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Categoria: | Filosofia |
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Testo
Le origini del totalitarismo
Parte prima: L’antisemitismo
Le origini del totalitarismo venne scritto negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale nel “primo periodo di relativa calma dopo decenni di tumulto, confusione ed orrore”.
Il manoscritto originale venne terminato nell’autunno del 1949 e la prima edizione apparve nel 1951. Come scrive la Arendt nella prefazione all’edizione riveduta del libro del 1966, “era il primo momento per meditare sugli avvenimenti contemporanei con lo sguardo retrospettivo della storico e lo zelo del politologo, la prima scia e dolore…ma non più con un senso di muta indignazione ed orrore impotente”.
La struttura dell’opera è abbastanza complessa e riflette la sua complessità delle cause e delle condizioni che hanno contribuito all’avvento del totalitarismo. Si articola in tre parti. Prenderemo in considerazione la prima, dedicata allo studio dell’antisemitismo, in quanto elemento centrale dell’ideologia del totalitarismo nazista e del suo rapporto con il processo di genesi e di trasformazione dello stato nazionale nell’epoca moderna e all’analisi della condizione degli ebrei nella società europea dell’800 e del 900.
L’emancipazione ebraica, attuata dallo stato nazionale nel corso del XIX secolo, ebbe una duplice origine e un significato contraddittorio: da un lato corrispondeva alla struttura politica e giuridica del nuovo organismo statale; dall’altro era l’esito di un processo storico che aveva determinato la concessione di alcuni privilegi, accordati dapprima solo ai singoli ebrei, e poi a tutti indistintamente. Essa venne così a significare eguaglianza e privilegio, distruzione delle vecchie autonomie comunitarie, abolizione di speciali restrizioni e diritti ed estensione di tali diritti ad una cerchia sempre più vasta, al fine di sopperire alle crescenti esigenze dell’economia statale. Ciò determinò la nascita di una nuova gerarchia politica, dove la condizione dell’individuo non era determinata dal suo rapporto con lo stato, che era eguale per tutti, ma dalla posizione all’interno della sua classe e dalla relazione con le altre. A far eccezione vi erano gli ebrei: essi non costituivano una classe a sé e neppure appartenevano ad una delle classi nel paese in cui abitavano. La loro condizione era determinata dal fatto di esser ebrei, non dalla relazione con una delle classi della società.
Durante il XVII ed il XVIII secolo, mentre andavano sviluppandosi gli stati nazionali, sotto il controllo delle monarchie assolute, singoli ebrei assunsero il ruolo di ebrei di corte che finanziavano le attività statali e curavano gli affari economici del loro principe. Un altro ruolo importante ricoperto dagli ebrei delle varie corti europee fu quello di internazionalità, ovvero di tenersi in continuo contatto tra loro. Ciò venne sfruttato dai vari monarchi come mezzo di mediazione tra gli imperi.
Lo stretto legame tra gli ebrei e lo stato nazionale, reso necessario dall’indifferenza della borghesia nelle attività politiche ed economiche, si concluse alla fine del XIX secolo con l’avvento dell’imperialismo. A partire dalla metà del secolo infatti, i governi riuscirono a portar sul mercato le loro obbligazioni anche senza l’aiuto dei banchieri ebrei, perché l’accentuarsi della coscienza individuale aveva diffuso la convinzione che le fortune del cittadino dipendevano da quelle del suo governo. L’elemento ebraico, definito intereuropeo, non legato ad alcuna nazione, finì col divenire oggetto di un odio universale per la sua inutile ricchezza e per la sua impotenza. Quando, per ragioni che non avevano niente a che fare con la questione ebraica, i problemi razziali acquistarono improvvisamente una rilevanza politica, fu facile per certe ideologie individuare negli ebrei il modello basato sui vincoli di sangue, ovvero un popolo che rappresentava una razza all’interno delle nazioni europee.
Quando cominciò la persecuzione in Germania, gli ebrei degli altri paesi credevano che quelli tedeschi costituivano un’eccezione la cui sorte non costituiva alcun punto di contatto con la propria.
Analogamente lo sfacelo della comunità ebraica tedesca venne preceduto dalla sua frammentazione in innumerevoli gruppi, ciascuno dei quali credeva che i suoi elementari diritti umani sarebbero stati protetti da speciali privilegi: il privilegio di essere stato un combattente della prima guerra mondiale, l’orgoglioso figlio di un caduto, ecc…
Il sanguinoso annientamento fisico degli individui di origine ebraica fu preceduto dall’autodissolvimento del loro popolo.
Tra i pochi autori che tennero presente questo aspetto ricordiamo Diderot, il quale considerava gli ebrei un utile anello di congiunzione fra le nazioni; Wilhelm von Humboldt e Nietzsche che, mosso dal disgusto per il Reich bismarkiano coniò il termine “buon europeo”.
Questi giudizi trascurarono l’aspetto politico del problema. Decisiva in tal senso non fu tanto la posizione intereuropea quanto la loro concreta relazione con lo stato.
L’antisemitismo infatti acquistò rilevanza politica quando gli interessi di gruppi ebraici si scontrarono con quelli di una classe sociale. Ciò si verificò ad esempio nell’Europa centro occidentale, mentre in Polonia ed in Romania furono le complicate condizioni di classe a suscitare contro gli ebrei un violento odio popolare. La prima grande fiammata di antisemitismo si ebbe in Russia subito dopo la sconfitta di Napoleone nel 1807. Nel pensiero dei riformatori prussiani, che identificavano gli ebrei con lo stato, bisognava eliminare tutti quei privilegi di cui i più ricchi usufruivano.
L’atteggiamento dei riformatori e specialmente l’editto del 1812, dimostrarono che era passata l’epoca dell’aperto riconoscimento dell’utilità degli ebrei in quanto tali. L’editto inoltre fu concepito come il simbolo del passaggio da uno stato feudale ad un ordinamento che non avrebbe più tollerato alcun privilegio. Una svolta in tal senso si ebbe con l’avvento dei movimenti pangermanici e panslavi. Per quanto numeramene insignificanti queste prime organizzazioni si distinsero subito da tutti gli altri partiti dello stato nazionale, proclamandosi “ un partito al di sopra dei partiti”, capaci di rappresentare la nazione nel suo insieme. Da ciò si evince che è possibile rintracciare le cause dell’origina dell’antisemitismo nella coincidenza del declino dello stato nazionale e dello sviluppo del movimento antisemita nella contemporaneità della rovina di un’Europa organizzata per nazione ed infine nello sterminio degli ebrei.
La Arendt analizza le due possibili cause della persecuzione antisemita: quella che vedeva gli ebrei come capri espiatori di ogni male e quella “dell’eterno antisemitismo”. Ella respinge quest’ultima teoria (accreditata all’interno della stessa comunità ebraica che considerava l’odio antisemita come rafforzamento della loro stessa civiltà) poiché considera l’antisemitismo essenzialmente come un fenomeno degli ultimi secoli, non riconducibile all’antico odio antiebraico.
Mancuso Manuela
Mazzeo Paolo
Oliveri Antonino