La Malora

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura Italiana
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Testo

Beppe Fenoglio, La malora
Einaudi, 1997- Einaudi tascabili.
pp.144 /

Pubblicato per la prima volta nel 1954 nella collana «I gettoni», La malora è certamente l’opera di Fenoglio in cui la tematica della vita contadina sulle Langhe campeggia in tutta pienezza, sia nei motivi che nei luoghi, pur non essendo nuova all’autore, poiché già trattata in Un giorno di fuoco e nella seconda parte de I ventitré giorni della città di Alba.
Il libro narra la storia di Agostino e, attraverso gli occhi dello stesso, la vicenda della sua famiglia, i Braida, poveri contadini delle Langhe d'inizio secolo, la cui vita è segnata dalla fame, dal duro lavoro sulla terra avara e dalla malora che, come un’ombra funesta da cui è impossibile liberarsi, guida il destino dei personaggi del romanzo fenogliano. Immerso in avvenimenti tragici, quali la morte del padre, l’inutile lotta della famiglia di Tobia per emergere dalla propria condizione, la malattia del fratello chiuso in seminario, Agostino vive gli anni della giovinezza chinato di fronte alla propria sorte. L’unico barlume di speranza, l’amore per la “servetta” Fede, viene annullato senza possibilità di opporsi dal contratto di matrimonio fatto dai genitori della ragazza. L’unico sogno di Agostino rimane quello di tornare a lavorare la terra che era stata di suo padre: desiderio che in ultimo verrà realizzato, anche se il giovane non potrà più contare sulla presenza materna.
La malora è il motore primario di tutta la vicenda: i personaggi, costantemente chiusi in una solitaria sopportazione, paiono non avere voce in capitolo. La fame, la miseria, l’avidità, i lutti, le avversità atmosferiche e la sterilità del terreno decidono per loro. Gli abitanti delle Langhe si muovono in un mondo chiuso, un microcosmo i cui orizzonti sono, prima ancora di essere chiusi dalle colline, annullati dalla cieca fatica, dal lavoro che, inizialmente principio fondante di civiltà, è divenuto veicolo d’annullamento di sé. La “roba” di verghiana memoria diviene allora stimolo principale delle azioni, facendosi, in quando desiderio sempre presente, ma destinato a rimanere inappagato, mezzo di svilimento al pari del lavoro. E’ questo desiderio a spingere gli uomini a spezzarsi la schiena lavorando sui campi e a mangiare sempre meno la sera. A questo, ancora, si aggrappano Tobia e il padre di Agostino, come sospesi nel vuoto e su quel Tanaro in cui molti uomini della razza langarola sono andati a porre fine ai propri giorni (si ricordi che anche in questo romanzo è presente il suicidio, quello di Costantino del Boscaccio trovato impiccato dallo stesso Agostino). Nel duro destino e nella sua cieca presenza pare ritrovarsi quanto Sciascia diceva a proposito degli zolfatari siciliani: «quando dalla notte della zolfara ascendevano all’incredibile giorno della domenica, le case nel sole o la pioggia che batteva sui tetti, non potevano che rifiutarlo, cercare nel vino un diverso modo di sprofondare nella notte, senza pensiero, senza sentimento del mondo».
Se si mette a confronto La Malora con il racconto Un giorno di fuoco si può notare come, mentre in quest’ultimo la storia della Langa è tutta vissuta dall’esterno -attraverso il racconto della ribellione ad una sgradita condizione esistenziale -ne La Malora le dinamiche sociali e le ragioni dell’amore per la propria terra, sono investigate dall’interno. Grande merito di Fenoglio è la capacità di portare sulla pagina la brutalità di quel mondo: rivivendoli nel momento stesso della scrittura, l’autore pare volerli raggiungere fisicamente fino a mettersi in contatto con la dimensione esistenziale del lavoro come annullamento di sé. Leggendo il romanzo si scopre costantemente, da parte dell’autore, l’ansia di essere elemento presente del mondo descritto: la lingua utilizzata e i continui flashback sono strumenti letterari di cui Fenoglio si serve proprio a questo scopo.
Nell’utilizzo di termini dialettali e gergali, nell’utilizzo di frasi fatte la memoria dell’autore diviene lingua in grado di creare il mondo narrato, diviene uno specchio perfetto, nella propria concisione e nella mancanza pressoché assoluta di orpelli, del carattere degli abitanti di queste terre. Nell’opera pochissime sono le descrizioni di luoghi e persone, è come se non ci fosse il tempo per soffermarsi ad osservarli, pur sentendo di riuscire stranamente a scrutare tutto con gli occhi noncuranti di chi è nato e sempre vissuto tra quella gente, cosciente anche di dover, un giorno, fatalmente morirci. Le uniche eccezioni sono significativamente legate alle rare visite di Agostino ad Alba, la città nel cuore delle Langhe dove viene descritto l’impatto con la vita cittadina, con i ragazzi, con gli edifici, con il seminario, con la farmacia del padrone: sono brani godibili ma forse stilisticamente eccessivi (probabilmente Vittorini parlava di essi quando, nella discussa presentazione del libro, faceva riferimento ai pericoli di vacuità insiti nell’utilizzo degli «afrodisiaci dialettali») e che paiono quasi stridere, se confrontati con la lucida sintesi che caratterizza il resto del libro. Ma è proprio in questi brani, nel desiderio di fare percepire appieno la descrizione, totalmente filtrata attraverso gli occhi di Agostino, che si avverte l’ansia di Fenoglio di prendere le distanze dalla propria città e di sentirsi, così, solo interprete del mondo contadino.
Nelle prime pagine del romanzo domina un lungo flashback che si apre con il ricordo della morte del padre. Esso prosegue, poi, con il racconto degli eventi che hanno caratterizzato la vita di Agostino e, infine, solo nelle ultime righe, ci si apre al tempo presente, narrando l’abbandono del lavoro servile da parte del protagonista e il ritorno dalla propria madre. Vengono così descritti eventi su eventi, come segni di impotenza, dichiarazioni dell’incapacità di modificare la vita; non si segue una storia lineare, e si procede, invece, con uno sfogo che sa di non poter trovare conforto, divenendo, per questo, semplice constatazione: «Dio non fu mai con noi», dice Agostino. Questo flusso di parole senza tregua imprigiona il lettore, chiudendolo entro il mondo descritto dal romanzo. Se a ciò si aggiunge che la narrazione inizia con il funerale del padre e si chiude con la preghiera della madre di morire, dopo avere chiuso per sempre gli occhi al suo terzogenito Emilio, si può cogliere benissimo la capacità di Fenoglio di trasporre sul piano fisico della lettura la logica ferrea della malora, elemento che regola la vita di questo frammento di universo.
Commentando Gli indifferenti di Moravia, Pancrazi scriveva: «Perché anche l’arte sua meravigli vorremmo più respiro, più aria: l’alito di una finestra aperta su questo chiuso, maleodorante girone». Ci si chiede se un giudizio di questo tipo, fatte le ovvie e sacrosante distinzioni, possa valere anche per La malora o se vi sia, da qualche parte in questo romanzo, un barlume di speranza, una via di fuga, se non fisica, almeno morale. La risposta è che probabilmente questa va ricercata, nonostante tutto, forse proprio nel finale. La malora non dà, né priva secondo i propri capricci: toglie e basta. Lascia gli uomini abbandonati a se stessi, provando come essi debbano superare ogni contingenza puramente materiale, fieri della propria dignità. E’ significativo che Agostino alla fine della vicenda rimanga solo al mondo: l’ultimo ostacolo da superare, il più difficile, è quello della solitudine. Dinnanzi ad essa il partigiano Johnny, dopo un inverno solitario sui monti, era crollato. Agostino, invece, grazie all’esperienza forte del dolore, probabilmente continuerà a resistere.

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