Altoviti racconta la storia della sua vita, dall’infanzia nel natio Friuli (ancora feudale nel 1785) fino alle vicende risorgimentali del 1855. In questo romanzo si mescolano le vicende civili e quelli personali, incentrate sull’amore per la “Pisana”, definita la più bella figura femminile dell’Italia ottocentesca, ben più di Lucia Mondella. Esso manca purtroppo dell’ultima mano, per cui risulta, a tratti, sovrabbondante, e ingenera nel lettore un senso di sazietà. In questo senso, la parte migliore è la prima (quella in cui sono narrate l’infanzia e la giovinezza di Carlo Altoviti e della Pisana) in cui si rievoca un mondo feudale che stava per crollare in seguito all’arrivo delle armate napoleoniche (1796-97).

I Promessi Sposi conobbero tre successive edizioni: “Fermo e Lucia” nel 1921-1923, “I Promessi Sposi” nel 1927, e “I Promessi Sposi” nel 1940-1942. Le differenze tra la prima e la seconda edizione sono di ordine sia strutturale che linguistico. Riguardo alla struttura, il Fermo e Lucia si presentava come un’opera a blocchi con episodi molto dilatati (vedi quello della storia della monaca di Monza, che lo stesso Manzoni definì un romanzo nel romanzo). Nella seconda edizione, lo scrittore fonde e amalgama meglio i vari episodi, modificandone alcuni in cui il sapore del romanzesco era troppo accentuato (vedi morte di Don Rodrigo, che nel Fermo e Lucia, in preda al delirio della febbre, fuggiva dal lazzaretto su un cavallo imbizzarrito). [Manzoni era stato suggestionato dalla lettura del “Purgatorio” (c. XXIV v. 83), dove Forese Donati racconta la morte del fratello Corso, trascinato nel precipizio infernale da un cavallo nero, simbolo del demonio.]
Nel Fremo e Lucia, Don Rodrigo era già condannato da Manzoni (cavallo=demonio), mentre, nella successiva edizione, la rigida morale giansenista si è attenuata: anche il più malfattore degli uomini, anche chi ha commesso peccati molto gravi, può ottenere il perdono di Dio. Altri episodi vennero modificati nel segno di una autocensura dettata dalla moralità del Manzoni stesso, il quale scrisse: “c’è già tanta immoralità nel mondo, perché gli scritti debbano aggiungerne dell’altra”. In questo ambito rientra l’episodio della monaca di Monza e della sua relazione con Egidio, della quale Manzoni effettuò un’ellissi narrativa, mediante la sostituzione della minuziosa descrizione delle risposte date dalla monaca all’uomo, nel Fermo e Lucia, con la celebre frase “La sventurata rispose”.
Sul piano linguistico, poi, alla lingua mescidata del Fermo e Lucia (mista cioè di espressioni padane, francesismi e latinismi) si sostituisce il toscano letterario, soluzione che però lasciò del tutto insoddisfatto lo scrittore, il quale, nell’edizione del 1940-1942, lasciò immutato l’intreccio, ma utilizzò il fiorentino parlato dalle classi colte. In effetti, dopo l’edizione del 1927, Manzoni dedicò gran parte delle sue energie allo studio linguistico e, se la lingua è in un primo tempo solo un problema di ordine poetico, in seguito diventa anche un problema di ordine civile, perché nell’Italia unita che si stava lentamente realizzando occorreva individuare una lingua nazionale che costituisse un potente cemento di unità tra gli italiani.
Come già accennato, dopo il 27 la vena creativa di Manzoni si esaurisce, ed egli si dedica esclusivamente allo studio della lingua, pubblicando diversi saggi sull’argomento. Tra i saggi manzoniani sulla lingua c’è la lettera al Fauriel del 1821, in cui il Manzoni paragona la condizione dello scrittore francese (che utilizza uno strumento linguistico che ha in comune con i suoi lettori) a quella dello scrittore italiano (che, invece, non sa quale lingua usare per essere comprensibile anche al di fuori di angusti confini). Più tarda, invece, è l’ampia lettera “Sulla lingua italiana” indirizzata a Giacinto Carena, oltre ai frammenti di un’opera monumentale sulla lingua, dal titolo “Sentir messa”, che lo scrittore non completò mai, pur avendo lavorato ad essa per decenni.
La posizione di Manzoni è molto netta nel respingere la scelta dei puristi perché la lingua è un corpo vivo e mutevole, che non si può irrigidire sul modello dei grandi trecentisti. Egli, dunque, si orienta verso una lingua parlata, e la scelta del fiorentino parlato dai ceti colti (scelta dell’ultima edizione dei Promessi Sposi) deriva da motivazioni di ordine sia storico che culturale. Scrive Manzoni che, come il francese è la lingua parlata nella regione di Parigi, perché Parigi è stata la culla storica e culturale della regione francese, così gli italiani devono guardare a Firenze, che ha svolto un ruolo di rilievo nella nostra storia medievale e che aveva visto la nascita del volgare italiano, e quindi parlare il fiorentino. Era, dunque, necessario redigere un dizionario del fiorentino parlato, e sarebbe stato utile far risiedere a Firenze i maestri perché potessero poi insegnare il fiorentino ai bambini delle scuole di tutta Italia. Queste cose vengono dette nella relazione che Manzoni aveva fatto per il ministro De Broglio, che gli aveva chiesto una relazione sullo stato presente della lingua italiana. Manzoni, tuttavia, riconosce l’importanza dei vari dialetti, per cui egli auspica una sorta di bilinguismo per gli italiani, che, insieme al fiorentino, continueranno a parlare il dialetto della propria regione.
Lo stile dei Promessi Sposi si fonda su un narratore onnisciente eterodiegetico, che ricorre all’invenzione dell’Anonimo come autore della storia; quanto al narratario del romanzo, distinguiamo fra un narratario di primo grado (i 25 lettori di cui parla lo stesso Manzoni) e un narratario di secondo grado (tutti coloro che leggono il romanzo). Manzoni è molto abile nel passare da una sintassi più rotta e spezzata (quando sono in scena i personaggi popolari), ad uno stile più alto (quando, invece, parlano personaggi “di grande affare”). Tuttavia, lo stile è sostanzialmente omogeneo ed è tutto sul piano del narratore: a differenza di quanto faranno in seguito i veristi, che metteranno in primo piano il personaggio popolare con il suo modo di esprimersi, Manzoni alza il personaggio al suo livello e fa sì che egli parli per interposta persona, per bocca, cioè, di quel conte Alessandro Manzoni che ha voluto essere il suo storico e il suo interprete. Si veda, a questo proposito, la conclusione del capitolo VIII° (la pausa lirica dell’ ”addio monti”, che segna la fine del primo blocco narrativo, con la cosiddetta “cacciata dall’Eden”): i due piccoli personaggi sono costretti a lasciare il loro piccolo paradiso, a causa della violenza della storia, ed esprimono per questo il loro dolore. Manzoni, però, non riporta le espressioni che effettivamente potrebbero aver detto due popolani, ma le rielabora secondo uno stile più alto e più consono al suo ruolo di scrittore, rispetto a quello dei suoi personaggi. Commenta egli, infatti, alla fine del capitolo: “Di tal genere, se non tali appunto erano i pensieri di Lucia”, intendendo affermare che i pensieri erano di tal genere, simili a quelli da lui scritti, ma certamente privi di quelle espressioni eleganti e di quell’andamento lirico che solo uno scrittore colto poteva creare.
La novità del romanzo consiste nell’aver posto come protagonisti della storia dei non-eroi, che nei romanzi precedenti esistevano già, ma avevano per lo più delle funzioni di contorno, non erano protagonisti.
Visto dall’angolazione del protagonista maschile, il romanzo si configura come un vero e proprio romanzo di formazione “Bildungsroman” perché all’ingenuo Renzo dei primi capitoli, che crede che il sopruso si possa contrastare con la legge, fa riscontro il giovane, ormai profondante maturato della fine del romanzo, che ha compreso che le parole “diritto” e “giustizia” hanno un valore solo teorico, cosa che il narratore aveva sempre saputo. Ma la maturazione di Renzo avviene anche e soprattutto sul piano spirituale e religioso perché il giovane impulsivo che vorrebbe che gli umili si facessero giustizia da sé, e che si compromette nei tumulti milanesi, comprende poi che senza la mano di Dio ogni tentativo si rivela fallimentare. La svolta spirituale avviene nella notte che precede il passaggio dell’Adda.
Inoltre, come sottolinea Raimondi nel suo saggio “Il romanzo senza idillio”, non solo i non-eroi sono i protagonisti, ma attraverso i loro occhi noi vediamo anche la macrostoria e i grandi personaggi. Ne deriva una deformazione talora grottesca dell’uno e degli altri perché i “piccoli” non sono sempre in grado di capire fino in fondo le grandi vicende o l’animo dei grandi personaggi: cosa può capire Renzo della complessità dei tumulti milanesi? o cosa comprende Don Abbondio (che sta accompagnando l’Innominato al castello per liberare Lucia) del tormento che si agita nel cuore dell’Innominato, e dà giudizi censurabili persino sul Cardinale, accusato di mandare uno dei suoi pastori che dovrebbe avere più cari, in bocca ad un simile lupo. Conclude Raimondi che i non-eroi finiscono per distruggere la storia dei grandi.
Tra i personaggi del romanzo dobbiamo annoverare anche il narratore onnisciente, il quale ama calarsi nel racconto per porre ai lettori delle domande e mettere in crisi le loro certezze. L’ironia diviene, allora, uno strumento corrosivo della quiete certezza degli uomini. Ripensiamo a Don Abbondio che chiede aiuto dopo il fallito tentativo del matrimonio: a questo punto Manzoni interrompe l’azione per interrogare i lettori sul fatto appena accaduto: “ma chi era l’oppressore? e chi era l’oppresso? così va il mondo, o meglio, così andava nel secolo decimo settimo”.
Sul piano ideologico, I Promessi Sposi rappresentano un cambiamento rispetto al pessimismo della tragedia, in particolare rispetto all’episodio della morte di Adelchi, dove l’agire veniva tacciato di essere ingiusto. Ora, nei Promessi Sposi, tutti i personaggi, grandi e piccoli, sono uomini d’azione (Innominato, Don Rodrigo, Agnese…); quanto a Lucia, essa agisce con lo strumento che le è più connaturale, la preghiera.
E’ chiaro, però, che il romanzo è connotato da una continua “eterogenesi dei fini” nel senso che tutto questo agire arriva a conclusioni opposte a quelle sperate. (Padre Cristoforo manda Lucia a Monza credendo di salvarla dalla bramosia di Don Rodrigo, ma ella viene rapita; Don Rodrigo usa l’Innominato per avere Lucia, ma egli si converte; Agnese ha l’idea del matrimonio di sorpresa, che invece di risolvere tutto, innesca l’intera azione).
Il viaggio di formazione di Renzo si configura come un viaggio (nekia), dove Renzo scende negli inferi della violenza e della peste; alla fine del viaggio è cresciuto nell’intimo.
Per i non credenti, tale eterogenesi dei fini può essere frutto delle astuzie della storia, ma il cattolico Manzoni ha letto nei Vangeli che “le vostre vie non sono le Mie vie”, ha letto cioè che Dio si serve di strade imperscrutabili per raggiungere i suoi scopi e per fare il bene dell’uomo. Manzoni sa dunque che i progetti umani sono spesso destinati al fallimento, perché nella storia agisce una forza occulta, la Provvidenza, che fa sì che le azioni umane si intreccino e si elidano tra loro, conducendo a un risultato che non coincide con la volontà di partenza. In ogni caso, sappiamo che la conclusione del racconto è all’apparenza lieta, in quanto il male è stato vinto, eppure è fuori luogo, sempre secondo Raimondi, parlare di una conclusione idilliaca, perché sussistono, anche alla fine del racconto, dei momenti di pensosità, di incertezza. Pensiamo al giorno del tanto sospirato matrimonio tra i due giovani, quando il Marchese, erede di Don Rodrigo, vuole servire lui a tavola i suoi ospiti e poi si ritira con Don Abbondio a pranzare in un’altra stanza, e Manzoni commenta che ci vuole più umiltà per mettersi alla pari degli umili che per mettersi al di sotto di essi: Manzoni vuole dire che se è pur vero che la violenza può essere fermata, non è ancora arriva l’età della giustizia e dell’uguaglianza fra gli uomini. Pensiamo anche alla pagina conclusiva, quando i due giovani si interrogano sui motivi delle tante traversie patite, però se Renzo, col suo comportamento impulsivo se le era volute, Lucia non aveva mai preso delle iniziative potenzialmente pericolose: il significato (“sugo”) finale del romanzo è che il male può venirci addosso anche senza nostra colpa, ma in ogni caso, la fiducia in Dio lo raddolcisce e lo rende utile per una vita migliore. E’ solo nella conclusione che i due giovani maturano un concetto di “Provvidenza” con cui il narratore concorda, infatti, sino ad ora Manzoni non ha condiviso il punto di vista dei personaggi, che pronunciavano spesso la parola ”Provvidenza” con l’ingenuo convincimento che l’onestà dei comportamenti fosse garanzia di felicità sulla terra; il narratore sapeva che non era vero, e alla fine Renzo e Lucia comprendono che “virtù” può anche essere sinonimo di “dolore” sulla terra, ma che esso va accettato nel nome di Dio, che lo utilizzerà per il loro bene.

Esempio



  


  1. alessia

    perché e in quale modo manzoni viene influenzato dall'illuminismo