La filosofia

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Testo

LA FILOSOFIA

Il primo fiorire della riflessione filosofica si ebbe nel VI sec. a.C. nelle colonie greche dell'Asia Minore, verosimilmente anche per il contatto stimolante con le esperienze religiose e le osservazioni astronomiche dell'Oriente. Alle antiche cosmogonie mitiche si sostituì gradualmente la concezione di una materia animata, principio di tutte le cose, le quali derivano dal suo vario atteggiarsi e trasformarsi e in essa tornano a immergersi al termine del proprio ciclo vitale. Tale principio fu individuato nell'acqua (Talete), nell'aria (Anassimene), nel fuoco (Eraclito) e nell'infinito, inteso come l'originaria sostanza indeterminata (Anassimandro). Questi pensatori affrontarono anche il problema del modo in cui gli individui particolari emergono dalla sostanza originaria e tornano poi a dissolversi nel tutto. La legge fondamentale di questo processo è vista da Eraclito nel movimento risultante dalla tensione dei contrari (“tutto scorre”, “la guerra è madre di tutte le cose”), mentre gli eleati (Parmenide, Zenone di Elea) insistono sul carattere illusorio della molteplicità e del movimento, approfondendo il concetto dell'Essere unico, sempre identico a se stesso, non avente né principio né fine. I temi dibattuti in questi esordi della filosofia occidentale sono gli stessi presenti nella sua preistoria, e cioè nelle precedenti teogonie e cosmogonie mitiche: la ferrea immutabilità del destino, l'onnipresenza di una legge di necessità e di giustizia, la ciclicità degli eventi, il finale ritorno nell'unità originaria. La nuova mentalità “scientifica” non va vista come la risultante di un radicale salto qualitativo rispetto all'antica, giacché al contrario vecchio e nuovo, mito e costruzione razionale sono strettamente uniti e non sempre chiaramente distinguibili. Solo nel secolo seguente la filosofia di Democrito propone l'immagine di un cosmo completamente demitizzato: gli atomi, tutti uguali per qualità e differenti solo per figura, forma e posizione, si muovono di moto originario nello spazio vuoto, si urtano, si aggregano e si disgregano, costruendo e disfacendo in una vicenda incessante i vari composti. Questo modello di un universo tutto spiegabile solo attraverso il moto dei corpi nello spazio (meccanicismo), rimasto in ombra in una cultura filosofica presto dominata dai grandi sistemi idealistici, era tuttavia destinato a una straordinaria fortuna, per la forza suggestiva delle sue radicali semplificazioni.
All'altra estremità del mondo greco, in Sicilia e nell'Italia meridionale, i pitagorici introdussero nella nostra civiltà il principio della funzione eminente della scienza del numero nell'interpretazione della realtà. Una tradizione molto antica attribuisce a Pitagora il primo uso del termine “filosofia”, con il quale egli intese indicare la condizione di chi ricerca il sapere e non quella di chi lo possiede, poiché “nessuno è sapiente all'infuori del Dio”. La scuola pitagorica ebbe il carattere di una setta mistico- religiosa, nella quale si entrava solo attraverso un rito di iniziazione. Gli aderenti erano tenuti a mantenere il segreto sulle dottrine rivelate dal maestro. Secondo Pitagora tutte le cose hanno un numero e senza il numero nulla può essere conosciuto. Va però subito aggiunto che il numero pitagorico è in primo luogo un'entità magico-simbolica (il tre è perfetto perché contiene il principio, il mezzo e la fine, il sette è il numero di Atena e della verginità, ecc.), assai più corposa dell'astrazione matematica. Ma al di là dell'alone magico entro cui il numero è racchiuso e del quale è rimasta traccia in tante superstizioni popolari stanno i risultati delle ricerche matematico-scientifiche della scuola.
Nel corso del secolo compreso tra la fine vittoriosa delle guerre persiane (449-448 a.C.) e la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) il centro della riflessione filosofica si spostò nella Grecia propriamente detta, e particolarmente in Atene. In questo periodo vissero Socrate, Platone e Aristotele, tre pensatori che arricchirono in misura incomparabile la tradizione filosofica della nostra civiltà. L'intensificarsi dei rapporti fra le varie città greche e soprattutto il contatto con culture lontane e diverse avevano indebolito il rispetto per i princìpi etico-religiosi ereditati dal passato. Un tale ampliamento di orizzonte trovò la sua espressione intellettuale nella spregiudicatezza e nell'irriverenza dei cosiddetti sofisti: uno dei maggiori fra essi, Protagora (485-411 a.C.), affermava che tutte le leggi sono una convenzione umana e che “l'uomo è misura di tutte le cose”, delle verità teoretiche come dei valori morali. Questo relativismo metteva in primo luogo in crisi la santità delle tradizioni e la saldezza delle istituzioni, sicché non pare ingiustificato l'uso dell'espressione “illuminismo greco”, con la quale alcuni storici designano l'attività dei sofisti, che viene con ciò implicitamente paragonata a quella degli intellettuali europei del XVIII sec. L'affermarsi della democrazia in Atene, d'altro canto, rese sempre più importante, ai fini del successo nell'agone politico, l'arte del persuadere i propri concittadini nelle assemblee: i sofisti furono appunto ammirati maestri di retorica, che insegnavano dietro pagamento ai giovani ambiziosi e ricchi della nuova società ateniese le tecniche del parlare e del convincere.

SOCRATE
L'alternativa valida alla dissacrazione operata dai sofisti non stava certo in una restaurazione forzosa della religione e dei valori dei padri. La via difficile che scelse Socrate gli costò l'inimicizia dei conservatori e dei democratici, e, alla fine, la vita stessa. Ma quale fu in realtà la posizione di colui che è stato chiamato con qualche ragione “il fondatore della scienza morale”? Egli metteva in luce l'insufficienza del vuoto tecnicismo retorico dei sofisti e voleva che ciascuno procedesse all'esame delle regole di condotta acriticamente accettate, per verificare se esse resistessero al controllo della riflessione. Di qui i lunghi e minuziosi interrogatori a cui sottoponeva i suoi interlocutori, costringendoli a uscire dall'inerzia e dalla passività e a diventare coscienze vigili e inquiete, preoccupate di individuare nel profondo il senso e la motivazione dei propri atti. Un tale risultato non veniva perseguito con prediche moralistiche e col richiamo a norme appoggiate a una qualunque autorità indiscutibile: attraverso il dialogo socratico l'interlocutore giudica se stesso, scopre le contraddizioni e le incoerenze delle proprie superficiali giustificazioni e si persuade della necessità della scienza, vale a dire di un sapere autentico, che funga da “pilota dell'anima”. Prima sconcertato dal disgregarsi di tutte le proprie presunte certezze sotto l'azione implacabile del rigore socratico, consapevole ormai della propria ignoranza, l'interlocutore ben disposto finisce tuttavia per acquisire il bene più prezioso: l'esigenza di proseguire la ricerca fino a raggiungere il persuaso accordo con se stesso. E poiché questo risultato è possibile, anche se richiede impegno e fatica, si deve concludere che nell'ordine morale non tutto è arbitrio e convenzione. L'uomo che “conosce se stesso” scopre che esistono valori assoluti: nel possesso di essi consiste il vero sapere, dall'obbedienza a essi nascono la virtù e la felicità.

PLATONE
Disgustato da una breve esperienza del potere durante il governo dei Trenta, Platone assisté impotente a quella serie di vendette politiche che culminarono con l'uccisione del suo amato maestro, avvenuta quando egli aveva ventotto anni. Divenne così dominante in lui il problema della città giusta, guidata da uomini saggi, nella quale simili delitti diventassero impossibili. La meditazione di questo tema fondamentale lo condusse alla costruzione di una nuova filosofia, esposta con mirabile vivezza nei suoi Dialoghi. Il dato sensibile è mutevole e inafferrabile, mentre la scienza presuppone una realtà stabile, sempre identica a se stessa, che non può dunque essere quella colta dai sensi. Oggetto della scienza è l'idea, organo della conoscenza di questa è la ragione. Le figure geometriche che il matematico contempla nel suo pensiero non sono quelle, approssimative e imperfette, che egli disegna sulla sabbia: la filosofia ci insegna a elevarci alla visione di quei modelli ideali, di cui gli oggetti sensibili sono copie inadeguate. Il dualismo di sensibile e di intelligibile implica per Platone una nuova e globale concezione della realtà e dell'uomo nella quale vengono assorbite e inverate antiche concezioni mitico-religiose: il mondo intelligibile è il luogo naturale dell'anima, la quale, caduta sulla Terra ed entrata nella prigione del corpo, deve liberarsi attraverso un processo di purificazione; l'ascesa conoscitiva dal sensibile all'intelligibile è anche passaggio dall'impurità alla purezza, dal vizio alla virtù, dal male al bene. C'è così uno stretto legame fra l'ascetismo etico e l'attività conoscitiva, e del resto anche dall'esperienza dell'amore fisico si viene liberando l'Eros autentico, che è nella sua essenza aspirazione al possesso degli intelligibili e da ultimo dell'idea suprema, il Bene, causa e principio di tutte le altre. La conquista del mondo ideale è la premessa necessaria (e per tale via il pensiero di Platone ritorna alle sue origini) alla costruzione dello Stato giusto, diviso in classi secondo una struttura che rispecchia fedelmente le tre anime dell'uomo e capace di comporre il dissidio fra virtù e felicità, che travaglia il mondo.

ARISTOTELE
Incline all'osservazione della realtà naturale e storica più che all'astrazione matematica e al vagheggiamento della città perfetta, Aristotele portò nella ricerca filosofica il dono singolare di uno spirito sistematico unito a una viva sensibilità per il concreto. La vasta enciclopedia costituita dalle sue opere, frutto dei corsi da lui tenuti per tredici anni al Liceo (335-322), comprende come parte preliminare una logica, che nel linguaggio moderno si chiamerebbe “logica delle classi”. Aristotele è stato uno dei più grandi sistematori di questa disciplina, con la sua dottrina dei princìpi logici e con l'analisi minuziosa dei modi in cui può articolarsi il ragionamento deduttivo, da lui ricondotto allo schema fondamentale del sillogismo Nella metafisica, scienza dell'essere “in quanto tale”, viene individuata la struttura del reale nell'unità di materia e di forma, elementi costitutivi di ogni individuo possibile. Nella fisica Aristotele vede il movimento degli esseri dominato da un ordine finalistico, che si esplica in una scala di attuazioni sempre più perfette, fino all'assoluta pienezza di Dio. L'universo fisico, che ha al suo centro la Terra, comprende il mondo sublunare e quello sopralunare, costituito da un “quinto elemento” incorruttibile, che è la materia del cielo, corpo divino ruotante eternamente con le sue sfere intorno a Dio: è questo il modello fisico-astronomico che nella nostra civiltà ha dominato quasi senza contrasto fino a Copernico e a Galileo. Nella fisica è compresa la biologia, e, poiché il principio della vita è l'anima, il trattato dedicato a quest'ultima è come una prefazione allo studio delle varie specie viventi e della generazione e corruzione degli individui che le compongono. Segue lo studio dell'uomo, e cioè in primo luogo l'etica, che non è una vuota precettistica, ma una ricerca obiettiva dei comportamenti umani, e poi la politica, in cui la classificazione delle varie forme possibili di ordinamento dello Stato deriva dallo studio attento di numerose costituzioni diligentemente raccolte. Il corpo degli scritti di Aristotele si chiude con la poetica, in cui l'opera d'arte è presentata come una forma particolare di imitazione della realtà. Aristotele è una delle più grandi figure della storia della filosofia, uno di quegli ingegni straordinari che dominano e organizzano con la loro capacità di sintesi tutto il sapere di un'epoca.

STOICISMO, EPICUREISMI, SCETTICISMO
Nel secolo seguente, dopo la morte di Alessandro Magno, Atene, benché politicamente decaduta, restò la capitale della filosofia. Ma i nuovi pensatori non furono più arditi riformatori politici, impegnati appassionatamente nella vita della città. Alla filosofia essi domandavano ormai solo il conforto della saggezza, e la concepivano come un “farmaco dell'anima”, capace di liberare quest'ultima dalle sue malattie: questo spirito è comune a tutti i filosofi della nuova età, greci di lingua, ma spesso di origine lontana, fenicia, siriaca o babilonese. Tale impostazione del senso dell'indagine filosofica ebbe conseguenze vastissime: le parole “stoico”, “epicureo”, “scettico” sono passate nella lingua corrente e designano, ormai senza riferimento alcuno alla loro origine storica e con implicazioni immediatamente chiare per tutti, determinati modi di atteggiarsi di fronte alla vita. La stessa parola “filosofo”, nella sua accezione più popolare, contiene un'allusione precisa al distacco, alla sopportazione e al disimpegno, che sono tratti comuni della saggezza propagandata dallo stoicismo, dall'epicureismo e dallo scetticismo. Le scuole ispirate a tali movimenti erano certo meno esclusive dell'Accademia di Platone o del Liceo di Aristotele, poiché non pretendevano di educare solo un'aristocrazia intellettuale, e si disseminarono perciò rapidamente in tutta l'area del mondo greco prima, e poi di quello romano. Stoicismo, epicureismo e scetticismo costituivano agli inizi della nostra era vere e proprie comunità filosofiche, alle cui dottrine gli aderenti chiedevano in definitiva solo la prescrizione di regole pratiche di condotta, capaci di assicurare una felicità stabile e duratura, non coinvolta nelle vicende della fortuna, della salute e dell'assetto politico degli Stati. Per lo stoicismo, fondato da Zenone di Cizio, l'essenza dell'uomo è la ragione, che lo connette alla totalità del reale. Il mondo è infatti un essere divino, un grande corpo animato dal soffio vitale dell'anima, che è sostanza ignea immanente in tutte le cose. Il ritmo della vita del mondo procede secondo l'alternanza costante di un processo evolutivo e di un successivo ritorno all'unità originaria del fuoco eterno e ogni nuovo ciclo ripete esattamente i momenti di quello precedente (eterno ritorno). Il fuoco è chiamato Ragione, Fato, Provvidenza, tutte denominazioni che vogliono suggerire l'idea di un ordine razionale predeterminato, di una legge immodificabile preposta alla vita del mondo. In un universo così concepito la saggezza sta nel consentire al tutto, nel “volere la volontà del mondo”, nel “seguire la natura”. Con tale disposizione interiore, che non è rassegnazione passiva, ma consenso attivo e persuaso, conquistato a prezzo di un duro impegno intellettuale e pratico, l'uomo consegue la liberazione dalle passioni (apatia) e diviene membro di quella città universale, di cui il Dio supremo è il capo e gli uomini e gli dei sono cittadini.
Movendo da premesse del tutto diverse, gli epicurei dettero una soluzione analoga del problema, anch'essa incentrata sulla conquista di un controllo razionale del disordine delle passioni. La felicità consiste per l'uomo nel piacere, ma in un piacere “stabile”, cioè senza variazioni e turbamenti, e perciò identificabile senz'altro con l'assenza di dolore. La maggior parte delle preoccupazioni che turbano l'uomo è frutto di false rappresentazioni: così noi temiamo l'al di là, presunto luogo di pene future, popoliamo l'universo di entità divine e demoniache che esigono da noi sacrifici, temiamo le meteore e le eclissi come annunci di imminenti sventure. Ora tutte queste superstizioni, che avvelenano la vita umana, nascono da un'erronea concezione del mondo fisico. L'unica spiegazione razionale di esso è quella atomistica, per la quale tutti gli esistenti, anime umane comprese, sono aggregati casuali e provvisori di atomi, destinati a dissolversi per dar luogo a nuove formazioni. Se vita è l'aggregarsi degli atomi e morte la loro disgregazione, finché noi saremo non ci sarà la morte, e quando questa verrà non saremo più noi: il timore della morte si riferisce a una esperienza impossibile. Parimenti infondati sono il timore dell'al di là e quello degli dei, i quali ultimi sono anch'essi aggregati provvisori di atomi, del tutto indifferenti alle nostre vicende. A questo punto ciò che si frappone ancora fra l'uomo e la felicità sono i desideri che non possono essere soddisfatti e le sofferenze delle malattie. La prudenza ci aiuta a liberarci dai primi, insegnandoci che la felicità è assenza di pena e che la pena si elimina sopprimendo il desiderio; quanto alle seconde, si può sempre compensare il dolore presente col ricordo delle gioie passate.
Anche per gli scettici, che rifiutano qualunque scelta e sospendono programmaticamente il giudizio, la saggezza consiste nell'imperturbabilità (atarassia) epicurea, integrata dalla rinuncia perfino all'uso della parola (afasia), in un mondo popolato da vani fantasmi. Collocato in un universo a lui estraneo, ma non ostile fino al punto da rendere impossibile la salvezza del singolo, l'uomo si redime conquistando la libertà interiore e coltivando la saggezza come faticosa arte del disimpegno dalla realtà e dalla storia.

NEOPLATONISMO
Negli ultimi secoli dell'Impero romano il motivo religioso si innestò sempre più profondamente nella ricerca filosofica. La salvezza terrestre offerta dallo stoicismo e dall'epicureismo non bastava più. Una nuova, angosciosa insicurezza esigeva orizzonti meno chiusi. La liberazione e la redenzione del singolo erano ancora lo scopo supremo, ma contro le forze occulte che circondavano l'uomo bisognava trovare mezzi e aiuti più efficaci, e li si cercava nelle pratiche rituali, nell'iniziazione ai misteri, nella magia, in ogni dottrina che promettesse di condurre i mortali “alle fresche acque dell'eterna vita”. Il tentativo di ordinare in strutture razionali questi irrequieti fermenti prende il nome di sincretismo filosofico- religioso; come esempio tipico di esso può essere indicata l'opera di Plotino (203-270), il cui neoplatonismo costituisce il vero e proprio canto del cigno del pensiero greco.
Il vivente rapporto del finito con l'infinito, la distanza incommensurabile fra Dio e le cose e al tempo stesso l'eterno discendere delle cose da Dio e l'eterno loro risalire a Lui: questa vibrazione amorosa dell'universo è il motivo dominante della speculazione di Plotino. Il principio di tutte le cose è Dio, l'Uno ineffabile. Il molteplice rimanda all'unità, da cui è derivato per un processo di separazione e di degradazione, che raggiunge il suo limite e tocca i confini del nulla nel mondo delle cose sensibili, dove la luce dell'Uno si confonde con le tenebre della materia. L'uomo, chiuso nella sua prigione corporea, è come un esule a cui è aperta la via del ritorno: percorrendo la strada già indicata da Platone, egli si innalza per gradi al di là del molteplice, ritorna all'Uno, Bene supremo, e si ricongiunge con lui nell'estasi finale. La filosofia dell'emanazione, secondo la quale dall'Uno deriva l'Intelligenza universale, da questa l'Anima del mondo, matrice a sua volta delle anime individuali è, almeno nella struttura schematica, col suo doppio movimento della discesa e della risalita, il modello di molte costruzioni metafisiche, da Spinoza a Hegel, a Bergson.

CRISTIANESIMO
La religione cristiana includeva una nuova concezione del destino dell'uomo, fondata sulla Rivelazione e perciò in linea di principio indipendente dalla filosofia. Tuttavia l'incontro tra filosofia e cristianesimo era inevitabile ed ebbe luogo in due momenti successivi. Dapprima i padri della Chiesa, la maggior parte dei quali aveva una ricca cultura profana, utilizzarono gli strumenti concettuali forniti dalla filosofia sia per la difesa (apologia) del cristianesimo dagli attacchi degli intellettuali pagani, sia per assicurare l'interpretazione corretta del messaggio cristiano e respingere quelle ritenute aberranti (eresie). Nel corso di questi conflitti prese corpo l'esigenza, che poteva anch'essa essere soddisfatta solo con l'ausilio della grande tradizione filosofica greca, di collocare i princìpi ispiratori della nuova religione e le sue verità fondamentali (dogmi) in un corpo dottrinale unitario e organico. Più tardi, quando a partire dall'XI sec. si affermò la cosiddetta scolastica, l'aspirazione a una sistemazione definitiva e armonica trovò in molte circostanze favorevoli e nell'emergere di alcune grandi personalità le condizioni necessarie per realizzarsi. Un avvenimento di importanza capitale a questo fine fu l'introduzione in Occidente della filosofia di Aristotele, pervenuta al mondo cristiano per il tramite dei commenti dei grandi interpreti arabi. Cessò così per un certo periodo il predominio del platonismo agostiniano, durato fino agli inizi del XII sec., e si affermò quello dell'aristotelismo, che raggiunse il suo vertice nella poderosa sintesi filosofico-teologica di san Tommaso d'Aquino (1224-1274). La scolastica, a prescindere dai suoi risultati sistematici, pure di grande rilievo, lasciò alla cultura occidentale la positiva eredità del gusto per il rigore formale e per la precisione logica, gusto talvolta degenerato nella sottigliezza capziosa. Nella prima metà del XIV sec. l'affermarsi del razionalismo formalistico, dell'empirismo e del fideismo segnarono il tramonto della scolastica. Con Guglielmo di Occam in particolare († 1350), che sosteneva la singolarità di ogni esistente e l'irrealtà degli universali, il pensiero medievale rinuncia in linea di principio alla costruzione di quei grandi edifici dottrinari che per la loro maestosa e macchinosa complessità sono stati giustamente paragonati alle cattedrali gotiche.

RINASCIMENTO
La nuova civiltà filosofico-letteraria dell'Umanesimo e del Rinascimento riflette e condiziona al tempo stesso un mondo in via di profonda trasformazione: la borghesia cittadina si affermava ormai dovunque come forza sociale prevalente, i viaggi e le scoperte rivoluzionavano l'orizzonte geografico, l'invenzione della stampa mutava radicalmente i tempi e i modi della diffusione delle idee, l'unità cristiana era spezzata dall'affermarsi della Riforma. Nel quadro storico caratterizzato da tali linee il Rinascimento si annuncia con alcuni temi fondamentali che possono essere così schematizzati: ritorno alla cultura classica, con una più vasta conoscenza dei Latini e con la riscoperta dei Greci; accentuata consapevolezza del valore dell'attività dell'uomo, che operando costruisce se stesso e il suo mondo; interesse per le strutture particolari della natura e tendenza a spiegarle con cause puramente naturali. La polemica antiscolastica fu condotta in nome della riscoperta del genuino pensiero classico, della ricostruzione del “vero” Aristotele e del “vero” Platone. A Firenze fu fondata l'Accademia platonica, in seno alla quale Marsilio Ficino (1433-1499) approfondì il tema della continuità fra platonismo e cristianesimo; Padova divenne il centro del nuovo aristotelismo, dominato dalla personalità geniale del Pomponazzi (1462-1525), mentre in quegli stessi anni Leonardo da Vinci e Machiavelli venivano dando le prime risposte concrete alle domande sull'uomo e sulla natura formulate nello spirito del nuovo secolo. Leonardo (1452-1519), pur non elaborando una teoria sistematica, vide con chiarezza che solo attraverso l'esperienza la mente può penetrare nelle riposte “ragioni” delle cose, mentre Machiavelli (1469-1527) concepì la storia umana come un fatto naturale dominato da leggi immutabili, che devono esser note a chiunque voglia impostare un'azione politica efficace. Nel XVI sec. il naturalismo antiaristotelico di Bernardino Telesio (1509-1588), di Giordano Bruno (1548-1600) e di Tommaso Campanella (1568-1639), movendo dall'esigenza di conoscere la natura “secondo i suoi propri princìpi”, tentò di riproporre, anche per influenza della nuova astronomia, interpretazioni geniali e unitarie dell'universo, alla maniera dei presocratici e con molte concessioni alle scienze e alle tecniche occulte, come l'astrologia e la magia. Ma non era questa la via della nuova scienza, destinata a così luminoso avvenire. Fu nella pratica stessa della ricerca fisica e astronomica che Galileo Galilei (1564-1642) raggiunse e consolidò alcuni risultati fondamentali anche per la storia della filosofia, come il concetto della separazione della fisica dalla metafisica, quello della funzione dell'esperimento nella ricerca, quello della descrivibilità della natura nei termini matematici della grandezza, della figura e della “moltitudine”. Si fece strada la convinzione che gli insuccessi e i ritardi nella storia della scienza e della filosofia fossero da imputare principalmente all'uso di metodi errati. La critica delle idee correnti può eccezionalmente estenuarsi, come accade in Montaigne (1533-1592), nell'idealizzazione dell'intellettuale problematico, appartato e scettico che realizza nell'auscultazione di se stesso una sorta di inimitabile pienezza edonistica. Ma l'anima del secolo è più sensibile all'opposto motivo della fede nel progresso e dell'attesa di un avvenire luminoso, nel quale la potenza liberata dell'uomo si sarebbe esplicata vittoriosamente. Francesco Bacone propose un novum organum, una nuova metodologia della ricerca da sostituire all'organon aristotelico, nel convincimento che la scienza della natura avrebbe reso l'uomo padrone delle forze della natura e modificato radicalmente le sue condizioni di esistenza.

BACONE
La filosofia baconiana presenta da un lato una nuova metodologia scientifica, fondata sulla larga raccolta delle osservazioni e sulla verifica attenta e scrupolosa dei rapporti tra i fenomeni, e dall'altro alcuni modelli di organizzazione sociale della ricerca, anticipazioni geniali e fantasiose di un avvenire ancora molto lontano. È oggi opinione quasi unanime degli studiosi che l'importanza e la grandezza di Bacone siano da cogliere, molto più che nei risultati concreti da lui raggiunti nella determinazione del nuovo metodo, nella forza suggestiva del suo entusiasmo profetico. In realtà come metodologo Bacone, nonostante le sue affermazioni polemiche, è ancora troppo invischiato nel sistema concettuale della scolastica e non riesce a superare la nozione arcaica della scienza della natura come scienza delle “qualità” delle cose, quando già Galileo ha iniziato così brillantemente il processo di matematizzazione della fisica. E tuttavia il suo interesse ostentato per le tecniche artigiane, il suo senso della connessione immediata fra scoperta e applicazione, il suo frequente proiettarsi nel futuro esprimono in qualche modo la fede della nuova società nella forza rivoluzionaria della scienza che sta sorgendo e nella sua capacità di fare del mondo una più ospitale casa dell'uomo.

CARTESIO
Anche Cartesio, come Bacone e Galileo, ebbe una grande fede nella scienza e anche lui credette che mediante essa l'uomo avrebbe trasformato il mondo e riorganizzato la propria vita. Ma il progresso scientifico e tecnico e lo stesso orientamento della condotta morale presupponevano l'adozione di canoni rigorosi, che sottraessero i princìpi accolti a ogni possibile dubbio. Anche per lui dunque la fondazione del metodo è un preliminare necessario alla costruzione dell'edificio del sapere. Nel Discorso sul metodo (1637) vengono individuati, prendendo come modello il ragionamento matematico, i criteri a cui deve informarsi la ricerca di proposizioni certe, alla cui evidenza anche lo spirito più programmaticamente diffidente debba arrendersi senza perplessità. I sensi ci ingannano, tutta la realtà può essere l'ombra di un sogno, le stesse verità più incontrovertibili della matematica potrebbero mascherare errori imposti da un demone maligno e mistificatore. Ma proprio dal dubbio metodico portato alle sue conseguenze estreme scaturisce la luce di una certezza assoluta, quella appunto dell'esistenza del mio io, che pensa, dubita ed è magari ingannato (penso, dunque sono). Poggiando sul punto fermo della certezza del “me pensante”, attraverso l'indagine dei contenuti del pensiero (idee), Cartesio dimostra l'esistenza di Dio, la cui perfezione è a sua volta garanzia della veridicità delle idee “chiare e distinte”. Il criterio della chiarezza e della distinzione consente anche la costruzione di una fisica, al cui fondamento è l'idea dell'estensione: alla fisica aristotelica poggiante sulle idee confuse delle qualità sensibili Cartesio sostituisce l'idea “assolutamente chiara” del meccanicismo universale, secondo la quale i corpi sono porzioni di spazio e ogni fenomeno fisico una modificazione spaziale, integralmente traducibile in termini di geometria e di meccanica. Gli animali stessi non sono che automi, nei quali pezzi mirabilmente calibrati e articolati nelle debite proporzioni danno la fallace impressione di una vita che si solleva alle soglie della spiritualità. Ma il meccanismo vitale è autosufficiente e non esige per essere spiegato il ricorso a ipotetiche “anime”. Anima è solo la sostanza pensante, il luogo dell'autocoscienza, da cui ha preso le mosse la riflessione metafisica. Il suo dubitare e cercare, la sua possibilità di resistere al confuso e all'incerto evitando volontariamente l'errore sono altrettante prove della sua libertà. Questa tuttavia, poiché l'anima è unita al corpo, può essere condizionata e ostacolata dalle passioni, che trascinano la volontà verso i beni apparenti: il compito dell'indagine morale, così come Cartesio l'ha delineato nell'ultima sua opera, Le passioni dell'anima (1649), consiste nell'analisi del meccanismo delle passioni, in modo che la conoscenza di esso consenta di dominare l'irrazionalità degli impulsi e di utilizzarli anzi come ausiliari della Iibertà del volere. L'atteggiamento antiautoritario, la ripresa in termini moderni del motivo agostiniano dell'interiorità del vero, la spregiudicatezza critica, temperata peraltro da un dichiarato conformismo pratico, sono i motivi più fecondi e più ricchi di avvenire dell'eredità di Cartesio. Efficacia più immediata ebbe il suo razionalismo geometrico, che i numerosi cartesiani della seconda metà del Seicento cercarono di applicare anche allo studio della poesia, della politica, della morale e della religione.
Per tutta la seconda metà del XVII sec. il razionalismo cartesiano esercitò un predominio quasi incontrastato nella cultura filosofica laica dell'Europa occidentale. Pascal (1623- 1662) ebbe una formazione rigorosamente cartesiana, anche se la sua travagliata vita interiore lo portò ben presto a contrapporre l'esprit de finesse e le “ragioni del cuore” all'aridità dello spirito geometrico. Un pensatore eminente come Spinoza (1632-1677), nella cui vita spirituale confluirono componenti molto varie e complesse, derivò dall'atmosfera della cultura cartesiana alcuni suoi problemi fondamentali, come quello della sostanza, oltre all'aspirazione a costruire un'etica “geometricamente dimostrata”. Il dualismo cartesiano fra “sostanza pensante” e “sostanza estesa” fornì la trama metafisica alle meditazioni di Malebranche (1638-1715) e degli occasionalisti, che, movendo dalla cartesiana assoluta eterogeneità fra corporeo e spirituale e dalla conseguente impossibilità di una loro azione reciproca, ridussero la relazione anima-corpo a una corrispondenza occasionale, dovuta a un accordo predisposto o promosso di volta in volta da Dio. Leibniz (1648-1716) concepì un universo composto da una pluralità di spiriti e percorso da una tensione dinamica e finalistica, certo non riscontrabile nel meccanicismo di Cartesio: tuttavia il Dio di Leibniz è un Dio matematico, che calcolando sceglie e crea “il migliore dei mondi possibili”. Il programma leibniziano dell'elaborazione di un sistema di simboli (“caratteristica universale”) e delle relative regole sintattiche (“arte combinatoria”), mediante cui fosse possibile l'univoca formulazione e l'universale comunicazione del sapere, riprende l'idea cartesiana di una lingua scientifica universale. La fede in una sostanziale identità del genere umano ha certo origini molto lontane, ma Cartesio dette a quel convincimento il carattere di un assioma filosofico evidente, asserendo proprio nelle prime righe del Discorso sul metodo che la ragione “è per natura uguale in tutti gli uomini”. E infine l'atteggiamento critico, l'esigenza di verificare i fondamenti e i limiti della nostra funzione conoscitiva, il carattere pregiudiziale dell'indagine metodologica sono motivi fatti propri anche da quei filosofi che, come Locke (1632-1704), assunsero su questioni particolari posizioni addirittura antitetiche a quelle di Cartesio. La polemica di Locke contro le idee innate, legata a una situazione particolare della cultura filosofica inglese, e la connessa asserzione dell'origine empirica di tutte le conoscenze, non devono far dimenticare il fatto che Cartesio, molto più che un avversario dell'indirizzo empiristico, ne fu un maestro e un ispiratore. Quando nel XVIII sec. l'“anglomania” divenne un'inclinazione caratteristica dei nuovi intellettuali francesi, d'Alembert poteva scrivere con ragione: “L'Inghilterra ci deve quella filosofia che noi ora riceviamo da lei”. Hobbes (1588- 1679), il filosofo inglese che tentò un'interpretazione materialistica di tutta la realtà e teorizzò l'onnipotenza di quel mostro (Leviathan) che è lo Stato, conobbe Cartesio e discusse con lui nel corso dei suoi viaggi sul continente. In Italia il Vico (1668-1744) conquistò la propria originalità filosofica attraverso la polemica contro il cartesianismo ormai trionfante anche in un ambiente culturale periferico e chiuso, come era la Napoli dei suoi tempi. Al criterio cartesiano dell'evidenza Vico contrappose quello fondato sulla “conversione del vero col fatto”, per cui l'uomo può davvero conoscere solo quella realtà che egli è capace di produrre, e quindi essenzialmente la storia, gettando così le basi di una nuova scienza dell'uomo e di una nuova concezione della storiografia. Con la sua Scienza nuova, che contiene intuizioni profonde sulla natura della poesia e anticipazioni geniali dei grandi temi dello storicismo romantico, il solitario e incompreso maestro napoletano indicò una direzione realmente nuova alla filosofia dopo Cartesio.

ILLUMINISMO
Il XVIII sec. fu per eccellenza l'epoca dei “filosofi”, se si prende la parola nell'accezione riduttiva, allora divenuta usuale, di intellettuale impegnato nella lotta contro i pregiudizi e nella diffusione fra i propri simili dei “lumi” della ragione. I presupposti dottrinari e gli indirizzi pratici che caratterizzarono il vasto movimento culturale dell'Illuminismo possono essere così sintetizzati: fiducia nei poteri della ragione, strumento capace di risolvere tutti i problemi dell'uomo; polemica contro il passato, “preistoria” del genere umano cui deve succedere la vera storia, caratterizzata dalla razionalizzazione delle istituzioni politiche e sociali e dall'abbandono dei pesanti fardelli imposti dalla tradizione; fede religiosa razionale o “naturale” (deismo), che accetta dalle varie confessioni storiche solo l'idea di una Ragione divina, che soprintenda provvidenzialmente alle vicende del mondo; ricerca di una filosofia che spieghi la conoscenza e la morale senza arbitrari presupposti metafisici; interesse prevalente per la diffusione della cultura in genere e delle conquiste della scienza in particolare, al fine di sconfiggere gli avversari più irriducibili del progresso dell'umanità, individuati nell'intolleranza e nell'oscurantismo.
Questo complesso di disposizioni e di idee assunse accenti e toni particolari nelle singole culture nazionali. In Inghilterra già Locke aveva insegnato l'uso spregiudicato della riflessione critica, da lui applicata non solo alla trattazione della gnoseologia, ma anche al problema religioso, che egli risolse in senso deistico, e a quello dei limiti del potere regio, che per lui, maestro del nascente liberalismo, diventa esorbitante e illegittimo quando conculca i “diritti naturali” degli individui. Dalle sottili analisi dello Shaftesbury (1671-1713) nacque la morale del sentimento, secondo la quale alla base delle scelte etiche non c'è un sistema di norme emanate dalla divina volontà e in generale l'etica non esige necessariamente una religione a suo fondamento: esiste al contrario in ogni uomo un sentimento morale autonomo e disinteressato. Berkeley (1685-1753) fu uno spirito profondamente religioso, che combattendo con grande acume il materialismo e il “libertinismo” intellettuale dei nuovi filosofi, figli di un secolo da lui giudicato corrotto, giunse a una posizione di paradossale idealismo soggettivo: l'esistenza delle cose si risolve nel loro essere percepite da una mente (esse est percipi). Su questa radicale soluzione del problema del rapporto fra l'essere e il conoscere si innestò la ricerca di Hume (1711- 1776), il più geniale pensatore dell'Illuminismo inglese, che nel suo capolavoro, il Trattato della natura umana (1738), privò il nesso causale di ogni dignità metafisica, degradandolo ad associazione soggettiva di idee, fondata sull'abitudine e sulla credenza, e pervenne, attraverso la dimostrazione dell'impossibilità per l'uomo di oltrepassare in qualsiasi direzione l'esperienza, a uno scetticismo al tempo stesso duttile e rigoroso, caratterizzato dall'accettazione delle tendenze insopprimibili della natura umana e dalla tolleranza. Fra i continuatori e i critici di Hume vanno ricordati A. Smith (1723-1790), autore del primo trattato scientifico di economia politica, e il Reid (1710-1796), iniziatore della cosiddetta “filosofia del senso comune”.
In Francia l'Illuminismo si tenne il più possibile aderente ai problemi della società e del costume, assunse spesso un tono marcatamente battagliero e venne così elaborando il supporto ideologico della “grande rivoluzione”. Voltaire (1694-1778) fu lo scrittore più ammirato del secolo, coscienza vivente di una società in rapido sviluppo, campione della tolleranza religiosa, difensore della libertà di critica, nemico di ogni dogmatica e chiusa sistemazione di idee. Montesquieu (1689-1755) studiò il processo di formazione storica delle leggi e teorizzò uno Stato fondato sulla divisione dei poteri, tenendo d'occhio come modello la monarchia rappresentativa ormai affermatasi in Inghilterra. In Francia, inoltre, nacque, per opera principalmente di Diderot (1713-1784) e di d'Alembert (1717-1783), la grande Enciclopedia, uno strumento approntato attraverso mille difficoltà e resistenze per soddisfare l'esigenza tipicamente illuministica della diffusione della cultura, intesa non solo come sistema di idee filosofiche generali, ma anche come complesso di nozioni aggiornate nel campo della letteratura, dell'arte e soprattutto della scienza e della tecnica. La dottrina psicologica e gnoseologica di Locke fu ripresa da Condillac, che nel suo Trattato delle sensazioni (1754) volle dimostrare che tutto il complesso dei contenuti e delle facoltà psichiche deriva dalla trasformazione delle sensazioni (sensismo). A posizioni di materialismo assoluto, eccezionali e giudicate estremistiche anche negli ambienti più avanzati dell'Illuminismo, pervennero il La Mettrie (1709-1751), che scrisse L'uomo macchina (1748), e il barone d'Holbach (1723-1789), autore di un vasto Sistema della natura (1770), redatto con la collaborazione del Diderot e del matematico Lagrange. Vera originalità speculativa, nell'imponente schiera di scrittori e di filosofi che può vantare l'Illuminismo francese, va tuttavia attribuita solo a Rousseau (1712-1778), il quale peraltro per molti aspetti è già fuori dagli schemi intellettuali dell'epoca: alla ragione e alla società civile, considerate come forze corruttrici, egli contrappose la purezza dell'istinto e della natura incontaminata (Emilio, 1762) e, contemporaneamente, ritenne necessaria una trasformazione della società, che ridesse in altre forme all'uomo, ora divenuto schiavo, la libertà goduta nello “stato di natura” (Contratto sociale, 1762). In Italia il diffondersi della cultura illuministica, dopo il silenzio filosofico dell'età della Controriforma, segnò anche il faticoso e travagliato reinserimento della penisola nella vita spirituale dell'Europa. A parte il Vico, che fu certo influenzato dal nuovo corso del pensiero europeo, ma sviluppò la sua ricerca in modo del tutto autonomo e personale, fiorirono a Napoli numerosi storici, giuristi ed economisti, che derivarono dalla filosofia del secolo, oltre a vari stimoli particolari, una nuova consapevolezza dell'impegno civile dello scrittore. Altro centro vitale della cultura illuministica in Italia fu Milano: alla cerchia dei filosofi milanesi appartenne il Beccaria (1738-1794), autore dell'unica opera dell'Illuminismo italiano che ebbe vera rinomanza europea, il libro Dei delitti e delle pene (1764), tipica manifestazione dell'umanitarismo settecentesco e critica acuta delle incongruenze dei sistemi giudiziari e penali in uso nel tempo. In Germania l'Illuminismo si manifestò sia nel razionalismo accademico di Wolff (1679-1754), sia nell'attività dei cosiddetti filosofi “popolari”, meglio inseriti nello spirito del secolo con i loro interessi mondani e la loro vocazione umanistica. Il maggiore di essi fu il Lessing (1729-1781), che sentì la verità come conquista perennemente rinnovantesi e concepì la storia del mondo come progressiva educazione del genere umano. Il compito di una revisione critica dei poteri dell'uomo, necessaria per stabilire i fondamenti del nuovo sapere scientifico e per determinare il senso della nuova civiltà, fu infine intrapreso in Germania da Kant, il filosofo più grande dell'età moderna.

KANT
Kant (1724-1804) con la sua “rivoluzione copernicana” fondò sull'universalità delle forme a priori dell'io il valore obiettivo della scienza, della morale e dell'esperienza estetica. La svolta operata dalla filosofia “critica” con la sostituzione dell'idealismo “trascendentale” alle gnoseologie empiristiche e alle metafisiche dogmatiche rinnovò così profondamente la filosofia che quasi tutto il pensiero europeo tra gli ultimi decenni del Settecento e la metà dell'Ottocento si manifestò come revisione, elaborazione e sviluppo del kantismo. L'identificazione della filosofia con la metafisica dell'io, o dello spirito, o dell'idea, è il tratto comune dei rappresentanti dell'idealismo classico tedesco, Fichte, Schelling e, maggiore di tutti, Hegel. Fichte (1762-1814) eliminò il cosiddetto caput mortuum della cosa in sé kantiana e trasformò così la filosofia critica in una metafisica dell'io assoluto. Tuttavia questo io universale è una realtà che non è, ma si fa; e si fa, come è detto più chiaramente nella prima redazione della Dottrina della scienza (1794), contrapponendo a se stesso il non- io, il mondo, come ostacolo predisposto per l'attuazione della sua libertà. A questa riduzione del mondo a strumento dell'infinito compito morale dell'io Schelling (1775-1854) contrappose una visione vitalistico-romantica della natura. L'assoluto non è l'io, ma l'identità di io e non-io, di spirito e natura, dove la natura è intesa come “preistoria dello spirito” e lo spirito come “natura invisibile”: questa unità indifferenziata non può essere colta che da un'intuizione di tipo metalogico, e l'arte diventa così l'organo della conoscenza filosofica. Hegel infine (1770-1831) risolse l'antitesi idea-natura non in una identità immediata, ma in un sapere logico-concettuale, e concepì l'unità del reale non come data ab initio, ma come realizzantesi attraverso un processo dialettico: tutto ciò che è reale è razionale, Dio si identifica con il movimento dell'idea, e la filosofia è la stessa storia del mondo depurata della sua contingenza. A Kant si rifecero, seppure con tutt'altro spirito, anche Schopenhauer (1788-1860) ed Herbart (1776-1841), che ripresero la distinzione tra “fenomeno” e “noumeno”, fondamentale nella filosofia critica. Il primo costruì su tali premesse una metafisica pessimistica, che vede a fondamento del mondo una volontà cieca e irrazionale, il secondo le sviluppò nella direzione di un realismo scolastico, fecondo però di applicazioni nel campo della psicologia e della pedagogia. I grandi pensatori della filosofia classica tedesca influirono profondamente, con la loro concezione del diritto e dello Stato, anche sulla formazione delle ideologie politiche dei secc. XIX e XX. Mentre Kant aveva limitato la funzione dello Stato alla tutela del diritto, garanzia di quel bene supremo che è la libertà dei singoli, Fichte gli attribuì anche il compito di provvedere a che tutti vivessero del proprio lavoro, giungendo a teorizzare, con la sua concezione dello “Stato commerciale chiuso”, una sorta di autarchico socialismo nazionale. Hegel infine vide nello Stato la forma più alta della razionalità nel mondo oggettivo: esso è per lui lo “spirito vivente”, il “Dio reale”, nel cui seno gli individui formano un tutto organico di valore universale.

MARXISMO
L'eredità di Hegel fu conservata e sviluppata da due scuole filosofiche, note come “destra” e “sinistra” hegeliana. L'uso della terminologia parlamentare allude all'orientamento conformistico e conservatore della prima, particolarmente nelle questioni politico- religiose, e alla spregiudicatezza e originalità tipiche della seconda. Nell'ambito di quest'ultima, sia pure parzialmente, si formò Marx (1818-1883), che rovesciò la dialettica hegeliana, movendo dal convincimento che non è la coscienza dell'uomo a determinare il suo essere, ma che viceversa è l'“essere sociale” a determinare la coscienza. Al conflitto delle idee si sostituisce così la lotta delle classi come forza motrice della storia: la filosofia cessa di essere contemplazione disinteressata della realtà, assume il compito di trasformare il mondo e si identifica con lo spirito rivoluzionario. L'analisi scientifica delle contraddizioni della società capitalistica, con la connessa dimostrazione del necessario avvento del comunismo, distingue, secondo Marx, la sua dottrina dalle costruzioni in larga misura arbitrarie dei socialisti “utopisti”.

SPIRITUALISMO E POSITIVISMO
Il criticismo e l'idealismo classico tedesco fecondarono positivamente anche altre culture filosofiche, in particolare quella francese e quella italiana. Nella prima ne risultò una impostazione meno effusiva e più critica dei temi dello spiritualismo tradizionale, mentre in Italia il superamento dell'influenza sensistica fino ad allora prevalente condusse, dopo il tentativo del Galluppi (1770-1846) di approfondire e sviluppare alcuni concetti del Reid, alle sistemazioni del Rosmini (1797-1855) e del Gioberti (1801- 1852). Si formò in tal modo una filosofia in un certo senso “nazionale”, caratterizzata dalla ricerca di una linea di equilibrio fra antico e nuovo, fra ortodossia religiosa e apertura critica, fra rispetto della trascendenza ed esigenze immanentistiche. Il Rosmini, fondando la sintesi conoscitiva sull'essere ideale, ritenne di aver evitato il soggettivismo, da lui ritenuto l'errore capitale di tutta la filosofia moderna, mentre il Gioberti, dopo aver rivendicato con uguale vigore il primato dell'ontologia sulla psicologia, vagheggiò una rinascita italiana inserita nel rinnovamento di tutta la cattolicità.
Tuttavia l'affermarsi del positivismo verso la metà del secolo segnò una fase di momentaneo oscuramento di tutti gli altri indirizzi speculativi. Accanto al motivo illuministicoromantico di una palingenesi della società, provocata dal progresso trionfale della scienza, il positivismo recava in sé l'esigenza di introdurre il metodo positivo anche nelle cosiddette scienze dell'uomo. Così in Francia il Comte (1798-1857) presentò nel Corso di filosofia positiva (1830-1842) una sua interpretazione scientifica della storia, centrata sulla legge fondamentale che regola lo sviluppo dell'umanità: tutte le conoscenze e tutte le istituzioni passano per tre stati successivi, il primo teologico o fittizio, il secondo metafisico o astratto, il terzo positivo o scientifico. In Inghilterra il positivismo affrontò sul piano dell'etica individuale il tema del rinnovamento della società, e l'utilitarismo del Bentham (1748-1832) ebbe la funzione di raccordo fra il moralismo settecentesco e la nuova età. J. Stuart Mill (1806-1873) aderì all'utilitarismo, pur rifiutando l'“aritmetica morale” benthamiana, e lasciò nel suo Sistema di logica (1843) un'analisi lucida e acuta del metodo induttivo. La tesi del biologo Darwin (1809-1882) sull'evoluzione delle specie viventi, con i connessi concetti della “lotta per la vita” e della “selezione naturale”, ebbe una straordinaria rilevanza filosofica e finì per costituire una delle idee chiave delle varie sistemazioni positivistiche, come quella monumentale dello Spencer (1820-1903), imperniata sul concetto della spinta evolutiva che anima tutta la realtà, dai corpi celesti alla società umana. In Germania il positivismo si manifestò nelle sintesi materialistiche, spesso rozze e arbitrarie, di scienziati che “civettavano” con la filosofia, come il Büchner (1824-1899) e lo Haeckel (1834-1919), affrontando il compito dell'interpretazione unitaria dei risultati raggiunti dalle varie scienze assegnato comunemente alla filosofia nella sistemazione positivistica del sapere. In Italia infine, dopo la vigorosa polemica antimetafisica e antispiritualistica del Cattaneo (1801-1869), il positivismo toccò la sua punta più alta nell'evoluzionismo dell'Ardigò (1828-1920), che innestò le nuove idee nella tradizione del nostro naturalismo rinascimentale.

RINASCITA DELLA FILOSOFIA
Negli ultimi decenni del XIX sec. si delineò la crisi del positivismo, la quale fu in primo luogo il risultato di una revisione interna dei fondamenti del sapere scientifico e della conseguente sfiducia nella capacità della scienza di fornire un'interpretazione unitaria e totale della realtà. La filosofia tornò a presentarsi come la conoscenza autentica e la testimonianza privilegiata di una dimensione del mondo inaccessibile alla scienza. Sul presupposto che l'interiorità della coscienza attesti la preminenza sui fatti naturali di una realtà assoluta di ordine spirituale rinacque lo spiritualismo, che fu fiorente in Francia, dove vantava oltre tutto illustri precedenti e una tradizione pressoché ininterrotta. Dalla scoperta della libertà e della “contingenza” della natura giunse a posizioni spiritualistiche il Boutroux (1845-1921); Blondel (1861-1949) sviluppò in una sorta di nuova apologetica le implicazioni religiose dell'azione, movimento dello spirito verso Dio; Bergson (1859-1941) esercitò un influsso vastissimo col suo antintellettualismo, la sua critica dell'illusione meccanicistica e il suo intuizionismo. Il motivo della derivazione della scienza dalla radice dell'interesse pratico e vitale, con la conseguente negazione dell'autonomia del momento teoretico, è alla base del pragmatismo, che conobbe peculiare fortuna nella cultura anglosassone, in particolare con W. James (1842-1910) e con il Dewey (1859-1952), uno dei più grandi pensatori dell'età moderna e perciò non facilmente riconducibile entro i limiti di una scuola, del quale hanno avuto rilevanza del tutto particolare le ricerche di logica e di pedagogia. Nella nuova atmosfera culturale si riprese coscienza, dopo le incomprensioni e le superficiali liquidazioni di parte positivistica, della vitalità non esaurita della filosofia classica tedesca, in particolare del pensiero di Kant e di Hegel. Si ebbero così un neokantismo e un neohegelismo, il primo fiorito soprattutto in Germania e in Francia, il secondo in Inghilterra e in Italia. Al neohegelismo appartengono i due maggiori filosofi del Novecento italiano, Croce (1866-1952) e Gentile (1875- 1944): peraltro, se la radicale riduzione della realtà ad atto del pensiero (attualismo) operata dal secondo può essere intesa come una revisione e uno sviluppo interno dell'idealismo classico tedesco, la filosofia crociana, profondamente permeata del senso dell'individualità e della distinzione, risente di ispirazioni culturali più varie e più mediate.

LA FILOSOFIA CONTEMPORANEA
Quasi tutte le correnti e le personalità sommariamente ricordate qui sopra occupano con la loro presenza i primi decenni del XX sec. e giungono in alcuni casi fino alle soglie dei nostri giorni. Tuttavia altri sono gli orientamenti che agiscono da protagonisti sulla scena agitata della filosofia contemporanea. Il metodo fenomenologico proposto da Husserl (1859-1938), in forza del quale la filosofia diventa una scienza contemplativa e descrittiva delle strutture permanenti della realtà, sembra essere, col suo disimpegno programmatico e con la sua avversione per le sintesi partigiane e semplificatrici, uno dei comuni denominatori del pensiero contemporaneo. Col suo ausilio sono già state condotte le tormentate analisi dell'esistenzialismo, la filosofia fiorita fra le due guerre mondiali come testimonianza di una nuova consapevolezza della precarietà dell'uomo e dell'insignificanza della storia. Kierkegaard (1813-1855), il filosofo danese avversario del razionalismo hegeliano in nome del singolo e della sua irriducibile “angoscia” esistenziale, e Nietzsche (1844-1900), il teorico dell'accettazione eroica della vita, che è dolore, lotta e crudeltà, sono gli antecedenti storici esplicitamente richiamati dai due maggiori rappresentanti dell'esistenzialismo tedesco, Heidegger e Jaspers. Nel secondo dopoguerra Sartre ha ripreso con vigore originale alcuni dei loro temi fondamentali, tentandone anche un'integrazione col marxismo, mentre la cultura francese aveva fino ad allora coltivato, con Marcel, Le Senne, Lavelle, una filosofia dell'esistenza di intonazione spiritualistica e teologizzante, più sensibile alla tradizione del colloquio intimo pascaliano che al rigore dell'analisi fenomenologica. una versione “positiva” dell'esistenzialismo, nel senso che essa non include lo scacco e il fallimento come momenti necessari dell'esistenza, è quella svolta in Francia da Merleau Ponty e in Italia da Abbagnano. Accanto alla fenomenologia e all'esistenzialismo la terza linea dominante individuabile nella filosofia contemporanea è rappresentata dal neopositivismo o positivismo logico, nel quale confluiscono i risultati della “critica della scienza” iniziata da Mach (1838-1916) e da Poincaré (1854-1912), dello sviluppo critico interno della matematica e della fisica, dell'elaborazione della nuova logica simbolica. Il positivismo logico, penetrato profondamente dall'Europa nella cultura americana, si caratterizza, nella grande varietà e mutevolezza di atteggiamenti dei suoi seguaci, fra i quali il più geniale è stato Wittgenstein (1889-1951), per una tesi radicale: la riduzione della filosofia ad analisi del linguaggio della scienza e a “terapia” del linguaggio comune, con il fine specifico di dimostrare l'origine verbalistica e la sostanziale inconsistenza dei problemi tradizionali della filosofia. Alla “svolta linguistica” così determinatasi si ricollega l’ermeneutica, cioè la disciplina filosofica che ha il compito di spiegare le possibilità del comprendere e di interpretare l’uomo e il suo mondo soprattutto attraverso il linguaggio; suoi esponenti principali sono: il tedesco Hans Georg Gadamer secondo il quale “il mondo si costituisce nel linguaggio”, il francese Paul Ricoeur e l’italiano Luigi Pareyson.
Anche la filosofia analitica si riallaccia al dibattito sulla linguistica: la spiegazione filosofica del pensiero si può raggiungere solo attraverso la spiegazione filosofica del linguaggio.
Una critica al neopositivismo proviene invece da Karl Popper (1902-1994), secondo il quale solo gli enunciati verificati dall’esperienza risultano sensati, ma comunque provvisori. La scienza deve procedere per congetture e confutazioni, imparando dai propri errori. Thomas Kuhn (1922), storico della scienza statunitense, distingue periodi di scienza normale, nei quali i modelli scientifici non sono messi in discussione, dai periodi di frattura rivoluzionaria nei quali i paradigmi dominanti cambiano e sono quindi modificati i metodi della pratica scientifica. Questa teoria basata su fattori socio-psicologici e spesso irrazionali, è contestata da Imre Lakatos (1922-1974), il quale sostiene che il progresso scientifico si attua mediante seri programmi di ricerca; Paul Feyerabend difende invece l’irrazionalità della scienza e propugna l’anarchismo metodologico.
Un’altra corrente del pensiero filosofico contemporaneo è lo strutturalismo, sorto in Francia per opera di Ferdinand de Saussure (1857- 1913); esso assume nei confronti dei fatti sociali una prospettiva assolutamente oggettiva, e si propone di studiarli rappresentandoli attraverso modelli per scoprire quali relazioni sistemiche e costanti – strutturali – intercorrono fra i fenomeni sociologici. Il dibattito sullo strutturalismo è proseguito fino ai nostri giorni, suoi principali esponenti sono: lo psicoanalista francese Jacques Lacan (1901-1981), l’antropologo Claude Lévi-Strauss (1908), Michel Foucault (1926-1984), Louis Althusser (1918-1990) e Jacques Derrida (1930) che si pone nel post-strutturalismo, in altre parole oltre il concetto di struttura.
I recenti avvenimenti storici e gli sviluppi della democrazia contemporanea concorrono alla nascita delle cosiddette teorie etiche rappresentate dal filosofo e sociologo tedesco Jurgen Habermas (1929), che denuncia la fittizia partecipazione dei cittadini nella vita politica nei sistemi tardocapitalistici, e dal filosofo statunitense John Rawls (1921).
L’epoca di fine millennio è infine definite da Jean- Fraçois Lyotard (1924) come postmoderna. La crisi delle grandi ideologie comporta la revisione di criteri di giudizio globalizzanti.
Negli ultimi anni, la nascita di singole discipline scientifiche come ad esempio la psicologia sperimentale, la cosmologia e le neuroscienze, ha sottratto alla filosofia campi di ricerca che un tempo le erano propri e che ora sono sviluppati in ambiti diversi. D’altro canto la filosofia, proprio per la sua capacità di dialogo con altre discipline, appare in ogni modo il punto di partenza e di snodo tra saperi diversi. Interessante ad esempio, il rapporto con le nuove tecnologie comunicative e informatiche. La multimedialità e le realtà virtuali, che sviluppano nuovi linguaggi in parte ancora sconosciuti e le cui possibilità future sono imprevedibili, costituiscono la sfida futura più densa di significati cui la filosofia di fine millennio va incontro.

VALORE DELLA FILOSOFIA
La filosofia non è legata a nessuna tecnica e non mira a nessun fine pratico determinato: per questo suo carattere essa appare oggi a molti come una sopravvivenza anacronistica, in un'epoca in cui lo sviluppo applicativo delle conoscenze è perseguito non solo nel campo delle scienze fisiche, ma anche in quello delle scienze dell'uomo. Se mai accada oggi, all'uomo inchiodato al proprio lavoro e tutto integrato nella società, di conservare un qualche interesse per i problemi cosiddetti universali, egli si rimette per la soluzione di essi o alla tradizione, o alla scelta casuale. Pure, se una tale tendenza dovesse (e potesse) universalizzarsi, l'umanità, con tutti i suoi prodigiosi progressi scientifici e tecnici, rischierebbe di tornare a quello stadio delle società primitive nel quale la tecnica, completamente dimentica del suo significato e divenuta ripetizione rituale, condanna l'uomo a una inerte stagnazione. Per questo la filosofia è più che mai necessaria, purché naturalmente se ne intenda in modo corretto la funzione. Essa viene identificata talvolta con lo spirito sistematico, e appare allora giustamente come un'impresa futile, dal momento che la storia ci attesta il crollo immancabile dei vari sistemi, uno dopo l'altro. La filosofia autentica non risiede in queste costruzioni più o meno fragili, ma per così dire nel movimento che ha condotto a esse. Il fatto stesso che lo sviluppo delle scienze particolari abbia ormai sottratto alla filosofia ogni oggettivo territorio di indagine aiuta a riscoprire la sua essenza genuina e le ragioni della sua insopprimibilità. Come è irragionevole chiedere oggi alla filosofia risposte che solo la psicologia e la sociologia possono dare in forma documentata e attendibile, lo è almeno altrettanto aspettarsi dalle scienze una qualunque indicazione valida sul senso del nostro essere al mondo. Si concluda pure che un senso non c'è e che simili problemi mal posti non hanno soluzioni possibili: resta il fatto che la filosofia è la condizione dell'essere coinvolto in un tale processo problematico. Ciò che permane indistruttibile, dietro l'inevitabile precarietà delle varie risposte, è la tensione di una coscienza che domanda e ricerca. La filosofia, ha detto Bergson, ci guarisce per sempre dalla tentazione di cercare nel “quaderno del maestro” la risposta a ciò che hanno di più intimamente problematico l'esistenza del mondo e la nostra.

Esempio



  


  1. Giovanni claudio

    sto cercando gli appunti del libro di H.jonas,il concetto di Dio dopo Auschwitz,ed Genova;il melangolo,

  2. Giovanni claudio

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