Saggio storico sul totalitarismo

Materie:Versione
Categoria:Storia

Voto:

1 (2)
Download:1849
Data:15.05.2006
Numero di pagine:22
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
saggio-storico-totalitarismo_1.zip (Dimensione: 17.38 Kb)
trucheck.it_saggio-storico-sul-totalitarismo.doc     60.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

Eloisa Siclari 5B
TOTALITARISMO
Ampia sintesi del saggio storico di Domenico Fisichella, Enciclopedia Treccani.
Novità sì o no?
Una parte non irrilevante della letteratura scientifica applica la nozione di totalitarismo a movimenti, regimi, sistemi di pensiero ampiamente distribuita nel tempo e nello spazio.
Se vale l’equazione che fissa in almeno cinque millenni la ricorrenza in molte aree del globo e il costante riproporsi di forme (e teorie) politiche totalitarie, ne viene che assai difficilmente il totalitarismo potrebbe essere considerato una “eredità del Novecento”. Non ne costituirebbe una sua specificità o tipicità, men che meno una sua esclusiva.
Cinque invece sono i filoni interpretativi principali che sottolineano il tratto originale dell’esperienza totalitaria rispetto a un lungo passato umano di organizzazione e gestione del potere politico.
la prima è fondata sull’individuazione nei regimi totalitari di due grandi ordini di fattori combinati: alto, o comunque significativo, livello di sviluppo economico e legittimazione di massa.
Una seconda tesi individua la novità nel fatto che il regime totalitario realizza un tipo di governo che demolisce l’alternativa su cui si sono basate tutte le definizioni dell’essenza dei governi nella filosofia politica, cioè l’alternativa tra governo legale e governo illegale, tra potere arbitrario e potere legittimo. Al di là della legge e al di là dell’arbitrio. La legge infatti cambia profondamente i propri significati culturali e funzionali: da espressione della cornice di stabilità entro la quale possono svolgersi le azioni umane, si trasforma in espressione del movimento.
Una terza tesi indica lo zelo rivoluzionario istituzionalizzato come essenza originale del totalitarismo il quale opera per polverizzare tutte le unità sociali esistenti.
La novità del totalitarismo rispetto alle autocrazie delle epoche passate è, per una quarta tesi, il partito unico; l’originalità del totalitarismo rispetto alle altre forme autocratiche contemporanee - siano o non siano monopartitiche – è data dal carattere rivoluzionario del partito unico.
Infine per una quinta tesi il tratto specifico del totalitarismo consiste nella distruzione della libertà economica che si accompagna al controllo collettivistico e alla pianificazione centralizzata di tutti gli strumenti significativi della produzione. “Chiunque controlli tutta l’attività economica controlla i mezzi per tutti i nostri fini (culturali, politici, sociali). E chiunque abbia controllo esclusivo dei mezzi finisce per determinare quali scopi vadano alimentati, quali valori vadano stimati più alti oppure più bassi. Il regime totalitario è quindi il luogo elettivo di un invadente potere tecnico-buricratico che sovrintende alla direzione dell’intero processo produttivo, e per ciò stesso dell’intera vita individuale e sociale, da mezzi ai fini.
Nascita del concetto
Il primo riferimento al mondo comunista in chiave di totalitarismo si può leggere in un articolo del quotidiano “The Times” di Londra del novembre 1929, qui si fa cenno ad una reazione, propria allo stesso tempo del fascismo e del comunismo, contro il parlamentarismo e in favore di uno Stato “totalitario o unitario”.
Gli studiosi contemporanei hanno sottolineato, chi con un uso apprezzativo del concetto e delle parole relative, chi con un uso non apprezzativo, che il totalitarismo sta per l’insieme delle seguenti caratteristiche: assenza di strutture e controlli parlamentari, presenza di un partito unico, rifiuto del pluralismo liberale a favore dell’unitarismo e dell’onnicomprensività.
A partire dal secondo dopoguerra, vi è stato un impiego estensivo e tendenzialmente indiscriminato del concetto di totalitarismo, applicato a forme politiche che vanno dall’Egitto di cinque millenni or sono alla società industriale avanzata.
Quale monopartitismo?
Cominciando la nostra analisi dal primo dato di realtà della determinazione storico-genetica del concetto, vale a dire la presenza di un partito unico, bisogna recuperare la distinzione, sottolineata da Renzo De Felice, tra regime e movimento: una cosa è il movimento fascista, cosa diversa è il regime fascista. Infatti “storicamente la maggior parte dei grandi partiti unici sono stati all’inizio dei partiti di opposizione operanti in regime pluralista”.
Il criterio del monopartitismo è empiricamente e concettualmente selettivo perché discrimina ed esclude dall’area del totalitarismo sia tutti i regimi politici senza partiti, sia tutti i regimi politici che hanno più partiti, vuoi in un contesto competitivo, vuoi in un contesto non competitivo.
Tuttavia la proprietà monopartitica apre subito un nuovo fronte di interrogativi. Perché i regimi a partito unico presentano caratteri strutturali, funzionali, sistemici, culturali e comportamentali che ne fanno tra loro realtà diversificate?
Qual è dunque il tratto peculiare del regime totalitario?
Quando si parla di partito unico rivoluzionario è sul concetto di rivoluzione che occorre soffermarsi. Talvolta sta per nuovo orientamento dello spirito e in questo caso si parla di cristianesimo come rivoluzione dell’umanità (altro esempio può essere le rivoluzione industriale), il secondo significato invece intende la rivoluzione come abbattimento per via interna e in forme illegittime e violente di un regime politico e del relativo ordinamento giuridico, e l’instaurazione di un nuovo regime politico-giuridico. In breve, mentre nel primo caso si configura un mutamento pacifico, nel secondo caso si configura un mutamento sempre e comunque violento.
L’instaurazione di un regime totalitario è sempre preceduta e “prodotta” da una guerra civile. Tuttavia, nella storia umana la stragrande parte delle guerre civili non è sfociata in regimi totalitari. Parimenti, numerose sono le rivoluzioni che hanno dato luogo a una forma totalitaria di potere.
E’ quindi possibile osservare che un principio di risoluzione pacifica dei conflitti interni esiste in tutti i regimi. Per quanto siano diversi tra loro i regimi politici – democratici, aristocratici, autocratici – rispondono sempre a (e comunque si prefiggono) una logica di mantenimento, instaurazione o ripristino della pace sociale e dell’ordine civile.
La conclusione che “la condizione di pace è il fine di qualsiasi politica” vale anche per i regimi emersi da un moto rivoluzionario. In questo senso un pensiero politico “rivoluzionario” non significa che questo rinuncerà, dopo il successo della rivoluzione e dopo la conclusione della guerra civile, a intraprendere a sua volta una “costruzione positiva”, visto che a un certo punto si tratta di “costruire”. A posteriori, dunque, l’evento rivoluzionario può essere interpretato come una guerra civile in cui sono prevalsi i fautori di profondi mutamenti, i quali si concretano in un nuovo regime politico-giuridico.
La rivoluzione consegue al rifiuto del principio vigente di risoluzione pacifica dei conflitti interni: per conseguenza, questi vengono affrontati e risolti mediante la violenza e dunque per vie illegittime. Tuttavia la rivoluzione si conclude con l’instaurazione di un nuovo regime e con l’affermazione di un nuovo principio di risoluzione pacifica dei conflitti interni. La rivoluzione si conclude instaurando una nuova regola di ordine civile e di convivenza interna.
Rivoluzione dall’alto
Un luogo comune vuole che i regimi totalitari si caratterizzino come regimi di ordine.
Tale convinzione nasce dal successo che i meccanismi e gli strumenti di persuasione e repressione ottengono nella realizzazione e nel mantenimento di condizioni di disciplina sociale e politica. Tuttavia, ad un’analisi approfondita tali risultati e tali caratteri si rivelano più apparenti e superficiali che reali. La rivoluzione totalitaria, infatti, non si arresta, e non si “contenta” di mutamenti sia pure sensibili, perché persegue e si prefigge mutamenti “totali”. E’ opinione diffusa che regime totalitario significhi regime che vuole inglobare e dirigere la totalità dell’esperienza ma molta parte dell’esperienza totalitaria rimane inesplicabile se non si avverte che il totalitarismo non sta tanto (o solo) per regime che vuole “inglobare” la totalità, quanto (e soprattutto) per regime che vuole “cambiare” la totalità: inglobare è semmai un modo, o uno stadio, nel processo di trasformazione.
Una rivoluzione può essere politica, può essere anche sociale, può infine essere anche antropologica, tesa a istruire l’ “uomo nuovo” nell’ “ordine nuovo”. E’ il caso della rivoluzione totalitaria, che si prefigge di lavorare su tutti questi livelli.
La rivoluzione totalitaria non può fermarsi e concludersi. È rivoluzione “permanente”. È movimento che per se non si arresta, come tale, risponde di necessità a una logica di perpetuazione della guerra civile e del disordine sociale di origine.
E’ lotta continua. Cambiare la totalità, infatti, comporta in principio distruggere tutto ciò che esiste, a livello di strutture e culture, perché ciò che esiste è un “dato”, e come tale è già passato. Rivoluzione come guerra, perciò, e guerra di lunga durata. In questo senso, rivoluzione come disordine civile istituzionalizzato.
L’elemento di novità del regime totalitario, e quindi suo carattere tipologicamente distintivo, è il fatto che tale regime costituisce, sul piano sistemico e struttural-funzionale, la prima effettiva attuazione storica di rivoluzione permanente. Con il totalitarismo la rivoluzione viene per la prima volta trasferita e proiettata dal livello d’insurrezione dal basso, “contro” il potere, a livello di costante ufficio “del” potere, divenendo rivoluzione dall’alto. La rivoluzione perde quindi i caratteri di fenomeno temporale contratto per dilatarsi a esperienza di lunga durata.
Mentre prima la rivoluzione è sempre stata un “antiregime”, con il totalitarismo diventa un “regime”: appunto si istituzionalizza. Mentre prima la rivoluzione è sempre stata la rivolta e la guerra della società contro le vecchie classi dominanti, con il totalitarismo la rivoluzione diventa rivolta e guerra delle nuove classi dominanti contro la “vecchia” società.
Nella versione totalitaria la violenza, in funzione del mutamento, è ora esercitata dall’alto e non dal basso, dal potere verso la società invece che dalla società verso il potere: ed è ciò che consente alla rivoluzione totalitaria il suo carattere permanente, laddove una rivoluzione dal basso non può certo proiettarsi e durare oltre certi limiti temporali.
La vastità degli sconvolgimenti preliminarmente indispensabili all’opera di costruzione della nuova società, e la connessa esigenza nel proiettare la rivoluzione nei tempi lunghi, fanno si che il totalitarismo si qualifichi inevitabilmente più per i suoi tratti di movimento, per la sua ansia processuale, per la sua carica di distruzione e disorganizzazione dell’esistente, per il suo spirito di “negativo permanente”, che per la sua capacità di strutturare, stabilizzare e dare coerenza interna al nuovo.
Non riesce a regolare la società mentre riesce bene a “sregolarla”, Il totalitarismo come concreta esperienza politica è, in due parole, il nichilismo al potere. Il monopartitismo totalitario occupa, dunque, una casella a sé nel novero dei regimi a partito unico.
Nemico oggettivo e universo concentrazionario
Hannah Arendt giunge a considerare il terrore come l’autentico elemento di novità del totalitarismo.
Vi sono però due elementi, uno “culturale” o simbolico, uno strutturale, che risultano propri ed esclusivi dell’esperienza totalitaria. Il primo è l’elaborazione e l’applicazione della categoria di “nemico oggettivo” (o anche “nemico del popolo”). Il secondo è l’edificazione e il funzionamento dell’universo concentrazionario.
Nemico reale è chi si oppone, con comportamenti concreti e personalmente attuati, ai detentori del potere.
Nemico potenziale è colui che, per la sua appartenenza a un gruppo economico o confessione religiosa o categoria sociale in contrasto con gli orientamenti e i programmi politici, economici, sociali degli attori totalitari, viene perseguitato anche se personalmente non ha posto in essere alcun comportamento configurabile come ostile.
Per nemici oggettivi si intendono coloro che sono dichiarati tali dal potere totalitario. Il nemico oggettivo differisce dal sospetto delle polizie segrete dispotiche in quanto la sua identità è determinata dall’orientamento politico del governo. Il nemico oggettivo, dunque, viene individuato e perseguitato sulla base di una proiezione futura di ostilità. Poiché il regime totalitario si configura in termini di movimento, e questo non può non incontrare ostacoli, essi vanno affrontati ed eliminati in anticipo, caricando di assoluta oggettività una veduta del futuro che è invece soggettiva.
E’ il carattere di proiezione nel futuro che conferisce al sistema processuale-criminale totalitario una forma e uno stile rivoluzionari, anche quando vi si applicano leggi preesistenti. Tra le vittime principali del “teorema” del nemico oggettivo vi sono i membri del partito delle sue organizzazioni collaterali, dell’amministrazione pubblica ai diversi livelli e articolazioni, strutture tutte sottoposte a ricorrenti purghe. Poiché in una logica di rivoluzione permanente il nemico oggettivo è una categoria che non ha fine, che non si esaurisce, ciò sta alla base dell’altro fattore di novità de totalitarismo in punto di violenza e paura, l’universo concentrazionario. Né i campi di concentramento né i campi di lavoro forzato sono un’invenzione totalitaria. Si ritiene che i primi risalgano alla guerra anglo-boera.
La vera novità del regime totalitario in tema di strutture terroristiche è invece l’universo concentrazionario. Ciò vale al punto da poterne dedurre che ove è possibile individuare un universo concentrazionario, lì siamo certamente in presenza di un regime totalitario.
Un primo carattere dell’universo concentrazionario è quantitativo, esso coinvolge nell’esperienza del concentramento e del lavoro forzato milioni e milioni di persone contemporaneamente, creando un intero arcipelago di città carcerarie che danno luogo a un vasto subsistema sociale entro il sistema politico totalitario. Questo non sarebbe raggiungibile senza l’introduzione e l’applicazione di nuove categorie culturali.
Dunque la condizione per realizzare l’universo concentrazionario è la repressione di sempre nuovi settori della popolazione, ciò che avviene grazie alla messa a punto della categoria di nemico oggettivo. È riempiendo in larga parte i campi di nemici oggettivi che si arriva all’universo concentrazionario non solo come realtà macrodimensionale, ma anche come istituzione permanente: infatti, è possibile individuare e perseguitare sempre nuovi nemici oggettivi, e quindi alimentare in continuazione l’arcipelago. L’universo concentrazionario quindi non è un’istituzione penale, creata per la punizione e repressione di delitti e crimini, ma piuttosto una struttura politica di sradicamento del tessuto sociale mediante lo strappo e la cancellazione della società di settori e gruppi; minoranze etniche, categorie produttive e professionali, strati di vertice e di base dell’apparato partitico e dell’amministrazione pubblica.
Il sistema concentrazionario, mira alla disintegrazione e all’annullamento della persona, fino alla cancellazione della sua stessa memoria in quanti sono nel mondo esterno, familiari, parenti, amici, compagni di imprese.
Dualismo di Stato e partito
Il totalitarismo risponde non alla mera logica della conquista e mantenimento del potere, ma anche e soprattutto alla logica del cambiamento totale. E poiché la realtà la realtà sociale e istituzionale esistente è il prodotto di plurisecolari acquisizioni, sedimentazioni, stratificazioni, eredità, contributi, e ha perciò una sua radicata consistenza, l’impresa rivoluzionaria tesa allo sradicamento di tutto ciò esige un impegno illimitato di aggressività entro i confini nazionali ove l’evento rivoluzionario si presenta e si afferma, oltre e prima che fuori dei confini. Ecco perché la rivoluzione totalitaria assume il carattere “guerra contro il proprio popolo”.
L’atteggiamento del regime totalitario nei confronti dello Stato è un passaggio cruciale. Accanto e in conflitto con la struttura statale, infatti, si erge la struttura del movimento (partito unico) rivoluzionario. L’esperienza totalitaria si sviluppa e si realizza in esplicita e aperta opposizione allo Stato, una antitesi alla forma “governamentale” di dominio statale.
Lo Stato è sovrano ed è autorizzato all’uso della forza in quanto rappresenta il “tutto” e l’interesse generale nei confronti degli interessi particolari.
Il movimento totalitario si considera come la cellula germinale di una nuova realtà entro il vecchio universo sociale che ha già perduto il suo diritto storico all’esistenza.
Ciò induce il partito totalitario ad assumersi la vocazione “generalista” e a negare invece allo stato la sua natura sovrana e la sua essenza “generale”, lasciandolo sopravvivere più come fatto “anatomico” che come dato “funzionale” e centro decisionale. Con questo si spiega la diffidenza dei regimi totalitari nei confronti dello Stato e dei suoi tradizionali istituti.
Si ha perciò un dualismo di Stato e partito, con una costante conflittualità nella quale, proprio per i caratteri del partito unico, è questo ad avere la supremazia, almeno tendenziale, più spesso reale, rispetto all’istituzione statuale.
Qui si coglie una grande differenza rispetto ai regimi autoritari.La distinzione tra autoritarismo e totalitarismo rimane molto importante nella tipologia dei regimi politici.
Teoria e prassi del nemico oggettivo nonché universo concentrazionario sono “proprietà” esclusive del totalitarismo: la loro assenza depone perciò per una classificazione delle forme potestative non liberal-democratiche entro la categoria dell’autoritarismo. Sia il regime fascista italiano sia il regime franchista spagnolo sia il salazarismo portoghese non hanno avuto nemico oggettivo e universo concentrazionario. Il partito unico dei regimi autoritari è in posizione subordinata, piuttosto che contestativi e alternativa, rispetto allo Stato.
Rimane convincente la tesi che nel regime fascista italiano la posizione preminente sia quella dello Stato, con un ruolo essenzialmente secondario e burocratico, al limite forse anche transeunte, per il partito nonostante gli sforzi di quest’ultimo, specie negli anni Trenta, di acquisire nuovi spazi.
Il punto è che i regimi autoritari-anche quando sono, come in taluni casi accade, sistemi di mobilitazione di massa e quindi perseguono finalità di movimento sociale e di mutamento civile-tuttavia non si richiamano e non si inquadrano in un processo di rivoluzione totale e permanente. La subordinazione allo Stato sottolinea allora che nei regimi di tipo autoritario il partito unico è finalizzato o a una prospettiva di conservazione della società o, comunque, a una gestione “controllata” e graduate del movimento sociale, il quale perciò non assume carattere di “negazione” integrale degli equilibri civili e potestativi. Il regime totalitario disordina la compagine istituzionale dello Stato, sia contrapponendole una situazione di dual power rivoluzionario, sia mantenendo nel tempo l’ispirazione rivoluzionaria e alternativa di origine. “Al pari dei bolscevichi, e a differenza di Mussolini, la chiarezza con la quale Hitler concepiva il dominio del partito unico come sistema di potere totale era connessa allo scopo di una trasformazione totale della società”. Nella Germania nazionalsocialista-ove si assiste alla “disintegrazione dello Stato”, inteso da Hegel in poi come apparato strutturato garante di un governo e di una amministrazione “razionale”- si registra il declino della funzione governante. Al posto della promessa riforma del Reich, si ebbe la trasformazione dello Stato federale in un confuso sistema di satrapie in cui spesso tre autorità diverse si contendevano il primato. Le conseguenze furono conflitti di competenza, sprechi e inutili moltiplicarsi di funzioni, e ben presto si vide che questa non era solo una malattia infantile del sistema,ma apparteneva alla sua essenza.
Anche nell’Unione Sovietica si assiste a un fenomeno analogo. L’apparato statale era ivi meno imponente dell’amministrazione pubblica che i nazionalsocialisti avevano ereditato dalla Repubblica di Weimar, talché “il regime era ricorso in misura ancora maggiore alla continua creazione di nuovi uffici per regalare nell’ombra i vecchi centri di potere”.
Differenza sostanziale tra il sistema sovietico e il sistema nazionalsocialista è che “Stalin, ogni qualvolta trasferiva il potere da un apparato ad un altro, tendeva a liquidare insieme con l’apparato declassato il suo personale, mentre Hitler, malgrado lo sprezzante giudizio delle persone “incapaci di saltare al di là della propria ombra”, era perfettamente disposto a utilizzare tali ombre anche in seguito, magari in un’altra funzione”.
Massificazione e guerra al pluralismo sociale
Nel rapporto tra Stato e partito, dunque, l’esperienza totalitaria si segnala per in una conflittualità del secondo verso il primo, entro una logica di supremazia e poi tendenziale annullamento. Nell’esperienza autoritaria, invece, anche se e quando entro il partito unico vi sono tentazioni alla preminenza, gli equilibri complessivi de redimesi realizzano nel segno di una sostanziale subordinazione del partito allo Stato.
I regimi autoritari si caratterizzano per la coesistenza con livelli più o meno elevati di pluralismo sociale, fermo restando che il pluralismo politico competitivo e rappresentativo è prerogativa delle forme politiche liberal-democratiche.
Nel ventennio fascista italiano la presa di Mussolini sulla società italiana non fu così solida, né la sua influenza così capillare, come nel caso di un Hitler o di uno Stalin. Il fascismo lasciò zone enormi della vita italiana praticamente intatte.
Tra l’altro, Chiesa cattolica e monarchia sabauda hanno rappresentato, nei rispettivi campi, un argine costante nei confronti delle tendenze totalizzanti di taluni settori del partito: la rivoluzione fascista si era limitata alla sola sfera politica e, con la permanenza della monarchia, non era totale neppure in essa, persistendo nella grandissima parte dell’apparato pubblico (forze armate, magistratura, amministrazione civile) la preminente lealtà verso il sovrano.
L’elemento pluralistico è il carattere più distintivo del regime autoritario, la distanza dal regime totalitario è grandissima. Quest’ultimo infatti è, per vocazione e per attuazione, forma politica antipluralistica per eccellenza. Il pluralismo sociale presuppone che il demos, e gli individui che lo compongono, siano e rimangano articolati e integrati in una molteplicità di luoghi e istanze istituzionali. Il totalitarismo”è in primo luogo l’annichilimento di quei rapporti sociali entro i quali l’individuo si sviluppa. Esso è, dunque, totalmente antipluralistico, non soltanto sul piano politico, ma anche sul piano sociale (economico,culturale).
Infatti per creare una società radicalmente nuova occorre destabilizzare e disintegrare - nella molteplicità dei suoi aspetti, assetti e dimensioni - la società pluralizzata e pluralistica. La società da abbattere è l’espressione strutturale di due condizioni esistenziali: libertà e diversità. Ecco perché Chiese e confessioni religiose, famiglia, classi e categorie sociali, minoranze etniche e razziali, sono altrettanti bersagli della lotta antipluralistica e liberticida della rivoluzione totalitaria. Esse costituiscono i “luoghi” ove si realizzano concretamente le libertà di fede, pensiero, educazione, iniziativa economica, associazione. Esse rappresentano il passato e la tradizione, e ne costituiscono le testimonianze viventi. In un modo o nell’altro,infine,esse danno visibilità organizzativa e valoriale alla “diversità”, quindi alla previsione dell’alterità e alla tolleranza che ne consegue. Così, anche quando si verifica che un regime autoritario si spieghi a una politica di discriminazione razziale, questa viene realizzata in modo ben diverso che nei regimi totalitari: l’Italia si è mossa con una duttilità impensabile nel caso nazional-socialista ( “L’Italia ha protetto i suoi ebrei ovunque le sia stato possibile”: v. Mosse), tra l’altro perché il nazismo, così come il totalitarismo sovietico, ha iscritto l’azione antisemita nel quadro del “nemico oggettivo”, compiendo così un salto di qualità rispetto all’antisemitismo diffuso in Europa.
Coerente al corollario della pulsione antipluralistica del regime totalitario è la massificazione della società. Una società di massa è “sotto il profilo oggettivo società atomizzata, sotto il profilo soggettivo popolazione alienata”, in un quadro A) di contrazione crescente dei gruppi sociali intermedi, B) di cultura fluida, indifferenziata e priva di norme stabili, C) di alta “disponibilità” del pubblico alla mobilitazione e in genere agli stimoli provenienti dai detentori del potere politico o economico, talché “l’individuo perde un coerente senso di se stesso, le sue ansie aumentano”.
È stato rilevato che il processo di massificazione per certi aspetti ha preceduto la nascita dei moderni dittatori: questi sono prodotti di tale disintegrazione sociale, che a sua volta diviene base del loro potere. La società di massa appare essere in condizione necessaria, anche se non sufficiente, per l’instaurazione e comunque il mantenimento di un regime totalitario. Il potere opera per la sua emergenza in maniera forzosa e diretta, tappe spesso forzate, e accentuandone soprattutto gli aspetti di destrutturazione individuale di gruppo. Così, in Unione Sovietica la rivoluzione e il suo potere hanno dovuto produrre artificialmente quella società atomizzata che in Germania per i nazionalsocialisti era stata preparata dagli eventi storici, sia precedenti, sia connessi e susseguenti alla Prima guerra mondiale.
Ideologia e mutamento totale
Questa negazione radicale dell’autonomia della società civile e delle sue pluralizzate articolazioni, questo annullamento della libertà individuale, fanno dell’esperienza totalitaria la forma più estrema di regime “panpolitico”. Tutto è politica, tutto è politico. Non si dà né morale individuale né costume sociale, né religione trascendente né mercato come specifica istituzione economica,né rispetto per la competenza tecnica né rispetto per la spontaneità delle produzioni artistiche e culturali nei loro diversi profili espressivi.
Gli elementi che emergono dall’osservazione comparativa consentono di delineare con attendibile approssimazione i connotati dell’ideologia totalitaria.
Un buon punto di partenza per la precisazione del profilo ideologico totalitario è rappresentato dalle seguenti proprietà:carattere utopico dell’ideologia e proiezione nel futuro grazie alla asserita percezione di “leggi” dello sviluppo sociale; mutevolezza e manipolailità dell’ideologia in riferimento, di volta in volta o contemporaneamente, a suoi specifici, anche significativi, contenuti; utilizzazione dell’ideologia come strumento del potere ai fini della rimozione della legge e dell’etica; infine, monismo “culturale”, inteso essenzialmente, più come capacità di costruire un edificio teorico coerente e dogmaticamente compatto, come fattore di contrapposizione alla configurazione pluralizzata.
Quando si sottolinea la differenza tra dottrina marxista e dottrina nazionalsocialista, si può notare che: la prima si muove nell’ambito del razionalismo, la seconda nell’ambito dell’irrazionalismo. Ma non se ne può derivare, sotto il profilo della tipologia dei regimi politici, che i totalitarismi nazionalsocialista e bolscevico si collochino, per tali motivi, su due continua diversi. L’inferenza che colloca su due continua diversi totalitarismo nazionalsocialista e totalitarismo bolscevico non regge perché, nel passaggio dal livello dottrinale al livello sistemico (di sistema politico), ciò che nelle ideologie si attenua, e perde importanza, sono proprio i caratteri differenzianti; ciò che si accentua, e acquista importanza, sono viceversa i caratteri di somiglianza.
Risulta evidente quindi lo svuotamento contenutistico che, nell’esperienza totalitaria, subiscono i fondamenti dottrinali, a favore del “modo” ideologico di affrontare il reale.
Nella prospettiva totalitaria, l’ideologia si pone come una critica globale della realtà, passata e presente. Il suo profilo utopico è fuori discussione.
“Ciò che è centrale non è l’immagine specifica innalzata davanti alle masse, ma piuttosto il livellamento e la distruzione di tutte le altre immagini”.
Il totalitarismo, infatti, sa essere contemporaneamente antiliberale e anticonservatore, antidemocratico e antiautoritario, contro l’ordine e contro la libertà, contro l’individuo e contro il gruppo. Dunque i caratteri dell’ ideologia totalitaria sono: l’ intolleranza antipluralistica (che ovviamente coinvolge il dissenso in quanto espressione della pluralità di orientamento); la modificabilità dei contenuti e correlativamente dei precetti – che spesso diventano pure e semplici parole d’ordine e direttive – e la loro magmatica adattabilità alle esigenze della propaganda, talché frequentemente è questa che “spiega” l’ideologia più di quanto l’ideologia non spieghi la propaganda; la proiezione rivoluzionaria nel futuro anche più lontano, come tensione rispondente a un’esigenza di artificialità e di distruzione nichilistica del presente reale, sia esso fondato sulla ratio o sulla traditio, sull’etica o sul diritto.
L’ideologia totalitaria è un nucleo progettuale di trasformazione totale della complessiva realtà sociale, al quale fa da contrappunto, sul piano storico-politico, un universo caotico e mobile di proposizioni vincolanti pro tempore. È stato osservato che i regimi totalitari sono puramente attivistici, privi di presupposti e programmi, pronti ad abbandonare o ad assumere qualunque orientamento, disposti a subordinare ogni assunto teorico alle “esigenze immediate e mutevoli della prassi, ricorrendo più di una volta a manipolazioni assai disinvolte e persino sfacciate”.
La logica totalitaria non mira a conoscere il mondo, ma a cambiarlo totalmente. Questa è l’assunzione a priori dell’ideologia totalitaria, e anche quando nella prassi si assiste alla “revisione” o allo stravolgimento di precetti dottrinali o ideologici, ciò avviene in nome del principio ideologico della trasformazione totale del reale, per cui l’attore totalitario è nella “ortodossia” ideologica anche quando viola l’ideologia per venire incontro a necessità dell’azione.
Questo atteggiamento di fuga dalla realtà e, insieme, di ostilità nei suoi confronti, diversifica – ancora una volta – le esperienza totalitarie dalle esperienze autoritarie. Sia il regime fascista italiano sia il regime franchista spagnolo non poggiavano su un vuoto di dottrina e di cultura. Ciò che viene definito “pragmatismo” e “assenza di programma” del fascismo e di altri regimi autoritari discende, in realtà, dal loro carattere di sistemi di pluralismo sociale. Di fronte alle culture religiosa, scientifica, economica, giuridica, artistica, letteraria, l’atteggiamento dei regimi autoritari tende più a una logica di composizione che a una logica di annichilimento. Se il pluralismo sociale non può tradursi in competizione politica libera garantita, tuttavia il sistema politico non occupa in toto il sistema sociale, ma gli lascia spazi espressivi.
Mentre il non-contenutismo dell’ideologia totalitaria si inquadra in una prospettiva di ”fuga in avanti” che prescinde dai limiti e dai costi della concretezza storica; il pragmatismo e, quando c’è, l’attivismo dei regimi autoritari partono da un riconoscimento del presente e del passato come dato di realtà. Se la dottrina dei regimi autoritari è composita, a ciò non è estranea la volontà, che può raggiungere livelli assai spregiudicati, di utilizzare quante più forze sociali possibili – nell’opera politica del regime e del suo mantenimento. Viceversa, la carica di novazione integrale del totalitarismo esige il contrario: “inutilizzare” quante più forze sociali possibili. Nell’ideologia del totalitarismo, infatti, non c’è semplicemente un’idea del “nemico”. C’è, anche e soprattutto, il “nemico oggettivo”.
Consenso al regime o fisica delle anime?
Ovviamente in un regime totalitario la propaganda assume una puntuale specificità. Ciò vale sotto il profilo tecnico, ove massiccio è il ricorso sia alle tecnologie più avanzate sia alla manipolazione del fattore psichico e dei suoi meccanismi. La propaganda totalitaria è, nella sua essenza, propaganda di guerra sovversiva, entro e fuori i confini nazionali. Capovolgendo la massima che vede la guerra come continuazione della politica, il totalitarismo concepisce la politica come perpetuazione della guerra. Nel regime totalitario tutto è in movimento, e questo movimento investe e coinvolge necessariamente le masse popolari. I regimi totalitari differiscono nettamente dalle forme politiche che – tengono le masse distanti e assenti dal processo politico.
Nelle esperienze totalitarie possono operare atteggiamenti di identificazione delle masse con i governanti, e d’altra parte la leadership non è restia a proclamarsi in sintonia identificatoria con la “volontà e saggezza delle masse”.
In un quadro capace di indurre nei grandi numeri sociali “reazioni di disastro” e “sindromi da catastrofe” che si risolvono in un “disorientamento totale”, si capisce come sia forte la spinta di massa ad affidarsi e persino ad abbandonarsi, in una aspettativa salvifica, a una promessa redentrice che, supremo paradosso, include nella sua utopia – come superamento delle insicurezze e frustrazioni derivanti da una condizione storica e psicologica densa di crisi e tensione – la fine radicale e definitiva del conflitto, proprio mentre si autoattribuisce (e si destina a) una intrinseca e permanente vocazione conflittuale e bellica.
La fluidità dell’uomo-massa, la sua carenza di norme e principi stabili, la sua “indifferenziazione”, la sua disgregazione atomistica ne fanno un soggetto singolarmente fragile e permeabile. L’incostanza dell’uomo-massa, la sua facilità a dimenticare, l’infantilismo che lo caratterizza, lo sradicamento di punti fermi etico-politici, il carattere plastico e “senza forme” della sua personalità vanificano ampiamente la questione della sincerità e criticità dell’appoggio popolare al regime.
Privo di contenuti, l’uomo-massa è in realtà simile a un recipiente, sempre pronto a essere riempito. In senso proprio, infatti, egli non esprime giudizi. Carente di continuità spirituale, la sua moralità è intermittente. La sua eterodirezione lo porta a identificarsi con ciò che è, letteralmente, “fuori di sé”. L’estinzione dell’autonomia personale e interiore, rende l’uomo-massa necessariamente dipendente dal mondo esterno. E finché tale mondo è il regime, l’adesione al regime ne consegue. Che il capo, con caratteristiche carismatiche, sia presente in Unione Sovietica come in Germania e in Cina, è un dato di fatto. Tuttavia, non soltanto la dittatura cesaristica è, come rivela il nome stesso, sempre personale, ma anche molti regimi autoritari hanno capi carismatici, così come accade per molte democrazie plebiscitarie e anche per certe forme più propriamente rappresentativi- competitive. Ciò significa che la figura del capo non è requisito tipologico esclusivo e imprendiscibile. La presenza del capo, dunque, non è elemento distintivo tra tipo totalitario e tipi non totalitari di regime politico.
La dittatura totalitaria può manifestarsi in forma monocratica o in forma oligarchica e quindi può avere o no carattere cesaristico.
Le distorsioni dell’innovazione
Il regime totalitario coinvolge direttamente nel mutamento sociale le tre dimensioni della tecnologia, della burocrazia e della produzione. In quanto regimi di mutamento, i sistemi totalitari innovano profondamente rispetto alla tradizione: promuovono la trasformazione dell’economia in senso industriale, espandono la complessità organizzativa e l’articolazione burocratica dei ruoli sociali, impiegano le risorse della tecnologia avanzata sia sul piano politico sia sul piano sociale.
Come regime rivoluzionario il totalitarismo riproduce anche sul piano degli orientamenti buro-tecnologici e delle programmazioni produttive il “voluto caos delle competenze” che proprio della sua ispirazione di nichilismo al potere. Il problema dei costi e benefici, ad esempio, che costituisce un aspetto essenziale dell’efficienza nell’età moderna, gli è estraneo tanto sul piano strumentale quanto sul piano umano. La logica della differenziazione delle funzioni e della “organizzazione scientifica” del lavoro viene pervertita sistematicamente dal dualismo tra burocrazia statale e burocrazia partitica e dalla moltiplicazione degli uffici. La “neutralità” della conoscenza scientifica appare permanentemente vulnerata dalle interferenze “rivoluzionarie”dell’approccio ideologico dominante. Anche se utilizza la tecnologia atomica che ne deriva, lo stalinismo si oppone alla teoria scientifica dei quanti.
La riforma agraria può fallire perché importanti acquisizioni della genetica sono considerate incompatibili con l’ortodossia ideologica. Il nazionalsocialismo rifiuta di ammettere che un ebreo come Albert Einstein possa produrre lavori scientifici di rilievo.
Esiste comunque un preciso legame tra azione politica totalitaria e risorse della scienza e della tecnologia. Al regime totalitario scienza, produzione e tecnologia non interessano tanto per ciò che, comparativamente, rendono e costano, quanto per ciò che cambiano. Questa, infatti, è la sua puntuale ispirazione politica. Così, anche in questi campi la rivoluzione totalitaria esige e provoca volutamente scelte che comportano prezzi altissimi e squilibri improvvisi e sostanziali, poiché attraverso essi si realizza meglio la sua funzione dissolvente.
Sia in Russia, sia Germania sia in Cina, infatti, la negazione integrale dell’autonomia della sfera economica e delle sue leggi, l’interventismo politico e la politicizzazione dirigistica dell’economia, la deprivatizzazione e depluralizzazione degli strumenti produttivi, la massificazione dei comportamenti economici e il loro non-utilitarismo, la carica anti-individualistica e la penalizzazione della iniziativa dei singoli, l’eliminazione di qualsiasi forma di libera contrattazione tra lavoratori e centri di potere economico, l’irreggimentazione delle aziende e della distribuzione della manodopera, costituiscono la base comune della politica economica dei regimi totalitari. Su tali premesse, è plausibile la conclusione che il totalitarismo configuri comunque un sistema di “economia non economica”, ove il ruolo della politica e della sua preminenza ideologica e operativa fa aggio su ogni distinzione fondata sul carattere formalmente privato o pubblico della titolarità degli strumenti produttivi ovvero sull’esistenza o meno di regole del mercato.

1

Esempio