"La luna e i falò" di cesare Pavese

Materie:Scheda libro
Categoria:Generale

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Testo

Luisa Lascialfari IV F
Relazione del libro
AUTORE: Cesare Pavese
TITOLO: La luna e i falò
Borgaro Torinese (Torino), Einaudi Scuola
LA STORIA
La luna e i falò è l’ultima opera di Pavese,un romanzo dai toni enigmatici, pieno di significati nascosti, con tratti fortemente autobiografici, tanto da contenere un velato annuncio del futuro suicidio dell’ autore stesso.
La vicenda, ambientata nelle Langhe torinesi, racconta del ritorno di Anguilla, soprannome del protagonista, di cui per altro non viene mai fatto il vero nome, al paese in cui aveva trascorso l’infanzia: Santo Stefano Belbo.
Anguilla aveva lasciato il suo paese pressappoco all’età di venti anni prima per lavorare a Genova e poi in America, dove si era dovuto recare per sfuggire all’ordine di cattura sopraggiunto per aver frequentato un gruppo di congiuranti comunisti. A Santo Stefano trascorrerà due settimane di vacanza, nell’albergo nella piazza del paese, tempo che trascorrerà in gran parte con Nuto, un vecchio amico della giovinezza, con rievocherà alcuni episodi della passata gioventù.
Anguilla non aveva radici perché era un trovatello, era quello che dalle sue parti veniva chiamato bastardo, ma era stato accolto da una famiglia di contadini che riceveva in cambio del denaro dal comune per il suo sostentamento. Aveva vissuto e lavorato duramente da bambino nel podere di Gaminella di proprietà dei suoi genitori adottivi, la Virgilia e il Padrino, che avevano altre due figlie. Poi una volta che la Virgilia era morta e il Padrino era troppo vecchio per tenere un podere così grande, lui e le sue due figlie se ne erano andati a vivere in un paese vicino, mentre lui era stato assunto come bracciante nel podere della Mora, nei pressi di Gaminella. Da allora non li aveva più visti ne avuto loro notizie, ma seppe da Nuto le ultime nuove su di loro.
Durante il suo soggiorno Anguilla viene chiamato “l’Americano” ed è corteggiato da molti proprietari e personaggi famosi del paese perché acquisti le loro terre o sposi qualche loro figlia, ma lui non è interessato a tutto questo, non è per questo che è ritornato nel suo paese. È solito trascorrere i pomeriggi a passeggiare con il suo amico Nuto; finalmente un giorno ripassa davanti al podere di Gaminella dove adesso lavorava come mezzadro il Valino, con la nuora, Rosina, una vecchia, probabilmente la madre di lei e suo figlio Cinto. In questo esile, ma brioso ragazzetto storpio, Anguilla rivede se stesso da giovane, perciò lo prende a cuore e instaura con lui un rapporto carico della tenerezza di un padre.
Tutto il romanzo, per il resto è un continuo flash-back al passato e al ricordo della sua vita trascorsa, con un elenco delle vicende in ordine sparso, secondo come ritornano alla mente del protagonista.
Vengono narrate tutte le vicende del podere della Mora, dello sfacelo di una famiglia e della fine delle tre figlie del padrone Matteo: Silvia, morta di emorragia in seguito a un aborto, Irene morta di stenti in una misera casa, maltrattata da una marito cui si era sposata per far piacere al padre e Santina, la cui fine è svelata solo nelle ultime pagine del romanzo.
I due amici passano poi in rassegna tutte le vicende, i mestieri, gli incontri, gli amori vissuti da Anguilla durante il suo soggiorno in America miste a qualche scorcio sugli eventi accaduti nel frattempo in paese e sulle avventure passate dei due giovani: le feste di paese, le fiere a Canelli con Nuto che suonava il suo clarino e gli episodi della gioventù.
In quei giorni tutto il paese è scosso dal ritrovamento nelle campagne dei cadaveri di due repubblichini (membri della Repubblica di Salò), uccisi quasi sicuramente dai partigiani; questo ritrovamento scatena dibattiti politici in paese, anche tra Nuto, comunista convinto, e il suo amico, arrivando perfino a mobilitare il parroco con la sua propaganda anticomunista.
Poi la sera prima che il protagonista parta per tornarsene a Genova incontra Cinto, che correndo terrorizzato e agitato, racconta la storia della sua tragedia familiare. Era scampato alla follia di suo padre, reso violento e frustrato dalla condizione di miseria in cui era costretto a vivere che aveva ucciso sua madre, Rosina, la vecchia, dato la casa alle fiamme e poi si era impiccato ad un albero del suo podere.
Così prima di partire il protagonista provvede economicamente a Cinto e lo sistema dal suo amico Nuto così che impari un mestiere, quello del falegname e non venga trattato da bestia, come invece accadeva nella sua famiglia.
Quasi per sfogarsi Nuto gli svela prima della sua partenza quale fu la vera fine di Santina: la ragazza, dopo la morte del padre, aveva trovato lavoro a Canelli come collaboratrice dei fascisti, ma poi, attraverso il contatto con Nuto era entrata a far parte delle truppe partigiane di Baracca che vivevano sulle montagne circostanti. Baracca, però dopo numerosi episodi sospetti si convinse che la giovane facesse il doppio gioco, per cui la fece catturare , uccidere e poi bruciò il suo cadavere con un grande falò.
Fabula e intreccio in questo romanzo non coincidono, così come tempo della storia e tempo del racconto sono evidentemente sfalsati tra loro, in quanto tutto il grosso della narrazione è un flash-back sulle passate vicende del protagonista o di ciò che era avvenuto in paese durante la sua assenza; non mancano anche le prolessi come per quando riguarda la morte di Santa, che già nota viene però svelata nella sua verità solo alla fine del romanzo.
Questa isocronia, oltre ad avere l’effetto di riprodurre in maniera più fedele tutto il flusso dei ricordi che riaffiorano via via che li racconta alla mente del protagonista, produce nel lettore un senso di attesa, con la loro irruzione continua nel regolare svolgersi della narrazione.
AUTORE
La vita - Cesare Pavese nasce il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, piccolo paese nelle Langhe cuneesi, di cui era originaria la famiglia paterna. Nel podere che qui possiede il padre trascorrerà tutte le vacanze estive fino al 1916, anno in cui la famiglia è costretta a vendere la proprietà. Infatti due anni prima, nel 1914, Pavese aveva perso il padre ed aveva frequentato la prima elementare in paese. Pavese ne soffrì molto di questo distacco: il paesaggio collinare delle Langhe e la sua gente, infatti sono ormai ben radicati nel suo animo e nella sua memoria, come testimonierà gran parte della sua produzione letteraria.
Completa gli studi elementari a Torino e qui si iscrive al Liceo Massimo D’Azeglio, dove è allievo di Augusto Monti, professore e scrittore antifascista riconosciuto come maestro di cultura e di vita da molti intellettuali della generazione di Pavese. Al ginnasio conosce quello che sarà l’amico di sempre, Mario Sturani, diversissimo per indole, ma simile per sensibilità e curiosità artistiche.
Nel 1927 Pavese si iscrive alla facoltà di Lettere, ma segue anche corsi di letteratura inglese e americana e infatti si laureerà nel 1930 con una tesi sul poeta statunitense Walt Whitman, il grande poeta del cosiddetto “Rinascimento americano”, poeta energico ed entusiasta, talvolta perfino rozzo e declamatorio, a cui Pavese comincia a guardare come a un’alternativa alla cultura italiana afflitta dall’autarchismo fascista.
Pochi mesi dopo perde anche la madre e inizia a collaborare con la rivista fondata da De Lollis “La Cultura” di cui sarà perfino qualche mese direttore responsabile. Il suo primo articolo riguarda lo scrittore Sinclar Lewis, da poco premiato con il Nobel e di cui Pavese pubblicherà l’anno dopo la traduzione di un romanzo. Questa è la prima di un lunga serie di opere tradotte, di cui la più famosa e impegnativa è senza dubbio il Moby Dick di Melville(1932); infatti l’interesse per la letteratura anglosassone e statunitense in particolare, accompagnerà tutta la vita dello scrittore, tanto che, assieme ad Elio Vittorini, ha il merito di aver fatto conoscere in Italia la letteratura americana.
Dopo la morte della madre vive presso la sorella Maria e, pur continuando l’attività di traduttore, insegna anche in numerose scuole. Medita e scrive intanto quei versi che saranno poi raccolti in Lavorare stanca (1936) e lavora a esperimenti in prosa che verranno pubblicati postumi.
Collabora con la neonata casa editrice Einaudi, fondata nel 1933, dirige nel 1934 la rivista “La Cultura” e si prepara per il concorso di italiano e di latino per i licei. Nel 1935 la rivista viene chiusa dalle autorità fasciste e Pavese, trovato in possesso di lettere politicamente compromettenti, viene arrestato e condannato a tre anni di confino in Calabria, che lo costringono ad abbandonare tutti i suoi progetti e i suoi affetti.
Il confino è però più breve del previsto e già nel 1936 può tornare a Torino dove viene a sapere che l’amata Tina si è fidanzata con un altro e che Lavorare stanca non ha ottenuto il successo sperato.
Per superare questo periodo di tristezza Pavese si dedica totalmente al lavoro, traducendo insegnando e collaborando con la Einaudi. Non pubblica però nulla fino al 1941, che vede il suo esordio narrativo con Paesi tuoi, cui seguiranno La spiaggia e altri romanzi che pubblicati nel dopoguerra.
Nel 1943 si trasferisce a Roma per lavorare alla succursale dell’Einaudi e trascorre poi l’ultimo periodo della guerra in Monferrato con la sorella, insegnando in istituti religiosi. In questo periodo avrà modo di approfondire i suoi studi etnografici, religiosi e antropologici; in particolare gli studi sul mito e l’assiduità con un giovane padre comasco lo porteranno ad un passo dalla conversione religiosa. Finita la guerra ritorna a Torino dove rimarrà fino alla sua morte. Qui aderisce al partito Comunista e collabora con “L’Unità”, ma questa non è una scelta politica veramente sentita, il che gli farà meritare non poche critiche, poiché siamo negli anni in cui è prevalente la figura dell’intellettuale politicamente impegnato.
Nel 1950 entra a far parte della redazione di “Cultura e realtà”, anche se prima della sua morte uscirà solo un numero della rivista con un suo saggio intitolato Il mito.
Pavese sta attraversando una feconda stagione artistica e nel 1946 pubblica Feria d’agosto, nel 1947 Il compagno e Dialoghi con Leucò. Del 1949 è il volume Prima che il Gallo canti, comprendente Il carcere e La casa in collina. L’anno successivo pubblica La luna e i falò e riceve il Premio Strega per La bella estate, raccolta di tre racconti.
Nonostante i riconoscimenti letterari Pavese è sconfortato, soprattutto a causa delle sue vicende private. Ha conosciuto a Roma l’attrice Constance Bowling e se ne è innamorato, tanto da scrivere per lei le dieci poesie della raccolta Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Il rapporto tra i due risulterà presto impossibile e Pavese scriverà nel suo diario: «non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla».
Lo stato di protratta pubertà, la solitudine sentimentale, la difficoltà dei rapporti politici, l’esaurimento fisico, provocano il gesto lungamente vagheggiato: Pavese si uccide a Torino il 27 agosto 1950, in una camera dell’hotel Roma, ingerendo il contenuto di numerose cartine di sonnifero. Sul frontespizio di Dialoghi con Leucò scrive le ultime parole, che richiamano quasi alla lettera quelle lasciate dal poeta russo Majakovskij, anch’egli suicida: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono.Va bene? Non fate molti pettegolezzi».
Le opere
Lavorare stanca: raccolta di poesie pubblicate nella versione definitiva nel 1943; compaiono negli anni in cui trionfa l’ermetismo, ma si distinguono per il loro genere di poesia-racconto, sono cioè poesie che intendono narrare storie, con un linguaggio molto più prosastico che lirico, e con un atteggiamento che si può definire tendenzialmente realistico.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: seconda ed ultima raccolta di poesie composte in vari periodi e pubblicate postume.
Dialoghi con Leucò: scritta fra il 1945 e il 1946, è una delle opere più isolite di Pavese. Si tratta di una lunga serie di dialoghi tra personaggi del mito greco. Il trema del mito aveva sempre affascinato Pavese, sia perché esso trova le sue origini nell’infanzia e nel mondo della campagna, sia perché mette in scena la contrapposizione fra il destino cui non si può sfuggire e il desiderio di libertà, tra l’istinto selvaggio e la civiltà e il dominio di sé.
Prima che il gallo canti: il volume è composto da due romanzi brevi Il carcere (1938), ispirato all’esperienza del confino e La casa in collina (1947), che narra la vita e le disillusioni di un professore durante il periodo della guerra.
La luna e i falò: è considerato da molti critici il migliore romanzo della produzione dell’autore, poiché in esso è possibile trovare sintetizzati tutti i temi dell’opera pavesiana.
Il mestiere di vivere: è il diario dello scrittore ed è interessantissimo per comprendere la sua personalità, i suoi sentimenti e le angosce e gli interessi che hanno segnato la sua vita.
Autore e narratore non coincidono in quanto la vicenda è narrata dal punto di vista di Anguilla, protagonista del romanzo. Il narratore è quindi omodiegetico e il grado di focalizzazione interno e fisso.
PERSONAGGI.
Il protagonista è Anguilla, un orfano allevato da una famiglia di contadini, che poi lascia il suo paese in cerca di soldi e fortuna in paesi lontani, per superare quella valle che gli stava un po’ stretta, che non gli bastava come orizzonte della sua vita, come mondo in cui vivere. Non c’è una descrizione fisica del personaggio, ma alla fine emerge la figura di un uomo inquieto, costantemente alla ricerca del suo passato, sofferente per la mancanza di un’origine, ma che tuttavia non riesce a fermarsi in un posto stabilmente per mettere le sue radici.
Un altro personaggio è Nuto, di soli due anni più grande di Anguilla, ma che era sempre stato il suo mito e il suo modello. Nuto al contrario di Anguilla era conosciuto e stimato, veniva invitato alle feste a suonare il clarino, aveva davanti a sé un avvenire più certo. Tuttavia al suo ritorno in paese sorprende l’amico perché ha deciso di “appendere il clarino al chiodo” per fare il falegname e seguire le orme del padre.
All’incontro con Cinto, con questo ragazzetto vivace, ma zoppo e rachitico, viene data molta importanza nel romanzo: in lui Anguilla rivede se stesso bambino e per suo tramite rivive sentimenti e pensieri di quel tempo. Per cui il rapporto tra Cinto e Anguilla è assimilabile a quello che c’è tra padre e figlio, in quanto Anguilla racconta al ragazzo cosa ha visto in tutti i suoi viaggi, gli svela cose che non conosce e cerca, alla fine del romanzo, di mutare la sua condizione sociale e di assicurargli un futuro e un buon mestiere.
I personaggi che popolavano il podere della Mora occupano una lunga sequenza del libro e in particolare sono importanti per il giovane Anguilla le figure delle due figlie del “sor” Matteo: Silvia e Irene, esuberante e vispa la prima, più pacata e delicata la seconda. Le loro vicissitudini amorose costituiscono infatti, se pur indirettamente, la prima educazione sentimentale di Anguilla e nello stesso tempo lo fanno riflettere per la prima volta sulle differenze di ceto sociale.
Tutti i personaggi citati nel romanzo sono in stretto rapporto con il personaggio di Anguilla in quanto tutti fanno parte dei suoi ricordi o sono entrati in rapporto con lui. Un rapporto speciale è vissuto con Nuto, che comunque sia è una figura singolare, diviso com’è tra un “fatalismo immobilista” e l’impeto ideale che lo spinge a combattere l’ignoranza, la sudditanza per i partiti e per i potenti, le disparità sociali, i mali del mondo contadino; è un personaggio strano che talvolta difende le ragioni della superstizione e delle credenze della campagna legate alla luna e ai falò, mentre talvolta impedisce all’amico Anguilla di abbandonarsi a vagheggiamenti e a pensieri irrazionali.
La condizione sociale di quasi tutti i personaggi che Anguilla conosceva era mutata da quando lui era partito, ma ciò non toglie, come più volte sottolinea l’autore in più passi del libro che nulla però della vita di campagna era mutato: «Era stano come tutto fosse cambiato eppure uguale». Neppure Nuto, che ne aveva la possibilità, aveva cambiato vita. L’unico che apparentemente aveva cambiato la sua vita era Anguilla, che con i suoi viaggi, da povero orfano, era divenuto un uomo benestante, corteggiato in paese da coloro che dovevano vendere un terreno o maritare una figlia. Però come dichiara lui stesso tutto questo suo viaggiare era stato inutile perché il “viaggio porta sempre al punto di partenza”, vale a dire lui era sempre alla ricerca di un’origine, di un luogo di cui poter dire “ecco cos’ero prima di nascere”, insomma dopo tutti il suo peregrinare non era riuscito ancora a trovare ciò che desiderava.

AMBIENTE E QUADRO STORICO.
L’ambiente è reale, addirittura connotato e con nomi di luoghi, fino ad arrivare ai particolari delle colline e ai nomi dei poderi e dei loro proprietari. Tutta la narrazione si svolge in un contesto rurale, appunto nel paesino di campagna che è Santo Stefano Belbo, che si trova nelle Langhe cuneesi.
Esistono rapporti tra personaggi e luoghi perché nonostante il protagonista si senta sradicato da ogni luogo e non riesca a trovare pace, ci sono luoghi che per lui hanno un valore simbolico. L’America, che coincide in questo caso con gli Stati Uniti, è simbolo della speranza di potere fare fortuna, ma anche di un popolo anch’esso senza radici e storia, in mezzo al quale il protagonista si poteva facilmente confondere. Ci sono poi le colline del paese in cui aveva trascorso l’infanzia, che nella giovinezza gli erano apparse come l’unico ed estremo confine del mondo in cui si poteva vivere. Anche dopo tutti gli anni trascorsi lontano rimane tuttavia un rapporto speciale con la casa di Gaminella, e tutto il podere un tempo di proprietà dei genitori adottivi.
La vicenda si svolge nell’immediato dopoguerra, e lo si capisce perché l’ambiente e i personaggi portano ancora i segni del fascismo, della guerra e della guerriglia del periodo della Resistenza. Nella narrazione non è dato di sapere se tutti i personaggi citati sono veramente esistiti, certo è che sono storicamente verosimili e funzionali alla narrazione della vicenda del protagonista.
STILE
-Scelte lessicali e sintattiche attuate dall’autore. Il linguaggio utilizzato ne La luna e i falò è un linguaggio che ricalca spesso e volentieri le forme della lingua parlata e in particolare le forme e i modi di dire del dialetto piemontese, non solo nei dialoghi, ma anche nelle parti narrative. Il periodare è breve e molto semplice, non mancano perciò frasi ellittiche; l’aggettivazione è scarna, ma efficace e mirata.
-Figure retoriche. Tutto il romanzo è ricco di figure semantiche, sintattiche e morfologiche, quali similitudini, metafore, sinestesie, sineddoche e ossimori, ma anche anacoluti ed ellissi, in prevalenza tratte dal linguaggio o dal gergo contadino e dall’ambiente della campagna.
Tutta questa struttura particolare del testo, unita alla penuria di elementi narrativi, rende scorrevole la lettura del testo, ma richiede un’acuta attenzione del lettore, che deve badare al particolare che si cela dietro ogni parola, dietro ogni aggettivo.
La critica afferma anche che in più passi del romanzo il ritmo della narrazione e il suono delle parole scritte siano progettati in modo da richiamare, per esempio, l’atmosfera di un gioiosa festa di paese o il ritmato suono degli zoccoli di un cavallo che traina un calesse.
VALORI, MOTIVAZIONI
La narrazione non ha un valore molare esemplare, poiché non si impone come fine il far notare al lettore un particolare comportamento da seguire o il comunicare un particolare insegnamento, tuttavia è intrisa di tutta la concezione e il modo di vedere la vita e le tematiche propri del Pavese. Il tema del destino, affrontato nei colloqui con l’amico Nuto, il tema del ritorno al proprio paese d’origine, il paesaggio caricato di valenze simboliche, il mito della campagna, ben reso anche dal titolo La luna e i falò (infatti la luna influenzava i tempi di raccolta, mietitura e semina di tutte le colture e i falò venivano accesi per propiziare i raccolti in determinati giorni dell’anno), segnano tutta la narrazione.
CONSIDERAZIONI PERSONALI.
Questo romanzo è un’opera piuttosto singolare, per il contenuto e per la trama che risulta poco avvincente. Tuttavia non è un libro da prendere alla leggera, va letto con attenzione, perché tutto è sottinteso, nelle brevi frasi scambiate tra Nuto e Anguilla sono contenute verità grandi, valori, ipotesi di significato sul senso della vita. Per cui, poiché non tratta argomenti futili, il romanzo può offrire degli spunti interessanti.
Mi ha molto colpito lo stile disinvoltamente semplice e dialettale di Pavese, che accompagna così il lettore a una sorta di stupita riscoperta della realtà(anche attraverso episodi passati, anche attraverso dei flash-back), ma non della realtà in quanto tale, ma del simbolo che essa sottintende e del mistero che dietro ad essa si cela.
È interessante perciò lo sguardo attento dato ai luoghi; Pavese ricorda attraverso Anguilla che tutto nelle campagne è cambiato: non ci sono più le stesse facce di quando era ragazzo a popolare cascine e poderi, sono cambiati i proprietari, talvolta anche le colture, ma tutto è rimasto nell’insieme inspiegabilmente uguale. Anguilla, nome in proposito emblematico, era fuggito da quel nido nascosto trai pendii, era sguisciato via da qual mondo alla ricerca di qualcosa che gli bastasse, che lo soddisfacesse, e adesso, tornato al suo paese, si accorgeva non solo di come lui non avesse trovato ciò che desiderava, ma anche di come niente, riguardo a tradizioni, alla vita scandita dalle stagioni, ai modi di fare, alle credenze fosse mutato in campagna, luogo del mito e della tradizione.

Esempio



  


  1. giovanni

    poesia con metafore e similitudini

  2. raganella

    Veramente bello, l'ho letto tutto d'un fiato.. è proprio il genere di libro che consiglierei ad un amico..

  3. la luna e i falò

    appunti la luna e i falò