Aiace di Sofocle

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura Greca

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Testo

L’Aiace di Sofocle: l’espansione monologica del personaggio

La tragedia sofoclea spesso riflette sul tema dell’isolamento dell’eroe (Antigone,Aiace,Edipo re), così da elevare la forma monologica da mera tecnica scenica a modo di espressione privilegiato e connaturato alla soggettività dispiegata del personaggio; allo Schadewaldt si deve la radicale collocazione della dimensione monologica non soltanto sul piano della manifestazione patetica, ma addirittura su quello della sostanza costitutiva del personaggio, là dove si danno la sua coerenza e la sua continuità.
Dalla sola analisi della composizione sofoclea in Antigone, vv. 801- 943, Aiace, vv. 349- 480, Edipo re, vv. 1297-1415, facilmente si deduce la continuità del personaggio tragico: in primo luogo, infatti, in tutte le scene citate ad un momento lirico (kommos) segue una rhesis in trimetri giambici di carattere squisitamente monologico; in secondo luogo, ed è quel che più conta, simili forme si sostanziano entrambe dei medesimi motivi, che di norma sono più diffusamente sviluppati nella rhesis che non nella parte lirica.
Nell’applicazione di questa alternanza di forma, Sofocle differisce notevolmente da Euripide: questi identifica il passaggio dai metri lirici ai trimetri giambici con il cambiamento dell’atteggiamento mentale del personaggio, nel quale, scrive Di Benedetto, «a una ‘fase’ emotiva e passionale segue una ‘fase’ lucidamente razionale, con una frattura interna che pone i due termini in un reciproco rapporto di distinzione, se non addirittura di conflitto» [Euripide: teatro e società, Torino 1971, p. 71] (si veda il primo ingresso in scena di Medea, nell’omonima tragedia, come un esempio su tutti); in Sofocle, invece, i ritmi concitati che informano la rhesis restituiscono allo spettatore un effetto patetico almeno quanto il kommos, cosicché non si ha una fase di analisi razionale alternata a un’effusione patetica, ma semplicemente una continuità del personaggio, con arricchimento di particolari allo scopo di suscitare pathos.
Lo Schadewaldt individua nel pathos cui i personaggi sofoclei danno sfogo il fattore cruciale che induce la persona drammatica a dimenticare i presenti (normalmente rappresentati dal coro), l’ambiente, le circostanze esterne e tutto ciò che la lega come essere sociale, tanto che quella si trova a parlare in soliloquio a se stessa, liberamente spiegando la sua soggettività intera. A questo proposito, bisogna osservare che di frequente in Sofocle il soliloquio occorre sul culminare di scene in cui si rappresenta la crisi della comunicazione fra personaggio ed interlocutori: di conseguenza il soliloquio in se stesso viene ad essere il solo modo di espressione possibile all’isolamento morale dell’eroe poiché, dal punto di vista fattuale e materiale, il coro è presente e visibile.
Nel suo isolamento eroico, il personaggio matura una chiara consapevolezza di sé che gli vale l’acquisto di una umanità più profonda, testimoniata dalla coscienza, nell’eroe, d’aver sperimentato in prima persona la verità di una sentenza generale.
Aiace, per esempio, nella sua prima rhesis, lamenta che “se un dio ti danneggia, anche chi è vile si salva dal più forte” (vv. 455-56): l’individuo qui trascende la propria intima sofferenza e la destina a luoghi universali; nel contempo, però, si eleva ben sopra di sé, esattamente grazie alla sua coscienza di umanità ed universalità della sofferenza. Al primo monologo (o soliloquio, data la presenza del coro) prelude un breve dialogo stabilito in seguito ad un appello al coro (“Amici miei, marinai, unici amici miei”): in principio dell’incontro è trasparente la buona disposizione dei coreuti nei confronti del loro comandante, ma, di contro, dopo la compassione, sopravviene un’ insuperabile incapacità di prendere nettamente posizione in suo favore, onde non precipitare nella sua rovina (vv. 245-50). Rinnovato l’appello al coro con la richiesta d’essere ucciso, che perfino i marinai intendono seriamente, quando capisce che i suoi non arrivano a comprendere il riso dei nemici quale fonte del suo dolore, Aiace si vede nella sua solitudine: ne è indizio il fatto che egli cominci un soliloquio.
Come Aiace, anche Antigone ed Edipo conoscono le loro solitudini nel giorno tragico della rovina, ma mentre Aiace intuisce una mancanza di simpatia che consenta la prosecuzione del dialogo, Antigone raggiunge la stessa consapevolezza constatando il fallimento del nomos cittadino e facendo professione di obbedienza ad una superiore legge divina e apolitica, ed Edipo, da ultimo, esaspera il contrasto fino a provare con la propria esperienza l’inconciliabilità fra realtà e apparenza, e la sua impossibilità di essere condivisa col coro.
Già al verso 383 dell’Aiace emerge la tendenza del personaggio ad inserire la vicenda in un ordine generale garantito da un dio dispensatore di gioie e dolori: da simili considerazioni, paradossalmente, non deriva una rassegnata accettazione della propria sorte, ma Aiace è, di contro, capace di replicare di volersi vendicare pur così, anche se Odisseo può ridere col favore di un dio. L’ostinazione dell’eroe non fa che affermare il suo carattere: infatti,a distanza di soli pochi versi, a partire dal v. 432, benché dal confronto fra il modello paterno ed il proprio presente individuale muova la rivelazione della vera natura del male, ancora ai vv. 450-53 Aiace confida che, se Achille fosse stato vivo e, con lui, la norma fosse stata rispettata, senza dubbio gli avrebbe assegnato le armi, mentre, adesso che Achille è morto, poiché Atena lo ha sviato, a lui è tolta persino la possibilità di far cambiare idea agli Atridi: non ammette, dunque, che i principi fondanti del suo agire possano mutare e, perciò, riferisce la propria sventura all’intervento esterno di un dio. Ai cardini del suo carattere, l’aidòs verso il padre e l’odio per gli Atridi, Aiace non abdica mai, tanto che, in conformità con quei principi fondamentali, la decisione di darsi la morte, affatto personale, viene sentita e presentata come obbligata: è oggettivazione del tentativo di trovare un comportamento che anche in quel frangente sia coerente con la sua personalità. Perciò tutti gli elementi che Aiace prende in esame nella sua analisi non servono alla scelta fra due alternative, ma fungono solo da rafforzamento di un disegno d’azione che, seppure solo istintivamente, il soggetto ha già adottato. Parimenti, nell’Antigone sono la sostanza e la natura del personaggio a causarne la rovina, onde non procurargli la perdita della sua propria identità. Anche Edipo, poiché il suo carattere distintivo è un estremo razionalismo, si procura la rovina indagando come la sua natura gli chiede.
L’inossidabilità del personaggio di Aiace si rinnova nella terza rhesis, che superficialmente può parere in discontinuità con il suo temperamento eroico: ma lo spettatore deve sapere che ad essa appartiene anche questo discorso, poiché il proposito fondamentale del suicidio rimane incrollabile, mentre a mitigarsi è solo l’atteggiamento nei confronti di Tecmessa. In questa sede, estesa la meditazione a dimensioni cosmiche, Aiace enuncia le leggi dell’alternanza che regolano tutto l’universo, dato che il tempo infinito fa venire alla luce ciò che prima è nascosto e nasconde ciò che si è manifestato: all’inverno subentra l’estate, alla notte il giorno, alla tempesta la quiete, al torpore del sonno la lucidità della veglia; la legge dell’alternanza così enunciata può definirsi ‘semplice’, poiché il fenomeno in atto mette sempre capo a uno sbocco positivo, che non si pone in contrasto, bensì in continuità e in progresso col fenomeno originale stesso. Agli inizi del discorso, però, come si è riferito, il personaggio aveva teorizzato un’alternanza ‘doppia’ (in vista del doppio movimento del ‘tempo grande e infinito’), un’alternanza che considerava due fenomeni, il secondo dei quali di movimento contrario rispetto al primo. Con queste premesse, assai significativo è che della direttrice positiva dell’alternanza semplice facciano parte l’obbedienza a dèi ed autorità, ed ancor più significativo è che Aiace si stralci dal meccanismo di questa legge, tornando in chiusura alla forma dell’alternanza doppia nella ripresa del detto di Biante, che descrive il nemico diventare amico e l’amico che potrà diventare nemico.
Una conferma dell’interpretazione proposta in questi termini, secondo Di Benedetto, può ravvisarsi nell’uso della prima persona singolare in riferimento a sé (l’atteggiamento verso Tecmessa) e ai propri progetti (dirigersi al luogo della morte) e di quella plurale solo in concomitanza dell’enunciazione della legge dell’alternanza semplice: sembrerebbe, questo, un modo per riservarsi la possibilità di dissociarsi apertamente dalla legge generale sulla base della propria esperienza.
Ultimo indizio della ampiezza della soggettività dispiegata di Aiace è, nella quarta rhesis (un monologo vero e proprio), il suo guadagnato rapporto con la natura, non unico in Sofocle, alla quale egli dice il suo addio nelle parole che precedono il suicidio: là il bagliore del giorno viene salutato insieme con la patria, in modo tale che i due poli, quello naturale e quello dell’identità culturale ed ideologica, delineino un livello di realtà più profondo, all’interno del quale decidere le proprie azioni e cui rimanere eroicamente fedele, per quanto esso escluda i rapporti sociali con gli uomini, definitivamente compromessi dall’insano atto compiuto (Medda).

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