Dal concetto di totalitarismo a un approfondito studio sulle tipologie di romanzo

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Testo

LICEO GINNASIO STATALE "Q. ENNIO"
GALLIPOLI
ESAME DI STATO a. s. 1999/2000

TESINA PLURIDISCIPLINARE
"L'Europa tra le due guerre:
i regimi totalitari e la crisi culturale ".
Maturanda:

Liboria Maggio

INDICE
- Premessa

- Storia:
Concetto di totalitarismo
Benito Mussolini e l'avvento del fascismo
Adolf Hitler e la dittatura nazista
- Italiano e Inglese:
Il romanzo della crisi: caratteri generali
"La coscienza di Zeno" di Italo Svevo
"Ulysses" di James Joyce
"To the lighthouse" di Virgina Woolf

- Greco:
L'età greca della crisi
Il romanzo greco: caratteri generali
Il romanzo erotico-avventuroso di Senofonte
Efesio
Il romanzo erotico-pastorale di Longo Sofista
Il romanzo parodistico-satirico di Luciano

- Latino:
La letteratura latina del "periodo argenteo"
Il romanzo latino: caratteri generali
"Satyricon": romanzo di Petronio Arbitrio
"Metamorfosi o l'Asino d'oro": romanzo di
Apuleio
L'età dei totalitarismi
Concetto di totalitarismo:
Di stato "totalitario" si cominciò a parlare in Italia verso la metà degli anni '20, per denotare le caratteristiche dello stato fascista contrapposto allo stato liberale. L'espressione è presente nella voce "Fascismo" dell'Enciclopedia Italiana (1932), sia nella parte scritta da Giovanni Gentile, sia in quella redatta da Mussolini, dove si afferma la novità storica di un "partito che governa totalitariamente una nazione". Nella Germania nazista, invece, il termine ebbe scarsa fortuna e si preferì parlare di stato "autoritario". Intanto l'espressione cominciava ad essere usata in tutta Europa per designare tutte le dittature monopartitiche, sia quelle fasciste sia quelle comuniste e si generalizzò soltanto dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando, poi, furono formulate le teorie più compite del Totalitarismo, quella di Hannah Arendt e quella di Carl J. Friedrich e Zbigniew K. Brzezinski.
Secondo H. Arendt, il totalitarismo è una forma di dominio radicalmente nuova, perché non si limita a distruggere le capacità politiche dell'uomo, isolandolo in rapporto alla vita pubblica, come facevano le vecchie tirannie e i vecchi dispotismi; ma tende a distruggere anche i gruppi e le istituzioni che formano il tessuto delle relazioni private dell'uomo, estraniandolo così dal mondo e privandolo fin dal proprio io. In questo senso, il fine del Totalitarismo è la trasformazione della natura umana, la conversione degli uomini in "fasci di natura intercambiabili", e tale fine è perseguito mediante una combinazione di ideologia e di terrore.
L'ideologia totalitaria pretende di spiegare con certezza assoluta e in modo totale il corso della storia; diventa perciò indipendente da ogni esperienza o accertamento dei fatti, costruendo un modello di società fittizio e ideologico. Il terrore totalitario, a sua volta, serve per tradurre in realtà il mondo fittizio dell'ideologia. Il terrore totale diventa uno strumento permanente di governo, e costituisce l'essenza stessa del totalitarismo, mentre la logica deduttiva e coercitiva dell'ideologia ne è il principio di azione, cioè il principio che lo fa muovere.
Sul piano organizzativo, l'azione dell'ideologia e del terrore si esprime nel partito unico. Il regime totalitario non ha però una struttura "monolitica": vi è , invece, una moltiplicazione e una sovrapposizione di uffici e di competenze dell'amministrazione statale, del partito e della polizia segreta, che fanno capo alla volontà assoluta del dittatore. La volontà del capo è la legge del partito e l'intera organizzazione partitica non ha altro scopo che quello di realizzarla. Il capo è il depositario dell'ideologia: lui solo può interpretarla o corregerla.
La seconda teoria classica, quella di Friedrich e Brzezinski, definisce il totalitarismo in base all'unione dei sei caratteri seguenti:
- un'ideologia ufficiale, che riguarda tutti gli aspetti dell'attività e dell'esistenza dell'uomo;
- un partito unico di massa guidato tipicamente da un dittatore;
- un sistema di terrorismo poliziesco, che appoggia e nello stesso tempo controlla il partito;
- un monopolio assoluto dei mezzi di comunicazione di massa, come la stampa, la radio e il cinema, e di tutti gli strumenti della lotta armata;
- un controllo e una direzione centrale di tutta l'economia.
Fatta tale premessa, procederò ora ad analizzare le figure dei tre massimi dittatori del '900, Mussolini, Hitler e Stalin, i quali attuarono pienamente l'azione del terrore totalitario, soprattutto nel caso della Germania Hitleriana e della Russia comunista. Qui, infatti, a partire dal 1937-38, si riscontrano tutti i caratteri dello stato totalitario: con il pieno predominio delle SS sulle altre organizzazioni poliziesche e sul Ministero dell'Interno, si attuarono i "pogrom" contro gli ebrei, la loro deportazione in campi di concentramento e di sterminio, fino alla "soluzione finale", perché ritenuti "oziosi", "asociali", "malati di mente", ecc… Nella Russia degli anni '30, specialmente dal 1934, e poi ancora nel periodo postbellico, invece, l'azione del terrore totalitario si attuò con le "grandi purghe", con la liquidazione di interi gruppi sociali e dei quadri dirigenti del partito, le deportazioni in massa nei campi di concentramento e di lavoro in Siberia.
L'esperienza dell'Italia fascista fu, invece, considerata "imperfetta": relazionata alle altre dittature, infatti, essa appariva diversa e meno totalitaria, perché nel nostro paese il Partito Nazionale Fascista al potere fu limitato da due caratteri fondamentali: innanzitutto, non giunse mai ad identificarsi pienamente con lo Stato, anche se ne modificò alcune componenti, e, inoltre, incontrò dei veri e propri limiti nella Monarchia e nella Chiesa, le quali volevano rispettivamente mantenere intatti i loro poteri sul territorio italiano.
BENITO MUSSOLINI E L'AVVENTO DEL FASCISMO

"La massa non è altro che un gregge di pecore, finchè non è organizzata. Non sono affatto contro di essa. Soltanto nego che possa governarsi da sé. Ma se la si conduce, bisogna reggerla con due redini: entusiasmo ed interesse. Chi si serve solo di uno dei due, corre pericolo. Il lato mistico e il politico si condizionano l'un l'altro..."
Così scriveva Emil Ludwig nel suo "Colloqui con Mussolini" e già da tali parole si può comprendere qual era l'opinione della massa di persone che il "Duce" dominava e quali erano le sue intenzioni di governo. Ma già Piero Gobetti e Carlo Rosselli avevano spiegato che fa parte della psicologia degli italiani la necessità di avere una guida "capace di risolvere i problemi che altri popoli risolvono con il metodo e con l'impegno".
Gli oppositori del fascismo si trovarono, però, di fronte ad un nemico grande e pericoloso: il Duce, infatti, non era solamente un leader politico, venne persino divinizzato e idolatrato dai suoi sostenitori.
Il particolare rapporto di Mussolini con le masse fu influenzato dalla opera di Gustave Le Bon, studioso francese che, con "La Psicologia delle folle", diede un determinante contributo per la comprensione del "carattere" delle masse e per le strategie di persuasione per dominarle. Il Duce comprese che, nella sua epoca, le folle rappresentavano un'immensa potenza e che dovevano, come in seguito fece, essere "utilizzate" per ottenere quel consenso che lo avrebbe sostenuto così a lungo. E Mussolini aveva innate le capacità di immedesimarsi nel suo popolo: di notevole intuito e fiuto politico, egli rappresentò "l'uomo forte", che avrebbe potuto guidare gli Italiani verso la ripresa dopo la cosiddetta "vittoria mutilata" del primo conflitto mondiale.
Mussolini, infatti, sembrava essere l'uomo d'azione in grado di imprimere finalmente al Paese, dopo tante incertezze, una svolta decisiva verso il benessere ed il progresso.
Come sosteneva Le Bon, egli sarebbe stato in grado di dare al popolo quelle risposte che si aspettava, in quanto "vinto da un desiderio inconscio di sottomissione ad un capo. La folla, infatti, non possiede idee proprie, in quanto gli uomini riuniti in essa perdono la loro individualità e la loro personalità cosciente: ciò determina un affievolimento delle capacità critiche, mentre si sviluppa un forte senso di appartenenza ad un'identità collettiva. Di conseguenza, la massa tende ad assimilare idee già fatte, specie se esse hanno una forte componente ideale e una carica di profonda suggestione: la massa è, per sua natura, dominata dall'inconscio e dall'impulsività."
Le Bon delinea anche le caratteristiche del capo: egli deve essere, innanzitutto, un uomo di azione e non di pensiero, perché "la riflessione tende al dubbio e quindi all'inazione". Deve essere dotato di grande volontà e sorretto da un ideale e da una fede incrollabile, poiché ciò esercita sulle masse una grande forza di attrazione e di coinvolgimento: idee semplici, affermazioni concise, proclamate ripetutamente, sono i principali strumenti di persuasione che si basano sulla facilità di apprendimento.
E Mussolini era un grande oratore. La sua forza comunicativa si basava su frasi brevi, pronunciate con tono oracolare e trionfalistico: faceva un grande uso di metafore, di terminologia militare e spiritualistica. Proclamava i suoi discorsi con brevi periodi, con incalzante ritmo delle parole e con un continuo ricorso all'antitesi. Il suo lessico era povero, e tuttavia ricco di enfasi, di pause sapienti, di richiami eroici e patriottici, che avevano l'unico scopo di esaltare la folla.
Ma la sua capacità politica aveva ben più profonde radici.
Nato a Predappio, in provincia di Forlì, il 29 luglio 1883, aveva militato nel Partito Socialista mostrando una chiara inclinazione verso il sindacalismo rivoluzionario, tanto che, nel 1912, divenne direttore de "L'Avanti"; ma un suo editoriale in favore dell'intervento in guerra a fianco della Francia scatenò la polemica nel partito, tradizionalmente antibellico. Fu, allora, costretto alle dimissioni dal giornale e, quindi, espulso dal partito.
Una volta fondati i "Fasci d'Azione Interventista" nel 1919, si diede alla preparazione del programma del nuovo movimento, con richieste di forte contenuto demagogico. Tra di esse:
- politica estera orientata in senso imperialistico e difensivo;
- la diminuzione dell'orario di lavoro a otto ore effettive;
- i minimi di paga;
- obbligo ai proprietari di coltivare la terra, con la sanzione che le terre non coltivate fossero date a cooperative di contadini, soprattutto reduci dalla guerra;
- una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo;
- il sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l'abolizione di tutte le mense vescovili;
- la revisione di tutti i contratti di forniture di guerra e il sequestro dell'85% dei profitti di guerra.
Il fascismo in Italia raccolse forze sociali disparate, di provenienza politica assai diversa (socialisti, anarchici, sindacalisti rivoluzionari, cattolici clericali, nazionalisti, repubblicani atei, ex ufficiali monarchici), unificate dal malcontento nei confronti delle agitazioni operaie e contadine e del trattato di pace. Il 28 ottobre 1922, le squadre fasciste, dopo aver assaltato un grande numero di Camere del Lavoro, marciarono su Roma, affermando di voler governare il Paese.
Il primo governo Mussolini ottenne la fiducia e i pieni poteri con una maggioranza schiacciante: 429 voti contro 116 e 7 astenuti alla Camera, e 196 voti contro 19 al Senato. All'opposizione restarono soltanto comunisti, socialisti e repubblicani. Un passo decisivo fu fatto con l'approvazione di una legge elettorale maggioritaria che consentì a Mussolini di presentare nel 1924 il cosiddetto "listone" con la copertura di 150 candidati liberali. Il presentatore della nuova legge elettorale, Giacomo Acerbo, avrebbe poi pubblicato i "Fondamenti della dottrina fascista della razza" (Roma 1940).
Mussolini creò, intanto, il Gran Consiglio del Fascismo, che avrebbe progressivamente esautorato il Parlamento, e legalizzò le squadre armate, trasformandole in milizia personale. Per conciliarsi e garantirsi l'appoggio del Vaticano e del clero cattolico firmò i Patti Lateranensi con la Santa Sede; mentre il 3 gennaio 1925 promulgò le cosiddette "leggi fascistissime".
Fu, così, soffocata la libertà di stampa; furono abolite le libertà politiche e sindacali; gli antifascisti furono epurati nell'amministrazione pubblica; tutti i poteri di governo furono trasferiti al Duce; vennero istituiti il confino di polizia, la pena di morte, il tribunale speciale e la polizia segreta. Per irrobustire l'orgoglio nazionale, Mussolini creò un vero e proprio impero coloniale: Libia, Etiopia, Somalia, Eritrea e Albania, dovevano mettere l'Italia sullo stesso livello delle altre potenze e fare di essa la nazione guida dell'Europa e il faro della civiltà nel mondo.
Anche nel campo culturale, Mussolini si fece promotore di molte iniziative: al filosofo Giovanni Gentile affidò la monumentale "Enciclopedia Italiana"; mentre nel 1926 creò l'Accademia d'Italia, che assorbì l'antica e prestigiosa Accademia dei Lincei.
Questo gli consentì di asservire tanti intellettuali, attirati dai privilegi che la nomina di accademico conferiva loro, e di dare lustro e prestigio al regime. Incentivò il cinema, il teatro, l'arte, l'architettura, che si dimostrò essere gigantesca e magniloquente, come simbolo del potere e della grandezza dell'ideologia fascista.
Certo è che, per un ventennio, l'Italia, sotto il fascismo, rimase nel complesso isolata dalle più vive correnti culturali e artistiche europee e mondiali, chiusa all'interno di una mediocrità provinciale che il regime esaltava come propria virtù. Né ciò avveniva per caso: l'abbassamento del livello culturale faceva parte della strategia politica di un regime che aveva sospinto la popolazione a credere nei miti piuttosto che a ragionare, a scambiare la retorica con la realtà, a delegare ogni decisione al Duce, dal momento che egli "aveva sempre ragione".
Nel campo del lavoro, dell'industria e dell'agricoltura, Mussolini avviò importanti riforme economiche e diede inizio ad importanti opere pubbliche: soprattutto le bonifiche dei terreni paludosi dell'Agro Pontino e la famosa "battaglia del grano", con la quale perseguì l'intento di aumentare la produzione di cereali, nel quadro del programma di "autarchia" che, in caso di guerra, avrebbe reso l'Italia autosufficiente.
Con la "Carta del Lavoro" (aprile 1927), che i propagandisti salutarono come la "Magna Charta" della rivoluzione fascista, il regime, inoltre, stabilì alcuni diritti-doveri del lavoratore: la giornata lavorativa di otto ore, la cassa malattie, le pensioni di vecchiaia, l'assistenza alla maternità, le vacanze organizzate dal Dopolavoro.
Neppure la gioventù fu risparmiata dall'indottrinamento; anzi, il regime considerava fondamentale "addestrare" gli italiani al regime fascista, fin dalla nascita: la "Gioventù Italiana del Littorio aveva il compito di creare un uomo che fosse "naturalmente" fascista, che vivesse e pensasse "spontaneamente" da fascista.
Parallelamente a questo condizionamento capillare, ogni opposizione era messa a tacere. Partiti e sindacati furono dichiarati illegali e furono soppressi, mentre i giornali che non si adeguavano al regime chiusi d'imperio. Gli oppositori politici furono bastonati, messi in galera o mandati al confino, a volte assassinati.
Si instaurò, così, un autentico clima di terrore.
Nel giro di un decennio dalla presa del potere, la ferrea dittatura fascista era compiuta.

ADOLF HITLER E LA DITTATURA NAZISTA

In Germania la guerra non finì il giorno in cui ai soldati venne impartito il "cessate il fuoco". E non finì neppure quando venne firmato il Trattato di Versailles, che regolava la pace tra l'ex Reich e gli Stati vincitori nel primo conflitto mondiale.
C'era, infatti, il desiderio di una "rivincita" contro coloro che avevano umiliato la Germania. C'era il timore per il "pericolo rosso". C'era il bisogno di un governo forte per rimettere ordine in Germania.
Inoltre, la crisi economica del dopoguerra, l'inflazione che faceva lievitare i prezzi e diminuire il potere d'acquisto dei salari, la diffusa disoccupazione alimentavano i desideri di qualche "brusca novità" che rianimasse lo stanco spirito tedesco.
Fu in questo quadro che il Nazismo riuscì ad affermarsi e che l'ex caporale Adolf Hitler riuscì a prendere il potere e a diventare il "Fuhrer", il Duce o la Guida Unica della Germania.
Hitler aveva militato inizialmente nel partito operaio tedesco, di ispirazione socialista. Quando ne ebbe in pugno le leve lo trasformò in partito nazionalsocialista degli operai tedeschi, comunemente detto NAZISMO.
Egli aveva già al suo servizio, prima di prendere il potere, un vero esercito irregolare. Erano le "squadre" denominate SA (Sturm Abteilungen, ovvero reparti d'assalto, al servizio del partito) comandate dal capitano dell'esercito Ernst Rohm, che in seguito furono sostituite dalle famigerate SS (Schutz Staffeln, ovvero squadre di protezione). La cieca fedeltà agli ordini del Fuhrer e dei capi nazisti rese possibile, ad Hitler, l'attuazione del proprio programma.
Quando finì in prigione a Monaco nel '23, Hitler scrisse un libro "Mein Kampf", (La mia battaglia), che, pubblicato nel '25, era destinato a divenire il testo sacro del nazismo. Il suo era un programma "contro": contro i governanti di Weimar, accusati di eccessiva debolezza; contro la democrazia ed il sentimento pacifista, che giudicava causa dell'umiliazione di Versailles; contro i comunisti, che giudicava pericolosissimi; contro negri, slavi, zingari e soprattutto ebrei, considerati "inferiori".
Al centro della concezione hitleriana c'era un'utopia nazionalista e razzista. Fervente antisemita sin dalla giovinezza, sostenitore di una concezione "darwiniana" della vita, intesa come lotta perenne in cui i più forti sono destinati a vincere, Hitler credeva in una razza conquistatrice e superiore, quella ariana, progressivamente inquinatasi per la commistione con le razze "inferiori". Il popolo in cui l'arianesimo si era conservato era quello tedesco, che aveva il compito di governare sul mondo. A tale scopo fu approntata una vera e propria ideologia dello sterminio di massa e del genocidio dei "nemici interni": i lager e le camere a gas sarebbero arrivati di lì a poco tempo.
All'inizio il partito di Hitler non ebbe molto seguito; ma il suo potere crebbe con l'aumentare del disagio della popolazione, dovuto soprattutto ai drammatici effetti della Crisi del '29.
Quel che non fece la propaganda nazista, riuscirono a farlo i metodi delle SA militarizzate dal partito: aggressioni, intimidazioni, uccisioni,ecc…
Così, alle elezioni del 1930 Hitler riuscì ad infilare nel "Reichstag", o Parlamento, ben 107 deputati contro i 12 che erano stati eletti in precedenza. Nel 1932 nuove elezioni assegnarono ai nazisti 230 seggi. Hitler ricevette 13 milioni di voti: lo battè solo il presidente della repubblica in carica, il generale Hindenburg, che conservò la carica di presidente, ma dovette nominare Hitler "cancelliere", ossia capo del governo. Liberali e conservatori credettero anche loro, come in Italia, di aver ingabbiato Hitler e di poterlo utilizzare come una manovra di puro stampo reazionario. Sbagliarono i loro calcoli: in luglio l'unico partito legalmente esistente in Germania era quello nazista.
Nell'imminenza delle nuove elezioni venne incendiato, nella notte del 27 febbraio 1933, il Reichstag: la colpa fu attribuita ai comunisti. Molti di essi vennero arrestati insieme ad altri oppositori, specialmente cattolici e socialisti. Venne anche soppressa la libertà di stampa e le SA e le SS si abbandonarono a vere e proprie "spedizioni punitive". Da questo momento la "liquidazione" degli avversari procedette più spedita. Gli ebrei furono cacciati da ogni ufficio pubblico; i funzionari più importanti furono nominati direttamente dai nazisti; i più irriducibili nemici del regime furono assassinati: più di 300 eminenti personalità tedesche antinaziste furono trucidate nella sola giornata del 30 giugno 1934.
L'anziano presidente della repubblica Hindenburg morì un mese più tardi. Pur conservando la carica di cancelliere, Hitler divenne anche presidente.
Un plebiscito sanzionò la nuova situazione. Hitler era diventato l'autentico, assoluto, onnipotente padrone del Terzo Reich, ossia del terzo impero tedesco, dopo quello Sacro romano medioevale e quello prussiano.
L'indubbia capacità di controllare i fattori emozionali e irrazionali delle masse e della politica, alternando follia razzista e promesse di prosperità e di prestigio nazionale, affermò Hitler come un capo carismatico appoggiato da un larghissimo consenso. Egli fece del nazismo un'efficientissima macchina burocratica e militare, in grado di utilizzare tutte le risorse della moderna società industriale e tecnologica per assicurare all'Herrenvolk (il popolo dominatore) la supremazia sul resto del mondo e garantirne la purezza etnica.
Una volta salito al potere, attuò una serie di riforme, volte a reprimere lo stato liberale: si fece conferire i pieni poteri per quattro anni, sciolse il partito comunista e i sindacati e cominciò ad epurare l'amministrazione dello Stato. La costituzione di una nuova polizia politica, la Gestapo, gli dette lo strumento per controllare rigidamente tutto il Paese.
Il punto cardine era il "Fuhrerprinzip" (principio del capo); il Fuhrer era nello stesso tempo il capo supremo, la guida del popolo ed espressione delle aspirazioni di tutti, punto di riferimento per tutti. Dal popolo erano esclusi gli elementi "anti-nazionali", i cittadini non ariani e gli ebrei, obiettivo del programma antisemita attuato da Hitler e dai suoi generali, che doveva portare allo sterminio completo di tutti gli ebrei.
Leggi razziali vennero promulgate all'indomani della presa del potere: Hitler, infatti, emanò la legge per la "difesa dei cittadini del Reich" e del sangue, che di fatto degradava gli ebrei a esseri umani di seconda classe, con diritti inferiori e senza cittadinanza. Era il 15 settembre 1935. Fra l'altro, vennero anche proibiti i matrimoni tra ebrei e ariani; e, proprio da quel momento, le "leggi di Norimberga" diventarono la base giuridica della persecuzione degli ebrei, oggetto fino ad allora di sistematiche campagne di boicottaggio.
Gli ebrei erano allora in Germania una ristretta minoranza: circa 500.000 su una popolazione di 60 milioni di abitanti. Ma diversamente da quanto accadeva nei paesi dell'Europa orientale, erano in prevalenza concentrati nelle grandi città e occupavano le zone medio-alte della scala sociale: erano, per lo più, commercianti, liberi professionisti, intellettuali ed artisti, industriali e finanzieri. Nei loro confronti, la propaganda nazista riuscì a risvegliare quei sentimenti di ostilità che erano largamente diffusi nell'Europa centro-orientale.
Dopo le leggi razziali di Norimberga, la persecuzione antisemita incalzò dal 1938 quando, traendo pretesto dall'uccisione a Parigi di un diplomatico tedesco per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un violento "pogrom" in tutta la Germania. La notte del 9 novembre 1938 nei quartieri ebraici furono commesse violenze contro negozi, abitazioni e sinagoghe, mentre molti ebrei vennero picchiati o uccisi. Questa passò alla storia come la "notte dei cristalli", per via delle molte vetrine dei negozi frantumate.
Da quel momento, la vita degli ebrei divenne sempre più difficile: negati di qualsiasi diritto, taglieggiati dei loro beni, oggetto di violenza e di nuove misure repressive, fu imposto loro anche il divieto di emigrazione. Fino a quando, nella sede dell'Interpol di Berlino, venne elaborata "una soluzione finale della questione ebraica": era dato per scontato che gli ebrei fossero eliminati fisicamente; si trattava solo di adottare le modalità per procedere allo stermino totale e realizzare l'obiettivo esposto da Hitler il 30 gennaio 1939: nessun insediamento fuori d'Europa, nessun ghetto in Europa.
Quello che accadde successivamente è assai noto e non mi dilungherò più a lungo: poiché le fucilazioni di massa erano difficili da mantenere segrete, il sistema scelto per lo sterminio fu il gas tossico (il famigerato Zyclon B). Nel gennaio 1942 treni carichi di ebrei partirono dai paesi occupati dai nazisti verso campi di sterminio costruiti appositamente. Nei lager i nuovi arrivati vennero divisi in prigionieri abili ed inabili al lavoro. Per questi ultimi c'era la morte immediata; per i primi un calvario di stenti inauditi prima dell'eliminazione. Per tutti, dopo la morte, il forno crematorio.
Il numero totale delle vittime dell'OLOCAUSTO fu stimato, dopo la guerra, in poco meno di 6 milioni!
Con la ragione del più forte e imponendo al popolo un duro, pesante sforzo, Hitler riuscì a trasformare la Germania. La "Wehrmacht", o esercito, venne ricostituita, riarmata e magnificamente addestrata. La "Luftwaffe", o aviazione, divenne insieme alle divisioni di "Panzer", carri armati, e all'artiglieria l'arma più potente non solo dell'armata tedesca, ma del mondo intero.
Ugualmente, risorse l'economia tedesca: industria, agricoltura e commercio furono potenziati. Nel 1939 il Reich produceva da solo l'11% dei prodotti industriali del mondo.
Fu, appunto, in quell'anno 1939 che Adolf Hitler lanciò la sfida al mondo e alla civiltà incitando così i suoi fedelissimi:
"CHIUDETE I VOSTRI CUORI ALLA PIETA'! AGITE CON BRUTALITA'!
…LA RAGIONE E' DEL PIU' FORTE…!"
Il mondo intero andava incontro ad una nuova spaventosa tragedia!

IL ROMANZO "DELLA CRISI"
Introduzione
L'esperienza della Grande Guerra aveva lasciato negli animi degli intellettuali un senso di disperazione e di disorientamento: le opere di questo periodo, infatti, erano il segno evidente del disagio storico ed esistenziale, vissuto negli ambienti di cultura, ed, inoltre, di una concezione della vita segnata dalla precarietà delle cose e dalla costante presenza della morte.
Il modello intellettuale che operava, quindi, nell'età fra le due guerre, si faceva portavoce di una fortissima eredità decadente, riscontrabile, questa, nella coscienza lacerata e nello stato di perenne viaggio e ricerca; teso ad esplorare gli angoli più riposti dell'"Io", destinato, però, a perdersi in un mondo estraneo ed indifferente alla sua sensibilità. Freud parlava di un intellettuale " sempre meno padrone in casa propria ", alla ricerca costante di un equilibrio tra la crisi esistenziale e l'esigenza di valori e ideologie cui fare riferimento; rivolto, attraverso il ricordo, a riaffermare uno spazio e un tempo lontani da lui.
Si cominciò, quindi, a parlare di un passaggio dalla fase della "crisi", appartenente all'età decadente e ai primissimi anni del '900, alla "coscienza della crisi". L'intellettuale, infatti, non si abbandonava più "alla malattia, alla follia, alla nevrosi, al delirio, al sogno e all'incubo, all'allucinazione, come strumenti privilegiati del conoscere", ma, con una maggiore consapevolezza critica, voleva indagare nella psiche umana, guardando attentamente alla propria realtà interiore e alle sue intime lacerazioni.
A questa coscienza critica del proprio stato esistenziale corrisposero, dunque, notevoli innovazioni nell'arte e, in particolare, nella narrativa.
Attraverso l'uso del monologo interiore e del "flusso di coscienza", infatti, scrittori, quali Italo Svevo, James Joyce e Virginia Woolf, attuarono un passaggio dal cosiddetto ROMANZO ESTETIZZANTE al nuovo ROMANZO PSICOLOGICO. In questi autori, quindi, non ritroviamo paesaggi e atmosfere, che erano state proprie di Oscar Wilde o Gabriele D'Annunzio; il loro era un "romanzo della crisi": la crisi e la frantumazione dell'"Io", della società, del narratore e del personaggio.
Il romanzo dell'800 era nato come espressione di una società e di una cultura dai valori ben definiti, affidandosi a personaggi dall'identità ben precisa e collocando le vicende secondo un preciso ordine temporale e causale: si trattava, quindi, di una narrazione di fatti e di ambienti sociali descritti con esattezza e collocabili in un dato momento storico. Fu, invece, il romanzo decadente a ribaltare completamente questa concezione, introducendo, a sua volta, un'analisi più attenta dei sentimenti interiori. Nel '900, così, la mutata situazione culturale, determinata dalla consapevolezza dei limiti della conoscenza scientifica e dalla "relatività" dei concetti tradizionali di tempo e di spazio, generò un nuovo tipo di romanzo, quello psicologico
Esso presentava personaggi INQUIETI, in cerca di un'identità precisa, nei quali il tempo era puramente interiore ed i fatti erano collegati secondo la soggettiva coscienza di ciascuno. In termini strutturali, a tale innovazione corrispondeva la dissoluzione della trama romanzesca tradizionale: nasceva, infatti, una nuova tecnica espressiva, il MONOLOGO INTERIORE, appunto, che univa le idee, non secondo un ordine logico e causale, ma secondo la SOGGETTIVITA' del personaggio. Si trattava di un romanzo non di fatti, cose, eventi, ma di riflessione, di analisi minuziosa degli stati d'animo e dei conflitti interiori.
Per fare questo, naturalmente, diventava difficile, o addirittura impossibile, raccontare attraverso un punto di vista esterno, osservando, vale a dire, dall'alto i personaggi e la vicenda: ai fatti che si intersecavano in trame avvincenti ed entusiasmanti, si sostituivano, ora, i flussi di coscienza, ciò che accadeva nella mente, gli impulsi dei personaggi. I protagonisti vivevano in una condizione di normalità e le loro vicende erano più che altro interiori. Quando si raccontava con gli occhi dei personaggi, si dava voce alla memoria, alle emozioni e alle idee, in altre parole a qualcosa che non aveva una dimensione temporale: questo, quindi, comportava che il tempo della storia e quello della narrazione si allontanassero, a volte, a dismisura (nell'Ulysses di Joyce, ad esempio, si raccontava, in circa mille pagine, una sola giornata).
La cultura di inizio secolo aveva fatto oramai comprendere come il tempo non fosse una realtà oggettiva, misurabile, ma una percezione individuale, soggettiva: il tempo non esisteva all'esterno dell'individuo, ma era INTERIORIZZATO, e ciò non si esplicava soltanto in "flashbacks" e in ricordi: i pensieri, i ricordi e gli affetti del cuore erano espressi attraverso la tecnica del monologo interiore e del flusso di coscienza; tecnica, questa, utilizzata nelle opere letterarie di Svevo, Joyce e Virginia Woolf.
"LA COSCIENZA DI ZENO"
"La Coscienza di Zeno" esce nel 1923 presso l'editore Cappelli di Bologna.
A differenza dei due romanzi precedenti, "Una vita" e "Senilità", si svolge in prima persona: esso non si presenta come narrazione di una vicenda particolare, ma come un'autobiografia aperta, in cui non si segue un discorso organico, ma si aprono squarci su diverse situazioni e occasioni della vita del protagonista.
Si tratta di un personaggio fittizio, Zeno Cosini: egli è un ricco esponente della borghesia commerciale triestina, che, per guarire dalle sue nevrosi, si rivolge ad uno psicanalista, il dottor S., il quale gli consiglia di scrivere le tappe fondamentali della sua vita, da cui poi trarre il materiale necessario per una terapia psicoanalitica. Di fatto, il romanzo inizia con una prefazione del dottor S., che dichiara di pubblicare le memorie del paziente per vendicarsi della sua improvvisa sospensione della cura. Segue un preambolo con i primi tentativi di autoanalisi, dopo di che si entra nel pieno della descrizione del diario, dove, attraverso sei episodi tematici, si colgono le varie tappe della "coscienza di Zeno":
- il fallito tentativo di superare il vizio del fumo;
- il difficile rapporto con il padre;
- la grigia e assurda storia del suo matrimonio;
- la storia della fallita relazione extra-coniugale;
- l'impresa commerciale avviata con il cognato e positivamente condotta dopo la morte di quest'ultimo;
- la convinzione finale di essere sano e di volersi liberare definitivamente dalla cura.
Tutto il discorso del protagonista si sviluppa in un'oscillazione continua tra malattia e salute, tra narrazione e riflessione, tra coscienza ed inganno, tra bisogno degli altri e difficoltà di instaurare con loro un rapporto, tra desiderio e aridità sentimentale. Zeno è alla ricerca di un equilibrio che gli sfugge continuamente e che egli stesso sa di non poter conquistare. La sua non è una personalità sicura e definita, ma ricca di contraddizioni e di paure: "giunge al matrimonio con Augusta dopo aver cercato di conquistare Ada e Alberta; ha bisogno della moglie per amare l'amante e dell'amante per amare la moglie; vive il suo rapporto con Guido come riflesso ambiguo del rapporto impossibile con Ada, ecc.…". Zeno è immerso fino in fondo in un mondo borghese, del quale il suo racconto ci presenta personaggi chiusi in valori sicuri, in certezze quotidiane, in abitudini e regole di vita, da tempo consolidate: ma, allo stesso tempo, in quel mondo egli si sente a disagio, in uno stato di eterna inferiorità, che gli impedisce sempre di comportarsi come si dovrebbe, di fare le mosse giuste, di commisurare sforzi e risultati.
Nella sua ottica, i valori su cui si regge la vita borghese non sono altro che inganni e schermi che danno un senso di rispettabilità e un'apparenza di equilibrio che è alla base dell'esistenza umana. Egli elabora molteplici strategie per sottrarsi a quei valori, pur continuando a rispettarli, per condurre una vita borghese seppur non partecipandovi attivamente. Ad ogni passo egli scopre, così, l'imprevedibilità della vita, la sfasatura tra l'idea che ognuno ha di sé e ciò che effettivamente accade. Nel corso di un dialogo con Guido, una casuale associazione di parole lo porta a coniare un'ironica definizione, in cui si può riassumere tutto il senso delle vicende del romanzo:
"La vita non è né brutta né bella, ma è originale…"
Tutto il vivere si risolve in un'"enorme costruzione priva di scopo", in qualche cosa di "bizzarro" e di strano, che fa concludere che "forse l'uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene".
Come individuo, Zeno è smemorato, distratto, dimentica l'ora in cui deve sposarsi, sbaglia funerale, si sente indebolito, ma, nello stesso tempo, si ritiene superiore agli altri. E' L'UOMO DELLE CONTRADDIZIONI.
E ciò da cui egli trae maggiormente linfa vitale, è la MALATTIA, punto di partenza e di arrivo della sua coscienza. Essa diviene per il protagonista strumento fondamentale di conoscenza, perché può rivelargli le contraddizioni più nascoste della realtà, l'inganno che si nasconde sotto le apparenze sociali, tanto che arriverà a dire:
"la malattia è una convinzione e io nacqui con quella
convinzione…"
La malattia si presenta come nevrosi, abito etico, patologia psico-mentale, paura di invecchiare e di morire. Una malattia che molto spesso è immaginaria, che egli vuole vedere sia in sé sia negli altri e in cui ama vivere e da cui potrà uscire solo affidandosi alla fuga e al caso. E a questo punto interviene proprio il caso , ovvero l'incoerenza della vita che lo dichiara, così, vincente: addirittura, l'arrivo della guerra lo farà arricchire.
Nell'ultimo capitolo, l'abbandono della cura si collega alla frattura tra il protagonista, oramai vecchio, e le sue avventure precedentemente narrate. E' certo, comunque, che la frattura su cui l'opera si chiude è segnata fortemente dall'incombenza della guerra: questa si pone anche come segno simbolico dell'uscita da un'epoca, della rottura di un mondo compatto quale era stato, al di là dei suoi precari equilibri, quello del giovane Zeno, della nuova minaccia di distruzione che incombe sul mondo borghese.
Raggiunto improvvisamente da una guerra che aveva creduto fino all'ultimo lontana, Zeno si accorge che la sua malattia ed il gioco dei suoi desideri gli hanno fatto ignorare la realtà.
E proprio da questa presa di coscienza, Zeno sembra ottenere la guarigione, che lo riconduce, però, ad allargare lo sguardo alla malattia, alla crisi che ha colpito l'intera civiltà umana: nella pagina finale del romanzo, Zeno, dopo aver ripercorso le tappe fondamentali della propria vita, prende coscienza dell'inutilità della psicoanalisi, che non avrebbe mai potuto curare né lui né il mondo. Il suo pensiero, allora, estendendosi all'essere umano, decreta l'inquinamento radicale della vita, fra pulsioni esistenziali connaturate all'uomo e la crisi degli ideali salvifici dello scientismo positivistico e dell'ottimismo della società borghese, nonché sull'esperienza negativa della Grande Guerra e dell'avvento del Ventennio Fascista.
L'uomo, a differenza dell'animale, con la sua scienza distruttiva, ha sovvertito ogni equilibrio biologico, contravvenendo alla legge della selezione naturale, da cui si è distaccato con la creazione artificiosa di ordigni distruttivi. Egli non si rende conto che più si allontana dalle leggi della natura, più decreta la propria debolezza e quindi la malattia. Questa può facilmente degenerare nel delirio e nella follia, sino alla catastrofe finale, che, con un'esplosione enorme, ridurrà la terra allo stato di nebulosa.
Notevole influenza sull'opera sveviana ebbero le teorie filosofiche di Schopenhauer, Nietzche e Freud, che si andavano diffondendo nei primi anni del '900, quando Svevo scriveva i suoi romanzi. Nella sua natura, infatti, confluiscono filoni di pensiero contraddittori e, addirittura, inconciliabili: da un lato, il positivismo; dall'altro, il "pensiero negativo" degli esistenzialisti e l'evidente influenza degli studi psicoanalitici.
Dal positivismo egli riprende la fiducia nell'"onnipotenza" del metodo scientifico, applicato allo studio della realtà, e il rifiuto di qualunque ottica di tipo metafisico, spiritualistico o idealistico, nonché la tendenza a considerare il destino dell'umanità nella sua evoluzione complessiva. Per quel che riguarda il rapporto con Schopenhauer, pur riprendendone alcuni strumenti di analisi e di critica, non accetta la proposta di una saggezza da raggiungersi attraverso la "noluntas", ovvero la rinuncia alla volontà e il sacrificio degli istinti vitali. Lo stesso atteggiamento Svevo rivela nei confronti di Nietzche e di Freud: il primo, infatti, è, per l'autore , il teorico della pluralità dell'io e il "demolitore" dei valori della moderna società borghese occidentale, certamente non il creatore del mito dionisiaco, fatto di razionalità, orgia e passione sfrenata; così come Freud si rivela un maestro nell'apprendimento delle teorie psicoanalitiche sull'ambiguità dell'io e nella comprensione materialistico-razionalista dell'inconscio, ma naturalmente non è accettato da Svevo sul piano dell'ideologia, ossia della visione totalizzante della vita e della terapia medica.
Sul piano della tecnica narrativa, il romanzo ha dato luogo a contrastanti definizioni: può, infatti, essere letto o come un'autobiografia, o come un romanzo analitico. Il racconto è fatto in prima persona: Svevo funge da testimone esterno alla vicenda narrata, mentre Zeno assolve alla doppia funzione di narratore e di protagonista. Questa soluzione, decisamente innovativa in rapporto al romanzo veristico-naturalistico, consente all'autore di abbandonare la focalizzazione esterna, espressa dal "narratore onniscente" che narra in terza persona, e di passare alla focalizzazione interna, con il protagonista "che si narra".
La tecnica narrativa, dominante nel romanzo, consente frequenti richiami al monologo interiore: il vissuto di Zeno viene filtrato direttamente dalla sua coscienza svogliata e abulica, che preferisce le dimensioni interiorizzate e sfuocate a quelle chiare e precise. Ciò, quindi, si traduce in una rottura delle coordinate logico-sintattiche e in una continua alternanza della narrazione presente o passata: il presente del narratore e il passato del protagonista.
Sia il tempo sia lo spazio, inoltre, perdono il senso della linearità e della oggettività tipiche del romanzo ottocentesco e si ricoprono di valenze simboliche e psicologiche. Considerando che Zeno funge da voce narrante e da protagonista che guarda alla vita passata , non con scansione cronologica, ma attraverso continue anticipazioni e retrospezioni, il tempo appare ovviamente discontinuo: alla frantumazione dell'io, corrisponde quella del tempo. Il tempo della prefazione è posteriore al tempo del racconto, il tempo della fine del racconto si riallaccia a quello della prefazione. E proprio questa nuova concezione del tempo consente a Svevo di seguire il libero fluire del pensiero del protagonista: ciò determina nel lettore un doppio tempo narrativo e un duplice punto di vista, quello di Zeno protagonista e quello del vecchio Zeno narratore, che, con sottile ironia e con "occhio straniato", riflette sulle proprie vicende passate. Così come lo spazio del romanzo non si sofferma mai su descrizioni paesaggistiche esterne, ma ruota attorno alle vicende dei personaggi, limitandosi al salotto, l'ambiente borghese per eccellenza.
Pochi furono i critici che colsero subito la grandezza ed il significato dell'opera sveviana, in un ambiente letterario, quello italiano, ancora arretrato, chiuso in una concezione tradizionale della letteratura, intesa come proposizione dei valori dominanti attraverso il decoro della forma letteraria.
Tra i primi, Eugenio Montale: ancora un giovane poeta, nel 1923, pubblicò un saggio su Svevo nella rivista "L'esame", in cui considerava quanto i romanzi dello scrittore, sondando una "zona sotterranea e oscura della coscienza", mettessero in crisi la maniera più comune di intendere il reale. Montale esprimeva la sua preferenza per "Senilità", mentre nutriva delle riserve sul "La Coscienza di Zeno" , che non lasciava spazio all'ordine e all'armonia nella forma e nel contenuto.
Anche Giacomo Debenedetti, nel 1929, gli dedicò un saggio sul "Convegno": il critico ne coglieva la novità strutturale, ma ne sottolineava i limiti espressivi e formali.
Nel secondo dopoguerra, dopo lunghi anni di abbandono, la critica torna a rivolgere la sua attenzione a Svevo, soprattutto con Giorgio Luti, Arcangelo Leone de Castris e Sandro Maxia, che mettono in rilievo il carattere antiretorico e analitico del romanzo, inteso come "analisi delle contraddizioni" della società italiana e dei valori in cui essa afferma di credere.
La critica di impostazione psicoanalitica, a partire dagli anni '70, intende l'opera come romanzo psicoanalitico, non solo perché la psicoanalisi vi è presente come contenuto, ma anche perché ne determina lo stesso impianto formale.
Il posto che oggi Svevo occupa nella narrativa italiana di inzio secolo è di primo piano. I suoi "inetti" si allineano perfettamente con la narrativa di Gozzano e Tozzi, così come Zeno Cosini è stato il personaggio su cui si è innestata la figura di Mattia Pascal, protagonista del più famoso romanzo di Luigi Pirandello.
Sottolineerà il de Castris:
"…con Svevo entrava nei nostri confini l'Europa con la sua spiritualità e la sua crisi; ed entrava la vita vera, il coraggio della denuncia drammatica, totale, di un'umanità eccezionalmente scoperta ed indifesa da falsi pudori e da mistificazioni. Entrava con Svevo la coscienza dell'Europa postromantica, il fermento di una cultura in cui si annunziavano i destini dell'anima contemporanea, i termini concreti di un dramma storico che non era lecito eludere o ignorare…"
"ULYSSES"
"Ulysses" è la chiave di volta della carriera artistica di James Joyce, e uno dei grandi successi della letteratura del XX secolo.
Composto a Trieste e a Zurigo durante la I guerra mondiale e completato a Parigi dopo il conflitto, l'epica di Joyce esprime pienamente il caos e il dramma di "un mondo in transizione".
L'opera rappresenta il massimo approdo artistico dello SPERIMENTALISMO linguistico e dell'analisi psicologica dell'autore che, rifacendosi alle peregrinazioni dell'Ulisse omerico, trasforma quelle peripezie nei movimenti di Leopold Bloom e del giovane Stephen Dedalus, per le strade di Dublino. I due personaggi sono destinati ad incontrarsi per una sorta di reciproco richiamo: l'uno, Leopold (Ulisse), rappresenta il "padre" che va alla ricerca del figlio, essendogliene morto uno in tenera età; l'altro, Stephen (Telemaco), raffigura il "figlio", che va alla ricerca di un padre che possa compensarne le carenze affettive e gli squilibri mentali ed interiori. Tutto ciò accade nell'arco dell'intera giornata del 16 giugno 1904 nella città di Dublino, dove avvengono l'incontro e la reciproca identificazione dell'uno nell'altro, con il finale ricongiungimento a casa di Leopold e di sua moglie Molly (Penelope).
Joyce imposta l'opera su una suddivisione in tre momenti:
- la prima parte, "Telemachia", ovvero il figlio alla ricerca del padre;
- la seconda parte, "Odissea", ovvero le peregrinazioni di Leopold alla ricerca del figlio;
- la terza parte, "Nostos", cioè il ritorno dei due a casa.
E proprio lo stesso Joyce, nel 1918, a proposito del romanzo, lo definirà come un' "Odissea moderna": si era rifatto ad Omero per guidare gli inquieti vagabondaggi del suo eroe moderno, Leopold Bloom.
L'opera, però, non nasceva come un caso isolato, bensì si collocava come continuazione di due opere precedenti, "Dubliners" e "A portrait of the artist as a young man". Ne ereditava gli spunti autobiografici e le vicende interiori di alcuni personaggi, come Stephen Dedalus, ma, allo stesso tempo, ne approfondiva anche l'analisi psicologica, allargando lo sguardo alla città e smascherando la realtà desolata che essa racchiudeva e i suoi effetti sull'individualità.
E la singola giornata che Joyce descrive riassume in sé tutti i valori negativi della moderna società postbellica: oramai non c'è più posto per l'autenticità dei rapporti umani, ma solo per le ipocrisie, per le volgarità, per le alienazioni, per il rifugio nelle fantasticherie sessuali (come in Molly Bloom), capaci di compensarw la tristezza e la mancanza d'amore.
Ed è proprio in questo caso che si può parlare dell'"Ulysses" come "Odissea moderna": non più l'eroe classico, risoluto nei propri intenti, fermo nelle certezze, uomo d'ingegno e di grande forza interiore; ma l'uomo del '900, con la coscienza frantumata e i valori dissacrati, con le paure e le inquietudini; "l'uomo che ai mari sterminati sostituisce l'opprimente città, che trasforma il mito nella caotica società urbana". Ed è su quest'uomo che si posa l'occhio di Joyce, come testimone impietoso, ma anche sofferto, della crisi della nostra civiltà.
Analizzando l'intera opera, mi è piaciuto soffermarmi sul famosissimo "MONOLOGO INTERIORE DI MOLLY BLOOM", nella parte finale del libro, rappresentante il disordinato e tumultuoso scorrere notturno dei flussi mentali della donna.
E' difficile dare una caratterizzazione logico-razionale ad un contenuto mentale che si presenta come un "flusso di coscienza", come un'immediata registrazione del pensiero, colto nelle sue libere e analogiche associazioni in uno stato di dormiveglia.
Siamo nella parte terminale dell'opera: il personaggio è rappresentato in un momento di insonnia alle due e un quarto di notte, nel pieno delle sue divagazioni sul sonno. Ed ecco, in un susseguirsi simultaneo di immagini, i cinesi che già si stanno alzando, data la differenza di fuso orario tra Dublino e la Cina; l'angelus dublinese che sta quasi per suonare; la "sveglia di quelli accanto" che "al primo chicchirichì si fa uscire il cervello a forza di far fracasso" ed, infine, il tentativo di contare per addormentarsi.
Dal nulla, poi, come frutto dell'inconscio, sorgono nella mente di Molly simbolismi floreali, che si configurano nell'idea di "una bella piantina" e nel desiderio di sentirsi circondata da rose. Tutto ciò nasconde la straordinarietà del personaggio, amante della natura e sensibile verso "ogni specie di forme e odori e colori", segno, questi, della presenza regolatrice di Dio, negato dagli "atei" che, comunque, non hanno alcun potere sulla natura da riuscire ad "impedire che domani sorga il sole".
Ed è a questo punto che la naturalità e la femminilità di Molly emergono, definendosi meglio come vera e propria sensualità. La libera associazione di idee, infatti, si focalizza sull'immagine del sole che, prima è visto come fatto astronomico, poi si trasforma nel simbolo del calore passionale, "e il sole splende per te disse lui". Affiora il ricordo del primo bacio datole dal marito 16 anni prima, immersi nello scenario naturale dei rododendri, il cui colore rosso si tinge di simbolismi sessuali, perché segno della passione.
E di qui il pensiero corre verso il primo rapporto amoroso con il marito, tra il profumo del suo petto femminile, i battiti impazziti del cuore del giovane e l'inno finale alla vita e alla speranza, scandito dal cadere vorticoso di quei "sì", nei quali si condensa tutto l'impeto istintuale, la fisicità travolgente e l'accettazione incondizionata del suo essere donna.
La grande rivoluzione dell'"Ulysses" si ha, proprio, nella particolare tecnica narrativa di cui si serve Joyce, lo "stream of consciousness", il "flusso di coscienza", e di cui il monologo di Molly è il migliore esempio. Esso si risolve nell'adesione immediata dello scrittore allo svolgersi dei pensieri, delle percezioni sensoriali, degli stati d'animo, delle emozioni, delle associazioni di pensieri, colte in una zona della psiche in cui le parole scorrono fluide e libere, caotiche e disordinate, prive di strutture causali e consequenziali. Ciò significa, quindi, disgregare sintatticamente la frase, abolire la punteggiatura, sperimentare nuovi linguaggi e nuovi stili, deformare le parole ed eliminare ogni ordine logico-grammaticale. Con il flusso di coscienza il narratore funge da "registratore del pensiero", riproducendolo allo stato puro, nel suo attuarsi. E' questo un "viaggio all'interno della coscienza", dove l'autore "si è proposto non soltanto di rendere, nei minimi particolari, con estrema precisione e bellezza, gli spettacoli e i suoni tra cui si muovono i suoi personaggi, ma, rivelandoci il mondo come essi lo percepiscono, di scoprire quel vocabolario e quel ritmo che, unici, possano rappresentare il pensiero di ognuno."
E l'arte di Joyce è pienamente riuscita nei suoi intenti.
"TO THE LIGHTHOUSE"
"To the lighthouse", pubblicato nel 1927, può essere considerato come il capolavoro letterario di Virginia Woolf; l'opera in cui confluiscono al meglio, oltre ad una serie di temi fortemente sentiti, come la solitudine, il ricordo e la morte, anche affetti e memorie personali e in cui si precisano e si concretizzano tutte le sue ricerche formali.
La gita al faro della famiglia Ramsay appare come l'occasione per svelare tutta una serie di contrasti tra i vari personaggi: Mrs Ramsay, la bella ed affascinante moglie di un famoso accademico, madre di cinque figli; James, il più piccolo di questi; Mr Ramsay e il suo collega Tansley, e vari ospiti nella villa al mare. Tra questi, Lily Briscoe, che sta dipingendo un quadro, le cui varie fasi composizione appaiono nel romanzo fino al completamento finale.
Il contrasto più evidente, nell'opera, è quello tra Mr e Mrs Ramsay, che vede la contrapposizione tra cervello e cuore, ragione ed intuizione, fatti e sensazioni, ognuno dei due chiuso in un proprio mondo isolato da cui è difficile comunicare, e che può trasformarsi in solitudine e desolazione. Ma, a differenza del marito, la donna, sempre proiettata verso l'unione e la fusione con gli altri, ha la possibilità, attraverso la solitudine, di penetrare la realtà, capirla, abbandonandosi al fluire delle cose e, allo stesso tempo, divenendone parte.
Anche Lily Briscoe ricerca la vera essenza delle cose: quest'ultima, però, attraverso la pittura, che le permette di sollevarsi al di sopra del flusso della vita per fermarlo, fissarlo e comprenderlo, anche solo per un istante. Ambedue, lei e Mrs Ramsay, raggiungono, rispettivamente nella vita e nell'arte, la visione della realtà, la prima ritirandosi in sé stessa, l'altra concentrandosi sulla sua pittura. E nel completare il quadro, al termine del romanzo, Lily traccia sulla tela "una purpurea forma triangolare", che corrisponde a "il cuneo d'ombra" in cui Mrs Ramsay si identifica, comprendendone dunque la realtà segreta, centro di intense relazioni umane, tanto ricercata e, alla fine, ritrovata.
Terminata l'opera, infatti, "in mezzo al caos era la forma; l'eterno transito, l'eterno flusso…potevano trasfigurarsi nella stabilità."
Funzione molto importante ha nell'opera il tempo: presente, passato e futuro vengono, anche qui come in altri romanzi, a coincidere. Ma, questa volta, il tempo che passa, il vero tempo, è quello dei momenti in cui le due donne protagoniste riescono a cogliere aspetti significativi della realtà, perché è proprio intorno a questi due personaggi che ruotano le vicende del romanzo.
Solo il faro non muta mai, seppure intermittente: al contrario, infatti, di Lily e Mrs Ramsay, esso rimane fisso, immobile, nel fluire delle onde, illuminando, solo per un istante, incessantemente, il buio della notte.
Con questo romanzo, Virginia Woolf raggiunge una perfezione stilistico-narrativa mai realizzata precedentemente. Lily è la sua "controfigura" nel romanzo: è, come lei, un'artista e, allo stesso modo, ricrea il fluire della vita, di cui coglie la vera essenza, attraverso l'opera d'arte. E la sua esperienza si rivela nell'equilibrio della dimensione spaziale e temporale; e il passaggio da un flusso all'altro intensifica la contrapposizione delle due donne, che vivono circondate dal mare e dall'aria. Il mare costituisce un elemento essenziale nel romanzo, ritmato dal movimento continuo del faro che lo illumina con il suo fascio di luce: è, allo stesso tempo, protettore e distruttore, divide gli elementi, minaccia il mondo, ma, alla fine, ricompone tutto.
Così come l'aria. Mrs Ramsay si sente come "un falco sospeso nell'aria", Lily " per un momento…rimase tremando in una penosa ma eccitante estasi nell'aria". Entrambe sono dominate dall'aspirazione a comprendere totalmente la vita, come il faro domina il mare, come il falco sovrasta i cieli.
Molti critici, analizzando l'opera hanno parlato di ROMANZO POETICO, soprattutto per l'apparato simbolico e la rete di metafore di cui è intessuto: il fluire delle parole "produce un senso di estasi", creando, così, una prosa che si avvicina alla poesia lirica. Particolarmente nei brani in cui si parla di Mrs Ramsay, emerge agli occhi del lettore un ritmo incalzante di pause e metafore, che esprimono il contrasto di due opposti sentimenti: da un lato, l'amore per l'unione degli uomini e delle cose; dall'altro, il timore di vedere quest'unione spezzata o resa impossibile.
Famoso è rimasto il saggio di Erich Auerbach, "Il calzerotto marrone, Mimesis" del 1956, in cui si analizza il flusso di coscienza di Mrs Ramsay intenta a lavorare a maglia per il figlio James e si nota come, ad un'azione del tutto banale, corrispondano molti altri elementi particolari ed originali, caratterizzati da personaggi e movimenti esteriori e secondari.
Questo romanzo è, dunque, un momento fondamentale nella narrativa di Virgina Woolf. Come il faro, il romanzo è il punto d'incontro di una serie di elementi, temi, soluzioni stilistiche, tra loro perfettamente fusi e correlati, che, come il faro sul mare, illuminano la realtà, non tanto armonica, delle cose e permettono di penetrare a fondo in quelle che sono le intenzioni della scrittrice, per coglierne, così, il percorso artistico e letterario.
L'ETA' GRECA DELLA CRISI
Il romanzo è l'ultimo genere letterario che sorse presso i Greci, considerato, però, il meno pregevole, in quanto "manifestazione secondaria" della loro cultura, motivata soltanto dalla volontà di accontentare i gusti abbastanza facili di un pubblico intellettualmente disimpegnato.
Naturalmente, esso fiorì in un'età, quella greco - romana, in cui maggiormente si avvertì una radicale e irreversibile "crisi" della cultura classica greca.
Riferendoci, dunque, alla storia, possiamo notare come questo periodo, preso in considerazione, ebbe inizio nel 30 a. C., quando Ottaviano conquistò l'Egitto, e terminò nel 529 d. C., quando l'imperatore d'Oriente Giustiniano fece chiudere la scuola neo- platonica di Atene. Durante tutti quegli anni, la Grecia conobbe vari periodi di impoverimento e di crisi demografica, aggravata, inoltre, da molte calamità naturali, quali carestie e pestilenze, dalla calata di molte orde barbariche e dall'accentuarsi del fiscalismo fiscale. Inoltre, dalla fine del II sec. d. C., si avviò un processo di "orientalizzazione" dell'impero, attraverso la riforma dell'apparato amministrativo delle province e dell'esercito e l'introduzione e la diffusione dei culti misterici.
Tale processo non tardò a farsi sentire anche in ambito culturale e soltanto sotto Adriano, Atene visse un momento di ripresa intellettuale, sebbene per un breve periodo. Anche Alessandria e le altre capitali dei regni ellenistici cominciarono a perdere il loro predominio intellettuale: nuovo centro della cultura era, oramai, Roma, da cui gli scrittori greci trassero l'ispirazione delle loro opere, seguendo le idee e l'esempio del grande storico Polibio.
La letteratura di questo periodo era, sostanzialmente, simile a quella del periodo ellenistico: erudita, riflessa e povera di originalità. Una volta cadute, infatti, le certezze ideali e politiche dell'età della iiiii, l'uomo greco, non più cittadino, ma suddito, andò soggetto ad una radicale metamorfosi intellettuale e spirituale: estraniato sempre di più dalla realtà, avvertiva ora il bisogno di ripiegarsi su se stesso, studiare la propria interiorità, privilegiando la vita erudita e contemplativa. Compito dell'uomo di cultura era quello di trattare argomenti, non destinati alla massa, ma ad un ristretto circolo di persone competenti, in maniera preziosa e raffinata, fin troppo precisa e minuziosa.
Il genere letterario che maggiormente risentì della profonda crisi che coinvolgeva ormai tutta l'Ellade fu la poesia; la produzione in versi, infatti, scomparve quasi del tutto, ad eccezione dell'epigramma, per lasciare il posto al nuovo genere teatrale della pantomima, alle polemiche retoriche, agli studi grammaticali e lessicali della Seconda Sofistica e, infine, proprio al romanzo, che dovette la sua grande fortuna alla capacità di unire elementi da sempre cari al gusto del pubblico, come l'amore, l'avventura e l'esotismo.

IL ROMANZO GRECO
Caratteri generali
Alcuni generi di narrazione nati in Grecia nell'età ellenistica, sono stati definiti, in età posteriore, come "romanzi", con un termine di origine medioevale.
I Greci non avevano un termine preciso per definire questo genere letterario, che definivano in vario modo: "racconto", "storia", "narrazione", "favola", "mito".
Quest'ultimo termine veniva, addirittura, usato sia per la prosa, che per la poesia, il che conferma l'ipotesi, fatta da alcuni studiosi, che , anteriormente all'età ellenistica, non si era sviluppato un filone di narrativa chiaramente definibile.
Nel 1893, fu pubblicato un papiro del I sec. d.C., che conteneva due lunghi frammenti del cosiddetto "ROMANZO DI NINO", scritto non più tardi del I sec. a.C. Questo smentiva l'ipotesi di uno studioso tedesco, Rohde, il quale, invece, faceva risalire i primi romanzi al II sec. d.C., nell'età della seconda sofistica.
Anche se anticipata al I sec. a.C. la nascita di questo genere è di gran lunga posteriore rispetto agli altri. I motivi che probabilmente spiegano questo ritardo vanno individuati nelle trasformazioni politiche e sociali e nelle nuove esigenze spirituali che caratterizzarono l'età ellenistica. Infatti, le conquiste di Alessandro Magno ed il consolidamento dei regni greco-orientali dei diadochi determinarono il crollo della ccccc, e quindi l'allontanamento del cittadino greco dalla vita politica. Nelle classi alte al sentimento religioso si sostituì l'indagine filosofica dello stoicismo e dell'epicureismo, che rivolse l'attenzione all'uomo come individuo e alle sue passioni, intendendo fornirgli delle norme di vita. Venuti meno il sentimento nazionale e la fede, si affermarono i sentimenti privati, tra cui, in primo luogo, l'amore, tema principale del romanzo greco, insieme con l'avventura.
E' questione molto dibattuta tra i critici stabilire quale sia la genesi del romanzo greco e quali generi letterari precedenti il I sec a.C. contenessero elementi erotico-avventurosi.
I generi pre-letterari, il mito e la leggenda, presentavano anch'essi delle narrazioni: il mito però le collocava in una dimensione divina, eroica e meravigliosa, mentre la novella e il romanzo le trasferivano in una dimensione umana. Le saghe e le leggende , da una parte furono elaborate in versi da poeti dotti; dall'altra, quali testimonianze di usi e costumi locali, confluirono nelle opere storiografiche, dove ebbero però una collocazione marginale, poiché semplici digressioni.
Anche nell'epica troviamo digressioni "romanzate" e mitologiche, imperniate comunque sull'eroicità dei protagonisti, come Achille e Ulisse. Quando, però, questi personaggi saranno ripresi dal romanzo, interesseranno per i loro amori e non per il loro eroismo. A questo proposito, lo studioso Weinreich definisce il romanzo greco un "allegro bastardello…frutto di una relazione allacciata tra l'epos invecchiato e l'aggraziata e capricciosa storiografia ellenistica". Altra ipotesi è quella di Cataudella, che considera il romanzo come un aggregato "di varie novelle giustapposte" o "quasi una grande novella variata ed ampliata con altre novelle".
Per quanto concerne la fabula, ossia il contenuto, essa è piuttosto uniforme in tutti i romanzi greci; si fondono avventure e vicende amorose: in genere, la coppia protagonista, inizialmente contraria all'amore, subisce la vendetta di Eros e di Afrodite, che la fanno incontrare e innamorare durante una festa religiosa, tanto che il Kerenyi ha addirittura pensato che nei due amanti sia riflessa la coppia divina egizia di Iside ed Osiride, e la costringono ad affrontare peripezie avventurose, in cui il caso gioca un ruolo fondamentale, prima di permettere ai due giovani di unirsi definitivamente.
IL ROMANZO EROTICO-AVVENTUROSO DI SENOFONTE EFESIO
"Le avventure di Abrocome e Anzia" è un romanzo in cinque libri, scritto, in età ellenistica, da Senofonte Efesio.
La storia prende le mosse dal momento in cui Abrocome, un bellissimo giovanetto, si innamora perdutamente della bella Anzia e la sposa.
Essi devono recarsi in Egitto, ma numerosissime avventure intervengono per separarli, continuamente travolti da ricongiungimenti e nuove separazioni, false morti e rapimenti, in un'incessante ricerca l'una dell'altro, piena di pericoli. Alla fine naturalmente si ritrovano, ritornano ad Efeso, dove vivranno felici, grazie al forte amore che li lega.
La storia, scritta in un linguaggio assai semplice e non particolarmente incisivo, dà l'impressione di essere destinata non ad un pubblico di elevata cultura, ma piuttosto a lettori che si potessero entusiasmare per l'edificante motivo dell'amore e della fedeltà coniugale difesi ad ogni costo. Anche la struttura del romanzo appare quella tipica del genere, con il racconto delle vicende parallele dei due protagonisti, complicate all'infinito da tutte le possibili situazioni che potevano tenere desta l'attenzione del lettore. Da notare l'ambientazione geografica, che include solo località mediterranee, senza indulgere il gusto per l'esotico, tipico del romanzo, e la cronologia, che identifica il tempo della storia con quello stesso in cui è vissuto l'autore.
La fortuna del romanzo di Senofonte Efesio è stata discreta; in particolare, esso attirò l'attenzione di Agnolo Poliziano, che ne tradusse alcuni brani e giudicò l'autore "non insuavior" del suo più celebre omonimo. La prima traduzione completa fu eseguita nel secolo XVIII da Anton Maria Salvini, pubblicata a Londra e seguita a breve distanza di tempo da quella del cardinale Giacomelli, pubblicata a Roma.
IL ROMANZO EROTICO-PASTORALE DI LONGO SOFISTA
La "Storia efesia delle avventure di Dafni e Cloe", ad opera di Longo Sofista, richiama fortemente, per l'ambientazione e lo stile, il tema bucolico: i due protagonisti sono, infatti, due giovani che vivono semplicemente, pascolando lui un gregge di capre, lei un gregge di pecore. Cresciuti insieme, trovatelli, adottati da due pastori che vivono in poderi vicini, essi scoprono, crescendo, l'amore, che naturalmente è contrastato, in quanto i genitori di Cloe decidono di darla in sposa ad uno che non sia povero come Dafni. Ma quando quest'ultimo scopre di essere figlio di un ricco cittadino di Mitilene, e Cloe, a sua volta, viene a sapere di provenire da una famiglia benestante, allora possono, finalmente, aver luogo le loro nozze.
L'opera differisce dagli altri romanzi perché viene meno, anche se non del tutto, l'elemento avventuroso, e tutta la vicenda poggia sul gioco del primo apparire dei turbamenti amorosi, sulla sottile analisi psicologica che consente di scoprire lentamente la nascita del forte sentimento, non senza una maliziosa venatura di erotismo, sullo sfondo di un'idillica natura teocritea.
IL ROMANZO PARODISTICO-SATIRICO DI LUCIANO DI SAMOSATA
La "Storia vera" di Luciano di Samosata è un'opera narrativa, in due libri, in forma autobiografica, detta "vera" per antifrasi: l'autore, infatti, in polemica con il carattere romanzesco e falso della storiografia del tempo, narra una "storia" incredibile, fino all'assurdo, in cui elementi fantascientifici si intrecciano con elementi favolosi, il tutto permeato da una satirica comicità.
Questo romanzo è, dunque, il racconto di un viaggio (immaginario, s'intende) verso l'Estremo Occidente, al di là di quelle colonne d'Ercole che le credenze degli antichi avevano posto come limite alla conoscenza umana del mondo.
L'impostazione narrativa non si allontana da quelle che erano le concezioni geografiche popolari, discendenti dalle concezioni più dotte di Pitea di Marsiglia e di Platone, descrittore della favolosa Atlantide, e, più vicini nel tempo a Luciano, di Antonio Diogene, per le "Meraviglie al di là di Thyle", e di Iambulo, per lo scritto "Sull'Oceano", come segnala Fozio, patriarca ed erudito di Costantinopoli (827-886 d.C.).
Insieme con 50 coetanei Luciano, dunque, si imbarca alla volta dell'Oceano occidentale, animato, come Ulisse, dal desiderio di conoscere cose nuove, ma è colto da una tempesta di vento che sballotta la nave per 79 giorni: all'80esimo, placatasi la tempesta, essi sbarcano in un'isola, la esplorano e s'imbattono in una colonna di bronzo, dove era incisa quest'iscrizione:
"Fino a qui giunsero Ercole e Dioniso"
con accanto le impronte di piedi, l'una della lunghezza di un pletro, l'altra, quella di Dioniso, più piccola.
Qui, in queste prime battute del racconto, vi è già tutto il carattere artistico e satirico di esso.
E precisamente la conquista di una nuova dimensione temporale, in quanto troviamo personaggi mitologici e creature poetiche, e di una nuova dimensione spaziale: l'isola raggiunta, la città di Lucernaria, le avventure nel ventre della balena, il fiume di vino con i pesci ubriachi, la visita ai Campi Elisi, l'isola dei Beati, l'isola dei sogni e quella di Ogigia, ecc…
Anche la formula artistica è, "in nuce", sin dai primi episodi: giacchè è nell'esagerazione, nell' , che è una delle manifestazioni del Sublime, che la parodia trova il suo strumento più efficace e caratterizzante: il pletro, ad esempio, è l'unità di misura in base alla quale è calcolata la misura delle pulci-sagittario, grosse quanto dodici elefanti, e delle uova, più grosse di una botte di vino di Chio, e dei pulcini degli alcioni, grandi quanto venti sparvieri ciascuno, e quella del ventre della balena, capace di contenere una città per diecimila abitanti. Proporzioni semplicemente mostruose!
Ma un'iperbole come questa, se è disdicevole in un poema epico, sta invece al suo posto in un racconto come la "Storia Vera", dove l'esagerazione iperbolica non mira, come nell'epica, a destare impressioni sbalorditive, ma a far ridere, semplicemente, trascinando, così, il lettore in un mondo irreale e mostruoso.
Accanto all'esagerazione c'è un altro strumento espressivo che riesce a causare il riso, ed è la precisazione che, affiancandosi ad un dato evidentemente esagerato, ne mette in risalto l'aspetto grottesco, determinando un contrasto tra due modi di rappresentare questa "comica realtà".
Altro effetto di contrasto è ottenuto con la continuità dell'antico nel nuovo: ci sono, infatti, caratteri divini e mitici applicati all'esperienza umana, che li rende più veri; e fanno perciò ridere. Oppure ci sono rovesciamenti della realtà umana, per cui si parla, ad esempio, di "rugiada calda", e di alberi privi di radici, e si giudicano belli i calvi, e detestabili coloro che hanno molti capelli.
Originale è, comunque, l'idea, del tutto nuova, di organizzare in un tutto le peripezie e le complicazioni di un viaggio meraviglioso nel regno dell'impossibile: anche solo per questo Luciano sarebbe da annoverare tra i maggiori "poeti" dell'antichità.
Egli non fu mai uno scrittore popolare: fu e rimase un letterato che scrive per letterati. Ebbe degli ammiratori, come Fozio, ma anche dei contestatori nei tempi relativamente vicini a lui, come i cristiani che si sentivano offesi dalle sue "irriverenze". Ebbe anche degli imitatori: come, nell'XI secolo, e dopo, Teodoro Prodromo, che scrisse cose non indegne del satirico e dell'arte di Luciano. La sua fortuna cominciò per merito di quei romanzi di fantascienza, ispirati alla sua opera, fioriti in anni recenti: essi sono i "Viaggi di Gulliver" di Swift, l'"Utopia" di Moro, le "Ventimila leghe sotto i mari" di Verne.
Ma difficilmente si potrà ritornare alla profondità di spirito, all'andare dritto all'essenza delle cose nella polemica, alla chiarezza e alla semplicità di linguaggio e di stile, che solo Luciano riuscì a raggiungere.

LA LETTERATURA LATINA DEL "PERIODO ARGENTEO"
L'età Giulio- Claudia:
Dopo la morte di Augusto, il potere passò nelle mani dei principi della dinastia giulio- claudia: Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, i quali si distinsero soprattutto per la loro pazzia e brutalità, poiché mirarono ad accentrare tutti i poteri nelle loro mani, esautorando progressivamente il Senato e ingigantendo l'apparato della burocrazia imperiale.
Dopo Tiberio, ancor più violenta fu l'ondata di terrore nell'ultimo periodo del principato di Nerone, il quale si dimostrò essere un "Princeps" alquanto brutale e sanguinario.
Conseguenza evidente di tale atteggiamento e di tale politica, fu l'accentuarsi del fenomeno di disgregazione del rapporto tra gli intellettuali e il potere, che produsse un certo restringimento degli spazi di democrazia e fece sentire i suoi effetti nefasti nel campo della cultura.
Da qui è facile comprendere perché gli intellettuali del tempo preferirono complessivamente la fronda o l'aperto dissenso al conformismo, anche a costo di una durissima repressione, che non mancò di abbattersi violentemente su coloro i quali cercarono, in qualche modo, di osteggiare o di ostacolare il potere assoluto dell'imperatore.
Aspetti tipici dell'età neroniana sono riscontrabili nell'opera di Petronio, una delle espressioni più autentiche della cultura di quegli anni. Egli, "arbiter elegantiae" , dinanzi alla crisi e al progressivo imborghesimento della società, fece trasparire dalla sua opera un ostentato atteggiamento di DISIMPEGNO, che trovò il suo sfogo più naturale in una pura osservazione del mondo, che cambiava repentinamente, e nella ricerca della pura esteticità e nella raffinatezza di una vita intesa fino alla morte come opera d'arte.
Naturalmente, il diffondersi di una sensibilità tendente al meraviglioso e allo straordinario e il libero dispiegarsi della fantasia nell'opera d'arte non potevano non far sentire i loro effetti sulla letteratura: soprattutto con il "Satyricon", una nuova ventata sembrò irrompere nelle vecchie istituzioni letterarie, travolgendone, così, i sottili e tradizionali canoni classici.
IL ROMANZO LATINO

Caratteri generali
Anche nella letteratura latina il romanzo tarda ad imporsi sulla scena culturale, almeno fino al I sec. d.C., quando, durante il cosiddetto "periodo neroniano", si afferma l'opera più famosa della letteratura latina di tipo narrativo, il SATYRICON di Petronio.
Il romanzo, in effetti, era stato da sempre considerato come forma di narrazione di carattere popolare: infatti, i primi autori della letteratura latina imitarono i generi greci epico, tragico e comico, trascurando, invece, la narrativa.
I contenuti licenziosi e fantasiosi, tipici del romanzo ellenistico, contrastavano con la "gravitas" romana e con gli intenti di persuasione etico-politica che la classe dirigente attribuiva alle opere letterarie.
Nel I sec. d.C., Cornelio Sisenna tradusse le NOVELLE MILESIE del greco Aristide di Mileto, dando così, per primo, inizio alla narrativa latina. Successivamente, con l'affermarsi dell'Impero, vennero meno tutti gli ideali su cui, fino ad allora, si era fondata la latinità, spingendo l'intellettuale o ad adeguarsi al conformismo e alle direttive del "princeps", o a rifugiarsi nell'erudizione, nella favola e nella narrativa.
La prima opera di questo periodo, a carattere romanzesco è la "Storia di Alessandro Magno", in dieci libri, di Curzio Rufo, il quale scriveva sia rispondendo pienamente alle esigenze della propaganda di potere, attraverso l'esaltazione della figura ideale ed eroica del protagonista, sia, con la descrizione delle avventure, dei viaggi, degli amori e delle battaglie, offriva ai Romani una possibilità di evasione, risentendo questi ultimi della sostanziale decadenza della cultura del tempo.
"SATYRICON": ROMANZO DI PETRONIO ARBITRIO
La "latinizzazione" della letteratura assume, con questa opera, un carattere di assoluta novità, in quanto non si tratta solo di un romanzo, genere non ancora sperimentato dai Latini, ma anche perché esso non trova riscontro in un modello determinato, bensì accoglie in sé motivi e suggestioni ricavate dalle più diverse fonti greche, soprattutto dalla "satira menippea", per la sua mescolanza di prosa e versi.
L'altro genere a cui il Satyricon si ispira è il romanzo greco erotico-d'avventura, che si caratterizzava sia sul piano dell'amore perseguitato da un dio, in questo caso Priapo, sia sul piano dell'avventura, in cui confluirono anche i generi dell'elegia erotica e della storiografia ellenistica.
Naturalmente protagonista dell'opera non è la coppia del romanzo greco, in quanto si tratta di una coppia maschile, e l'ambiente da cui essa proviene e in cui essa si muove è ben lontano dall'atmosfera indefinita, fuori dello spazio e del tempo, che caratterizza il modello greco.
Per quanto riguarda l'opera in sé, il titolo è variamente riportato dalla tradizione manoscritta: "Petroni Arbitri Satirarum Libri", "Petroni Arbitri Satyri Fragmenta" e, nella maggior parte dei codici, "Petroni Arbitri Satyricon", cioè libri di cose satiriche. Di essa non restano, insieme con 53 brevissime citazioni riportate da eruditi o grammatici, che una serie di estratti, conservatisi in due modi: uno, che tramanda l'episodio quasi integro della "cena", l'altro, che contiene la prima parte della "cena" e ciò che la precede e la segue, il tutto ordinato in 141 capitoli. Per quanto riguarda l'estensione originaria, si può pensare a circa 1000 pagine, delle quali i frammenti a noi pervenuti sembrano appartenere ai libri XV e XVI, che realizzano un complesso schema narrativo fondato sull'avventura e sull'amore.
Filo conduttore di tutta l'azione si può individuare nell'"ira di Priapo", movente delle peripezie e disavventure dei personaggi principali, Encolpio e Gitone, due giovani senza famiglia e senza denaro, che si spostano da un luogo all'altro, incontrando molti personaggi. L'azione è divisa in due grossi nuclei, che si distinguono per la diversa localizzazione geografica. Il primo ha per teatro un'imprecisata città greca dell'Italia meridionale (forse Napoli o Pozzuoli) e abbraccia anche l'episodio della "Cena Trimalchionis". Ai tre personaggi principali, Encolpio, Gitone e Ascilto, si accompagna un retore, Agamennone, che sostiene con Encolpio un discorso sullo scadimento dell'eloquenza contemporanea, viziata dall'asianesimo:

"Nunc pueri in scholis ludunt,
iuvenes ridentur in foro, et quod
utroque turpius est, quod quisque
perperam dicit, in senectute
confiteri non vult…"
"Ora i fanciulli giocano nelle scuole, i giovani sono derisi
nel foro, e cosa più indegna di tutte, nella vecchiaia non
si vuole convenire ciò che ciascuno dice falsamente".
E la crisi generale della scuola,divenuta palestra di vacui esibizionismi su temi del tutto avulsi dalla realtà della vita: i maestri sono come i parassiti; se vogliono vivere, devono adattarsi alla pretese di chi li paga, genitori e studenti. Sembra, questa, la premessa alla denuncia di una degradazione sociale, la cui radice è da identificarsi proprio nella corruzione della parola e della scuola.
Dopo una serie di avventure che si svolgono in una locanda, in una casa di malaffare e al mercato, ha inizio la famosa cena a casa di Trimalchione, un liberto, originario dell'Asia Minore, sfacciatamente arricchitosi, cui partecipano molti altri convitati, a ciascuno dei quali Petronio ha dato una particolarissima caratterizzazione, soprattutto attraverso i discorsi da essi pronunciati. Risultato è una vivacissima galleria di tipi al di sopra dei quali si staglia il protagonista dell'episodio, Trimalchione appunto, nel quale qualche critico ha voluto intravvedere l'allegoria di Nerone.
Liberto arricchito, stravagante e a volte eccentrico, egli è una figura assai particolare, multiforme e poliedrica: continua, via via che si prosegue nella trattazione, a ostentare la sua incommensurabile ricchezza, a fare sfoggio della sua prodigalità, ad assumere un atteggiamento a dir poco volgare e ripugnante, sorprendendo con inattese profondità di pensiero e con un amaro pessimismo:

"sic orbis ventitur tanquam mola, et
semper aliquid mali facit, ut homines
aut nascantur aut pereant"
"così gira il mondo, proprio come una mola, e a
ogni momento ci porta qualche guaio, sia che gli
uomini nascano sia che crepino".
A completare il quadro della varia e complessa struttura del Satyricon vanno, infine, considerate le componenti poetiche e novellistiche. Troviamo, infatti, 65 trimetri giambici sulla "Troiae halosis" e i 295 esametri di un "Bellum Civile", in polemica con Lucano. Per quanto riguarda le novelle, bisogna ricordare quella del vetro infrangibile, del lupo mannaro, del manichino di paglia, del fanciullo di Pergamo e, più importante, la storia della matrona di Efeso.
E proprio in questo carattere composito sta la novità di Petronio: i vari episodi, infatti, non figurano mai disgiunti fra loro, ma come fasi di una singola avventura che ha protagonisti comuni e come modelli esistenziali positivi che propongono un modello morale di comportamento; è attraverso Encolpio, reduce dall'aver udito un retore, che Petronio esprime il suo giudizio negativo sull'oratoria. Di qui la sua concezione letteraria classica che comporta l'imitazione degli attici, di Tucidide e di Iperide: il "Bellum Civile", infatti, consisterebbe nella trattazione, in chiave moderna, dell'epopea, gareggiando e superando al contempo il modello virgiliano.
Da ciò si potrebbe concludere, allora, che l'opera è un romanzo di costume e che, nel rappresentare la depravazione e i vizi della società del tempo, finisce con l'esercitare un'opposizione letteraria, morale e politica, nei confronti del principe e dei suoi amici.
Lungi dal proporsi come narratore onnisciente, Petronio presenta l'opera con assoluto distacco. La funzione narrativa è affidata ad Encolpio, la cui figura serve da raccordo tra i vari episodi: egli, infatti, trasmette la sua visione delle cose e i suoi pensieri, attraverso un discorso elegante e raffinato in cui ritroviamo anche espressioni del "sermo familiaris" e vocaboli "volgari", coniati dallo stesso autore.
Diversamente da altri autori della latinità argentea, Petronio fu apprezzato molto tardi dalla critica moderna. Tale atteggiamento, che fa seguito all'interesse dimostratogli dagli eruditi del basso impero, come Sidonio Apollinare, è da riferirsi alla lunghezza dell'opera e al tenore del contenuto. Successivamente, durante l'Umanesimo, egli fu molto apprezzato da Poggio Bracciolini, appassionato alla raccolta di codici antichi.
La diffusione delle edizioni 500entesche acuisce la curiosità per il romanzo, di cui si depreca lo stato frammentario. I secoli che seguono vedono accrescersi, particolarmente in Francia, l'interesse per questo autore, tanto che nel'700 il Satyricon divenne lettura alla moda nei salotti e nei circoli letterari. Lo stesso Parini, nel "Giorno", allude ironicamente alla diffusione dell'opera nei salotti; e il Manzoni intitola "Panegirico a Trimalcione" uno dei suoi Sermoni (1803-1804), inteso a satireggiare i nuovi ricchi e il parassitismo dei poeti di corte. Nel secondo '800, Petronio fu considerato anticipatore del realismo di Honorè de Balzac, che vide in lui il primo autore che abbia saputo dare una storia dei costumi.
Con il diffondersi della sensibilità Decadente, il Satyricon trovò i suoi più appassionati stimatori, perché specchio di una società in disfacimento, sofisticata ed esausta. J.K.Huysmans, nel suo romanzo "A Rebours" (1884), celebra Petronio fra gli autori più grandi della latinità; e anche Oscar Wilde attribuisce a Dorian Gray, protagonista del suo più importante romanzo, l'ambizione emulare e superare l'epiteto di "arbiter elegantiae".
Suo ammiratore fu anche il poeta T.S.Eliot, che usa come epigrafe per il suo romanzo "La terra desolata" (1922) l'aneddoto della Sibilla Cumana narrato da Trimalchione, con allusione alla stanchezza e al declino della civiltà occidentale.
L'opera petroniana continuerà, così, per tutto il corso del '900 ad essere fortemente apprezzata in qualsiasi campo dell'arte e della cultura, tanto che, nel 1969, il mondo del Satyricon è stato interpretato dal regista Federico Fellini in un film, "Fellini Satyricon", di opulenta e licenziosa fantasia "barocca".

L'età di Adriano e degli Antonini
Apuleio fiorì in uno dei periodi di maggiore stabilità- economica e politica- dell'impero romano: dopo Adriano, il quale aveva consolidato l'assetto delle province e dei confini visitando nei suoi assidui viaggi tutte le regioni dell'impero, Antonino Pio resse le sorti del mondo romano in un clima di sicurezza e di pace. Il processo di snazionalizzazione dell'impero raggiunse allora la sua pienezza e produsse benefici effetti sul piano politico e culturale. In particolare l'Africa fu in questo tempo la provincia che diede alla romanità il più valido contributo di cultura. Anche il regno di Marco Aurelio rappresentò un periodo di pace.
E' pur vero che proprio all'interno di quell'esteriore benessere materiale serpeggiavano i germi della crisi che in un prossimo futuro avrebbero avviato la compagine dell'impero alla disgregazione politica e morale; ma i gravi problemi incombenti non incidevano ancora in profondità nel tessuto della vita civile.
Solo la multiforme irrequietezza dell'ambiente intellettuale mostrava i sintomi di una sotterranea inquietudine: il tono della vita culturale era dato da un accentuato cosmopolitismo e da un'ansia di ricerca proiettata nelle più varie direzioni: "curiositas", amore per un sapere scolastico e manualistico, interesse per le scienze naturali spesso sconfinante nella magia, brama di conoscere il mondo, gusto dei viaggi, vocazione ai nuovi culti religiosi provenienti dall'Oriente.
"LE METAMORFOSI o L'ASINO D'ORO": ROMANZO DI
APULEIO
Le "Metamorfosi" sono l'elaborazione latina di un romanzo greco del quale è rimasto solo un compendio (epitome). Nel romanzo originale greco mancano, tuttavia, la conclusione religiosa e i capitoli con sfondo religioso, che costituiscono dunque un'aggiunta di Apuleio.
L'eroe della vicenda è Lucio, trasformato per errore in asino: recatosi infatti in Tessaglia, spinto dalla "curiositas", il giovane vuole sperimentare le arti magiche della moglie del vecchio che lo ospita, con l'aiuto della serva Fotide, con cui intreccia una relazione; ma Fotide gli dà un unguento magico sbagliato e Lucio, invece che in uccello, come aveva fatto la padrona, si trasforma in asino. Cominciano qui le avventure dell'uomo-asino, che il giorno dopo la trasformazione non riesce a mangiare i petali di rosa che gli avrebbero restituito la sua forma umana, in quanto, durante la notte, è portato via con il resto del bottino da alcuni ladri penetrati nella casa e condotto nel rifugio, dove è tenuta prigioniera una fanciulla, custodita da una vecchia. Qui è inserita la favola di Amore e Psiche, che la vecchia narra alla fanciulla per distrarla. Quest'ultima, liberata dal fidanzato, travestito da ladrone, per riconoscenza verso l'asino, che aveva fatto di tutto per salvarla, lo cura e lo manda in campagna, presso dei contadini, che lo maltrattano. Morta la fanciulla e il giovane, che nel frattempo era divenuto suo marito, fuggono e dopo varie peripezie, vendono l'asino a dei Galli, sacerdoti di Cibele. Si susseguono, quindi, vari padroni: un mugnaio, un ortolano, un soldato, due fratelli, un pasticcere e un cuoco. Divenuto un'attrazione, perché scoperto a mangiare i pasticcini dei suoi padroni, l'asino viene esibito in pubblico; ma, quando sta per essergli imposto uno spettacolo indecente in teatro, riesce a fuggire. Addormentatosi sulla riva del mare, gli appare in sogno Iside, che gli dice di mangiare le rose che il giorno dopo, durante una processione in suo onore, il sacerdote terrà tra le mani. Lucio segue il consiglio e, riacquistato l'aspetto umano, si fa iniziare ai misteri della dea e, giunto a Roma, anche al culto di Osiride, di cui diventerà pastoforo.
Le "Metamorfosi" di Apuleio sono, come hanno osservato i critici, un'opera composita, in tutti i sensi. Ad un fondamentale nucleo narrativo che riguarda Lucio, si intrecciano elementi narrativi secondari di vario genere, che vanno dalle digressioni retoriche, all'allegoria, alle inserzioni novellistiche magiche e realistiche.
E proprio per questa ispirazione di stampo mistico e realistico che nascono alcuni problemi di tipo critico e interpretativo, riassumibili, comunque, in quello principale dell'unità del romanzo: unità di ispirazione e di composizione, soprattutto per quel che riguarda il divario tra il realismo dei primi dieci libri e il misticismo dell'undicesimo. Quest'ultimo, insieme con la favola di Amore e Psiche, ci fornisce una chiave interpretativa nuova: il romanzo come una grande allegoria che, attraverso un intrico di vicende, delinea l'itinerario dell'anima umana, dall'esperienza della corruzione terrena, alla purificazione della redenzione.
E, per quanto concerne le novelle , sono di una fondamentale importanza sia perché frutto della tradizione orale e scritta sui culti misterici, sia perché sono utili per la definizione dei rapporti tra Apuleio e la cultura greca. Tali rapporti, infatti, sono riscontrabili per la presenza della tradizione milesia, in particolare nelle novelle di tipo erotico e magico, dove Apuleio diviene uno dei più autorevoli rappresentanti della tradizione milesia.
A parte va considerato il racconto di Amore e Psiche, che è una favola e, come tale, risale ad altre fonti, anch'esse appartenenti alla cultura greca. Alcuni grammatici di poco posteriori ad Apuleio, ricercarono piuttosto nella novella il significato simbolico; mentre, critici più recenti, fondandosi su alcune analogie con le fiabe popolari, lo hanno considerato la novella come un "tessuto di motivi popolari", sapientemente unificati da Apuleio. Ma bisogna riconoscere anche grande importanza agli influssi eruditi e mitologici, attingendo alla tradizione alessandrina, dove "la mitologia ellenica ed ellenistica era sovrapposta ai miti orientali".
Anche nella lingua e nello stile, mentre si fa interprete dei gusti dell'epoca, Apuleio resta originale. Egli riesce a fondere insieme il termine arcaico con quello popolare, ottenendo, così, una certa espressività nella forma e nel linguaggio; nel momento in cui, inoltre, usa espressioni popolari e tipiche del linguaggio comune, non dimentica gli effetti stilistici nuovi che la retorica e l'oratoria del tempo perseguivano. Da ciò le assonanze, le rime, la varia sonorità del suo linguaggio, la sua inesauribile capacità di invenzione stilistica e linguistica.
Apuleio raggiunse la fama e la gloria già in vita. Una statua gli fu eretta dai dignitari di Cartagine, un'altra, nella stessa città, gli fu dedicata da privati. La morte non oscurò il suo nome: per molti secoli, fino al Medioevo, egli fu, infatti, ricordato soprattutto per la presunta pratica delle arti magiche. Ai tempi di S.Agostino, che comunque non lo apprezzò, il suo romanzo era molto conosciuto, ma non sempre giudicato. Per esempio, alla fine del II secolo, come attesta Giulio Capitolino, la lettura dell'opera era additata come segno di superficialità letteraria.
Dal XIV secolo in poi, inoltre, l'opera incontrò sempre larga fortuna, trovando ammiratori entusiasti, quali Petrarca e Boccaccio, suoi imitatori e traduttori. Ma più in generale, le "Metamorfosi" costituirono un vivaio di motivi e una fonte di temi per molti scrittori, fino anche al XVIII e al XIX secolo, poiché da esse dipendono racconti e romanzi picareschi, strutturati su una serie di personaggi come Pinocchio di Collodi e Gregor Samsa di Kafka.

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