Il totalitarismo

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Testo

TOTALITARISMO
Il termine totalitarismo fu usato per la prima volta in Italia nel 1923 nell'ambito della cultura liberale per denunciare la pratica politica del fascismo, finalizzata a trasformare lo stato e la società civile secondo la propria ideologia. Da quel momento il termine fu esteso dapprima all'ideologia fascista poi al nazismo. Già dal 1929 fu impiegato anche per paragonare tra loro i regimi a "partito unico" e quindi il suo campo di applicazione si ampliò. Almeno due sono considerate i modelli compiuti dello stato totalitario: il nazismo e lo stalinismo. Le dittature totalitarie sono degenerazioni del sistema democratico e, come tali, presuppongono la democrazia, dal momento che sono movimenti fondati sulla mobilitazione delle masse, delle quali ricercano il consenso. Democrazia e totalitarismo differiscono su due punti critici. Innanzitutto il metodo democratico rifiuta la violenza come strumento per risolvere i conflitti d'interesse. La democrazia è l'opposto da un lato del razzismo, che costituisce invece una componente essenziale del nazismo e del fascismo, e dall'altro dell'odio di classe, componente di alcune forme storiche del comunismo. Un secondo punto discriminante è costituito dal modo in cui democrazia e totalitarismo intendono la mobilitazione delle masse: in democrazia si identifica con la partecipazione libera e volontaria dei cittadini alla vita politica del paese; i regimi totalitari esigono, invece, che i singoli si mostrino costantemente pronti ad appoggiare il Capo. La gente è raccolta in organizzazioni di massa, in un grande partito, in organizzazioni collegate o vicine a questo partito unico e deve continuamente partecipare a marce.
Hanna Arendt indica il consenso e il terrore come i due nuclei centrali su cui si fondano i regimi totalitari. Il primo è un dato di fatto che la storia si incarica di mostrare: i regimi totalitari dispongono e si giovano dell'appoggio popolare sino alla fine. Infatti né Hitler né Stalin avrebbero potuto mantenere il dominio su vaste popolazioni, superare molte crisi interne ed esterne, affrontare gli innumerevoli pericoli delle implacabili lotte intestine, se non avessero goduto della fiducia delle masse. Il terrore è poi lo strumento stesso del potere totalitario in quanto esso cessa di essere uno strumento per la soppressione dell'opposizione, pur essendo usato anche per tale scopo. Diventa totale quando prescinde dall'esistenza di qualsiasi opposizione e domina supremo quando più nessuno lo ostacola; se la legalità è l'essenza del governo non tirannico e l'illegalità quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere totalitario.
Un partito e i suoi membri, una volta saliti al potere in un paese, diventano l'élite del paese stesso e l'intera società viene assoggettata da un'organizzazione gerarchica dove ogni individuo deve rispondere a qualcun altro sopra di lui. L'unico a fare eccezione di ciò è il capo supremo. Tutti i gruppi non allineati al potere vengono annientati. La soggezione totale dei singoli individui al partito è l'obiettivo primo del totalitarismo ed è ottenuto mediante un'estesa burocrazia, il monopolio dei mezzi di comunicazione, un'efficiente polizia segreta, il controllo politico delle forze armate e una forte centralizzazione dell'economia.
Il monopolio dei mezzi di comunicazione è ottenuto facendo si che questi, attraverso i quali la popolazione riceve informazioni, siano di proprietà del partito centrale e le forme di informazione che non si uniformano al pensiero del partito, vengono considerate eversive e sottoposte a censura.
La popolazione è continuamente sottoposta a una pesante pressione fisica e psicologica, dovuta alla presenza della polizia segreta, che contribuisce all'aumento di un clima di diffidenza e insicurezza del cittadino; inoltre la presenza, molte volte, di campi di concentramento faceva aumentare il terrore di Stato. Il controllo delle forze armate era usato per impedire cambiamenti politici che potevano avvenire tramite colpi di stato o comunque ribellioni della società. Il controllo centralizzato dell'economia permetteva allo Stato totalitario di indirizzare la produzione su costosi progetti militari o propagandistici. Inoltre l'apparato burocratico del potere poteva controllare i lavoratori, togliere loro arbitrariamente il permesso di lavoro o renderli completamente dipendenti dal potere politico.
Terrore e consenso trovano nei campi di concentramento e di sterminio il "laboratorio" nel quale i regimi totalitari verificano la loro capacità di trasformare gli uomini nella loro pretesa di dominio assoluto. I lager servono, a degradare gli individui, a compiere l'orrendo esperimento di eliminare, in condizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento umano e di trasformare l'uomo in un oggetto, in qualcosa che neppure gli animali sono. È uno strumento di azione politica che, considerando l'avversario un nemico assoluto, ne impone l'annientamento. Serve anche a riprodurre il terrore come strumento di potere, è insomma il simbolo della schiavitù degli inferiori. Il lager rappresenta, inoltre, il perfetto modello della società totalitaria organizzata sulla base di un sistema di disciplina integrale in cui ogni norma è costituita dalla pura volontà dei detentori del potere. In questo microcosmo la morte condiziona e regola l'insieme delle relazioni umane. Nel campo, ogni categoria in cui sono suddivisi i prigionieri è individuata da un contrassegno visibile e collocata in un preciso gradino della struttura gerarchica; a ogni livello di status corrisponde un luogo fisico i cui i prigionieri sono alloggiati e da cui non possono uscire. Alla base della piramide vi sono gli ebrei, distinti da una stella o un triangolo giallo, destinati a subire ogni tipo di sopruso da parte dei guardiani del campo e, a volte, dagli stessi detenuti; poi gli zingari e gli omosessuali, distinti da un triangolo rosa, quindi i cosiddetti asociali, cioè gli emarginati e i disoccupati, distinti da un triangolo nero; seguono i politici, distinti da un triangolo rosso, soprattutto comunisti e socialdemocratici, accanto ai sacerdoti e ai testimoni di Geova, distinti da un triangolo viola. In cima alla piramide stanno i criminali comuni, distinti da un triangolo verde, detenuti tedeschi ai quali le SS affidano generalmente il compito di mantenere la disciplina fra i prigionieri, compito che seguivano con spietata brutalità. Alle SS spettano le esecuzioni esemplari. A tutto ciò si aggiunge la denutrizione, le malattie dovute alla totale mancanza di igiene e di riscaldamento nelle baracche, l'umiliazione continua e brutale dei prigionieri, la degenerazione umana e morale dei carcerieri. Questo era uno scenario di abiezione morale, di violenza fisica quotidiana, di morte generalizzata, di degradazione, di annullamento della personalità e del senso della dignità.
La narrativa novecentesca è stata uno dei principali strumenti di riflessione e di elaborazione del tema del totalitarismo. Il terrore totalitario è stato oggetto e tema di moltissimi romanzi sia per quanto riguarda la denuncia dei lager di Hitler, sia quella dei gulag staliniani. Uno dei libri che rappresenta meglio la prigionia nei lager è sicuramente Se questo è un uomo di Primo Levi.
Levi racconta la sua esperienza nel campo di sterminio di Auschwitz tentando una narrazione, se non proprio oggettiva, limitata ai fatti e alle azioni. Raccontare per far conoscere e per far capire, soprattutto per non ripetere. E ancora della morte dell’uomo da parte di un suo simile e della sua lenta rinascita al momento della liberazione, del vero significato delle cose, delle abitudini, dei piccoli gesti e della perdita della fede davanti a un male che sembra non avere fine. Levi ha cercato di trasmetterci una memoria che non deve essere dimenticata per non sbagliare di nuovo. Quest'opera è sia un libro di ricordi, sia un documento storico, unico nel suo genere, che ci permette di conoscere le atrocità compiute nei campi di sterminio dalla voce di chi ha vissuto in prima persona questa terribile esperienza. L’opera è stata scritta allo scopo, non di formulare nuovi capi d’accusa, ma per fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano, e soprattutto per soddisfare l’impulso e il bisogno di raccontare agli altri, e farli partecipi. Questo romanzo è la narrazione-testimonianza di uno dei pochi ebrei sopravvissuti all’esperienza del lager. Non è stato solo un incubo e non siamo qui per discuterne ma solo per venirlo a sapere. Il testo inizia con una poesia, di ventitré versi liberi, che è dedicata a noi che abbiamo tutto quello che desideriamo, che viviamo in case ospitali e che siamo circondati da persone che ci vogliono bene, e ci obbliga a riflettere e ragionare su ciò che è successo davvero, descrivendo le sofferenze dei deportati; meditare perché non si ripetano i gravi errori del passato. L’autore inizia il racconto della cattura avvenuta ad opera della milizia fascista il 13 dicembre 1943, trovato in montagna assieme ad una pseudo milizia partigiana, disorganizzata e impreparata, dopo ben quattro anni di segregazione, al fine di sfuggire alle leggi razziali del fascismo, e la successiva deportazione al campo di Buna Monowitz, presso Auschwitz, durata fino al gennaio del 1945; ci parla poi della sua prigionia, dell’atroce rituale all’ingresso del lager, della sua riduzione a numero, perché “solo mostrando il numero si riceve il pane e la zuppa”, della vita trascorsa in una baracca, del suono di Rosamunda e di varie marce, mentre i prigionieri ritornavano “in parata” dai campi di lavoro. La vita ha un ritmo obbligato: “uscire e rientrare: lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire, morire”. Dalla cattura inizia per Primo e i suoi seicento circa compagni la disumana vita del Lager, il “magazzino”. Ne torneranno a casa una trentina.
Dopo un lungo viaggio in treno, ammassati come animali (per le SS “Stück”, “pezzi”), soffrendo fame e sete, giungono ad Auschwitz. Vengono fatti spogliare, lavati con acqua fredda, fatti aspettare nel gelo, vengono tagliati loro i capelli e vengono vestiti con leggere divise a righe. I tedeschi hanno annullato la loro identità, la loro proprietà privata, le loro differenze nell’aspetto, tutto ciò, insomma, che li aveva resi uomini fino a quel momento.
Si susseguono, in una scansione tragicamente nitida e precisa, le immagini dell’atroce sofferenza, segnati dalla fame, dalla fatica, dalla paura, che annebbia lo spirito, confonde bene e male, e doma i corpi, fino al cedimento, alla malattia, occasione questa di selezioni micidiali, per far posto a nuove ondate di sventurati; lo scambio delle bacinelle tra i dissenterici allo scopo di guadagnare qualche giorno di infermeria (KA-BE) e vincere così i rigori dell’inverno; il rancio in piedi; la Borsa, il mercato dei “disperati della fame”, dove si fa baratto di tutto per avere in cambio del cibo in nome della sopravvivenza. Accanto ai “sommersi” ci sono i “salvati”.
All'interno del libro si parla anche di sopravvivenza intesa come salvare l’ultimo residuo d’uomo che c’è in ogni deportato. La dignità e l’esistenza dell’uomo stesso è stata annientata, distrutta.
Vengono annientati così, un po’ alla volta, lentamente in modo che il loro essere muoia prima del loro corpo. Si snodano, poi, attraverso la memoria, gli ultimi episodi significativi della prigionia dello scrittore: l’esame di chimica per diventare specialista e ottenere così la salvezza; le tragiche selezioni periodiche per la camera a gas; l’attesa dei russi durante l’inverno del ’44; il bombardamento del campo, mentre, malato di scarlattina, l’autore si trova degente nel Ka-Be; l’abbandono della zona da parte delle SS in fuga, l’arrivo dei russi liberatori.
La lacerante vicenda di prigioniero nei lager nazisti, ha lasciato in lui indelebile, oltre allo stupido numero tatuato, la volontà di ricordare, di serbare testimonianze di quell'estrema degradazione dell'individuo, dell'orrore di assistere impotente alla demolizione di un uomo.
Durante il lavoro ha modo di comunicare con molta gente e questo gli permette di rimanere vivo e non perdere completamente la sua identità ed aumentare quindi, il senso di solitudine che lo pervade. Il suo profondo senso di solitudine e le sue paure erano alimentate dal fatto che non poteva sapere nulla della guerra in corso. Un giorno arriva la notizia i tedeschi sono stati sconfitti e quindi viene liberato e questa scarcerazione, coincide con l'arrivo dei soldati sovietici.
Dopo di che Primo Levi comincia un nuovo viaggio, quello per tornare a casa, ma quando, dopo lunghe peregrinazioni, riesce ad arrivare nel suo paese natale, si accorge di aver perso comunque la sua identità e ciò lo porterà poi al suicidio.
Il libro è un crudo racconto dei fatti accaduti, durante la seconda guerra mondiale, nel campo di concentramento di Auschwitz. Il testo, pur essendo stato scritto dopo la liberazione dal lager, è iscritto in maniera tale da sembrare un diario, non solo dalla forma, ma anche dal modo in cui è scritto: infatti sin dalla prima pagina del libro Levi racconta come se rivivesse le violenze subite nel lager; tutto è confuso, non si riesce a capire bene cosa stia succedendo, proprio la sensazione che l’autore ha quando viene deportato. Alcune volte Levi racconta con sarcasmo, con una comicità velata di disperazione. Lo stile sobrio, scarno, il tono colloquiale, la narrazione impersonale, la scrittura chiara, comunicativa, rigorosamente aderente ai fatti e attenta alle sfumature, esprimono l'intento di offrire una testimonianza che solleciti la riflessione sulla civiltà edificata dall'Occidente.
Aspetto davvero affascinante del libro è il particolare uso del linguaggio. Infatti Primo parla la sua lingua all’inizio, nell’introduzione e nell’inizio della vicenda, subito dopo la deportazione, poi però gli è sufficiente un po’ di permanenza nel campo per parlare il linguaggio del Lager. Il Lager parla molte lingue: tedesco, francese, yiddisch, spagnolo, polacco, italiano, greco. E così lui scrive a noi, così come l’ha sentito, allo stesso modo in cui l’ha vissuto. Ci permette di entrare in un mondo nuovo, straniero, che vuole comunicare con noi, ma che pretende di essere compreso in un momento, al volo, e non sempre accade. Nel campo ci si deve arrangiare ed è questa l’emozione che trapela dalle pagine.
Ognuna di queste lingue assume vari significati man mano che viene citata. Ad esempio il tedesco diventa subito la lingua del comando e in qualche modo la lingua ufficiale del campo, la lingua che tutti comprendono. Il francese è la lingua del romanticismo, delle frasi poetiche, della tristezza. La lingua yiddisch, un po’ un miscuglio di lingue, più vicino al polacco che alle altre, e che l’autore comprende solo vagamente, si rivelerà poi essere la lingua più parlata. Lo spagnolo viene nominato un’unica volta, sono infatti pochi i prigionieri che parlano questa lingua. Il polacco è la lingua dei numeri alti, cioè gli anziani, ma anche i furbi. Si dice che i polacchi sapessero le cose prima degli altri e per questo sapere il polacco avrebbe permesso di venire a conoscenza di informazioni altrimenti riservate, come ad esempio l’arrivo di una selezione in cui circa il 20% dei prigionieri veniva sterminato. In italiano parla solo con Alberto e qualche altro raro connazionale, ma soprattutto usa la sua lingua per citare pezzi di poesie, pochi versi o lunghe strofe che gli sovvengono in un attimo di pausa. Usa queste poesie per esprimere emozioni altrimenti complicate. L’effetto è alle volte sorprendente. Infine il greco è la lingua dei ladri, molti termini vengono coniati dal greco per indicare il furto, l’imbroglio e simili. D’altra parte il furto è parte integrante della vita nel Lager, è una cosa normale.
Un'altra rappresentazione, giustamente celebre, di un universo concentrazionario, ci viene fornita dall'opera 1984 di George Orwell che, a differenza di Primo Levi, colloca tale rappresentazione in una dimensione fantastica e non realistica.
Orwell tenta di descrivere la vita negli stati di dittatura, caratterizzati, appunto, dalla continua ricerca di dominio nel mondo futuro. Adotta e attribuisce una certa importanza alla figura del "Grande Fratello". Questa ha un particolare valore allegorico, non viene mai descritta fisicamente, non se ne conoscono caratteristiche umane, ma appare come un'entità superiore capace di esercitare un assiduo controllo delle singole coscienze in modo autoritario e, conseguentemente, di assoggettare la massa.
1984 is a sort of trick because it was written in 1948; it is set in 1984 because Orwell wants to warn people about a possible danger that it is possible to find in that years. The utopian novel is set in the future with an ideal description of a perfect social and political government, this system is ideal and can't be true.
Thanks to the two World Wars the mentality of the people gave a sense of disillusion. So the utopian tradition turned in a distopian novel, something to avoid ( the totalitarism ).
In 1984 we can find London set in a totalitarian dimension where the political leader is a figure that maintains his power using slogan like: " The Big Brother is watching you! ". The Big Brother embodies the figure of a perfect dictator. The dictator decided to change books and articles of the past for personal interests. In this dimension there is a supreme enemy Goldstein, a fictional image that is necessary for the contrapposition of the dictator's control.
The protagonist is Winston Smith, a stereotype of an ordinary man. He is a sort of hero. He carries out the manipulation of the facts by rewriting books and newspaper. Smith lives in a small flat controlled by cameras, so he hasn't privacy. In this flat there is a corner where the cameras couldn't record his life. Only in this corner he is free. In this new world people speaks a new language that is characterised by neologism. Winston rebels against the degrading work and begins to dream of smashing the system. He joins a secret society against totalitarism and he has a brief love-affair with an other rebel, Julia. At the end he is arrested and he is brain-washed into conformity again.

Bibliografia: Hanna Arendt, Le origini del totalitarismo (1951); W.Sofsky, L'ordine del terrore (1995, Bari-Roma, Laterza); Z.Bauman, Modernità e olocausto (1992); Primo Levi, Se questo è un uomo (1994, Einaudi scuola); Primo Levi, I sommersi e i salvati (1987, Einaudi); George Orwell, 1984 (1949,Classici Oscar Mondadori).
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