Cesare Pavese: "La luna e i falò"

Materie:Scheda libro
Categoria:Generale

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Testo

PARTE RELATIVA ALL’AUTORE

La vita dell’autore, le opere composte e il pensiero

L’autore del libro è Cesare Pavese, piemontese, delle colline delle Langhe, trovò presto impiego, dopo la laurea in lettere, presso la Casa Editrice Einaudi, che ebbe allora, anche ad opera di egli, una parte essenziale nella formazione di una nuova cultura progressista. Il Pavese, che aveva ricevuto l’influsso del maestro Augusto Monti, perfezionò la propria conoscenza della letteratura angloamericana, e contribuì, con articoli sulla rivista “La Cultura” e con traduzioni, a farla conoscere, collaborando così alla formazione del mito dell’America. Pur non appartenendo a movimenti antifascisti organizzati, nel’35 fu condannato a tre anni di confino in un piccolo paese in Calabria. Ricevuta l’amnistia nel ’36, riprese il suo posto alla Einaudi. Nel dopoguerra, il suo lavoro di organizzatore di cultura e la sua attività di narratore ne fecero una figura di primo piano del mondo intellettuale italiano. Nel ’50 ebbe il Premio Strega, allora fra i più prestigiosi; nell’agosto dello stesso anno si suicidò.
Il suo primo libro pubblicato, fu un volume in versi (“Lavorare stanca” 1936), che per la materia, per i personaggi e per il tono tendenzialmente in prosa, si poneva in antitesi con l’ermetismo (culto della poesia pura) diffuso notevolmente in quel periodo. In quel libro il Pavese già anticipava i motivi e i toni che si sarebbero caratterizzati come costanti nel suo stile: i temi dell’adolescenza e della solitudine; l’attrazione che si instaura tra campagna e città; la tendenza a utilizzare personaggi del “popolo”. Il suo stile è stato più volte ridefinito, ma forse il termine più adatto è quello di “Realismo lirico”, questo a sottolineare la tendenza a insistere con forza su particolari realistici e prosaici per farne dei simboli.
Tra i temi centrali, forse quello che più ritorna tra le sue righe è la solitudine, situazione interiore dalla quale non si può fuggire. Il Pavese questo lo sapeva bene avendo dovuto subire molti fallimenti in amore e vita sociale. L’ultima sua infatuazione fu per un’attrice statunitense che gli ispirò un secondo libro in versi “Verrà la Morte e Avrà i tuoi Occhi”, 1951. Il fallimentare inserimento sociale in un’organizzazione a fini politici lo ha portato alla composizione di un romanzo tra i meno riusciti: “Il Compagno”, 1947.
Il suicidio del Pavese viene ad identificarsi con la mancata capacità di accettare la vita e la solitudine.
La sua opera nasce così spinta da due costanti punti fissi: la solitudine esistenziale e la ricerca di solidarietà. L’opera è quindi lo specchio del suo dramma interiore e perciò i suoi romanzi narrano le storie di uomini che si trovano coinvolti in vicende collettive, ma che non riescono a stringere un rapporto con gli altri che riempia i vuoti che ci sono in loro, e che è, al di là di ogni contingenza di storia, un vuoto esistenziale.
Dietro lo schema realistico dei suoi libri si nasconde una sostanza diversa, che emerge particolarmente in “Il Mestiere di Vivere”, 1952, postumo, e “Dialoghi con Leucò”, 1947. Sostanza dell’arte, scrisse il Pavese, è il “mito”, cioè “un fatto avvenuto una sola volta per tutte, che perciò si riempie di significati, e sempre se ne andrà riempiendo… fuori del tempo”. Il “mito” coincide perciò con la giovinezza che gli uomini di maturi cercano di capire.
L’arte diventa così la continua creazione di miti e la stessa atmosfera mitica e lirica torna anche in quei libri del Pavese che sembrano tra i più realistici: “Paesi tuoi”, 1941, “La Luna e i Falò”, 1950, “La Casa in Collina”, 1947-’48, “Tra Donne Sole”, 1949, “La Bella Estate”, 1949.
Secondo il Pavese scrivere è “mettere nelle parole tutta la vita che si respira a questo mondo, comprimercela e martellarcela”, poetica di un alto Decadentismo, che dietro le apparenze labili vuole scorgere miti ancestrali ed eterni.

Avvenimenti storici e culturali che possono aver influenzato l’autore

La vita dell’autore occupa l’arco temporale che va dal 1905 al 1950. Durante questo periodo fondamentali sono gli avvenimenti legati alla Seconda Guerra Mondiale e all’avvento del Fascismo. L’autore non è uno spettatore diretto della guerra e sicuramente pur essendoci numerosi collegamenti nei suoi romanzi a quest’ultima, il problema più pressante per il Pavese è il suo conflitto interiore. Importanti sono invece gli avvenimenti culturali: in piena età Neorealistica, il Pavese sceglie una via diversa, egli trova un compromesso tra Neorealismo e Decadentismo, creando una stilistica personale, sicuramente influenzata anche dalle letterature straniere e in particolare da quella americana.
Cronologia
1900-1910: Notevoli riforme caratterizzano l’età giolittiana mentre, progredisce lo sviluppo industriale del paese. Nel Partito socialista, dopo una breve parentesi durante la quale i massimalisti hanno la maggioranza, prevale il gruppo riformista di Turati.
Le ultime riforme del governo Giolitti riguardano soprattutto il suffragio universale maschile. Nel 1911 l’Italia dichiara guerra alla Libia.
1913-1915: Nel 1914 cade il ministero Giolitti e il nuovo governo si trova coinvolto ben presto nel problema dell’intervento in guerra.
1915-1925: Ha inizio la Prima Guerra Mondiale che porterà alla vittoria definita parziale dagli altri stati, per l’Italia. Mussolini, dopo aver creato e rafforzato il partito fascista, riceve l’incarico di formare il nuovo governo grazie alla marcia su Roma avvenuta nel 1922.
1925-1928: Il 3 gennaio 1925 Mussolini dà inizio alla dittatura fascista. Nei due anni a seguire viene imposto un regime sempre più autoritario.
Stalin dà il via all’industrializzazione forzata della Russia.
1928-1935: Nel ’35 Mussolini invade l’Etiopia. Il crollo di “Wall Street” (1929) scatena la depressione economica negli Stati Uniti, provocando una grande recessione in Europa ed un inasprirsi dell’attività dei partiti di sinistra.
1935-1940: Nel ’39 Mussolini occupa l’Albania. Nello stesso anno, allo scoppio del conflitto, l’Italia dichiara la non belligeranza, ma il 10 giugno 1940 dichiara guerra alla Francia.
La Germania si annette all’Austria nel 1938 e nel 1940 occupa la Francia.
1940-1943: Nel 1941 L’Italia dichiara guerra agli Stati Uniti.
La Germania scatena una “guerra lampo” in Europa occidentale e in Russia. Nel 1941 Hitler avvia il sistematico sterminio degli Ebrei.
1943-1947: Nel ’45 Mussolini viene ucciso dai partigiani. Nel giugno 1946 un referendum istituzionale sancisce la vittoria della repubblica sulla monarchia.
La Germania viene sconfitta.
1947-1950: Nel 1948 la Democrazia cristiana ha il 48,5% dei voti; Luigi Einaudi viene eletto presidente della repubblica. Sempre nello stesso anno entra in vigore la Costituzione dello Stato italiano. Nel ’50 l’Italia assume l’amministrazione fiduciaria della Somalia, che scadrà nel 1960.
PARTE RELATIVA ALL’OPERA LETTA

Caratteristiche dell’opera

“La Luna e i Falò” è un romanzo composto dal 18 settembre al 9 novembre 1949, ma pubblicato solo nel ’50. Il romanzo è ambientato in Piemonte, di cui viene data la localizzazione di un piccolo paese sulle Langhe chiamato S. Stefano Belbo. La vicenda si svolge nel Dopoguerra e in breve rivede Anguilla, il protagonista tornare al suo Paese natale dove trova un’atmosfera e una situazione completamente diversa.

I personaggi

I personaggi che si alternano in questo brano sono semplici e realisticamente descritti. Sono gente comune, che cerca di mandare avanti un’esistenza fatta di sforzi e di povertà. Il personaggio principale è Anguilla, un trovatello che passa la giovinezza a lavorare come bracciante, dopo la leva si trasferisce in America e torna nel Dopoguerra al paese natale constatando, inizialmente costernato e stupito, il destino dei conoscenti, ma soprattutto la brutalità degli uomini incattiviti dalla guerra. L’amico d’infanzia Nuto lo comprende e cerca allo stesso tempo di fargli capire quella società tanto cambiata, che non è più sua.
Vi sono poi Valino, il violento nuovo possessore della sua antica casa, suo figlio Cinto in cui il protagonista rivive la sua infanzia, Irene, Silvia e Santa, le figlie di Matteo, il suo vecchio padrone della Mora, che fanno una fine infausta, Padrino e Virgilia, i suoi genitori adottivi e infine Teresa, la sua compagna.

Riassunto dell’opera letta

Il romanzo letto è organizzato attorno alla vita del protagonista e copre l’arco temporale di circa quarant’anni.
Il protagonista è visto nelle prime scene del romanzo, tornare al suo paese natale. Egli, abitante di Genova, lavora in una piccola impresa costituita al ritorno dagli Stati Uniti dove aveva fatto fortuna.
Al ritorno al suo vecchio paese, non può fare a meno di notare la vita degli abitanti, osservandoli, ma soprattutto tramite l’amico d’infanzia Nuto durante una lunga chiacchierata.
Il protagonista nel tornare al paese rivanga nel suo triste passato che lo rivede abbandonato dai suoi genitori e successivamente accolto in un piccolo ospedale ad Alba. Molto probabilmente per opportunismo la famiglia di Padrino, Virgilia ed altre due bambine lo adotta, ricevendo in cambio dall’ospedale cinque lire al mese. La sua infanzia è per questo infelice e viene passata tra povertà e lavoro fino a quando il Padrino vende il podere e comincia a lavorare come bracciante. Egli viene messo al servizio in una grossa cascina: la Mora, dove gli viene affibbiato il soprannome di Anguilla.
Arrivata l’età per il servizio militare si sposta a Genova dove comincia a frequentare alcuni antifascisti che, poco più tardi vengono arrestati. Il protagonista decide così di fuggire e finisce dopo varie vicissitudini a stanziarsi in California.
Durante la guerra viene internato e solo qualche anno più tardi può tornare a Genova, trova l’occasione di rivedere Nuto che gli racconta la brutalità della guerra e della Resistenza, lo informa della cattiva situazione della sua famiglia e gli spiega che anche dopo anni di lotte sono sempre i ricchi che comandano. A queste notizie Anguilla decide di tornare alla vecchia cascina dove però vive una nuova famiglia che tira avanti in condizioni disperate. Il protagonista diventa lealmente amico di Valino, padre di Cinto, un bambino nato storpio. Valino è brutale con la sua famiglia, forse per la fame e la povertà, e spesso picchia le donne e il figlio stesso.
Anguilla si rispecchia nel piccolo Cinto, in lui rivive la sua infanzia e significativa è la condivisione dell’usanza di accendere Falò sulle colline la notte di S. Giovanni.
Dai discorsi con Nuto, Anguilla aveva anche appreso il destino dei padroni della Mora, Irene, Silvia e Santa le figlie del possessore della tenuta hanno fatto tutte una brutta fine: Irene ha sposato un uomo vittima del vizio del gioco che ha dissipato tutte le finanze, Silvia è morta e di Santa non viene detto quasi nulla.
La conclusione del romanzo è drammatica: Valino uccide la cognata e la suocera, dà fuoco alla cascina e poi si impicca, mentre Cinto, anch’egli vittima della disperazione del padre si difende con un coltello regalatogli precedentemente da Anguilla e scappa.
Dopo questi avvenimenti il protagonista capisce la vera situazione degli abitanti e Nuto capendolo decide di raccontagli la fine di Santa: ella si era legata ai fascisti facendo del doppio gioco. Quando fu scoperta fu portata su una collina, uccisa e il suo corpo bruciato.

Commento all’opera letta

“La lune e i Falò” è l’ultima testimonianza della poetica del Pavese: ritornano i temi del mondo contadino sulle Langhe, ma su di esso è passata la guerra, la violenza e la morte, qualcosa si è mosso, almeno una speranza è sorta, anche se ancora i contadini, in uno scoppio di pazzia, dopo tanto soffrire, uccidono i familiari e incendiano le case, l’ordine sociale di un tempo, dopo la fine della guerra, si è ricostruito: con questo il Pavese raggiunge il punto massimo, la purezza estrema nella sua poetica. La mitizzazione di eventi, di paesaggi, di personaggi, giunge a dare la più profonda interpretazione di un mondo umano e sociale, di una storia e di una natura
La vastità di temi proposta è eccezionale e espressa con chiarezza anche se non mancano punti in cui la narrazione si dimostra piuttosto pesante.
La critica non ha mancato di definire questo romanzo: due sono i filoni ricorrenti, per la maggior parte dei critici è sicuramente un’opera di una poetica e di una lirica esemplare, per altri nella narrazione esistono troppi vuoti.
In generale si può sintetizzare che questo libro è il riassunto dello stile e della tematica di tutta la sua opera, sapientemente ricostruito su un alternarsi di toni che vanno dal realistico al lirico e viceversa.
Molto interessante è l’analisi del personaggio di Anguilla che torna al vecchio paese dilaniato dalla guerra: un po’ confuso, non si presenta davanti ad egli una scena di felicità per la fine del conflitto, ma un contesto sociale distorto. I paesani non riescono più ad accettare la vita per come si presenta, non riescono a cogliere ciò che di bello ne può essere tratto e si lasciano andare a gesti inutili, ma soprattutto che danneggiano gli altri. I paesani non accettano la povertà, la fame e il lavoro, ma non cercano una soluzione per riscattarsi materialmente e costruttivamente da questi problemi che assillano la vita di tutti i giorni e la rendono una continua lotta contro quella classe tanto odiata e invidiata dei ricchi borghesi, che pur avendo anch’essi risentito della guerra e dei ribaltamenti della situazione sociale, hanno risaputo prendere in mano le redini del potere e trovare ancora un equilibrio nella società. Se durante la guerra “le carte della società sono state mescolate”, ora più che mai si sono riordinate secondo una delle più antiche leggi: il più forte è colui che è ricco, possiede terre e denaro.
Ma vi è un altro problema, stavolta legato al protagonista: è il suo bisogno di colmare quel vuoto di cui si è parlato precedentemente, il vuoto esistenziale che, secondo il Pavese è in ognuno di noi, ma in alcuni uomini si acuisce particolarmente diventano un vero e proprio bisogno. Anguilla è un caro amico, leale, ma non crea con nessuno degli altri personaggi un’amicizia capace di annullare il ricordo di essere un orfano, figlio di nessuno, ne di poveri o ricchi, istruiti o non. Il vuoto di Anguilla è singolare e compare già nella prima pagina del romano quando il personaggio non sa dare risposta alla domanda “Chi sono?”, è questa forse la domanda che si è posto l’autore che si immedesima nel personaggio. L’autore è colui che crea un protagonista a sua immagine, un uomo con tanti amici, inserito in un contesto sociale, ma che in realtà è solo e non può far comprendere il suo stato agli altri, se non a Cinto, il figlio storpio di Valino, che, picchiato dal padre e orfano di madre si sente ugualmente abbandonato a se stesso e al suo destino. Anguilla riesce a creare un’amicizia particolare con il piccolo di cui diventa una specie di padre adottivo.
Tra i temi trattati, anche se non è tra i primari, è importante sottolineare l’importanza della famiglia, ma soprattutto della famiglia vera, che viene vista come origine della personalità, ma anche come punto di riferimento per i figli e tutti coloro che la compongono.
La fine di questo romanzo è sicuramente drammatica, ma è significativo il fatto che venga lasciata una possibilità di riscatto a tutti i paesani e in senso più ampio, viene lasciata una sorta di barlume di luce, di uscita, a tutti quelli che soffrono e che sono soli.

La Critica: Leone Piccioni (tratto dalla prefazione del Premio Strega “La Bella Estate”)

“… il libro premiato fu “La Bella Estate”, tra le opere del Pavese meglio riassuntive e definitive della sua intera ricerca, che sempre resterà, una di quelle (con il coronamento, quasi immediato – aveva da bruciare in breve, non aveva più tempo- de “La Luna e i Falò”) che ci consegnano il narratore vero: quello che Pavese era, quasi subito (vorrei dire) e che dovette tornare ad essere, anche se attenzioni diverse, tentativi coraggiosi ma violenti, fatti a sé stesso verso una forma di totale adesione ideologica, influenze subite dall’esterno, anche, forse, un poco di “snob” per ricerche e per studi intensi a fargli battere strade non a lui congeniali, seppure esaltate dalle allora “idee correnti”, lo portarono anche ad altre proposte: non così sue, non così belle; e dar la misura vera dello scrittore che era e dell’inquieto, tragico personaggio per un’età come quella, come un “exemplum” solo […]. Venne poi la straordinaria figura di Silvia nella “Luna e Falò”; si poté rivedere che importanza, in quella dimensione di scelta, poteva aver avuto in Pavese un tentativo come “La Spiaggia” già stampato nel ’42, interrompendo subito il filone, più volontario, del nuovo realismo verista di “Paesi Tuoi” e di “Feria d’Agosto”; ci venne più tardi in mente un complesso rapporto, per lo meno, d’amore per la proposta narrativa di Scott Fitzgerald, poeta e personaggio e la descrizione della felice strada narrativa di Pavese, la sola, la vera: ci fu chiara fin dal saggio “Vita e Morte” scritto nel ’51.
Si cercava così un modo di descrizione critica di quella sola felicità, di quel unicità certa che Pavese ha proposto con l’opera sua, che ci fa persuasi della giusta conclusione del suo lavoro con “La Bella Estate”, soprattutto, con “La Luna e i Falò”, coronamenti veri….”

Le riviste con cui collaborò il Pavese: “Cultura” e “Solaria”, due portavoce della nuova letteratura

“Cultura”

La rivista letteraria, che uscì a Roma nel 1881, nacque sotto la direzione di Ruggero Bonghi, che la organizzava pressoché interamente e che le diede un’impostazione ampiamente divulgativa e informativa, con molte notizie bibliografiche e cenni di enciclopedismo.
Nel 1906 ne divenne direttore E. De Ruggiero che cercò di offrire una maggiore specializzazione chiamando a collaborarvi per le varie sezioni studiosi di spicco. Nel 1907 vennero a dirigerla De Lollis e il Festa, che la trasformarono in una rivista di studi letterari e filosofia, facendola banditrice dell’estetica e del metodo crociano, con la collaborazione del Croce stesso. Nella nuova versione della rivista, che, con il nome “Nuova Cultura”, nel 1903, sotto la direzione del De Lollis, del Festa e del Borghese, si presentava ancora fortemente segnata dall’indirizzo crociano, ma con ampie sezioni dedicate alla critica. Nel 1914, rimasto solo, il Borghese, che ne mutò il titoli in “Il Conciliatore” e ne fece una rivista di letteratura militante italiana e straniera, riducendo lo spazio dedicato alla filosofia e alla religione e aggiungendo sezioni dedicate alla musica e alla arti figurative. Cessate le pubblicazioni nel 1915, la “Cultura” riprese ad uscire con il vecchi nome nel 1921, sotto la guida del De Lollis: è il periodo più vitale della rivista, che opera un intelligente aggiornamento culturale con le letterature e le culture straniere, essa agisce non più secondi il metodo crociano di pensiero e di critica, ma dà una visione obiettiva del mondo letterario. Subentrato nella direzione il Neri nel 1929, si accentuano negli anni 1932-’35, i problemi con il regime fascista. Nacquero così i primi processi che portarono al coinvolgimento di alcuni collaboratori (Cajumi, Bosco, Praz, Trompeo, Zottoli, Migliorini e Pavese). Nel 1935 la rivista fu soppressa. Solo nel 1962 la “Cultura”, diretta dal Calogero, rinasce sotto un profilo storico-filosofico.

“Solaria”

La rivista trattante argomenti letterari uscì a Firenze dal 1926 al 1936, con la direzione di Alberto Carocci, affiancato prima da G Ferrara poi da A. Bonsanti. Essa ha costituito il luogo di raccolta e di azione della più avanzata letteratura novecentesca: dal punto di vista critico, ha compiuto un rapido e ingente lavoro di aggiornamento culturale, raccogliendo non soltanto le fondamentali nozioni poetiche e critiche contemporanee, ma iniziando e svolgendo l’elaborazione autonoma, in Italia, dei concetti teoretici e metodologici della poesia pura, fino a fondare le basi dell’ermetismo.
La rivista è stata il centro programmatico di un ritorno alla narrativa, intesa in senso non realistico, ma saggistico, come narrare della memoria, racconto lirico, in cui fantasia e moralità abbiano un’eguale parte.
“Solaria” raccolse così intorno a sé le prime prove della nuova letteratura, da Carlo Emilio Gadda a Quarantotti, da Pavese a Vittorini, da Loria alla Manzini, a Bonsanti, a Bilenchi: e portò ad un alto livello l’opera dell’Ungaretti e del Montale, diffuse il Saba, celebrò lo Svevo, pubblicò il primo libro del Quasimodo, tradusse opere del Proust e formò la stilistica del Contini.

Il Premio Strega

Il Premio Strega è un premio letterario italiano, fondato nel 1947 a Roma dagli Amici della domenica, gruppo di letterati che frequentavano il salotto di Goffredo e Maria Bellonci. Viene assegnato ogni anno nel Ninfeo di Villa Giulia, a Roma. Il Pavese ricevette questo riconoscimento nel 1950 per “La Bella Estate”.

Le domande che porrei all’autore se lo incontrassi:
- “Il romanzo che ha composto è uno dei più grandi coronamenti della sua opera, ne è soddisfatto pienamente?”
- “Rivive la sua situazione psicologica nella vicenda vissuta da Anguilla?”
- “Cosa pensa e come giudica Valino?”
- “Crede davvero che la guerra possa portare gli uomini ad uccidere?”
- “Perché ricrea la sua vita in quella di Anguilla?”
- “Ritiene che l’amicizia non possa colmare ogni vuoto che c’è in noi?”

Bibliografia

- Enciclopedia UTET del 1970, stampata a Torino.
- Enciclopedia multimediale Omnia ’97 de Agostini.
- “L’Attività Letteraria in Italia” di Giuseppe Petronio, edizione Palumbo del 1979, stampata a Firenze.
- “La Bella Estate” di Cesare Pavese, edizione Einaudi del 1993 stampata a Milano.

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