Cesare: " De Bello Civili " - Libro III

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Testo

Libro III De bello civili
1 Cesare in qualità di dittatore convoca i comizi elettorali; vengono eletti consoli Giulio Cesare e Publio Servilio; era infatti questo l'anno in cui, secondo le leggi, gli era concesso di diventare console. Ciò compiuto, dal momento che in tutta Italia il credito era in grave crisi e non venivano pagati i debiti, dispose che fossero nominati degli arbitri e che per mezzo di essi si facesse la stima dei beni mobili ed immobili per sapere quanto valesse, prima della guerra, ciascuno di questi beni, e che essi fossero consegnati ai creditori. Stimò che questo provvedimento fosse molto opportuno sia per fugare o diminuire il timore di nuovi libri dei conti, cosa che quasi sempre suole accadere dopo guerre e discordie civili, sia per tutelare la fiducia verso i debitori. Parimenti, a mezzo di proposte di legge sottoposte al popolo dai pretori e dai tribuni della plebe, reintegrò in tutti i loro diritti parecchi cittadini condannati in forza della legge di Pompeo sui brogli, al tempo in cui Pompeo aveva in città il presidio delle legioni, quando si svolgevano in un solo giorno processi in cui alcuni giudici ascoltavano, altri emettevano la sentenza. Questi cittadini all'inizio della guerra civile si erano offerti a Cesare, se egli voleva avvalersi dei loro servigi in guerra, perciò li giudicò come se se ne fosse servito, dal momento che si erano messi a sua completa disposizione. Aveva infatti stabilito che costoro dovessero venire reintegrati per giudizio popolare piuttosto che sembrare riabilitati per suo favore, per non apparire o ingrato nel dimostrare la propria riconoscenza o arrogante nel sottrarre al popolo un suo privilegio.
2 Impiega undici giorni per sbrigare queste cose, per celebrare le Ferie latine e per portare a termine tutti i comizi; rinuncia alla dittatura, parte da Roma e giunge a Brindisi. Aveva ordinato che si recassero colà dodici legioni e tutta la cavalleria. Ma di navi trovò solo un numero sufficiente a trasportare, a mala pena, quindicimila legionari e cinquecento cavalieri. Solo questo [la scarsità delle navi] mancò a Cesare per condurre a termine la guerra in breve tempo. Inoltre quelle stesse legioni che vengono fatte imbarcare sono al di sotto del numero effettivo di uomini in quanto molti di essi erano venuti a mancare in tante guerre galliche, e il lungo viaggio dalla Spagna ne aveva di molto diminuito il numero e l'autunno insalubre in Puglia e attorno a Brindisi aveva messo a prova la salute di tutto l'esercito che proveniva dalle salutari regioni della Gallia e della Spagna.
3 Pompeo, che aveva avuto un intero anno per mettere insieme le truppe, tranquillo poiché in tale periodo non vi era stata guerra e interventi da parte dei nemici, aveva raccolto dall'Asia, dalle isole Cicladi, da Corcira, da Atene, dal Ponto, dalla Bitinia, dalla Siria, dalla Cilicia, dalla Fenicia e dall'Egitto una grande flotta; aveva comandato che un'altra grande flotta fosse costruita in ogni luogo, aveva preteso e ottenuto una considerevole quantità di denaro richiesta in Asia e in Siria e da tutti i re, dinasti e tetrarchi e dai liberi popoli dell'Acaia, aveva costretto le società di cavalieri delle province in suo possesso a versargli una grande quantità di denaro.
4 Aveva allestito nove legioni di cittadini romani; cinque le aveva trasportate dall'Italia, una di veterani dalla Cilicia, che chiamava "gemella" perché formata da due legioni, una da Creta e dalla Macedonia composta di soldati veterani che, congedati da precedenti comandanti, si erano fermati in quelle province, due dall'Asia che il console Lentulo aveva fatto arruolare. Inoltre, a completamento degli effettivi, aveva distribuito fra le legioni un gran numero di soldati provenienti dalla Tessaglia, Beozia, Acaia ed Epiro; a questi aveva unito i soldati di Antonio. Oltre a queste aspettava due legioni provenienti dalla Siria con Scipione. Aveva tremila arcieri giunti da Creta, da Sparta, dal Ponto, dalla Siria e da altre città, due coorti di frombolieri ciascuna formata di seicento uomini, e settemila cavalieri. Di questi, seicento erano Galli portati da Deiotaro, cinquecento li aveva portati Ariobarzane dalla Cappadocia; circa un medesimo numero aveva procurato dalla Tracia Coto, che aveva mandato il figlio Sadala; della Macedonia ve ne erano duecento, al cui comando era Rascipoli, uomo di grande valore; cinquecento, Galli e Germani, provenivano da Alessandria ed erano fra quei gabiniani che A. Gabinio lí aveva lasciato di presidio presso il re Tolomeo, e Pompeo figlio li aveva condotti con la flotta; ottocento li aveva raccolti fra i suoi servi e pastori; trecento li avevano dati dalla Gallogrecia Castore Tarcondario e Domnilao (uno era venuto di persona, l'altro aveva mandato il figlio); duecento erano stati mandati dalla Siria da Antioco Commagene, al quale Pompeo diede grandi ricompense, e di questi la maggior parte erano arcieri a cavallo. A questi aveva aggiunto Dardani, Bessi in parte mercenari in parte arruolati o volontari, e inoltre Macedoni, Tessali e uomini di altre nazioni e città; in tal modo aveva formato quel numero che sopra abbiamo detto.
5 Aveva radunato dalla Tessaglia, dall'Asia, dall'Egitto, da Creta, da Cirene e da altre regioni una grandissima quantità di frumento. Aveva deciso di svernare a Durazzo, ad Apollonia e in tutte le città marittime per impedire a Cesare di attraversare il mare e a tal fine aveva disposto una flotta su tutto il litorale. Era a capo delle navi egiziane Pompeo figlio, di quelle asiatiche D. Lelio e C. Triario, delle siriache C. Cassio, di quelle di Rodi C. Marcello e C. Coponio, della flotta liburnica e achea Scribonio Libone e Marco Ottavio. M. Bibulo, pur se preposto a tutte le operazioni marittime aveva tuttavia anche la direzione generale; a lui apparteneva il comando supremo.
6 Cesare, non appena giunse a Brindisi, tenne un discorso ai soldati dicendo che, poiché si era ormai giunti al termine delle fatiche e dei pericoli, di buon animo lasciassero in Italia schiavi e bagagli e salissero sulle navi senza impedimenti in modo che un maggiore numero di soldati potesse venire imbarcato e che ponessero ogni speranza nella vittoria e nella sua liberalità. Poiché tutti insieme gli avevano gridato di comandare ciò che voleva e che avrebbero fatto di buon animo qualunque cosa avesse comandato, salpò il 4 gennaio. Come si è detto, furono imbarcate sette legioni. Il giorno dopo raggiunse la terra dei Germini. Tra le scogliere dei Cerauni e altri luoghi pericolosi trovato un posto tranquillo, temeva infatti ogni porto, poiché li credeva tutti in mano ai nemici, sbarcò i soldati dalle navi, tutte incolumi dalla prima all'ultima, presso quella località chiamata Paleste.
7 A Orico vi erano Lucrezio Vespillo e Minucio Rufo con diciotto navi asiatiche delle quali essi erano a capo per ordine di D. Lelio; a Corcira vi era M. Bibulo con centodieci navi. Ma quelli, non fidandosi delle proprie forze, non osarono uscire dal porto, sebbene Cesare avesse condotto di scorta in tutto solo dodici navi lunghe da guerra, fra cui quattro coperte; e Bibulo, a sua volta, dal momento che non aveva le navi in ordine per salpare e i rematori erano dispersi, non lo affrontò in tempo poiché Cesare fu visto vicino a terra prima che la notizia del suo arrivo si fosse sparsa in quei luoghi.
8 Sbarcati i soldati, Cesare rimanda nella stessa notte le navi a Brindisi perché si potessero trasportare le altre legioni e la cavalleria. A questa operazione era stato preposto il luogotenente Fufio Caleno, che doveva trasportare velocemente le legioni. Ma le navi, che avevano preso troppo tardi il largo e non ebbero dalla loro la brezza notturna, sulla via del ritorno incontrarono una cattiva sorte. Bibulo infatti, informato a Corcira dell'arrivo di Cesare, sperando di potersi imbattere in qualche nave carica, incontrò quelle vuote; e incrociatene circa una trentina, contro di loro sfogò la rabbia dovuta alla sua negligenza e alla sua esasperazione: le incendiò tutte e nel medesimo incendio uccise marinai e comandanti delle navi, sperando di atterrire gli altri con la gravità del castigo. Compiuta questa impresa, occupò con la flotta, in lungo e in largo, gli ancoraggi e tutti i litorali da Sasone al porto di Curico e, scaglionati più scrupolosamente i corpi di guardia, egli stesso, nonostante il rigore dell'inverno pernottava sulle navi vigilando, disprezzando ogni fatica o incarico, senza aspettarsi un aiuto, pure di potere venire alle armi con Cesare ...
9 Dopo la partenza delle navi liburniche dall'Illiria M. Ottavio giunse a Salona con le sue navi. Qui, dopo avere sollevato i Dalmati e gli altri barbari, provocò la rottura dell'alleanza di Issa con Cesare; ma non potendo, né con preghiere né con minacce, smuovere la cittadinanza di Salona, decise di assediare la città (è questa protetta sia dalla natura del luogo sia da un colle). Ma in poco tempo i cittadini romani costruirono delle torri di legno per difendersi e non potendo opporre resistenza per l'esiguo numero di uomini, indeboliti dalle molte ferite, ricorsero al rimedio estremo e liberarono tutti i servi in età giovanile e, dopo avere tagliato i capelli di tutte le donne, fecero corde per le macchine da guerra. Ottavio, venuto a conoscenza del loro piano, cinse la città con cinque accampamenti e cominciò a incalzarla contemporaneamente con assedio e assalti. Quelli, pur disposti a sopportare tutto, erano tormentati sopra ogni cosa dalla mancanza di viveri. Perciò mandarono ambasciatori a Cesare per chiedergli aiuto. Sostenevano da soli, come potevano, gli altri disagi. Dopo molto tempo, poiché la durata dell'assedio aveva reso i soldati di Ottavio alquanto trascurati, cogliendo il momento del mezzogiorno quando i nemici si allontanavano, disposti fanciulli e donne sulle mura, perché le abitudini quotidiane sembrassero immutate, formata una schiera con quelli che avevano da poco liberati, fecero irruzione nel più vicino degli accampamenti di Ottavio. Espugnatolo, con lo stesso impeto assalirono il secondo, quindi il terzo e il quarto e poi il quinto e cacciarono i nemici da tutti i campi e, uccisone un gran numero, costrinsero i rimanenti e lo stesso Ottavio a trovare rifugio sulle navi. Questo fu l'esito dell'assedio. E già si avvicinava l'inverno e, subìti tanti danni, Ottavio, non sperando più di espugnare la città, si ritirò a Durazzo presso Pompeo.
10 Abbiamo detto che L. Vibullio Rufo, prefetto di Pompeo, era caduto due volte in potere di Cesare e da questo rimesso in libertà, una volta a Corfinio, una volta in Spagna. Cesare, per i benefici che gli aveva concesso, aveva giudicato costui idoneo per essere mandato con proposte da Cn. Pompeo, per l'ascendente che su di lui, come sapeva, egli esercitava. Queste per sommi capi erano le proposte: entrambi dovevano porre fine alla loro ostinazione, deporre le armi e non tentare più a lungo la Fortuna. Entrambi avevano ricevuto danni abbastanza grandi, che potevano servire di lezione e di esempio sì da temerne altri: Pompeo, scacciato dall'Italia, dopo avere perduto la Sicilia e la Sardegna e le due Spagne e centotrenta coorti di cittadini romani in Italia e Spagna; lui, Cesare, con la morte di Curione e la perdita dell'esercito africano e la resa di Antonio e dei soldati presso Curitta. Non dovevano danneggiare se stessi e lo stato dal momento che essi con i loro guai erano prova sufficiente di quanto può la Fortuna in guerra. Era proprio questo il momento irripetibile per trattare la pace, finché tutti e due confidavano in se stessi e le forze sembravano pari; ma se per caso la Fortuna avesse fatto qualche piccola concessione a uno dei due, chi si credeva superiore non avrebbe voluto sapere di condizioni di pace, né si sarebbe contentato di parti uguali colui che confidasse di potere avere tutto. Dal momento che prima non ci si era potuti accordare, le condizioni di pace dovevano essere chieste al senato e al popolo romano. Ciò conveniva allo stato ed era opportuno che piacesse anche a loro. Se entrambi, immediatamente, alla presenza dei soldati, avessero giurato di congedare entro tre giorni l'esercito, deposte le armi e sciolte le truppe ausiliarie, nelle quali ora ponevano fiducia, di necessità entrambi avrebbero di buon animo accettato il giudizio del popolo e del senato. Affinché questa proposta potesse essere più facilmente accettata da Pompeo, avrebbe congedato tutte le sue truppe terrestri e le milizie delle città...
11 Vibullio, dopo avere riferito queste proposte [a Corcira], ritenne non meno necessario informare Pompeo dell'improvviso arrivo di Cesare affinché potesse prendere decisioni in merito prima di iniziare a esaminare l'ambasceria. E così, senza interrompere il cammino né di giorno né di notte e, per andare veloce, cambiando i cavalli in tutte le stazioni, si dirige da Pompeo per annunziargli l'arrivo di Cesare. In quel momento Pompeo era a Caldavia e dalla Macedonia si dirigeva ad Apollonia e a Durazzo nei quartieri invernali. Ma, turbato dall'avvenimento inatteso, con marce più veloci cominciò a dirigersi ad Apollonia affinché Cesare non si impadronisse delle città della costa. Ma Cesare, sbarcate le truppe, nel medesimo giorno si dirige a Orico. Quando vi giunse, L. Torquato, che per ordine di Pompeo era a capo della città e qui teneva un presidio di Partini, fece chiudere le porte e tentò di difendere la città; quando ordinò ai Greci di salire sulle mura e di prendere le armi, quelli dissero di non avere intenzione di combattere contro l'autorità del popolo romano; poi spontaneamente i cittadini tentarono di accogliere Cesare. Torquato, perduta ogni speranza di aiuto, aprì le porte e consegnò la città e se stesso a Cesare, che lo lasciò incolume.
12 Capitolata Orico, Cesare si dirige senza alcun indugio ad Apollonia. Alla notizia del suo arrivo L. Staberio, che qui comandava, cominciò a fare portare acqua nella rocca e a fortificarla e a richiedere ostaggi dagli abitanti di Apollonia. Ma questi dissero che non glieli avrebbero dati e che non avevano intenzione di chiudere le porte al console né di assumere deliberazioni contrarie a quelle dell'intera Italia [il popolo romano]. Conosciuto il loro parere, Staberio fugge di nascosto da Apollonia. Gli abitanti mandano ambasciatori a Cesare e lo accolgono in città. Seguono il loro esempio gli abitanti di Billide, di Amanzia e le altre città vicine e tutto l'Epiro; mandati ambasciatori a Cesare, promettono di eseguire i suoi ordini.
13 Ma Pompeo, venuto a conoscenza di quanto era avvenuto a Orico e ad Apollonia e temendo la perdita di Durazzo, vi si dirige marciando giorno e notte, mentre si andava dicendo che Cesare si avvicinava. Una paura tanto grande si impadronì del suo esercito che, poiché nella fretta faceva della notte giorno, non interrompendo la marcia, quasi tutti i soldati dell'Epiro e quelli provenienti dalle regioni vicine disertavano, parecchi gettavano le armi e la marcia pareva simile a una fuga. Ma quando Pompeo si fermò presso Durazzo e ordinò di porre il campo, poiché l'esercito era ancora in preda al terrore, Labieno per primo si fa avanti e giura di non lasciarlo e di essere pronto ad andare incontro alla medesima sorte che la Fortuna avesse riservato a Pompeo. Lo stesso giuramento fanno gli altri luogotenenti; li seguono i tribuni dei soldati e i centurioni e il medesimo giuramento fa tutto l'esercito. Cesare, visto che la marcia su Durazzo era stata prevenuta da Pompeo, finisce di marciare in fretta e pone il campo presso il fiume Apso nel territorio degli Apolloniati, perché le città benemerite fossero difese da fortini e posti di guardia [a difesa] e stabilisce di aspettare qui l'arrivo delle altre legioni dall'Italia e di svernare in tenda. Altrettanto fa Pompeo e, posto il campo al di là del fiume Apso, vi conduce tutte le milizie e le truppe ausiliarie.
14 Caleno, imbarcate a Brindisi legioni e cavalleria, quel tanto che le navi potevano contenerne, come era stato comandato da Cesare, salpa e, allontanatosi un po' dal porto, riceve una lettera da Cesare che lo informa che i porti e tutto il litorale sono in mano alla flotta nemica. Venuto a conoscenza di ciò, fa ritorno in porto e richiama tutte le navi. Una di esse, che continuò la navigazione e non obbedì al comando di Caleno, poiché non c'erano soldati a bordo ed era comandata da un privato, spintasi fino a Orico, fu presa da Bibulo che sfogò il proprio odio sui servi e su tutti gli uomini liberi, non risparmiando neppure i fanciulli, uccidendo tutti. Così da un breve intervallo di tempo e da un caso accidentale dipese la salvezza di tutto l'esercito.
15 Bibulo, come si è visto sopra, era sulla flotta presso Orico e come egli impediva a Cesare la via di mare e l'ingresso ai porti, così era impedito a lui stesso lo sbarco in tutti i punti di quelle regioni. Infatti collocati qua e là dei presidi, tutte le coste erano in mano a Cesare e non vi era modo né di fare legna e acqua né di ormeggiare le navi. La situazione era di estrema difficoltà e i Pompeiani erano tormentati dalla totale mancanza del necessario sì da essere costretti a portare da Corcira con navi da carico oltre che i viveri anche legna e acqua. Ciò nonostante sopportavano pazientemente e di buon animo queste difficoltà e ritenevano di non dovere togliere la sorveglianza alle coste e lasciare i porti. Ma trovandosi nelle difficoltà che ho detto e essendosi unito Libone a Bibulo, entrambi, dalle navi, dialogano con i luogotenenti M. Acilio e Stazio Murco, dei quali l'uno era preposto alla difesa delle mura della città, l'altro alle difese di terra: dicono di volere discutere con Cesare di cose della massima importanza, se a loro viene concessa la possibilità. A conferma di ciò aggiungono poche parole per mostrare di avere intenzione di negoziare un trattato. Frattanto chiedono un armistizio e lo ottengono. Di grande importanza infatti sembrava la proposta che presentavano e sapevano che la cosa era molto desiderata da Cesare e si pensava che si sarebbe ottenuto qualche risultato dalle proposte di Vibullio.
16 Cesare in quel tempo, partito con una sola legione per ricevere la sottomissione delle città più meridionali e per procurarsi del frumento di cui aveva penuria, si trovava nei pressi di Butroto, città di fronte a Corcira. Qui, informato per lettera da Acilio e Murco delle richieste di Libone e Bibulo, lascia la legione e fa ritorno a Orico. Giuntovi, i Pompeiani vengono convocati a colloquio. Libone si fa avanti e porge le scuse per l'assenza di Bibulo, poiché questi era di carattere fortemente iracondo e aveva con Cesare un'inimicizia anche privata nata al tempo dell'edilità e della pretura; per questo motivo aveva evitato il colloquio affinché la sua irascibilità non turbasse il negoziato che si sperava di grandissima utilità. È, dice, e fu sempre grandissimo desiderio di Pompeo che si venisse a un accordo e si deponessero le armi; essi non hanno nessun potere per trattare, perché secondo il decreto del consiglio il comando supremo della guerra e di tutto il resto era stato affidato a Pompeo. Ma, una volta conosciute le richieste di Cesare, essi le avrebbero fatte pervenire a Pompeo e Pompeo, esortato da loro, avrebbe da solo preso le rimanenti decisioni. Durasse frattanto l'armistizio in modo che si potesse fare ritorno da Pompeo e nessuno dei due avversari potesse danneggiare l'altro. A ciò aggiunge poche parole sulle ragioni del conflitto e sulle proprie truppe e milizie ausiliarie.
17 A queste ultime considerazioni Cesare non ritenne di dovere per il momento rispondere né pensiamo ora che ci sia un motivo sufficiente per ricordarle. Cesare chiedeva che gli fosse possibile mandare ambasciatori a Pompeo senza pericolo e che essi stessi garantissero il buon esito della cosa oppure li prendessero in consegna e li conducessero alla presenza di Pompeo. Per quanto concerneva la tregua, la situazione della guerra era in questi termini che essi con la flotta erano di ostacolo alle sue navi e alle truppe ausiliarie, mentre egli li teneva lontani dalla terraferma e dall'approvvigionamento di acqua. Se volevano che questo ostacolo venisse tolto, rinunziassero al blocco navale; se essi tenevano duro, anch'egli aveva intenzione di tenere duro. Ciò nonostante si poteva trattare dell'accordo, anche senza concessioni e ciò non era per loro un impedimento. Libone rispose di non potere né accettare la tutela degli ambasciatori di Cesare né garantire per la loro sicurezza; faceva ricadere ogni responsabilità su Pompeo: su un solo punto insisteva, la tregua che esigeva con grande insistenza. Quando Cesare comprese che egli aveva ordito tutto il suo discorso per ovviare al pericolo presente e alla mancanza di provviste e che non recava alcuna speranza o condizione di pace, ricondusse il suo pensiero alla guerra.
18 Bibulo, al quale da molti giorni era impedito lo sbarco, gravemente ammalato a causa della fatica e del freddo, non potendo essere curato e non volendo abbandonare l'incarico assunto, non sopportò la virulenza della malattia. Dopo la sua morte nessuno ebbe da solo il comando supremo, ma ciascuno comandava le proprie navi autonomamente e secondo il proprio giudizio. Vibullio, sedato il tumulto suscitato dall'improvviso arrivo di Cesare, appena il momento gli parve opportuno, assistito da Libone, L. Lucceio e Teofane, con i quali Pompeo era solito consultarsi sugli affari della massima importanza, cominciò a discutere delle proposte di Cesare. Aveva appena cominciato a parlare quando Pompeo lo interruppe e gli impedì di proseguire oltre il discorso: "Che importa a me", disse "della vita o dei diritti civili, se sembreranno da me posseduti per la benevolenza di Cesare? E questa opinione non potrà essere cancellata, poiché sembrerà che io sia stato ricondotto a forza in Italia, dalla quale mi sono allontanato". Terminata la guerra, Cesare venne a conoscenza di questi fatti da coloro che furono presenti al colloquio. Ciò nonostante tentò in altro modo di fare trattative di pace mediante abboccamenti.
19 Tra i due campi di Pompeo e di Cesare vi era soltanto il fiume Apso e i soldati avevano fra di loro frequenti colloqui e, come da loro comune accordo, non veniva nel frattempo scagliato alcun dardo. Cesare manda il luogotenente P. Vatinio sulla riva del fiume stesso per fare ciò che gli pareva essere più utile per la pace: domandare, più volte e a gran voce, se non era lecito a cittadini romani inviare ad altri cittadini romani ambasciatori per trattative di pace, cosa che è concessa anche agli schiavi che fuggono dai Pirenei e ai predoni, sopra tutto perché tentavano di impedire che ci fosse uno scontro armato fra concittadini. Parlò a lungo con tono supplichevole, come egli doveva, trattandosi della salvezza sua e di tutti, e fu ascoltato in silenzio da entrambi gli eserciti. Dai Pompeiani fu risposto che Aulo Varrone dichiarava che il giorno dopo sarebbe andato al colloquio e che insieme a loro avrebbe esaminato in che modo gli ambasciatori potessero venire senza pericolo ed esporre ciò che volevano. Viene fissata una certa ora per l'incontro. E il giorno dopo quando ci si incontrò da entrambe le parti si radunò una grande folla; grande era l'attesa dell'evento e l'animo di tutti sembrava rivolto alla pace. In mezzo a questa moltitudine avanza Tito Labieno e con tono moderato incomincia a parlare di pace e a discutere con Vatinio. All'improvviso dardi scagliati da ogni parte interrompono a metà i loro discorsi; Vatinio, riparato dalle armi dei soldati, li evita; tuttavia vengono feriti molti, fra i quali Cornelio Balbo, M. Plozio, L. Tiburzio, alcuni centurioni e soldati. Allora Labieno: "Smettetela dunque di parlare di accordi; infatti nessuna pace vi può essere con noi se non quando verrà portata la testa di Cesare".
20 In quel medesimo tempo il pretore M. Celio Rufo si assunse la causa dei debitori e, all'entrata in carica, pose il suo seggio accanto a quello di Caio Trebonio, pretore urbano, e, se qualcuno ricorreva in appello sugli estimi e sui pagamenti imposti dal giudice, prometteva di aiutarlo secondo quanto Cesare aveva stabilito quando era a Roma. Ma per l'equità del decreto e l'umanità di Trebonio, che riteneva che in quelle circostanze si dovesse esercitare il diritto con clemenza e moderazione, avveniva che non si poteva trovare chi per primo si appellasse contro le sentenze. Infatti è forse proprio di un animo mediocre prendere a pretesto la povertà e lamentarsi delle disgrazie proprie o di quelle dei tempi e mettere avanti le difficoltà di vendita all'asta, ma mantenere intatti i propri beni, quando si riconoscono i propri debiti, quale coraggio o impudenza richiede? E così non si poteva trovare nessuno che presentasse tale richiesta. E Celio si mostrò più duro di quelli stessi ai quali la cosa era d'utilità. E, dopo un simile inizio, per non sembrare di essersi dato inutilmente a una causa ingiusta, promulgò una legge che prevedeva il pagamento dei debiti entro sei anni senza interesse.
21 Poiché il console Servilio e altri magistrati si opponevano ed egli otteneva meno successo di quanto aveva previsto, Celio Rufo, per eccitare le passioni degli uomini, abrogata la legge precedente, ne promulgò altre due, una con la quale abbuonò agli inquilini l'affitto di un anno, l'altra con la creazione di nuovi registri di debiti. Il popolo si sollevò contro C. Trebonio, vi furono alcuni feriti ed egli fu cacciato dal suo seggio. Di questi avvenimenti il console Servilio riferì al senato il quale decretò che Celio doveva essere rimosso dalla carica. In base a tale decreto il console gli impedì l'accesso al senato e, mentre tentava di pronunciare un discorso, lo fece scendere dalla tribuna degli oratori. Celio, turbato dalla vergogna e dal dolore, pubblicamente finse di andare da Cesare; di nascosto mandò messi a Milone, che, ucciso Clodio, era stato esiliato per tale crimine, e lo richiamò in Italia, poiché egli, che aveva dato grandi spettacoli, possedeva ancora un certo numero di gladiatori; Milone, unitosi a lui, fu mandato a Turi per sollevare i pastori. Egli era giunto a Casilino quando le sue insegne militari e le sue armi furono prese a Capua e fu scoperta a Napoli la schiera di gladiatori che tramava per la resa della città; conosciuti i suoi piani, fu bandito da Capua. Temendo il pericolo, poiché la città aveva preso le armi e lo considerava un nemico pubblico, abbandonò il suo piano e mutò cammino.
22 Frattanto Milone, diramata ai vari municipi una lettera con la quale comunicava di agire in ossequio al comando e al volere di Pompeo, trasmessigli da Vibullio, istigava coloro che pensava essere oppressi dai debiti. Ma, non potendo con essi ottenere risultati, aprì alcuni ergastoli e iniziò l'attacco di Compsa nell'agro Irpino. Qui, con una legione dal pretore Q. Pedio ..., fu colpito da una pietra scagliata dalle mura e morì. E Celio, partito, come andava dicendo, alla volta di Cesare, giunse a Turi. Qui, mentre sobillava alcuni abitanti di quel municipio e prometteva denaro a cavalieri di Cesare, galli e spagnoli, mandati là di guarnigione, venne ucciso da costoro. E così la fase iniziale di avvenimenti importanti, che tenevano in ansia l'Italia perché i governanti erano occupati in altre faccende e le circostanze suscitavano preoccupazione, ebbe una fine rapida e facile.
23 Libone, partito da Orico alla testa di una flotta di cinquanta navi, giunse a Brindisi e occupò l'isola che si trova di fronte al porto, poiché riteneva preferibile difendere con sorveglianza stretta un solo luogo, per dove era necessario che i nostri passassero, piuttosto che tutti i lidi e i porti. Costui, arrivato all'improvviso, si imbatté in alcune navi da carico che incendiò; ne portò con sé una carica di frumento e cagionò ai nostri grande paura; sbarcati di notte fanti e sagittari, scacciò il presidio di cavalieri e approfittò del favore della posizione a tal punto da mandare una lettera a Pompeo, dicendo che, se voleva, desse l'ordine di tirare in secco le navi per le riparazioni: egli con le sue navi era in grado di impedire che Cesare ricevesse aiuti.
24 In quel tempo Antonio si trovava a Brindisi; confidando nel valore dei soldati protesse con graticci e parapetti circa sessanta scialuppe delle navi grandi; vi imbarcò soldati scelti e le dispose in parecchi luoghi separatamente lungo il litoraneo; ordinò alle due triremi, che aveva fatto costruire a Brindisi, di portarsi verso l'imboccatura del porto col pretesto di esercitare i rematori. Quando Libone vide che esse erano avanzate con troppa audacia, sperando di poterle sorprendere mandò contro di esse cinque quadriremi. Quando queste erano vicine alle nostre navi, i nostri veterani si rifugiavano nel porto, quelli, eccitati dal loro ardore, con troppa imprudenza le inseguivano. Così, a un segnale convenuto, all'improvviso da ogni parte le scialuppe di Antonio si lanciarono contro i nemici e, al primo assalto, si impadronirono di una di queste quadriremi con i rematori e i difensori e costrinsero le altre a fuggire vergognosamente. A questo insuccesso si aggiunse il fatto che i cavalieri disposti da Antonio lungo la costa impedivano ai nemici l'approvvigionamento di acqua. Libone, indotto da questa necessità e dall'onta, si allontanò da Brindisi e tolse l'assedio ai nostri.
25 Erano già passati molti mesi e l'inverno era quasi finito e da Brindisi non giungevano a Cesare né navi né legioni. E a Cesare sembrava che si fossero perdute alcune occasioni propizie, dal momento che più di una volta erano soffiati venti favorevoli ai quali pensava che avrebbero dovuto senz'altro affidarsi. E quanto più il tempo passava, tanto più i comandanti della flotta nemica stavano vigili a sorvegliare e avevano maggiore speranza di tenere lontano i nostri. E con frequenti lettere di Pompeo venivano rimproverati, poiché non avevano saputo impedire in un primo momento l'arrivo di Cesare; ed erano pertanto ora incitati a ostacolare il resto dell'esercito; e così ogni giorno li aspettava una situazione più difficile per la navigazione a causa di venti sempre più deboli. Cesare turbato da questa situazione scrisse con tono alquanto duro ai suoi a Brindisi che, colto un vento propizio, non si lasciassero sfuggire l'opportunità di prendere il mare, per vedere se potevano dirigere la rotta verso il lido di Apollonia e condurre colà le navi. Questi luoghi erano completamente privi di sorveglianza, perché le navi nemiche non osavano allontanarsi troppo dai porti.
26 I Cesariani danno prova di audacia e coraggio e, sotto il comando di Marco Antonio e Fufio Caleno, per incitamento degli stessi soldati che non si tiravano indietro di fronte a nessun pericolo per la salvezza di Cesare, approfittando del vento australe, salpano e il giorno dopo passano davanti ad Apollonia e Durazzo. Avvistatili dalla terraferma, Coponio, che a Durazzo comandava la flotta di Rodi, fa uscire dal porto le navi e, quando già si era avvicinato alle nostre navi favorito da un vento piuttosto debole, l'Austro cominciò a soffiare in modo violento e fu di aiuto ai nostri. Egli, invero, non demordeva per questo dal suo tentativo, ma con lo sforzo e la fatica dei marinai sperava di potere vincere la violenza della burrasca e di inseguire non di meno i nostri che pure avevano oltrepassato Durazzo grazie alla grande forza del vento. I nostri, pur favoriti dalla Fortuna, tuttavia temevano l'attacco della flotta nemica nel caso che il vento si fosse calmato. Trovandosi di fronte il porto, chiamato Ninfeo, a tre miglia da Lisso, vi fecero entrare le navi (questo porto era protetto dall'Africo, ma non riparato dall'Austro), giudicando il pericolo della tempesta minore di quello della flotta avversaria. Non appena furono entrati, per un incredibile colpo di fortuna, l'Austro che aveva soffiato per due giorni si mutò in Africo.
27 Fu possibile allora vedere un improvviso capovolgimento della Fortuna. Coloro che poco prima avevano temuto per la propria salvezza, erano accolti in un porto sicurissimo; quelli che avevano messo in pericolo le nostre navi erano costretti a temere per la propria salvezza. E così, mutata la situazione, la tempesta protesse i nostri e si abbatté contro le navi rodie: tutte e sedici le navi coperte, dalla prima all'ultima, vengono distrutte e affondate e del gran numero di rematori e combattenti una parte, sbattuta contro gli scogli, rimane uccisa, una parte viene tratta in salvo dai nostri. Cesare a tutti risparmiò la vita e li mandò a casa.
28 Due nostre navi, che avevano navigato più lentamente, sorprese dalla notte, non sapendo quale rotta avessero preso le altre, gettarono le ancore di fronte a Lisso. Otacilio Crasso, comandante del presidio di Lisso, si apprestava ad assalirle con battelli e parecchie imbarcazioni di piccola stazza; contemporaneamente iniziava trattative per la resa e prometteva salvezza a chi si arrendeva. Una delle due navi aveva imbarcato duecentoventi uomini di una legione di reclute, l'altra poco meno di duecento di una legione di veterani. Questi uomini fecero comprendere quanto può aiutare la forza d'animo. Infatti le reclute, atterrite dalla moltitudine delle navi e sfinite dal rollio e dal mal di mare, sentiti i nemici giurare che non avrebbero recato loro alcun danno, si arresero a Otacilio; tutti costoro, condotti dinanzi a lui, a dispetto del vincolo del giuramento, vengono crudelmente uccisi in sua presenza. Ma i soldati della legione veterana, parimenti tormentati dalla violenza della tempesta e dalla puzza della sentina, giudicarono di non dovere affatto desistere dal valore di un tempo, e, fatta trascorrere la prima parte della notte discutendo le condizioni di una ipotetica resa, costringono il comandante a fare approdare la nave. Trovato un luogo adatto, passarono qui il resto della notte e all'alba, quando Otacilio mandò loro contro i cavalieri che sorvegliavano quella parte di spiaggia, circa quattrocento, e gli armati che li seguivano dal presidio di Lissa, si difesero e, dopo averne uccisi alcuni, incolumi fecero ritorno dai nostri.
29 In seguito a questi avvenimenti, la colonia di cittadini romani che occupava Lisso, città un tempo data loro e fatta fortificare da Cesare, accolse Antonio e lo aiutò in ogni modo. Otacilio, temendo per sé, fugge dalla città e si ricongiunge con Pompeo. Antonio, sbarcate tutte le truppe, il cui effettivo totale era di tre legioni di veterani, una di reclute e di ottocento cavalieri, rimanda in Italia la maggior parte delle navi per il trasporto degli altri cavalieri e soldati; lascia a Lisso le navi grosse, di tipo gallico, con il piano che, se per caso Pompeo, ritenendo l'Italia priva di difesa, vi avesse trasportato l'esercito (e questa era la voce corrente), Cesare avrebbe avuto una possibilità di inseguirlo. In gran fretta manda messaggeri a Cesare per comunicargli in quali regioni aveva fatto sbarcare l'esercito e quanti soldati aveva trasportato.
30 Cesare e Pompeo, quasi nel medesimo tempo, vengono a sapere queste notizie. Infatti avevano visto passare le navi oltre Apollonia e Durazzo [avevano fatto rotta in quella direzione], ma i primi giorni non sapevano dove erano andate. Informati della cosa, i due prendono decisioni opposte: Cesare di congiungersi al più presto con Antonio, Pompeo di opporsi, durante la marcia, ai nemici che sopraggiungevano e assalirli, possibilmente sorprendendoli con agguati. Nel medesimo giorno entrambi conducono gli eserciti fuori dagli accampamenti invernali stanziati presso il fiume Apso; Pompeo di nascosto e di notte; Cesare alla luce del giorno, davanti agli occhi di tutti. Ma Cesare doveva percorrere un cammino più lungo e fare un ampio giro, rimontando il fiume per poterlo attraversare a guado; Pompeo, procedendo speditamente poiché non doveva attraversare il fiume, a marce forzate si dirige contro Antonio. Quando Pompeo si rese conto di essere vicino, scelto un luogo adatto, vi fermò le milizie, trattenne tutti i suoi soldati nel campo e impedì di accendere fuochi per celare meglio il suo arrivo. La cosa viene subito riferita dai Greci ad Antonio. Egli, mandati ambasciatori a Cesare, si trattenne per un giorno solo nel campo; il giorno seguente Cesare giunse presso di lui. Pompeo, venuto a conoscenza del suo arrivo, per non essere circondato da due eserciti, si allontana da quella posizione e con tutte le milizie giunge ad Asparagio di Durazzo e qui pone il campo in un luogo adatto.
31 In quel tempo Scipione, nonostante qualche perdita subìta presso il monte Amano, si era proclamato comandante supremo. Fatto ciò aveva imposto il pagamento di forti somme alle città e ai sovrani, aveva parimenti preteso dagli appaltatori della sua provincia il pagamento delle tasse arretrate di due anni; dai medesimi si era fatto anticipare, come prestito, la somma delle imposte dell'anno successivo e aveva ordinato a tutta la provincia un arruolamento di cavalieri. Ottenuto ciò, lasciandosi alle spalle, alla frontiera, quei nemici, i Parti, che poco prima avevano ucciso il generale Marco Crasso e assediato M. Bibulo, porta via dalla Siria le legioni e i cavalieri. Ma la provincia della Siria era profondamente preoccupata e timorosa di una guerra con i Parti e si sentiva dire dai soldati che essi erano pronti, se fossero stati guidati ad assalire il nemico, ma non avrebbero preso le armi contro un concittadino e un console. Pertanto egli condusse le legioni nei quartieri invernali a Pergamo e nelle città più ricche; fece grandissime elargizioni e, per assicurarsi il favore dei soldati, permise loro di saccheggiare le città.
32 Frattanto in tutta la provincia si esigeva con grande severità il versamento dei contributi imposti. Inoltre, per desiderio di denaro, venivano escogitate molte nuove imposte, secondo le classi dei cittadini; sulle singole persone, schiavi o liberi, veniva imposto un tributo; veniva richiesta un'imposta sulle colonne, sulle porte, sul frumento, sui soldati, sulle armi, sui rematori, sulle macchine da guerra, sui trasporti; purché si potesse trovare il nome di una cosa, questo sembrava essere motivo sufficiente per esigere denaro. Non solo alle città, ma quasi a ogni borgata e singolo villaggio venivano preposti capi con comando militare. E chi di questi aveva agito con maggiore durezza e crudeltà veniva giudicato il migliore degli uomini e dei cittadini. La provincia era piena di littori e di autorità, zeppa di esattori e di prefetti che, oltre che alle tasse imposte, pensavano anche al proprio guadagno personale; infatti andavano dicendo che, espulsi dalla patria e dalla casa, mancavano di ogni cosa necessaria, per coprire con una etichetta d'onestà un comportamento vergognosissimo. A ciò si aggiungevano i pesantissimi interessi, come per lo più suole accadere in tempo di guerra, quando a tutti vengono imposti tributi; e in queste circostanze dicevano essere una donazione il differimento del pagamento di un sol giorno. E così il debito della provincia in quel biennio si moltiplicò. E per questo motivo non solo ai cittadini romani di quella provincia, ma anche alle singole comunità e alle singole cittadinanze venivano imposti determinati tributi e andavano dicendo che quelle somme venivano richieste in prestito in base a un decreto del senato; agli appaltatori delle imposte pubbliche, poiché avevano racimolato dei capitali, venivano richiesti in prestito i tributi dell'anno successivo.
33 Inoltre Scipione aveva ordinato di portare via dal tempio di Diana a Efeso il denaro che era stato depositato in passato. E nel giorno stabilito per questa operazione si era giunti nel tempio con parecchi senatori che Scipione aveva convocato presso di sé, quando viene recapitata a Scipione una lettera da parte di Pompeo che annunciava che Cesare aveva passato il mare con le legioni, invitandolo ad affrettarsi a giungere da lui con l'esercito e a rimandare ogni altro impegno. Ricevuta questa lettera, Scipione congeda i senatori convocati; egli stesso comincia a preparare il viaggio per la Macedonia e dopo pochi giorni partì. Questa circostanza salvò il denaro di Efeso.
34 Cesare, unitosi all'esercito di Antonio, dopo avere ritirato da Orico la legione che qui aveva posto per difendere la costa, giudicava di dovere mettere alla prova le province e avanzare oltre; ed essendo a lui giunti dalla Tessaglia e dall'Etolia ambasciatori a promettere che, se fosse stato mandato un presidio, le cittadinanze di quei popoli avrebbero eseguito gli ordini, mandò in Tessaglia L. Cassio Longino con la legione di reclute chiamata la ventisettesima e con duecento cavalieri e in Etolia C. Calvisio Sabino con cinque coorti e pochi cavalieri; li esortò, in modo particolare, a provvedere all'approvvigionamento, poiché quelle regioni erano vicine. Ordinò a Cn. Domizio Calvino di partire per la Macedonia con due legioni, la undicesima e la dodicesima, e con cinquecento cavalieri; Menedemo, mandato come ambasciatore dalla zona di quella provincia, che era chiamata libera, e che di quelle regioni era il capo, assicurava uno straordinario favore di tutti i suoi verso Cesare.
35 Fra questi Calvisio, accolto al suo arrivo col massimo consenso di tutti gli Etoli, respinti i presidi nemici da Calidone e da Naupatto, si impadronì di tutta l'Etolia. Cassio giunse in Tessaglia con una legione. Qui, poiché vi erano due fazioni, trovava differenti disposizioni d'animo fra i cittadini: Egesareto, uomo di antica potenza, era favorevole a Pompeo; Petreo, giovane di grande nobiltà, aiutava Cesare con tutte le sue forze e con i mezzi suoi e della sua fazione.
36 Nel medesimo tempo Domizio giunse in Macedonia; e quando già cominciavano a venire da lui numerose legazioni delle città, fu annunciato, con grande risonanza e clamore generale, che Scipione era vicino con le legioni e che presso tutti aveva suscitato grande fama e stima; infatti, per lo più, di fronte a una situazione nuova il clamore supera la realtà. Costui, senza fermarsi in nessun luogo della Macedonia, con grande impeto marciò verso Domizio e, quando distò da lui ventimila passi, all'improvviso si diresse in Tessaglia contro Cassio Longino. E fece ciò così celermente che la notizia del suo avvicinamento e quella del suo arrivo furono contemporanee. E, per marciare più velocemente, lasciò presso il fiume Aliacmone, che divide la Macedonia dalla Tessaglia, M. Favonio con otto coorti di scorta agli impedimenti delle legioni e ordinò di costruire qui un campo fortificato. Nel medesimo tempo la cavalleria del re Coto, che di solito si trovava presso i confini della Tessaglia, si diresse al volo verso il campo di Cassio. Allora questi, sconvolto dalla paura, venuto a conoscenza dell'arrivo di Scipione e visti i cavalieri che pensava fossero suoi, si diresse sui monti che circondano la Tessaglia e di qui cominciò a marciare verso Ambracia. Ma Scipione, mentre si affrettava a inseguirlo, ricevette una lettera da parte di M. Favonio che gli annunciava che Domizio era vicino con le legioni e di non potere, senza l'aiuto di Scipione, mantenere il presidio affidatogli. Ricevuta questa lettera, Scipione muta piano e direzione; cessa di inseguire Cassio, si affretta a portare aiuto a Favonio. E così, con marcia forzata di giorno e di notte, lo raggiunse proprio al momento giusto per potere contemporaneamente scorgere la polvere dell'esercito di Domizio e vedere le prime avanguardie di Scipione. Così la scaltrezza di Domizio salvò Cassio, la velocità di Scipione Favonio.
37 Scipione, fermatosi due giorni nell'accampamento stabile presso il fiume Aliacmone che scorreva fra il suo campo e quello di Domizio, il terzo giorno all'alba fa guadare il fiume all'esercito e, posto il campo, il mattino del giorno dopo dispone dinanzi ad esso le milizie a battaglia. Domizio allora ritenne di non dovere esitare a fare uscire le legioni e attaccare battaglia. Ma dal momento che la pianura fra i due campi era di circa tremila passi, Domizio fece avanzare il proprio schieramento fin sotto il campo di Scipione, mentre quest'ultimo continuava a non allontanarsi dal vallo. Ma, quantunque i soldati di Domizio fossero a stento tenuti a freno, accadde che non si attaccasse battaglia, massimamente perché un ruscello dalle rive scoscese, posto sotto il campo di Scipione, impediva l'avanzare dei nostri. Scipione, quando vide il loro ardente desiderio di combattere, all'idea che il giorno dopo o sarebbe stato costretto, suo malgrado, al combattimento o sarebbe rimasto nel suo campo con grande infamia, egli, che aveva suscitato tanta attesa col suo arrivo, dopo la sua avanzata temeraria si ritirò ignominiosamente e di notte, senza neppur dare il segnale di togliere il campo, attraversò il fiume e ritornò là donde era venuto e ivi, vicino al fiume, pose il campo su di un luogo elevato. Pochi giorni dopo, di notte con la cavalleria preparò un agguato ai nostri, nel posto in cui quasi sempre, nei giorni precedenti, erano soliti foraggiare; e quando, secondo l'abitudine di ogni giorno, giunse Q. Varo, prefetto della cavalleria di Domizio, quelli all'improvviso balzarono fuori dai loro appostamenti. Ma i nostri con coraggio sostennero il loro attacco e in breve tempo ciascuno rientrò nei propri ranghi e tutti insieme a loro volta contrattaccarono i nemici. Fra i quali circa ottanta furono uccisi, gli altri furono messi in fuga; i nostri, perduti due uomini, tornarono al campo.
38 Dopo questo fatto Domizio, sperando di potere indurre Scipione a combattere, finse di essere costretto a togliere il campo per scarsezza di cibo e dato l'ordine secondo il costume militare, allontanatosi tremila passi, fece fermare tutto l'esercito e la cavalleria in un luogo adatto e nascosto. Scipione, che si era preparato a inseguirlo, mandò avanti in esplorazione gran parte della cavalleria, per conoscere il percorso di Domizio. Dopo che questi erano avanzati e i primi squadroni erano caduti nell'agguato, gli altri, insospettiti dal nitrito dei cavalli, ripiegarono e quelli che li seguivano, vista la loro veloce ritirata, si fermarono. I nostri, scoperto l'agguato [dei nemici], tanto per non aspettare invano gli altri, imbattutisi in due squadroni nemici, li fecero prigionieri. Fuggì soltanto M. Opimio, prefetto della cavalleria. Tutti gli altri furono o uccisi o condotti prigionieri da Domizio.
39 Cesare, dopo avere ritirato i presidi dalla costa, come si è detto sopra, lasciò a Orico tre coorti per difendere la città e ad esse assegnò la difesa delle navi da guerra che aveva condotto dall'Italia. Il luogotenente Canino era preposto a questo incarico e alla città. Costui fece portare le nostre navi in una zona più interna del porto, dietro la città, e le fece ormeggiare a terra e all'ingresso del porto fece collocare una nave da carico che era stata affondata e a questa ne unì una seconda, sul davanti della quale fece costruire una torre rivolta all'ingresso del porto e la riempì di soldati, affidando loro la difesa contro attacchi improvvisi.
40 Venuto a conoscenza di ciò, Cn. Pompeo figlio, che era a capo della flotta egiziana, venne a Orico e, presa a rimorchio la nave sommersa, adoperandosi con molte funi riuscì a trascinarla via. L'altra nave, collocata a difesa da Acilio, egli la assalì con molte navi sulle quali aveva fatto erigere delle torri di pari altezza sia per combattere da una posizione più elevata, sostituendo in continuazione soldati freschi a quelli sfiancati, sia per tentare contemporaneamente l'assalto delle mura della città da varie parti, da terra con le scale e dalle navi, in modo da dividere le forze nemiche. A prezzo di sforzi e con una grande quantità di proiettili sconfisse i nostri e, respinti i difensori che si rifugiarono sui battelli e fuggirono, catturò quella nave. Nel medesimo tempo si impossessò, dall'altra parte, della diga naturale posta di fronte alla città che fa di essa una penisola; portò in una parte più interna del porto quattro triremi spinte a forza di leve, dopo avervi messo sotto dei rulli. E così assalite da entrambe le parti le navi da guerra che erano ormeggiate a terra e senza difesa, ne condusse via quattro e incendiò le rimanenti. Portata a compimento questa impresa, lasciò D. Lelio, trasferito dalla flotta asiatica, per impedire che giungessero approvvigionamenti in città da Billide e Amanzia. Egli stesso, recatosi a Lisso, assalì trenta navi da carico lasciate dentro il porto da M. Antonio e le incendiò tutte. Dopo avere tentato di espugnare Lisso, che era difesa da cittadini romani che appartenevano a quella colonia, e da soldati mandati da Cesare a presidiarla, rimasto là tre giorni, perduti pochi soldati nell'assedio, se ne partì senza portare a compimento l'impresa.
41 Cesare, venuto a sapere che Pompeo era ad Asparagio, si diresse qui con l'esercito, ed espugnata lungo il percorso la città dei Partini, dove Pompeo aveva un presidio, il terzo giorno raggiunse Pompeo [in Macedonia] e pose il campo vicino a lui e il giorno dopo, condotte fuori tutte le truppe e schieratele in ordine di battaglia, offrì a Pompeo l'occasione di combattere. Quando comprese che egli se ne stava sulle sue posizioni, ricondotto l'esercito nell'accampamento, pensò di dovere seguire un altro piano. E così il giorno dopo partì alla volta di Durazzo con tutte le milizie, facendo un grande giro lungo un percorso difficile e angusto, con la speranza di potere o ricacciare Pompeo in Durazzo o tagliarlo fuori da quella città, dove egli aveva trasportato tutte le vettovaglie e il materiale necessario per tutta la guerra. E così accadde. Pompeo infatti in un primo momento, ignorando il piano di Cesare e vedendo che era partito in direzione opposta a quella della città, pensava che se ne fosse andato via per mancanza di cibo; informato in seguito da esploratori, il giorno dopo levò il campo con la speranza di andargli incontro per una via più breve. Cesare, sospettando che sarebbe accaduto ciò, esortò i soldati a sopportare di buon animo la fatica e, sospesa la marcia solo per un breve periodo della notte, al mattino giunse a Durazzo, proprio mentre si vedeva da lontano l'avanguardia di Pompeo, e qui pose il campo.
42 Pompeo, tagliato fuori da Durazzo, quando vede fallito il suo primo piano, ne utilizza un secondo e, in una zona elevata, detta Petra, che offre un piccolo accesso alle navi e le protegge da alcuni venti, fortifica il campo in una posizione elevata. Dà ordine che colà si riunisca parte delle navi da guerra e sia portato frumento e vettovaglie dall'Asia e da tutte le regioni in suo potere. Cesare, pensando che la guerra si sarebbe trascinata troppo alle lunghe e disperando di avere rifornimenti dall'Italia, poiché tutte le coste erano sorvegliate con grande diligenza dai Pompeiani e tardavano ad arrivare le sue navi fatte costruire durante l'inverno in Sicilia, in Gallia e in Italia, inviò in Epiro per l'approvvigionamento i luogotenenti Q. Tillio e L. Canuleio e, poiché queste regioni erano troppo lontane, stabilì di creare granai in determinati posti e divise fra le città vicine il compito di trasportare il frumento. Parimenti ordinò di requisire il frumento che si trovava a Lisso e fra i Partini e in tutti i villaggi. Era pochissimo sia per la natura del terreno stesso, poiché i luoghi sono aspri e montuosi e per lo più si usava frumento importato, sia perché Pompeo aveva previsto ciò e nei giorni precedenti aveva depredato i Partini e aveva fatto trasportare a Petra dai cavalieri tutto il frumento raccolto dopo avere depredato e spogliato le case dei Partini.
43 Venuto a conoscenza di ciò, Cesare studia un piano tenendo conto della natura del luogo. Circondavano infatti il campo di Pompeo moltissime colline elevate e scoscese. In un primo momento le occupò con dei presidi e vi fece costruire dei fortilizi. Poi, come richiedeva la conformazione di ciascun luogo, fatte condurre linee fortificate da un fortilizio all'altro, iniziò a circondare Pompeo con un vallo, mirando a questi fini: poiché il vettovagliamento scarseggiava e Pompeo aveva a disposizione molti cavalieri, rifornire da ogni parte, con minore pericolo, frumento e vettovaglie all'esercito, impedire contemporaneamente il foraggiamento a Pompeo e rendere la sua cavalleria impossibilitata ad agire, in terzo luogo sminuire il prestigio di cui Pompeo sembrava godere sopra tutto presso le popolazioni straniere, poiché si sarebbe diffusa in tutto il mondo la notizia che Pompeo era assediato da Cesare e non osava venire a battaglia.
44 Pompeo non voleva allontanarsi né dal mare né da Durazzo, dove aveva concentrato tutto il materiale da guerra, i proiettili, le armi, le macchine e dove faceva portare con le navi il frumento per l'esercito, né poteva d'altra parte impedire le opere di fortificazione di Cesare, a meno di non volere venire a battaglia: cosa che aveva stabilito per il momento di non dovere fare. Non rimaneva che ricorrere all'estrema risorsa della guerra: occupare il maggior numero di colline, tenere presidi su una zona il più possibile vasta e frazionare, quanto più poteva, le truppe di Cesare; e così accadde. Infatti vennero costruiti ventiquattro fortilizi, che abbracciavano una zona di quindici miglia, entro cui si effettuava il foraggiamento e che comprendeva molti luoghi coltivati, che potevano servire al momento per pascolare il bestiame. E come i nostri avevano costruito da un fortilizio all'altro fortificazioni ininterrotte, affinché in nessun posto i Pompeiani facessero irruzione assalendoli alle spalle, così quelli, nel loro spazio interno, costruivano linee fortificate ininterrotte perché i nostri non potessero in nessun posto penetrare e attaccarli alle spalle. Ma i Pompeiani erano più veloci nei lavori, poiché erano superiori per numero di soldati e, essendo all'interno, avevano un perimetro minore da fortificare. E quando Cesare doveva prendere una di quelle posizioni, Pompeo, sebbene avesse deciso di non impiegare nel contrasto tutte le sue forze e di non attaccare battaglia, tuttavia mandava in posizioni strategiche arcieri e frombolieri, di cui aveva un gran numero. E molti dei nostri rimanevano feriti e s'era diffusa una grande paura delle frecce e quasi tutti i soldati si erano confezionate tuniche o coperture con imbottiture, coperte e pelli per evitare i dardi.
45 Entrambi si impegnavano con grande sforzo per occupare buone posizioni: Cesare per stringere Pompeo in uno spazio il più possibile ristretto, Pompeo per impossessarsi del maggior numero di colline in un perimetro il più ampio possibile; e per questo motivo le scaramucce si facevano frequenti. In una di queste, una volta, avendo la nona legione di Cesare occupato una certa posizione, di cui aveva iniziata la fortificazione, Pompeo, che si era impadronito di un colle vicino che fronteggiava questo luogo, cominciò a impedire ai nostri il lavoro. E, dal momento che aveva da una parte un accesso quasi pianeggiante, dapprima dispose intorno arcieri e frombolieri, poi inviò una grande moltitudine di soldati armati alla leggera e fece avanzare le macchine da guerra, ostacolando i nostri lavori; non era infatti facile per i nostri contemporaneamente difendersi e lavorare. Cesare, vedendo che i suoi uomini venivano da ogni parte colpiti, ordinò la ritirata e l'allontanamento dalla zona. La ritirata si faceva per un pendio. Così i Pompeiani incalzavano con più accanimento e non permettevano ai nostri la ritirata, poiché a loro sembrava che i nostri lasciassero la posizione mossi da paura. Si dice che in quell'occasione Pompeo, pavoneggiandosi con i suoi, affermasse che accettava di essere giudicato comandante di nessun valore, se le legioni di Cesare fossero riuscite, senza ricevere un grandissimo danno, a ritirarsi da dove s'erano temerariamente spinte.
46 Cesare, temendo per la ritirata dei suoi, ordinò di portare graticci verso l'estremità della collina di fronte al nemico, collocandoli a sbarramento e, protetti così i soldati, al di qua dei graticci fece scavare un fossato di media larghezza e rendere ovunque il terreno quanto più possibile impraticabile. Egli stesso collocò in luoghi adatti dei frombolieri che fossero di aiuto ai nostri nella ritirata. Compiute queste operazioni ordinò alla legione di ritirarsi. I Pompeiani, quindi, con maggiore insolenza e audacia incominciarono a premere e incalzare i nostri e, per superare i fossati, abbatterono i graticci collocati a difesa. Cesare, accortosi di ciò, temendo che sembrasse non una ritirata, ma una fuga e che ne derivasse un danno maggiore, quasi a metà del percorso, fatti esortare i suoi da Antonio, che era a capo della legione, ordinò di dare con la tromba il segnale di combattimento e di attaccare i nemici. I soldati della nona legione, ritrovata d'un tratto l'intesa, scagliarono dardi e, con una corsa veloce risalito il pendio dalla posizione più bassa, respinsero a precipizio i Pompeiani costringendoli alla fuga. Ma i graticci rovesciati, i pali nascosti e le fosse scavate furono di grande impedimento alla loro ritirata. I nostri invero, ai quali bastava ripiegare senza danno, dopo avere ucciso molti nemici e perduti soltanto cinque uomini, si ritirarono in tutta tranquillità e, occupate altre colline un poco al di qua di quel luogo, condussero a compimento i lavori di fortificazione.
47 Era un modo di combattere nuovo e fuori dal comune sia per il grande numero di fortilizi, per la vastità dell'area, per le imponenti fortificazioni, per le complesse tecniche di assedio, sia per altri motivi. Infatti chiunque tenta un assedio, serra il nemico incalzandolo dopo che esso è stato fiaccato o indebolito o superato in battaglia o provato da qualche insuccesso, forte della sua superiorità nel numero di soldati e cavalieri; scopo poi dell'assedio di solito è questo: impedire il vettovagliamento ai nemici. Ma in quel frangente Cesare, con un numero inferiore di soldati, serrava un esercito integro, in buona salute e che aveva abbondanza di tutto; infatti ogni giorno una gran numero di navi giungeva da ogni parte a portare provviste e non poteva soffiare alcun vento che non fosse favorevole almeno a una parte delle navi. Cesare invece, consumata tutta la scorta di frumento raccolta in lungo e in largo nella zona, si trovava in grandissime difficoltà. Ciò nonostante i soldati sopportavano questa situazione con straordinaria resistenza. Ricordavano infatti che nell'anno precedente in Spagna con gli stessi patimenti, e con la loro fatica e resistenza, avevano portato a termine una guerra durissima; non dimenticavano di avere sofferto una grande carestia presso Alesia, una ancora più grande presso Avarico e di essere risultati vincitori di popoli fortissimi. Ed essi non rifiutavano l'orzo e i legumi, quando venivano loro distribuiti, ma gradivano molto il bestiame, proveniente dall'Epiro, dove ve ne è in grande abbondanza.
48 Gli uomini che facevano parte delle truppe ausiliarie trovarono anche un tipo di radice, detta "cara", che, unita al latte, alleviava molto la mancanza di cibo. Ne facevano una specie di pane. Ve ne era in grande quantità. Pani fatti con questa radice, quando i Pompeiani rivolgevano loro parole di scherno rinfacciando ai nostri la fame, venivano scagliati da ogni parte contro di loro per frustrare la loro speranza.
49 E ormai il frumento incominciava a maturare e la speranza stessa aiutava a sopportare la carestia, poiché i nostri confidavano di avere entro breve tempo abbondanza di cibo; e durante le veglie e nei dialoghi si sentiva dire spesso dai soldati che, piuttosto che lasciarsi sfuggire di mano Pompeo, avrebbero mangiato la corteccia degli alberi. Con piacere venivano anche a sapere dai disertori che i cavalli dei nemici venivano tenuti in vita, ma che il restante bestiame era tutto morto e che i nemici stessi non erano più in buona salute, tormentati come erano dalla mancanza di spazio, dal puzzo nauseabondo proveniente da una moltitudine di cadaveri, dalle fatiche quotidiane, loro che non erano avvezzi a lavorare, e dall'assoluta mancanza di acqua. Infatti tutti i fiumi e i ruscelli che si dirigevano al mare Cesare o li aveva fatti deviare o li aveva sbarrati con grandi lavori ed essendo le valli, a causa delle asperità dei luoghi, strette e di difficile transito, egli le aveva sbarrate, piantando per terra dei pali e ammassando contro di essi della terra per trattenere l'acqua. E così i nemici erano per necessità costretti a cercare luoghi bassi e paludosi ove scavare dei pozzi e questa fatica si aggiungeva ai lavori quotidiani. Ma quelle sorgenti si trovavano troppo lontane da alcuni presidi e, inoltre, per il caldo velocemente si prosciugavano. Al contrario l'esercito di Cesare godeva ottima salute, aveva acqua in grande abbondanza e vettovaglie di ogni genere, ad eccezione del frumento, in grande quantità. Stando così le cose, vedevano ogni giorno la situazione migliorare e, col maturare del grano, aumentare la speranza.
50 In questo nuovo tipo di guerra nuovi metodi di combattimento venivano escogitati da entrambe le parti. I nemici, poiché avevano capito dai fuochi notturni che le nostre coorti bivaccavano presso le fortificazioni, si avvicinavano in silenzio e lanciavano una pioggia di frecce sulla moltitudine, ritirandosi subito presso i loro. In seguito a queste vicende in nostri, resi accorti dall'esperienza, ricorrevano a questo rimedio, accendere altrove i fuochi ...
51 Frattanto P. Silla, che Cesare alla sua partenza aveva messo a capo del campo, informato dei fatti venne in aiuto alla coorte con due legioni; al suo arrivo i Pompeiani furono respinti con facilità. E infatti non ressero alla vista e all'impeto dei nostri e, mentre le prime file furono sbaragliate, gli altri volsero le spalle e abbandonarono la posizione. Ma Silla chiamò indietro i nostri che si erano dati all'inseguimento perché non andassero troppo avanti. Ma i più ritengono che la guerra avrebbe potuto finire proprio in quel giorno, se egli avesse voluto inseguire con più tenacia. Ma la sua decisione non sembra da biasimare, infatti diversi sono i compiti del luogotenente e del comandante supremo: il primo deve agire in tutto e per tutto secondo gli ordini, il secondo deve liberamente decidere in base alla situazione generale. Silla, che era stato lasciato da Cesare nell'accampamento, una volta liberati i suoi, fu contento e non volle venire alle armi, anche se vi era la possibilità di un felice esito dell'azione, e fece ciò per non dare l'impressione di avere assunto le funzioni del comandante supremo. Una circostanza rendeva ai Pompeiani molto difficile la ritirata. Infatti, partiti da una posizione più bassa, si erano fermati sulla cima di un colle: se si fossero ritirati per il pendio, temevano l'inseguimento dei nostri da una posizione più elevata; inoltre non mancava molto al tramonto perché, nella speranza di concludere l'azione, avevano protratto il combattimento quasi fino alla notte. Pertanto Pompeo, decidendo in base alla necessità del momento, occupò una collinetta abbastanza distante dal nostro fortilizio tanto da non potere essere a tiro dei proiettili scagliati dalle macchine da guerra; vi si fermò, fortificò la posizione e vi riunì tutte le milizie.
52 Nel medesimo tempo, inoltre, si combatté in due luoghi. Infatti Pompeo aveva assalito più fortilizi contemporaneamente per dividere le forze in modo da impedire l'invio di soccorsi dai presidi vicini. Nel primo di questi luoghi Volcacio Tullo con tre coorti sostenne l'impeto di una legione e la respinse; nel secondo i Germani, usciti dalle nostre fortificazioni, uccisero parecchi nemici e ritornarono sani e salvi dai loro.
53 E così in un solo giorno furono combattute sei battaglie, tre presso Durazzo, tre presso le fortificazioni; fatto il bilancio di tutti questi combattimenti, ci risultava che le perdite pompeiane erano di circa duemila uomini, fra cui veterani richiamati e parecchi centurioni, fra i quali Valerio Flacco L. figlio di colui che aveva ottenuto la pretura in Asia; furono prese sei insegne militari. Non più di venti dei nostri uomini caddero in tutte queste battaglie. Ma nel fortilizio non vi fu nessun soldato che non venisse ferito e quattro centurioni della coorte ottava persero gli occhi. Volendo, inoltre, rendere testimonianza delle fatiche e del pericolo da essi sostenuti, contarono davanti agli occhi di Cesare circa trentamila frecce lanciate contro il fortilizio, inoltre sullo scudo del centurione Sceva, presentato a Cesare, furono trovati centoventi fori. Cesare gli donò, per i suoi meriti verso di lui e verso lo stato, duecentomila denari e pubblicamente lo promosse da centurione di ottavo ordine a centurione di primo ordine (infatti era chiaro che il fortilizio era stato salvato sopra tutto per il suo contributo); poi elargì alla coorte un doppio stipendio e, con grande generosità, frumento, vestiario, cibo e decorazioni militari.
54 Pompeo, accresciute poderosamente di notte le fortificazioni, nei giorni seguenti costruì delle torri e, fatti edificare i baluardi alti quindici piedi, coprì con vinee quella parte dell'accampamento. Cinque giorni dopo, approfittando di un'altra notte nuvolosa, fece ostruire tutte le porte del campo per sbarrare il passaggio e, poco dopo mezzanotte, condusse fuori l'esercito in silenzio e si rifugiò nel campo precedente.
55 (56) Tutti i giorni successivi Cesare fece uscire nella pianura l'esercito in formazione di combattimento, caso mai Pompeo volesse venire a battaglia, e spinse le legioni fin quasi sotto il suo campo: la sua prima fila distava dalle fortificazioni del campo di Pompeo quel tanto da essere fuori dalla portata di proiettili scagliati a mano o con macchine da guerra. Pompeo, a sua volta, per non perdere la propria reputazione e credibilità presso i soldati, schierava l'esercito davanti al campo in modo che la terza fila fosse a ridosso del vallo e tutto l'esercito schierato potesse essere difeso con i proiettili lanciati dal vallo stesso.
56 (55) Una volta ricevute in sottomissione l'Etolia, l'Acarnania e l'Anfilochia, grazie, come abbiamo detto, a Cassio Longino e Calvisio Sabino, Cesare ritenne opportuno attaccare l'Acaia e procedere un poco oltre. E così mandò colà Q. Caleno insieme a Salino e Cassio con le loro coorti. Alla notizia del loro arrivo Rutilio Lupo, che era stato mandato da Pompeo a governare l'Acaia, diede ordine di fortificare l'istmo per tenere Fufio lontano dall'Acaia. Caleno ottenne la sottomissione spontanea di Delfi, Tebe e Orcomeno; prese alcune città con la forza, si adoperò, mediante l'invio di ambasciatori, per portare le altre a un accordo con Cesare. Queste attività assorbivano quasi completamente Fufio.
57 Mentre questi fatti accadevano in Acaia e presso Durazzo, si viene a sapere che Scipione era giunto in Macedonia. Cesare, non dimentico del primitivo disegno, gli invia Aulo Clodio, amico comune, che, da lui presentato e raccomandato fin da prima, era considerato uno dei suoi intimi. Gli consegna una lettera e messaggi per Scipione, che così in breve si possono riassumere: egli tutto aveva tentato per la pace, pertanto pensava che, se non si era concluso nulla, era solo per colpa di quelli che egli aveva voluto fossero gli artefici della trattativa, poiché essi avevano timore di recare i suoi messaggi a Pompeo in momento non opportuno. Ma Scipione aveva tanta autorità non solo per esporre liberamente il suo pensiero, ma anche, in larga misura, per fare pressione e correggere chi sbagliava; d'altra parte era a capo di un suo esercito e, oltre all'autorità, aveva anche le forze per fare opera di costrizione. Se avesse fatto ciò, la pace dell'Italia, la quiete delle province, la salvezza della nazione sarebbero state attribuite da tutti a lui solo. Clodio porta a Scipione questa ambasciata e, nei primi giorni viene ascoltato volentieri, almeno sembrava, nei successivi non è più ammesso al colloquio, poiché Scipione era stato rimproverato da Favonio, come poi si seppe a guerra finita; tornò quindi da Cesare senza avere portato a termine l'incarico.
58 Cesare, per immobilizzare più facilmente la cavalleria di Pompeo presso Durazzo e impedirle il foraggiamento, sbarrò con grandi opere di fortificazione i due accessi, che, come abbiamo detto, erano molto stretti e innalzò qui dei fortilizi. Pompeo, dopo alcuni giorni, quando s'accorse che la cavalleria non gli era di alcun vantaggio, la fece di nuovo rientrare con le navi presso di sé all'interno delle fortificazioni. La penuria di foraggio era grandissima, così che nutrivano i cavalli con foglie raccolte dagli alberi e tenere radici di canna pestate; infatti avevano consumato tutto il frumento che era stato seminato entro le fortificazioni. Erano costretti a fare giungere frumento da Corcira e dall'Acarnania con un lungo tragitto per mare, e, poiché la quantità era inferiore al bisogno, erano costretti ad aggiungere orzo e a nutrire i cavalli in questo modo. Ma quando vennero a mancare non solo l'orzo e il foraggio e l'erba tagliata in tutti i campi, ma anche le foglie sugli alberi e i cavalli erano consunti dalla magrezza, Pompeo giudicò di dovere fare un tentativo di sortita.
59 Vi erano presso Cesare, nella sua cavalleria, due fratelli Allobrogi, Roucillo ed Eco, figli di Adbucillo, che per molti anni era stato al comando del suo popolo, uomini di singolare valore, della cui opera, eccellente e valorosissima, Cesare si era servito in tutte le guerre galliche. A costoro in patria, per questi motivi, aveva fatto affidare cariche molto importanti e li aveva, eccezionalmente, fatti eleggere senatori; aveva dato loro in Gallia terreni sottratti ai nemici e grandi premi in denaro, facendoli, da poveri che erano, ricchi. Costoro, per il loro valore, erano non solo stimati da Cesare, ma anche considerati dall'esercito; ma, fiduciosi dell'amicizia di Cesare e trascinati da una stolta arroganza tipica dei barbari, disprezzavano i loro compagni, defraudavano la paga dei cavalieri e sottraevano tutto il bottino per mandarlo a casa. I cavalieri, irritati da questi fatti, andarono tutti insieme da Cesare e si lamentarono pubblicamente dei loro soprusi e in più aggiunsero che da quelli era stato dichiarato un falso numero di cavalieri per appropriarsi indebitamente della loro paga.
60 Cesare, giudicando che quello non era il momento per punizioni, con atto di grande condiscendenza per il loro valore, differì l'intera disputa; li rimproverò privatamente per i guadagni sui cavalieri, ricordando loro che dovevano attendersi ogni bene solo dalla sua amicizia e sperare, come per il passato, in altri suoi favori. Questa vicenda tuttavia recò loro grande offesa e il disprezzo da parte di tutti, e tale disprezzo lo coglievano sia dai rimproveri degli altri sia dal giudizio e rimorso della propria coscienza. Spinti da questa vergogna e credendo forse di non essere assolti, ma di venire risparmiati solo temporaneamente, decisero di allontanarsi da noi e tentare una nuova sorte, sperimentando nuove amicizie. E accordatisi con qualche loro cliente, che osarono mettere a parte di una simile azione delittuosa, dapprima tentarono di uccidere il prefetto di cavalleria C. Voluseno, come in seguito, a guerra finita, si venne a sapere, per potere trovare rifugio da Pompeo con qualche benemerenza; quando la cosa apparve troppo difficile e non vi era possibilità di condurla a termine, preso a prestito quanto più denaro poterono, come se volessero dare soddisfazione ai loro compagni e restituire il mal tolto, dopo avere comprato molti cavalli, passarono dalla parte di Pompeo con i complici del loro piano.
61 Poiché erano di nobile famiglia, ed erano giunti riccamente equipaggiati e con grande scorta e con molti giumenti ed erano considerati uomini valorosi ed erano stati tenuti in grande onore presso Cesare, e poiché inoltre la situazione si presentava nuova e insolita, Pompeo li ostentava conducendoli in giro per i presidi. Infatti prima di allora nessuno, né fante né cavaliere, era passato da Cesare a Pompeo, mentre quasi ogni giorno c'era chi disertava Pompeo per Cesare, addirittura in massa disertavano i soldati arruolati in Epiro e in Etolia e i soldati di tutte quelle terre in mano a Cesare. Ma i due Allobrogi, informati su tutto, sulle fortificazioni non ancora portate a termine e sui relativi punti deboli, almeno a parere degli esperti militari, avevano inoltre preso nota delle ore delle operazioni, delle distanze tra i luoghi, della diligenza con cui erano vigilati i posti di guardia, diversa secondo lo zelo o il carattere di chi era preposto alla guardia e avevano riferito tutto quanto a Pompeo.
62 Pompeo, venuto a conoscenza di queste cose e avendo deciso già in precedenza, come si è detto, di fare una sortita, ordina ai soldati di preparare con vimini coperture per gli elmi e di ammassare materiale per formare un terrapieno. Predisposto ciò, di notte fa salire su battelli e navi veloci un gran numero di soldati armati alla leggera e di arcieri e caricare tutto il materiale per il terrapieno. Intorno a mezzanotte fa uscire fuori dal campo maggiore e dai presidi sessanta coorti conducendole da quella parte delle fortificazioni rivolta verso il mare e molto lontana dall'accampamento più grande di Cesare. Colà manda le navi cariche, come si è detto, di soldati armati alla leggera e del materiale e le navi da guerra di stanza a Durazzo e a ciascuno impartisce ordini dettagliati. Presso quelle fortificazioni Cesare aveva disposto il questore Lentulo Marcellino con la nona legione. A costui, che non godeva di buona salute, aveva affiancato, come aiutante, Fulvio Postumo.
63 In quel luogo vi era una fossa di quindici piedi e, dirimpetto al nemico, una palizzata alta dieci piedi, il cui terrapieno si estendeva altrettanto in larghezza; a una distanza di seicento piedi vi era, rivolto dalla parte opposta, un altro vallo con una fortificazione un po' più bassa. Infatti Cesare, nei giorni precedenti, aveva fatto costruire un duplice vallo in quel luogo, temendo che i nostri venissero circondati dalle navi, in modo da potere resistere nel caso si fosse combattuto su due fronti. Ma la mole del lavoro e l'ininterrotta fatica di ogni giorno non permettevano il compimento dell'impresa, poiché la lunghezza della linea delle fortificazioni era di diciassette miglia. E così il bastione posto trasversalmente di fronte al mare che doveva congiungere queste due fortificazioni non era ancora terminato. E il fatto, noto a Pompeo, poiché gli era stato riferito dai disertori Allobrogi, recò grande danno ai nostri. Infatti, quando le nostre coorti [della nona legione] avevano finito il turno di guardia presso il mare, all'improvviso all'alba giunsero i Pompeiani [vi fu l'arrivo dell'esercito]: i soldati imbarcati sulle navi, giunti alle spalle, scagliavano proiettili contro il bastione esterno, altri riempivano di materiale le fosse e contemporaneamente i legionari, appoggiate le scale, atterrivano i difensori della fortificazione interna, scagliando a mano e con macchine proiettili di ogni tipo, mentre una grande moltitudine di arcieri incalzava da entrambi i lati. La copertura di vimini posta sopra gli elmi era una valida difesa dai colpi di pietra, unica arma in mano ai nostri. E così, mentre i nostri venivano incalzati in ogni modo e a fatica resistevano, ci si rese conto, come sopra si è detto, del difetto della fortificazione; i Pompeiani, sbarcati nel tratto di mare fra i due bastioni, là dove il lavoro di fortificazione non era stato completato, fecero impeto contro i nostri alle spalle e li cacciarono da entrambe le linee di fortificazione costringendoli a fuggire.
64 All'annuncio di questo assalto improvviso, Marcellino manda dal campo coorti ... in aiuto ai nostri in difficoltà, ma queste trovarono i nostri in fuga e non poterono col loro arrivo infondere coraggio; esse stesse non sostennero l'assalto nemico. E così, qualunque aiuto inviato, contaminato dal terrore dei fuggitivi, aumentava a sua volta terrore e pericolo: infatti la ritirata veniva impedita dal gran numero di uomini. In quella battaglia un aquilifero, ferito gravemente, mentre già gli venivano meno le forze, alla vista dei nostri cavalieri disse: "Quest'aquila io da vivo per molti anni l'ho difesa con grande zelo e ora, morendo, la restituisco a Cesare con la medesima fedeltà. Vi prego, non permettete che sia commesso atto vergognoso per l'onore militare, cosa che mai è avvenuta prima nell'esercito di Cesare, e consegnategliela intatta". In tal modo l'aquila fu salvata, sebbene fossero uccisi tutti i centurioni della prima coorte, eccetto il centurione al comando della prima centuria.
65 E già i Pompeiani si avvicinavano al campo di Marcellino con grande strage dei nostri e recando non poco terrore alle altre coorti, quando Marco Antonio, che era a capo del posto di presidio più vicino, annunciatagli la disfatta viene visto scendere dalle alture con dodici coorti. Il suo arrivo arrestò i Pompeiani e rincuorò i nostri, cosicché si rinfrancarono dalla tremenda paura. E non molto dopo Cesare, non appena un segnale di fumo da fortino a fortino lo avvertì, secondo l'usanza dei tempi passati, giunse nel medesimo luogo con alcune coorti tratte dai presidi. Venuto a conoscenza della sconfitta subìta e visto che Pompeo era uscito dalle trincee e fortificava il campo lungo il mare per potere foraggiare liberamente e avere possibilità di accesso alle navi, Cesare cambia il piano di guerra, poiché non aveva ottenuto gli scopi prefissati, e ordina di trincerarsi vicino a Pompeo.
66 Terminata questa fortificazione, gli esploratori di Cesare videro, dietro a una foresta, alcune coorti, che sembravano avere l'effettivo di una legione e venivano condotte verso un vecchio accampamento. La posizione del campo era questa. Nei giorni precedenti la nona legione di Cesare, dopo essersi opposta alle truppe pompeiane e, come si è detto, dopo avere costruito una cinta di fortificazioni, aveva posto qui il suo campo. Tale campo era vicino a una foresta e distava dal mare non più di trecento passi. In seguito Cesare, mutato il piano per certi motivi, portò il campo un poco oltre quella posizione; pochi giorni dopo Pompeo aveva occupato questo medesimo luogo e, poiché aveva intenzione di tenere lì un maggiore numero di legioni, lasciata la trincea interna, ne aveva aggiunta una più ampia. E così il campo minore incluso in quello maggiore faceva da fortino e da roccaforte. Parimenti dall'angolo sinistro del campo aveva condotto fino al fiume una linea di fortificazioni di circa quattrocento passi perché i soldati potessero più liberamente e senza pericolo approvvigionarsi di acqua. Ma anche Pompeo, mutato piano per certi motivi che non è necessario ricordare, si era allontanato da quel luogo. Così per parecchi giorni il campo era rimasto vuoto, e tutto il sistema di difesa era intatto.
67 Gli esploratori informarono Cesare che in quel campo erano state portate le insegne della legione; avvistamenti da alcuni fortilizi più elevati confermarono la stessa cosa. Questo luogo distava dal nuovo campo di Pompeo circa cinquecento passi. Cesare, sperando di potere piombare addosso a questa legione e desiderando vendicare il danno ricevuto in quel giorno, lasciò nelle fortificazioni due coorti per fare credere che si compissero lavori di rafforzamento; egli stesso condusse verso la legione e il campo minore di Pompeo, con un percorso discosto e il più segretamente possibile, le rimanenti legioni schierate su due file, in numero di trentatré, fra cui vi era la nona legione che aveva perduto molti centurioni e che aveva un ridotto numero di soldati. E la sua prima convinzione non fu fallace. Infatti giunse prima che Pompeo potesse accorgersene, e, nonostante le fortificazioni del campo fossero imponenti, dall'ala sinistra, dove egli stesso si trovava, colpì con un rapido attacco i Pompeiani e li scacciò dal vallo. Una trave irta di punte di ferro era posta dinanzi alle porte. Qui si combatté per un po': i nostri tentavano di fare irruzione e i Pompeiani di difendere il campo; qui combatté da eroe Tito Pullione, per opera del quale, come abbiamo detto, fu tradito l'esercito di C. Antonio. Ma i nostri vinsero per il loro valore e, distrutta la trave, dapprima fecero irruzione nel campo maggiore, poi anche nel fortilizio che si trovava dentro il campo più grande, poiché là si era ritirata la legione che era stata respinta; uccisero alcuni nemici che qui facevano resistenza.
68 Ma la Fortuna, che ha grande potere in tutti gli altri eventi ma sopra tutto in guerra, in breve spazio di tempo produce grandi mutamenti, e così avvenne allora. Le coorti dell'ala destra di Cesare, non conoscendo il posto, avanzarono lungo il trinceramento, che, come sopra abbiamo detto, si estendeva dal campo al fiume, alla ricerca di una porta pensando che quello fosse il trinceramento del campo. Ma quando ci si accorse che esso andava a finire al fiume,dopo avere distrutta la fortificazione senza che nessuno opponesse difesa, la oltrepassarono e tutta la nostra cavalleria seguì quelle coorti.
69 Frattanto Pompeo, trascorso questo lasso di tempo abbastanza lungo, all'annuncio del fatto mandò in aiuto ai suoi cinque legioni tolte dalle opere di fortificazione; nel medesimo tempo la sua cavalleria si avvicinava alla nostra; i nostri che avevano occupato il campo vedevano l'esercito schierato e improvvisamente tutta la situazione mutò. La legione di Pompeo, rassicurata dalla speranza di un pronto aiuto, tentava di fare resistenza alla porta decumana e, inoltre, contrattaccava i nostri. La cavalleria di Cesare, poiché si trovava a salire per un angusto passaggio attraverso il terrapieno, temendo di non potersi ritirare dava inizio alla fuga. L'ala destra, che era separata dalla sinistra, accortasi che i cavalieri erano in preda al panico, perché temevano di essere schiacciati entro la fortificazione, si ritirava dal lato dal quale aveva fatto irruzione e la maggior parte di questi soldati, per non imbattersi in strettoie, si gettavano da un bastione alto dieci piedi nelle fosse e, schiacciati i primi che erano caduti, gli altri, passando sui loro corpi, guadagnavano uscita e salvezza. I soldati dell'ala sinistra, vedendo dal vallo che Pompeo si avvicinava e che i loro compagni fuggivano, temendo di trovarsi rinchiusi in strettoie con il nemico dentro e fuori, cercavano la ritirata per dove erano giunti. Ovunque vi era tumulto, paura, fuga, sicché, sebbene Cesare strappasse le insegne dalle mani di chi fuggiva e ordinasse di fermarsi, alcuni, lasciati i cavalli, continuavano la loro fuga, altri per il timore abbandonavano anche le insegne e proprio nessuno faceva resistenza.
70 In questa situazione di massima gravità concorreva a impedire che tutto l'esercito fosse distrutto il fatto che Pompeo, temendo, penso, degli agguati, poiché questi fatti erano accaduti oltre ogni sua speranza, avendo egli visto poco prima fuggire dal campo i suoi soldati, non osò per un certo tempo avvicinarsi alle fortificazioni e la sua cavalleria, per l'angustia dei passaggi e per il fatto che erano stati occupati dai soldati di Cesare, era lenta nell'inseguimento. Così fatti di poco conto ebbero grande importanza per entrambe le parti. Le fortificazioni, condotte dal campo al fiume, impedirono infatti, quando ormai il campo di Pompeo era preso, la vittoria di Cesare quasi ormai certa. Lo stesso ostacolo rallentò la velocità degli inseguitori e recò salvezza ai nostri.
71 Nelle due battaglie di questa sola giornata Cesare perse novecentosessanta soldati e noti cavalieri romani, Tuticano Gallo, figlio di un senatore, C. Fleginate da Piacenza, A. Granio di Pozzuoli, M. Sacrativiro di Capua, cinque tribuni militari e trentadue centurioni. In gran parte tutti costoro morirono senza alcuna ferita ma, per il terrore e la fuga dei loro compagni, schiacciati nelle fosse, sulle fortificazioni e sulle rive del fiume. Si persero trentadue bandiere. Pompeo venne in quella battaglia salutato col nome di imperator. Mantenne questo titolo e in seguito permise di essere salutato in tal modo, ma non fu solito usarlo nelle sue lettere né pose sui fasci la corona d'alloro. Invece Labieno, ottenuta da lui la consegna dei prigionieri, fattili condurre tutti dinanzi a sé, per ostentare maggiormente, come sembrava, la propria fedeltà a Pompeo, pur essendo egli un disertore, li chiamò commilitoni e, dopo avere chiesto loro con parole fortemente oltraggiose se i soldati veterani fossero soliti fuggire, li uccise alla presenza di tutti.
72 In seguito a queste vittorie nei Pompeiani la baldanza e la presunzione crebbero tanto che non pensarono più al modo di condurre la guerra, credendo ormai di avere vinto. Essi non capivano che a causare la sconfitta fossero stati lo scarso numero dei nostri soldati, il luogo sfavorevole, il difficile accesso a un campo già occupato dal nemico, la duplice paura dentro e fuori le fortificazioni, l'esercito separato in due parti, sicché l'una non aveva potuto portare aiuto all'altra. A ciò non aggiungevano inoltre che non era stato condotto alcun attacco violento, che non si era combattuta una vera battaglia e che i nostri, con il loro stesso ammassarsi in grande moltitudine entro luoghi angusti, avevano arrecato a se stessi maggiore danno di quello ricevuto dal nemico. Non ricordavano infine una situazione tipica della guerra: quanto spesso cause di piccolissimo conto o di falso sospetto o di improvviso terrore o di scrupolo religioso hanno arrecato grandi danni; quante volte o per incapacità del comandante o per colpa di un tribuno l'esercito subisce uno scacco; ma come se avessero vinto per valore né potesse accadere alcun mutamento di sorte, diffondevano per tutto il mondo, mediante messaggi e lettere, la vittoria di quel giorno.
73 Cesare, costretto a rinunciare ai suoi precedenti progetti, pensò di dovere cambiare totalmente il piano di guerra. E così, richiamati contemporaneamente tutti i presidi e abbandonato l'assedio e riunito in un solo posto l'esercito, tenne un discorso ai soldati esortandoli a non addolorarsi per quanto era avvenuto, a non lasciarsi demoralizzare dagli avvenimenti e a non anteporre a molte battaglie favorevoli una sconfitta sola e per di più di poco conto. Dovevano ringraziare la Fortuna perché avevano conquistato l'Italia senza subire perdite; perché avevano pacificato le due Spagne, comandate da capi esperti e molto abili e per di più alla guida di soldati animati da grande spirito bellico; perché avevano in loro potere le province confinanti, ricche di frumento; dovevano infine ricordare con quanta fortuna, in mezzo alle flotte nemiche, erano stati trasportati tutti incolumi, mentre non solo i porti, ma anche i lidi erano pieni di nemici. Se poi non andava tutto per il meglio, si doveva aiutare la Fortuna con l'azione. E la responsabilità del danno subito era da attribuirsi a chiunque altro ma non a lui. Egli aveva scelto un luogo adatto per il combattimento, si era impadronito del campo nemico, aveva cacciato e vinto quelli che opponevano resistenza. Ma se il loro turbamento o qualche sbaglio o anche la Fortuna avevano impedito una vittoria sicura e già alla portata di mano, tutti dovevano darsi da fare per rimediare col valore al danno subito. Se così facevano, il danno si sarebbe mutato in bene, come era avvenuto presso Gergovia, ed essi, che prima avevano avuto paura di combattere, si sarebbero offerti spontaneamente al combattimento.
74 Tenuto questo discorso, bollò d'infamia alcuni portabandiera e li rimosse dal grado. E invero un dolore grande per la sconfitta e un desiderio di riparare la vergogna si diffusero in tutto l'esercito così che ognuno, senza aspettare il comando di un tribuno o di un centurione, imponeva a se stesso come castigo fatiche più gravi del solito e tutti, all'unisono, ardevano dal desiderio di combattere; anzi alcuni ufficiali superiori, spinti da ragioni militari, giudicarono di dovere rimanere in quel luogo e rimettere la sorte al combattimento. Cesare, al contrario, non poneva abbastanza fiducia in soldati sconvolti e riteneva di dovere lasciare passare un po' di tempo per rinfrancare gli animi; inoltre, poiché aveva lasciato le fortificazioni, era grandemente preoccupato per l'approvvigionamento.
75 E così, senza porre indugio, avuta cura solo dei feriti e dei malati, in silenzio sul fare della notte dal campo inviò tutti i bagagli ad Apollonia e diede l'ordine di non fare sosta prima di avere terminato il cammino. Di scorta fu mandata una sola legione. Fatto ciò, trattenne nel campo due legioni; verso le tre di notte condusse fuori le altre da varie porte e le fece procedere per la stessa via; dopo un po', per conservare gli usi militari e perché la sua partenza apparisse il più normale possibile, ordinò l'adunata; subito dopo uscì e raggiunse la retroguardia e in breve tempo fu fuori dalla vista del campo. Pompeo, capito il suo piano, non pose alcun indugio all'inseguimento, ma proponendosi lo stesso fine di potere sorprendere i nostri impediti nella marcia, condusse l'esercito fuori dal campo e mandò innanzi la cavalleria per fermare la retroguardia nemica. Non poté tuttavia raggiungerla, perché Cesare era avanzato molto dal momento che marciava libero senza bagagli. Ma quando si giunse al fiume Genuso, che aveva le rive scoscese, la cavalleria raggiunse la retroguardia e cercò di fermarla provocandola a battaglia. Ad essa Cesare oppose i suoi cavalieri e vi aggiunse quattrocento antesignani, armati alla leggera; costoro furono di grande utilità perché, una volta attaccato il combattimento equestre, respinsero tutti i nemici e ne uccisero parecchi e, senza accusare perdite, si riunirono alla loro colonna.
76 Completata regolarmente la marcia da lui prevista per quel giorno e trasportato l'esercito al di là del fiume Genuso, Cesare si fermò nel suo vecchio campo di fronte ad Asparagio e trattenne tutti i fanti entro le fortificazioni. Mandò fuori la cavalleria col pretesto del foraggiamento, ma diede ordine che rientrasse subito nel campo per la porta decumana. Parimenti Pompeo, compiuto il percorso fissato per quel giorno, si fermò nel suo vecchio campo presso Asparagio. I suoi soldati non erano impegnati in alcun lavoro, poiché le fortificazioni erano integre; pertanto alcuni si allontanavano un po' troppo per fare legna o per cercare foraggi, altri, poiché avevano ricevuto all'improvviso l'ordine della partenza e avevano abbandonato gran parte dei bagagli piccoli e grandi e d'altronde il vecchio campo era vicino e si potevano riprendere le cose abbandonate, depositate le armi nelle tende, lasciavano la trincea. Poiché i Pompeiani non erano in grado di inseguirlo, come egli aveva previsto che sarebbe accaduto, Cesare, dato il segnale di partenza intorno a mezzogiorno, condusse fuori l'esercito e, facendo una marcia lunga il doppio in un solo giorno, si allontanò da quel luogo di otto miglia; Pompeo, essendosi allontanati i suoi soldati, non poté fare altrettanto.
77 Il giorno successivo allo stesso modo Cesare sul fare della notte manda innanzi i bagagli e, intorno alla quarta vigilia, esce anch'egli, in modo da potere affrontare un attacco improvviso con l'esercito non impedito dai bagagli, qualora si fosse presentata la necessità di combattere. La stessa cosa fece anche nei giorni successivi. In tal modo riuscì a non subire danni, nonostante fiumi molto profondi e strade piene di ostacoli. Pompeo, per l'indugio del primo giorno, nonostante gli inutili sforzi di quelli successivi, benché procedesse a marce forzate, desiderando raggiungere i nostri che l'avevano preceduto, il quarto giorno pose fine all'inseguimento e pensò bene di seguire un altro piano.
78 Era necessario a Cesare raggiungere Apollonia per lasciarvi i feriti, per dare la paga ai soldati, per rassicurare gli alleati, per lasciare presidi nelle città. Per assolvere questi impegni impiegò solo il tempo necessario, perché aveva una grande fretta; temeva che Domizio fosse colto all'improvviso dall'arrivo di Pompeo e, spinto da tale ansietà, si dirigeva verso di lui il più rapidamente possibile. Secondo Cesare il piano di tutta l'azione bellica si basava su questi punti: se Pompeo si fosse diretto lì, Cesare lo avrebbe costretto a combattere privo di frumento e vettovaglie, lontano dal mare e da quelle truppe che aveva radunato a Durazzo, pertanto a condizioni pari alle sue; se Pompeo fosse invece passato in Italia, Cesare si sarebbe unito all'esercito di Domizio e, passando per l'Illiria, avrebbe portato aiuto all'Italia; se poi Pompeo avesse tentato di assalire Apollonia e Orico, tagliandolo fuori da tutti i lidi, Cesare, assediando Scipione, lo avrebbe costretto ad accorre in aiuto ai suoi. Pertanto, mandati innanzi messi, Cesare scrisse a Cn. Domizio, chiarendogli il proprio piano e, disposte quattro coorti di presidio ad Apollonia, una a Lissa, tre a Orico, lasciati quelli che erano inabili per le ferite, cominciò a marciare attraverso l'Epiro e l'Atamania. Anche Pompeo, prevedendo il piano di Cesare, giudicava opportuno raggiungere in fretta Scipione; se Cesare si dirigeva colà, egli avrebbe portato aiuto a Scipione; se Cesare non voleva allontanarsi dalla costa e da Orico, poiché attendeva legioni e cavalleria dall'Italia, egli avrebbe assalito Domizio con tutte le truppe.
79 Per questi motivi entrambi volevano fare presto, e per essere di aiuto ai loro e per non perdere l'occasione di annientare i nemici. Ma il transito per Apollonia aveva allontanato Cesare dalla via più breve, Pompeo invece, passando attraverso la Candavia, aveva un percorso agevole verso la Macedonia. Inoltre improvvisamente sorse un'altra difficoltà, poiché Domizio che aveva per più giorni tenuto il campo di fronte a Scipione si era allontanato per fare provviste e si era diretto a Eraclea [Sentica che si trova ai piedi dei monti della Candavia], così che sembrava che la Fortuna stessa lo facesse incontrare con Pompeo. Fino a quel momento Cesare ignorava questi fatti. Contemporaneamente, a causa delle lettere sul combattimento svoltosi presso Durazzo, inviate da Pompeo in tutte le province e città, lettere in cui i fatti venivano ampliati e gonfiati, si era diffusa la voce che Cesare era stato battuto e messo in fuga e che aveva perduto quasi tutte le truppe. Queste notizie avevano reso pericoloso il cammino di Cesare, queste notizie alienavano parecchie città dalla sua amicizia. In seguito a questi fatti avvenne che i messi inviati per diverse vie da Cesare a Domizio e da Domizio a Cesare non poterono in alcun modo portare a termine il loro viaggio. Ma gli Allobrogi, famigliari di Roucillo e di Eco, che, come abbiamo detto, erano fuggiti presso Pompeo, visti lungo il percorso gli esploratori di Domizio, un po' per la loro antica amicizia, poiché avevano combattuto insieme in Gallia, un po' perché spinti da vanagloria, riferirono tutto quanto l'accaduto e li informarono della partenza di Cesare e dell'arrivo di Pompeo. Domizio, informato da questi, precedendo grazie a loro il nemico di appena quattro ore, evitò il pericolo e andò incontro a Cesare che giungeva presso Eginio, città situata di fronte alla Tessaglia.
80 Una volta congiuntisi gli eserciti, Cesare giunse a Gonfi, la prima città della Tessaglia per chi giunge dall'Epiro; pochi mesi prima la popolazione di questa città aveva mandato spontaneamente ambasciatori a Cesare per mettergli a disposizione tutti i propri beni, chiedendogli un presidio di soldati. Ma già era giunta colà, gonfiata in molte parti, la notizia, di cui parlammo, della battaglia di Durazzo. Pertanto Androstene, pretore della Tessaglia, preferendo essere compagno della vittoria di Pompeo piuttosto che alleato di Cesare nelle avversità, raduna dai campi nella città tutta la moltitudine di schiavi e liberi, chiude le porte e manda ambasciatori a Scipione e a Pompeo, chiedendo di venire in suo aiuto: egli confidava nelle fortificazioni della città, se avesse ricevuto soccorso in breve tempo; ma non era in grado di sostenere un assedio di lunga durata. Scipione, venuto a conoscenza della partenza degli eserciti da Durazzo, aveva condotto le legioni a Larissa; Pompeo non era ancora vicino alla Tessaglia. Cesare fortificò il campo e diede ordine di costruire scale e gallerie coperte e di preparare graticci in vista di un assalto improvviso. Portati a termine questi lavori, dopo avere esortato i soldati, mostrò loro di quanta utilità sarebbe stato, per alleviare la mancanza di ogni cosa, impadronirsi di una città ricca e ben fornita e nello stesso tempo, con l'esempio di questa, incutere terrore alle altre città e fare ciò in breve tempo, prima dell'arrivo degli aiuti. E così, approfittando di un eccezionale ardore dei soldati, nel medesimo giorno in cui era giunto, dopo le tre pomeridiane, cominciò ad assediare la città dalle altissime mura e la espugnò prima del tramonto; la lasciò al saccheggio dei soldati e subito mosse il campo e giunse a Metropoli prima che vi arrivassero notizie e fama della presa della città.
81 Gli abitanti di Metropoli, presa in un primo tempo la medesima decisione, in quanto indotti dalle medesime voci, chiusero le porte e riempirono le mura di armati, ma in seguito, venuti a conoscenza, da prigionieri che Cesare aveva fatto avvicinare alle mura, di quanto era accaduto a Gonfi, aprirono le porte. Essi vennero trattati con ogni riguardo e quando si confrontò la sorte di Metropoli con la situazione di Gonfi non vi fu nessuna città della Tessaglia, eccetto Larissa, che era occupata da grandi forze di Scipione, che non ubbidisse a Cesare e non ne eseguisse gli ordini. Cesare, trovato nella pianura un luogo adatto al rifornimento di grano, che era ormai quasi maturo, stabilì di attendere qui l'arrivo di Pompeo e di fissarvi il campo operativo militare.
82 Pompeo giunge in Tessaglia pochi giorni dopo e, tenuto un discorso davanti a tutto l'esercito, ringrazia i suoi ed esorta i soldati di Scipione, dal momento che la vittoria era già assicurata, a essere partecipi della preda e dei premi e, dopo avere riunito in un solo campo tutte le legioni, divide con Scipione l'onore del comando e ordina che anche per lui squillino le trombe e che per lui venga allestita una seconda tenda pretoria. Aumentate le truppe di Pompeo e congiuntisi due grandi eserciti, viene confermata la precedente opinione di tutti e cresce la speranza di vittoria, così che ogni momento che passava sembrava ritardare il ritorno in Italia e se talora Pompeo agiva troppo lentamente o ponderatamente, dicevano che il compimento della guerra non richiedeva che un giorno solo, ma che egli si compiaceva del comando e che teneva in conto di schiavi gli ex consoli e pretori. E già da tempo apertamente contendevano fra loro ricompense civili e cariche religiose e stabilivano i consolati per gli anni successivi; altri richiedevano le case e i beni dei Cesariani. In un consiglio vi fu tra di loro una grande controversia se fosse opportuno tenere conto, nei prossimi comizi pretori, della candidatura di Lucilio Irro, che era assente in quanto mandato da Pompeo presso i Parti; i suoi amici imploravano la lealtà di Pompeo, che mantenesse ciò che gli aveva promesso alla sua partenza, perché non sembrasse essere stato ingannato per mezzo della sua autorità; gli altri non volevano che uno solo venisse preferito a tutti, quando uguali erano fatiche e pericoli.
83 Ben presto Domizio, Scipione e Lentulo Spintere, nelle quotidiane discussioni sulla successione al pontificato di Cesare, giunsero pubblicamente a gravissime ingiurie verbali: Lentulo ostentava il privilegio dell'età, Domizio vantava il favore e l'autorità di cui godeva a Roma, Scipione confidava nella parentela con Pompeo. Acuzio Rufo inoltre accusò, presso Pompeo, L. Afranio del tradimento dell'esercito, che diceva essere accaduto in Spagna. E L. Domizio in consiglio disse che era favorevole a che, una volta terminata la guerra, ai senatori che avevano partecipato con loro alla guerra venissero distribuite tre tavolette di voto, per esprimere singoli giudizi su chi era rimasto a Roma o chi, trovandosi nelle terre occupate da Pompeo, non aveva combattuto: una sarebbe stata la tavoletta per assolvere da ogni imputazione; un'altra per condannare a morte, la terza per infliggere multe. In una parola tutti discutevano o delle proprie cariche o delle ricompense in denaro o dei nemici da perseguire e pensavano non in che modo vincere, ma come mettere a frutto la vittoria.
84 Provveduto al vettovagliamento e rincuorati i soldati, lasciato trascorrere dalla battaglia di Durazzo il tempo necessario per conoscere a sufficienza l'animo dei soldati, Cesare giudicò opportuno di saggiare l'intenzione e la volontà di Pompeo di combattere. E così condusse fuori dal campo l'esercito e lo schierò a battaglia, dapprima in posizioni favorevoli e alquanto lontano dal campo di Pompeo, poi, nei giorni seguenti, allontanandosi dal suo campo e schierando le truppe ai piedi dei colli occupati dai Pompeiani. La qual cosa rafforzava di giorno in giorno il morale del suo esercito. Tuttavia manteneva, per la cavalleria, la medesima disposizione di cui abbiamo detto: poiché i suoi cavalieri erano molto inferiori per numero ordinò che giovani e soldati armati alla leggera, scelti tra gli antesignani, con armi adatte alla velocità, combattessero in mezzo ad essi, affinché con un esercizio quotidiano acquisissero esperienza anche di questo genere di combattimento. Il risultato di ciò fu che un migliaio di cavalieri, impadronitisi della pratica, erano in grado, anche in campo aperto, di sostenere l'impeto di settemila pompeiani senza facilmente spaventarsi per la loro grande superiorità numerica. E infatti in quei giorni combatté con successo una battaglia equestre, uccidendo con alcuni altri Eco, uno dei due Allobrogi, che, come sopra abbiamo detto, si erano rifugiati presso Pompeo.
85 Pompeo, che aveva il campo sul colle, schierava l'esercito ai piedi di esso, aspettando sempre, come sembrava, che Cesare si esponesse in posizione sfavorevole. Cesare, ritenendo che in nessun modo Pompeo potesse essere trascinato a battaglia, giudicò essere questa per sé la migliore tattica di guerra: muovere il campo da quel posto e stare sempre in marcia, con questi obiettivi: usufruire delle migliori occasioni di approvvigionamento spostando il campo e toccando luoghi diversi e, contemporaneamente, durante la marcia, trovare qualche opportunità di combattimento e, con quotidiane marce, sfinire l'esercito di Pompeo, non abituato alla fatica. Stabilito ciò, dato già il segnale della partenza e smontate le tende, ci si accorse che poco prima, contrariamente alla abitudine di ogni giorno, la schiera di Pompeo si era allontanata un po' troppo dal vallo, così che sembrava che si potesse combattere in posizione non sfavorevole. Allora Cesare, quando già la schiera in ordine di marcia era alle porte, disse ai suoi: "Dobbiamo rimandare al momento la marcia e pensare al combattimento, come abbiamo sempre desiderato. Siamo pronti a combattere; non facilmente in seguito troveremo l'occasione". E subito conduce fuori le truppe pronte a combattere.
86 Anche Pompeo, come poi si venne a sapere, su esortazione di tutti i suoi, aveva stabilito di venire a battaglia. E infatti, anche nel consiglio di guerra, nei giorni precedenti aveva detto che l'esercito di Cesare sarebbe stato annientato prima che le schiere si scontrassero. Essendosi molti meravigliati di questa affermazione, disse: "So di promettere una cosa quasi incredibile, ma sentite il piano che ho ideato, affinché andiate alla battaglia con animo più saldo. Ho consigliato ai nostri cavalieri, e mi hanno dato assicurazione che lo avrebbero fatto, di dare l'assalto, quando si sia arrivati molto vicini, all'ala destra di Cesare, ossia dalla parte scoperta, e, una volta aggirata la schiera alle spalle, di mettere in fuga l'esercito disorientato prima che dai nostri venga scagliata una freccia contro il nemico. E così senza pericolo per le legioni e quasi senza spargimento di sangue concluderemo la guerra. La cosa inoltre non è difficile dal momento che siamo tanto più forti nella cavalleria". Contemporaneamente li ammonì di stare pronti per il giorno successivo e, poiché vi era possibilità di combattere, come spesso avevano chiesto, di non deludere né la sua né l'altrui aspettativa.
87 Dopo di lui parlò Labieno e, disprezzando le milizie di Cesare, esaltando con somme lodi il piano di Pompeo, disse: "Non credere, o Pompeo, che questo sia l'esercito che ha vinto la Gallia e la Germania. Io fui presente a tutte le battaglie e non dico sconsideratamente cose non conosciute. Sopravvive una piccolissima parte di quell'esercito; il grosso è andato perduto, il che doveva necessariamente accadere in tante battaglie; molti li ha distrutti in Italia la pestilenza dell'autunno, molti sono tornati a casa, molti sono rimasti nel continente. Forse non avete sentito dire che fra quelli rimasti per motivi di salute sono state formate coorti a Brindisi? Queste milizie che vedete sono state formate con le leve fatte in questi anni nella Gallia Citeriore e la maggiore parte proviene dalle colonie transpadane. Del resto quella che era la sua forza si è perduta nelle due battaglie di Durazzo". Dopo avere detto ciò, giurò di non fare ritorno al campo se non da vincitore e esortò gli altri a fare lo stesso. Pompeo, lodando questo proposito, fece lo stesso giuramento; e invero fra gli altri non ci fu nessuno che esitò a giurare. Fatto questo nel consiglio di guerra, tutti si allontanarono con grande speranza e gioia; e già pregustavano nel pensiero la vittoria, poiché sembrava che nulla potesse essere garantito invano da parte di un comandante tanto esperto a proposito di un fatto così importante.
88 Cesare, avvicinatosi al campo di Pompeo, si accorse che l'esercito di costui era schierato in questo modo: sull'ala sinistra vi erano le due legioni mandate da Cesare all'inizio della guerra per decreto del senato, di queste una era detta "prima", l'altra "terza"; in quella posizione vi era lo stesso Pompeo. Scipione con le legioni siriache occupava il centro dell'esercito. La coorte cilicia, unita alle coorti spagnole che, come dicemmo, furono condotte da Afranio, era stata collocata all'ala destra. Pompeo pensava che queste fossero le coorti più forti. Aveva collocate le altre fra il centro e le ali e aveva completato l'effettivo con centodieci coorti. Vi erano quarantacinquemila uomini; dei veterani richiamati ve ne erano circa duemila che, esonerati dai lavori pesanti, avevano fatto parte dei precedenti eserciti e ora si erano uniti a lui. Pompeo li aveva distribuiti in tutto l'esercito. Aveva dislocato come presidio nel campo e nei vicini fortilizi le rimanenti sette coorti. Un corso d'acqua dalle rive impraticabili difendeva la sua ala destra; per questo motivo aveva collocato tutta la cavalleria, tutti gli arcieri e i frombolieri sull'ala sinistra.
89 Cesare, mantenendo l'ordine di battaglia del passato, aveva disposto la decima legione sull'ala destra, la nona sulla sinistra, sebbene fosse stata molto ridotta nelle battaglie di Durazzo; e così a questa aggiunse la legione ottava, facendone appena una di due; e aveva dato l'ordine che l'una fosse di sostegno all'altra. Aveva schierate in linea di battaglia ottanta coorti, il cui contingente era di ventiduemila uomini; aveva lasciato di presidio nel campo sette coorti. Aveva preposto all'ala sinistra Antonio, alla destra P. Silla, al centro Cn. Domizio. Egli stesso si pose di fronte a Pompeo. Non appena si rese conto della tattica bellica nemica che abbiamo detto, temendo che l'ala destra venisse circondata dalla moltitudine dei cavalieri, velocemente levò dalla terza schiera una compagnia per legione e con queste formò una quarta fila che oppose alla cavalleria e indicò che cosa voleva che si facesse: avvertì che la vittoria di quel giorno dipendeva dal valore di quelle coorti. Contemporaneamente ordinò alla terza fila [e a tutto l'esercito] di non andare all'assalto senza il suo comando: quando avesse voluto l'assalto, avrebbe dato il segnale col vessillo.
90 Esortato l'esercito alla battaglia secondo il costume militare e messi in evidenza i propri meriti verso l'esercito in ogni tempo, principalmente rammentò che poteva provare con la testimonianza dei soldati con quanto zelo aveva cercato la pace, quali trattative aveva condotto per mezzo di Vatinio negli abboccamenti, quali per mezzo di Aulo Claudio con Scipione, in che modo si fosse adoperato con Libone presso Orico perché si mandassero ambasciatori. Egli non aveva mai abusato del sangue dei soldati né aveva voluto privare la repubblica dell'uno o dell'altro esercito. Tenuto questo discorso, poiché i soldati lo richiedevano e ardevano dalla brama di combattere, diede con la tromba il segnale.
91 Nell'esercito di Cesare vi era un veterano richiamato, Crastino, che nell'anno precedente sotto di lui aveva guidato la prima centuria della decima legione, uomo di singolare valore. Costui, dato il segnale, disse: "Seguitemi voi che foste del mio manipolo e servite il vostro comandante, come avete promesso. Rimane questa sola battaglia; al suo termine Cesare riavrà la sua dignità e noi la nostra libertà". Contemporaneamente, volgendo lo sguardo a Cesare, disse: "Oggi, o comandante, farò in modo che tu abbia a ringraziare me, o vivo o morto". Dopo avere detto queste parole, per primo corse all'attacco dall'ala destra e circa centoventi soldati volontari scelti [della medesima centuria] lo seguirono.
92 Tra le due schiere vi era rimasto solo lo spazio che bastava ai due eserciti per venire all'attacco. Ma Pompeo aveva precedentemente detto ai suoi di aspettare l'assalto di Cesare e di non muoversi dalla posizione e di lasciare che l'esercito di Cesare si scompaginasse. Si diceva che, per consiglio di C. Triario, avesse dato questo ordine di modo che la forza dei soldati si infrangesse nel primo attacco e la schiera si fiaccasse, sicché i soldati pompeiani, collocati nelle proprie file, avrebbero potuto assalire i nemici dispersi. Sperava che, trattenendo sulle loro posizioni i soldati, i giavellotti sarebbero caduti con danno minore di quello subito andando incontro ai proiettili scagliati; nello stesso tempo sperava che i soldati di Cesare venissero fiaccati dalla distanza doppia che dovevano coprire di corsa. Ma invero ci sembra che Pompeo abbia fatto ciò senza nessuna ragione, poiché per natura sono innati in tutti l'entusiasmo e l'esuberanza che vengono accesi dal desiderio di battaglia. I comandanti non devono reprimerli, ma potenziarli; e non invano nell'antichità si stabilì che le trombe squillassero da ogni parte e tutti quanti levassero grida; si pensò di atterrire con questi mezzi i nemici e di incitare i propri soldati.
93 Ma, dato il segnale di attacco, i nostri soldati, avanzati di corsa con i giavellotti contro i nemici e accortisi che i Pompeiani non andavano all'assalto, pratici per esperienza e ammaestrati in battaglie precedenti, spontaneamente rallentarono e si fermarono quasi a metà distanza per non avvicinarsi stremati e, dopo un breve intervallo di tempo, ripresa nuovamente la corsa, lanciarono i giavellotti e rapidamente, come era stato ordinato da Cesare, misero mano alle spade. Invero i Pompeiani non vennero meno al loro dovere. Infatti sostennero il lancio dei giavellotti e l'assalto dei legionari; conservarono le file e dopo avere lanciato i giavellotti ricorsero alle spade. Nello stesso tempo, come era stato ordinato, tutti i cavalieri dal lato sinistro di Pompeo si lanciarono all'assalto e si riversò tutta la moltitudine degli arcieri. La nostra cavalleria non sopportò il loro assalto, ma, respinta dalle sue posizioni, indietreggiò un poco e i cavalieri di Pompeo cominciarono, perciò, a incalzare con più accanimento, a disporsi a squadroni e ad aggirare dal lato scoperto il nostro schieramento. Quando Cesare si accorse di ciò, diede il segnale di combattimento alla quarta fila che aveva formata con sei coorti. Quelle coorti si lanciarono con prontezza e, in schieramento di assalto, con tanta irruenza assalirono i cavalieri di Pompeo che nessuno di loro resistette e tutti, fatto "dietro front", non solo si allontanarono dalla posizione, ma subito fuggirono, dirigendosi verso i monti più alti. Respinti questi, tutti gli arcieri e i frombolieri, abbandonati senza protezione e senza armi, vennero uccisi. Col medesimo impeto le coorti aggirarono il lato sinistro, mentre i Pompeiani ancora combattevano e resistevano nel loro schieramento iniziale, e li attaccarono alle spalle.
94 Nel medesimo tempo Cesare ordinò di avanzare alla terza fila che fino a quel momento era rimasta in riposo e ferma nella sua posizione. E così ricevendo i soldati sfiniti il cambio di forze fresche e riposate, mentre gli altri assalivano alle spalle, i Pompeiani non furono in grado di reggere e si diedero tutti alla fuga. Cesare invero non si era ingannato nel pensare che il principio della vittoria dipendeva da quelle coorti che erano state dislocate nella quarta fila contro la cavalleria, come egli stesso aveva affermato nell'esortare i soldati. Da queste coorti infatti dapprima fu sbaragliata la cavalleria, dalle medesime furono annientati arcieri e frombolieri, dalle medesime fu circondata la schiera pompeiana dal lato sinistro e fu provocato l'inizio della fuga nemica. Ma Pompeo, quando vide la propria cavalleria respinta e si accorse che era in preda al terrore quella parte dell'esercito su cui sopra tutto confidava, e, non avendo inoltre fiducia negli altri, si allontanò dal campo di battaglia e subito si diresse a cavallo nell'accampamento e a quei centurioni che aveva posto di guardia presso la porta pretoria disse a voce alta perché i soldati lo udissero: "Proteggete l'accampamento e difendetelo con zelo, se le cose dovessero volgere al peggio. Io faccio il giro delle altre porte per rassicurare i presidi dell'accampamento". Dopo avere detto queste parole, se ne andò nella tenda pretoria, persa la fiducia nell'esito finale, ma tuttavia aspettando gli eventi.
95 Cesare, respinti dentro il vallo i Pompeiani in fuga, stimando non opportuno lasciare tregua ad essi in preda al terrore, esortò i soldati a sfruttare il favore della Fortuna, assalendo l'accampamento. Ed essi, sebbene affaticati dal grande caldo (infatti la battaglia si era protratta fino a mezzogiorno), tuttavia disposti a ogni fatica obbedirono al comando. L'accampamento era difeso con zelo dalle coorti che qui erano state lasciate di presidio, ma molto più strenuamente dai Traci e dalle truppe ausiliarie barbare. Infatti i soldati che, provenienti dalla battaglia, qui si erano rifugiati, atterriti e sfiniti dalla stanchezza, per lo più senza armi e insegne militari, pensavano più a riprendere la fuga che a difendere il campo. E anche quelli che si erano fermati dentro il vallo non furono in grado di sostenere troppo a lungo la fitta pioggia di dardi, ma prostrati dalle ferite abbandonarono la posizione e tutti subito, con a capo centurioni e tribuni militari, si rifugiarono sulle vette dei monti vicini all'accampamento.
96 Nell'accampamento di Pompeo si poterono vedere pergolati di frasche, una grande quantità di argenteria esibita, tende pavimentate con zolle di erba fresca, le tende di Lucio Lentulo e di alcuni altri coperte di edera e inoltre altre cose che testimoniavano un lusso eccessivo e la fiducia nella vittoria, così che facilmente si poteva pensare che i nemici, che cercavano piaceri non necessari, non avevano avuto alcun timore per l'esito di quella giornata. Eppure costoro criticavano il lusso dell'esercito di Cesare, quanto mai povero e paziente, cui erano sempre mancate tutte le cose di prima necessità. Pompeo, quando ormai i nostri erano all'interno del vallo, trovato un cavallo, gettate le insegne di comandante, se ne andò rapidamente dal campo per la porta decumana e si diresse subito a spron battuto verso Larissa. Né qui si fermò, ma, imbattutosi in alcuni dei suoi in fuga, con la medesima velocità, senza fermarsi neppure di notte, accompagnato da trenta cavalieri giunse al mare e si imbarcò su una nave frumentaria, spesso lamentandosi, come si diceva, di essersi tanto ingannato sì da sembrare quasi tradito, poiché a iniziare la fuga erano stati proprio quegli uomini dai quali aveva sperato la vittoria.
97 Cesare, impadronitosi del campo, chiese insistentemente ai soldati, occupati a fare bottino, di non sprecare l'occasione per condurre a termine il resto dell'impresa. Ottenuto ciò, cominciò a fare lavori di fortificazione intorno al monte. I Pompeiani, poiché il monte era senza acqua, non si fidarono a rimanere in quella posizione e, lasciato il monte, tutti insieme cominciarono a dirigersi attraverso le giogaie verso Larissa. Accortosi di ciò, Cesare divise le sue truppe e ordinò a una parte delle legioni di rimanere nel campo di Pompeo, ne rimandò una parte nel proprio accampamento, condusse quattro legioni con sé e per una strada più comoda iniziò a marciare per sbarrare la strada ai Pompeiani. Avanzato seimila passi, schierò le truppe a battaglia. Visto ciò, i Pompeiani si fermarono su un monte, ai piedi del quale scorreva un fiume. Cesare rivolse parole di incoraggiamento ai soldati e, sebbene fossero sfiniti dalla fatica continua di tutta la giornata e ormai si avvicinasse la notte, tuttavia fece isolare con una fortificazione il fiume dal monte perché di notte i Pompeiani non potessero rifornirsi di acqua. Compiuta questa operazione, i Pompeiani cominciarono a trattare la resa mandando ambasciatori. Alcuni esponenti dell'ordine senatorio, che si erano uniti ai Pompeiani, di notte cercarono salvezza nella fuga.
98 Cesare all'alba ordinò a tutti coloro che si erano fermati sul monte di scendere in pianura dalle alture e consegnare le armi. Eseguirono l'ordine senza fare opposizione e gettatisi a terra con le mani tese, in lacrime, chiesero a Cesare salva la vita. Cesare, dopo averli consolati, ordinò loro di alzarsi e rivolte loro poche parole in merito alla sua clemenza, perché avessero meno timore, fece a tutti grazia della vita e diede ordine ai suoi soldati di non fare violenza a nessuno di essi e di non portare via nulla di loro appartenenza. Date scrupolosamente queste disposizioni, ordinò alle altre legioni di raggiungerlo dall'accampamento e a quelle che aveva condotto con sé di fare ritorno nel campo per riposarsi a loro volta; il medesimo giorno giunse a Larissa.
99 In quella battaglia Cesare non lamentò la perdita di più di duecento soldati, ma perse circa trenta centurioni, uomini valorosi. Mentre combatteva valorosamente fu ucciso anche Crastino, che sopra abbiamo ricordato, colpito in pieno viso da un colpo di spada. E non aveva detto il falso andando in battaglia. Cesare infatti pensava che in quella battaglia il valore di Crastino fosse stato straordinario e riteneva di dovergli, per i suoi meriti, una grandissima riconoscenza. Sembrava che l'esercito pompeiano avesse contato circa quindicimila caduti, ma si arresero in più di ventiquattromila (infatti anche le coorti che erano di guardia nei fortilizi si consegnarono a Silla), inoltre molti trovarono rifugio nelle città vicine; dalla battaglia furono portate a Cesare centottanta insegne militari e nove aquile. L. Domizio fu ucciso dai cavalieri mentre fuggiva dall'accampamento verso il monte, quando ormai le forze gli erano venute meno per la stanchezza.
100 Nel medesimo tempo D. Lelio giunse con la flotta a Brindisi e nel medesimo modo in cui, come prima dicemmo, operò Libone, occupò l'isola che fronteggia il porto di Brindisi. Similmente Vatinio, che era al comando di Brindisi, con imbarcazioni coperte e fornite di opportuno equipaggiamento attirò le navi di Lelio e catturò, all'imboccatura del porto, una quinquereme che si era spinta troppo lontano e due navi minori, e parimenti, con reparti di cavalleria opportunamente disposti, cominciò a impedire ai marinai l'approvvigionamento d'acqua. Ma Lelio, approfittando della stagione abbastanza favorevole alla navigazione, con navi da carico portava ai suoi acqua da Corcira e da Durazzo e non veniva distolto dal suo progetto e, prima di avere avuto notizia della battaglia combattuta in Tessaglia, né l'ignominiosa perdita delle navi, né la mancanza di ogni cosa necessaria poterono cacciarlo dal porto e dall'isola.
101 Quasi nel medesimo tempo Cassio con una flotta di navi siriache, fenicie e cilicie venne in Sicilia e, dal momento che la flotta di Cesare era divisa in due parti, una sotto il comando del pretore P. Sulpicio presso Vibona, l'altra sotto il comando di M. Pomponio presso Messina, egli si diresse con le sue navi a volo su Messina prima che Pomponio avesse sentore del suo arrivo. Trovatolo in preda a confusione, senza alcuna sorveglianza e con le navi non schierate, approfittando di un vento forte e favorevole, scagliò sulla flotta di Pomponio navi onerarie riempite di fiaccole, pece, stoppa e altro materiale incendiario e bruciò tutte le navi, in tutto trentacinque, di cui venti coperte. Da tale avvenimento derivò un timore tanto grande che, sebbene vi fosse a Messina una legione di presidio, a stento la città fu difesa e, se nel medesimo tempo non fossero giunte, tramite cavalieri che facevano regolare servizio di informazione, notizie della vittoria di Cesare, i più ritenevano che la città sarebbe stata perduta. Ma la città poté essere difesa grazie all'opportuno arrivo delle notizie e quindi Cassio puntò sulla flotta di Sulpicio a Vibona. Poiché i nostri avevano messo in secco circa quaranta navi per il medesimo timore, i Pompeiani ricorsero alla tattica di prima. Cassio, approfittando del vento favorevole spinse navi da carico allestite per provocare un incendio; e il fuoco appiccato da un'estremità e dall'altra fece incendiare cinque navi. E poiché il fuoco per la violenza del vento si estendeva su di un fronte troppo vasto, i soldati delle vecchie legioni che, essendo malati, erano stati lasciati di presidio alle navi, non sopportarono la vergogna; spontaneamente si imbarcarono, salparono, assalirono la flotta di Cassio e catturarono due quinqueremi su una delle quali era Cassio. Ma Cassio fuggì raccolto da una imbarcazione. Furono inoltre prese due triremi. Non molto tempo dopo si venne a sapere della battaglia avvenuta in Tessaglia così che la cosa risultò certa agli stessi Pompeiani; infatti prima di allora si pensava che fossero tutte invenzioni di ambasciatori e di amici di Cesare. Venuto a conoscenza del fatto, Cassio si allontanò con la flotta da quei luoghi.
102 Cesare, abbandonate tutte le altre cose, giudicò di dovere inseguire Pompeo in qualunque posto si rifugiasse fuggendo, in modo che non potesse radunare di nuovo altre truppe e riaprire le ostilità. E ogni giorno avanzava di tanto quanto era possibile con la cavalleria e aveva dato ordine a una legione di tenere dietro a tappe più brevi. Ad Anfipoli era stato emanato un editto in nome di Pompeo secondo cui tutti i giovani di quella provincia, Greci e cittadini romani, dovevano riunirsi per prestare giuramento militare. Ma non si poteva capire se Pompeo avesse emanato quell'editto per allontanare i sospetti in modo da nascondere il più a lungo possibile il proposito di fuga in zone più lontane o per tentare, con nuove leve, di conservare la Macedonia, se nessuno lo avesse attaccato. Egli stesso rimase all'ancora una sola notte e, chiamati presso di sé gli ospiti di Anfipoli e richiesto del denaro per le spese necessarie, venuto a conoscenza dell'arrivo di Cesare, si allontanò da quel luogo e in pochi giorni giunse a Mitilene. Fu trattenuto per due giorni dal maltempo e, aggiunte alle sue altre navi leggere, si recò in Cilicia e da qui a Cipro. Qui venne a sapere che, col consenso di tutti gli abitanti di Antiochia e dei cittadini romani che lì facevano commercio, erano state prese le armi per impedirgli l'accesso alla città e che erano stati inviati ambasciatori a coloro che si diceva si fossero rifugiati nelle regioni vicine perché non venissero ad Antiochia; se lo avessero fatto, avrebbero corso grande pericolo di vita. Questa medesima cosa era accaduta a Rodi a L. Lentulo, che l'anno precedente era stato console, all'ex console P. Lentulo e ad alcuni altri. Essi, avendo seguito nella fuga Pompeo ed essendo giunti sull'isola, non erano stati accolti né nella città né nel porto e, quando fu loro notificato da legati l'ordine di allontanarsi da quei luoghi, pur contro la loro volontà presero il largo. E ormai la notizia dell'arrivo di Cesare era arrivata fino a quelle città.
103 Pompeo, venuto a conoscenza di questi fatti, abbandonato il piano di raggiungere la Siria, preso del denaro dagli appaltatori e chiestone altro a prestito ad alcuni privati, caricata sulle navi una grande quantità di bronzo per uso militare, armati duemila uomini, in parte scelti fra i servi degli appaltatori, in parte raccolti dai mercanti, quelli che ciascun mercante riteneva idonei a questo scopo, giunse a Pelusio. Qui vi era per caso il re Tolomeo, appena fanciullo, che con truppe imponenti stava combattendo contro la sorella Cleopatra, che pochi mesi prima aveva scacciata dal regno su istigazione di amici e parenti. L'accampamento di Cleopatra non distava molto dal suo. Pompeo mandò legati a Tolomeo per chiedergli, in nome dell'ospitalità e dell'amicizia del padre, di accoglierlo in Alessandria e proteggerlo nella disgrazia con le sue forze. Ma gli ambasciatori che erano stati mandati da Pompeo, portato a termine l'incarico, cominciarono a parlare alquanto liberamente con i soldati del re e a esortarli a prestare il loro aiuto a Pompeo e a non abbandonarlo nella sua sorte. Fra quelli vi erano parecchi ex soldati di Pompeo, dal cui esercito Gabinio li aveva accolti in Siria e poi condotti in Alessandria e, terminata la guerra, lasciati presso Tolomeo, padre del fanciullo.
104 Allora, venuti a conoscenza di queste cose, gli amici del re che per la giovane età del fanciullo avevano la reggenza del regno, sia perché spinti dal timore, come poi andavano dicendo, che Pompeo, sobillato l'esercito regio, occupasse Alessandria e l'Egitto, sia per disprezzo della sorte di Pompeo, infatti in genere nella disgrazia gli amici diventano nemici, risposero ai messi inviati da Pompeo con apparente cortesia, invitandolo a venire dal re. Ma, tenuto un consiglio segreto, inviarono Achilla, prefetto regio, uomo di singolare audacia, e L. Settimio, tribuno militare, a ucciderlo. Pompeo, avvicinato in modo cortese da costoro e incoraggiato da un certo rapporto di confidenza con Settimio, poiché durante la guerra piratica costui aveva guidato un reparto del suo esercito, salì con pochi dei suoi su una piccola nave; qui viene ucciso da Achilla e da Settimio. Parimenti L. Lentulo viene fatto catturare dal re e ucciso in carcere.
105 Cesare, giunto in Asia, scopriva che Tito Ampio aveva tentato di portare via il tesoro dal tempio di Diana a Efeso e che per questo motivo aveva chiamato tutti i senatori dalla provincia per averli a testimoni sulla somma di denaro, ma che era fuggito perché disturbato dall'arrivo di Cesare. E così in due momenti diversi Cesare venne in soccorso del tesoro di Efeso ... Parimenti, calcolando i giorni a ritroso, si era notato che nel giorno in cui Cesare aveva vinto, nel tempio di Minerva a Elide, una statua della Vittoria, posta proprio davanti a quella di Minerva e rivolta fino a quel momento verso di essa, si era girata verso le porte e la soglia del tempio. Nel medesimo giorno ad Antiochia, in Siria, due volte si udì il clamore dell'esercito e un suono di trombe tanto forte da fare accorrere da ogni parte i cittadini armati sulle mura. La stessa cosa avvenne a Tolemaide. A Pergamo, nei recessi e nelle zone segrete del tempio, dove non è lecito l'accesso tranne che ai sacerdoti, e che i Greci chiamano adyta, risuonarono i timpani. Similmente a Tralli, nel tempio della Vittoria, dove avevano consacrato una statua di Cesare, veniva mostrata una palma spuntata in quei giorni dal pavimento fra le giunture delle pietre.
106 Cesare, trattenutosi pochi giorni in Asia, avendo udito che Pompeo era stato visto a Cipro, congetturando che si dirigesse in Egitto, date le sue relazioni con questo regno e per le comodità che esso offriva, con una legione alla quale aveva dato ordine di seguirlo dalla Tessaglia, e con un'altra che aveva fatto condurre dall'Acaia dal luogotenente Q. Fufio, con ottocento cavalieri e con dieci navi da guerra di Rodi e poche altre dell'Asia, giunse ad Alessandria. Queste legioni erano formate da tremiladuecento soldati; gli altri, fiaccati dalle ferite sofferte nelle battaglie e dalla fatica e dalla lunghezza del viaggio, non poterono seguirlo. Ma Cesare, confidando nella fama delle imprese compiute, non aveva esitato a partire sia pure con poche forze, giudicando che ogni luogo sarebbe risultato ugualmente sicuro. Ad Alessandria venne a sapere della morte di Pompeo e qui, appena sceso dalla nave, udì le grida dei soldati che il re aveva lasciato di presidio nella città, e vide che una moltitudine di gente gli veniva incontro ostilmente, poiché i fasci lo precedevano. Tutta la gente andava dicendo che la regia maestà veniva lesa da tale fatto. Sedato questo tumulto, nei giorni seguenti vi furono numerose sedizioni originate da assembramenti di persone e parecchi soldati furono uccisi per le strade, in ogni parte della città.
107 In considerazione di questi fatti, Cesare diede ordine che venissero trasferite dall'Asia altre legioni, che egli aveva formato con soldati pompeiani. Egli stesso infatti era trattenuto forzatamente dai venti etesii, che soffiano contrari per chi salpa da Alessandria. Frattanto, giudicando che era di pertinenza del popolo romano e sua, in quanto console, dirimere le controversie fra Tolomeo e sua sorella e che tanto più la cosa lo riguardava poiché nel precedente consolato aveva fatto, per legge e per decreto del senato, un'alleanza con Tolomeo padre, fece sapere che era di suo gradimento che il re Tolomeo e sua sorella Cleopatra sciogliessero gli eserciti che avevano e ponessero fine alle dispute davanti a lui, secondo le vie legali, piuttosto che tra loro con le armi.
108 A causa della giovane età del fanciullo un eunuco di nome Potino, suo pedagogo, era reggente del regno. Egli, in un primo momento, cominciò a lamentarsi fra i suoi e a provare indignazione che un re fosse chiamato a difendersi; successivamente, trovati fra gli amici del re alcuni pronti ad aiutarlo nei suoi piani, fece venire di nascosto da Pelusio ad Alessandria l'esercito e mise a capo di tutte le milizie lo stesso Achilla di cui abbiamo fatto cenno. Lo istigò e inorgoglì con promesse sue e del re e gli fece sapere il suo piano per mezzo di lettere e ambasciatori. Nel testamento di Tolomeo padre erano stati indicati come eredi il maggiore dei due figli e la più anziana delle due figlie. Nel medesimo testamento, in nome degli dei e dei patti stipulati con Roma, Tolomeo chiamava a testimone il popolo romano perché venissero rispettate queste disposizioni. Una copia del testamento era stata portata a Roma per mezzo di suoi ambasciatori perché venisse depositata nell'erario (questa copia non poté essere depositata nell'erario a causa dei rivolgimenti politici e rimase presso Pompeo), una seconda copia uguale era stata lasciata ad Alessandria e, siglata col sigillo, era stata pubblicata.
109 Mentre davanti a Cesare vengono trattate tali questioni, poiché egli vuole sopra tutto, in qualità di arbitro e amico comune, dirimere le controversie dei sovrani, all'improvviso giunge la notizia che l'esercito regio e tutta la cavalleria si dirigono su Alessandria. Le milizie di Cesare non erano affatto tali per numero che si potesse contare su di esse nel caso si fosse dovuto combattere fuori della città. Non gli rimaneva che restare sulle sue posizioni nella città e tentare di conoscere il piano di Achilla. Tuttavia diede ordine ai soldati di stare in armi ed esortò il re a inviare ad Achilla ambasciatori scelti fra le persone più autorevoli tra i suoi familiari e a manifestargli il proprio volere. Dal re furono inviati Dioscoride e Serapione, che erano stati entrambi ambasciatori a Roma e avevano avuto grande autorità presso Tolomeo padre. Giunsero presso Achilla ed egli, quando arrivarono al suo cospetto, prima di ascoltarli e di conoscere per quale motivo fossero stati inviati, ordinò di catturarli e ucciderli. Uno di essi fu ferito e, preso dai suoi, fu portato via come se fosse morto, l'altro fu ucciso. Dopo questi fatti, Cesare fece in modo di avere in suo potere il re, ritenendo che il nome del re avesse grande autorità presso i sudditi, perché sembrasse che la guerra era stata intrapresa non per iniziativa del re, ma per decisione di pochi cittadini privati, per giunta avventurieri.
110 Le truppe che erano con Achilla erano tali da non apparire disprezzabili né per numero né per qualità né per esperienza militare. Aveva infatti in armi ventimila uomini. Queste truppe erano formate con soldati di Gabinio, ormai avvezzi alla vita licenziosa di Alessandria e dimentichi del nome e della disciplina del popolo romano, che colà avevano preso moglie e la maggior parte dei quali aveva avuto figli. A questi si aggiungevano ladroni e assassini raccolti in Siria, nella provincia della Cilicia e nelle regioni vicine. Si erano inoltre radunati e arruolati molti condannati a morte ed esuli. Per tutti i nostri schiavi fuggitivi Alessandria rappresentava un sicuro rifugio e una sicura condizione di vita purché si arruolassero nell'esercito. Se qualcuno di essi veniva ripreso dal suo padrone, i soldati, per accordo unanime, glielo portavano via, poiché essi stessi, dal momento che erano nella stessa situazione di colpa, difendevano i loro compagni dalla violenza come se fosse un pericolo loro. Costoro, secondo una vecchia consuetudine dell'esercito alessandrino, erano soliti chiedere la morte degli amici del re, saccheggiare i beni dei ricchi, assediare la casa del re per avere un aumento di stipendio, scacciare alcuni dal regno, chiamarvi altri. Vi erano inoltre duemila cavalieri. Tutti costoro erano diventati veterani attraverso le numerose guerre di Alessandria, avevano rimesso sul trono Tolomeo padre, avevano ucciso i due figli di Bibulo, avevano condotto guerre contro gli Egiziani. Da ciò derivava la loro esperienza militare.
111 Confidando su tali milizie e disprezzando l'esiguo numero dei soldati di Cesare, Achilla occupava Alessandria, tranne quella parte della città che era in mano a Cesare a ai suoi soldati. Con un primo assalto tentò di fare irruzione nella casa di Cesare, ma questi sostenne il suo attacco grazie a delle coorti disposte lungo le vie. E nel medesimo tempo si combatté presso il porto e questo fu il combattimento di gran lunga più pesante. Contemporaneamente, divisesi le forze in drappelli, si combatteva anche in parecchie vie e i nemici con un gran numero di soldati tentavano di impadronirsi delle navi da guerra. Fra queste ve ne erano cinquanta mandate in aiuto a Pompeo, che, terminata la guerra in Tessaglia, erano tornate a casa, tutte quadriremi e quinqueremi allestite e completamente equipaggiate per la navigazione; oltre a queste ve ne erano ventidue, tutte coperte, che erano solite stare di presidio ad Alessandria. Se i nemici se ne fossero impadroniti, una volta sottratta a Cesare la flotta, sarebbero stati padroni del porto e di tutto il mare e avrebbero impedito a Cesare i vettovagliamenti e l'arrivo di aiuti. E così si combatté con tanto accanimento quanto era dovuto, vedendo nella lotta gli uni una veloce vittoria, gli altri la chiave della loro salvezza. Ma Cesare ebbe la meglio e incendiò tutte quelle navi e le rimanenti che erano nei bacini, poiché con poche truppe non era possibile la difesa di uno spazio così ampio, e subito sbarcò i soldati presso Faro.
112 Il Faro è sull'isola una torre di grande altezza, di mirabile costruzione; essa trae il proprio nome dall'isola. Quest'isola, posta di fronte ad Alessandria, ne crea il porto; ma i primi re gettarono in mare un molo lungo novecento passi che, con un angusto passaggio, la unisce quasi come un ponte, alla città. In quest'isola vi sono abitazioni di Egiziani e un quartiere grande come una città; e qualunque nave, ovunque, per inesperienza o per burrasca si allontana un poco dalla rotta, viene di solito depredata piratescamente. Inoltre nessuna nave può entrare in porto, a causa della stretta imboccatura, contro la volontà degli occupanti di Faro. E Cesare, temendo ciò, mentre i nemici erano impegnati nella battaglia, fatti sbarcare i soldati, si impossessò di Faro e vi pose un presidio. E per conseguenza di ciò si garantì in sicurezza l'afflusso per mare di frumento e rinforzi. Mandò infatti richieste di aiuto attorno, per tutte le province vicine. Nelle altre parti della città si combatté in modo che ci si ritirò alla pari e nessuno dei due contendenti fu ricacciato (causa di ciò fu l'angustia del luogo); pochi uomini furono uccisi da entrambe le parti; Cesare si impadronì dei punti strategici e di notte li fortificò. In quella zona della città vi era una piccola parte della reggia, che egli aveva subito occupato per abitarvi, e il teatro, collegato alla reggia, che fungeva da rocca e aveva un accesso al porto e ai cantieri navali del re. Nei giorni successivi potenziò queste fortificazioni, perché, avendole di fronte, gli servissero da mura e non fosse costretto a combattere contro la sua volontà. Frattanto la figlia minore del re Tolomeo, nella speranza del possesso del regno vacante, lasciò la reggia rifugiandosi da Achilla e incominciò a dirigere la guerra insieme a lui. Ma in breve tempo sorse tra loro una contesa sul potere supremo e ciò fece sì che le elargizioni ai soldati fossero aumentate; ciascuno cercava infatti di conquistarsi il loro favore con grandi profusioni di denaro. Mentre presso i nemici accadeva ciò, Potino [tutore del fanciullo e reggente del regno, che si trovava nel quartiere occupato da Cesare] mandava ambasciatori ad Achilla esortandolo a non desistere dall'impresa e a non perdersi d'animo; i suoi messaggeri furono denunziati e catturati ed egli fu ucciso. [Questi furono gli inizi della guerra alessandrina].

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