Materie: | Riassunto |
Categoria: | Storia |
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RIVOLUZIONE IDUSTRIALE
Le tre principali innovazioni che caratterizzarono la rivoluzione industriale inglese: -la sostituzione delle macchine(rapide,regolari,precise,infaticabili) all’abilità e fatica umane; -la sostituzione di fonti inanimate di energia a quelle animali, in particolare l’introduzione di macchine per la conversione di calore in lavoro; -l’uso di nuove e assai più abbondanti materie prima.
La crescita quantitativa e la trasformazione qualitativa sono due aspetti che non vanno disgiunti. Tra il 1750 e il 1850 il reddito nazionale della Gran Bretagna aumentò di 7 volte; quello pro capite raddoppiò; la popolazione triplicò; le importazione aumentarono di 10 volte; le esportazioni di 14. inoltre ci fu uno spostamento del contributo dato dai diversi settori economici alla formazione di tale ricchezza: mentre nel 1770 la metà del prodotto nazionale proveniva dall’agricoltura, nel 1886 proveniva dal contributo quasi raddoppiato delle attività industriali.
Molti coltivatori persero l’uso delle terre comuni e quindi anche la possibilità di sussistenza autonoma, si videro costretti quindi a cedere il campo e a entrare come braccianti nelle grandi proprietà capitalistiche. Si avviò un processo di espulsione dalle campagne, fenomeno che garantì all’industria in fase di sviluppo la forza lavoro necessaria. Una forza lavoro abbondante e a basso costo, perché costretta a ricercare in qualsiasi modo la propria sopravvivenza.
Il capitale è l’insieme di mezzi di produzione investiti in un processo produttivo al fine di realizzare un valore superiore a quello di partenza (surplus).
Si chiama capitalismo il modo di organizzare l’economia e la società basato sull’investimento di capitale al fine di ottenere profitti.
Anche il commercio internazionale giocò un ruolo primario nel decollo industriale inglese, perché garantì il rifornimento di materie prime. La crescita del commercio internazionale del 700 si affiancò all’incremento demografico nel garantire alla nascente industria inglese una crescente domanda interna e estera.
L’Inghilterra era ben dotata di carbone e ferro, risorse naturali destinate a rivelarsi strategiche grazie ai grandi miglioramenti conosciuti dal sistema dei trasporti.
Nella seconda metà del 700 l’Inghilterra fece grandi passi in avanti nella dotazione di infrastrutture, tra le più importanti i canali navigabili, che resero possibile il decollo industriale, collegando miniere, fabbriche e mercati anche lontani.
Il decollo industriale fu reso possibile da un insieme complesso di condizioni economico-sociali; non vi è dubbio che l’innovazione tecnologica giocò un ruolo di primo piano nel processo di industrializzazione.
Prima fase: 1760-90, caratterizzata dalla meccanizzazione della filatura e dall’introduzione di nuovi metodi di siderurgia;
Seconda fase: dal 1790 al 1820-30, in cui si assistette all’esplosione della tessitura meccanica e della macchina a vapore;
Terza fase: sino al 1850, dominata dalla ferrovia.
Nel settore tessile era da tempo sviluppata l’industria laniera, ma nel giro di alcuni decenni il cotono eguagliò per importanza e poi nettamente superò la lana.
Il cotone permetteva di soddisfare un bisogno primario, quello di vestirsi, a costi molto inferiori della lana e godeva perciò di una domanda potenziale molto più ampia. Inoltre la fibra del cotone si prestava meglio alla meccanizzazione della filatura.
Nel 1733 John Kay aveva introdotto la navetta volante, che permetteva di quadruplicare la produzione, ma si era diffusa con estrema lentezza nell’industria laniera. Applicata al cotone poi mise in evidenza la lentezza delle operazioni di filatura, ma questo incentivò una serie di innovazioni quali il filatoio meccanico intermittente, il filatoio idraulico, e quello che riusciva a produrre un filo ritorto forte e fine allo stesso tempo.
La crescita continua della domanda di prodotti tessili spingeva a intensificare il processo di industrializzazione e di meccanizzazione: si era innescato un processo circolare di sviluppo.
Benché l’Inghilterra non fosse povera di ferro, fu costretta a importare ghisa in barre dalla Svezia, per buona parte del 700.
La fusione del ferro avveniva in altiforni alimentati con carbone di legna: ma il rapido esaurimento delle riserve di legname, l’alto costo dei trasporti e la scarsa purezza della ghisa prodotta rendevano poco economica la siderurgia nazionale.
Nel 1784 Henry Cort ideò una tecnica per produrre ghisa di buona qualità in altiforni alimentati a coke, carbon fossile sottoposto a una speciale cottura che ne riduceva le impurità.
Si creò un circolo economicamente propulsivo tra carbone e ferro: l’una produzione stimolava l’altra, e la rete dei trasporti veniva incessantemente migliorata in modo da sostenere tale sviluppo.
Per soddisfare la crescente domanda di carbon fossile, la profondità dei pozzi venne aumentata sino al punto in cui l’acqua impediva di proseguire. A questo pose rimedio James Watt nel 1775, che inventò la macchina a vapore che consentiva di azionare pompe capaci di prosciugare i pozzi in profondità.
La macchina a vapore non solo risolse il problema dell’estrazione del carbone, permettendo di accrescere in misura esponenziale la produzione di ghisa, ma fornì all’industria tessile, e poi all’intera industria, una forza motrice molto più potente, costante e flessibile di quella umana o idraulica: l’intero processo di meccanizzazione ne ricevette un enorme impulso.
La più straordinaria applicazione della macchina a vapore fu certamente la ferrovia; la prima locomotiva creata da Gorge Stephenson nel 1814.
Con la ferrovia, l’economia inglese trovò non solo un mezzo che riduceva drasticamente i tempi e i costi del trasporto, ma un nuovo potente stimolo alla domanda interna: il fabbisogno di locomotiva, vagoni, rotaie diede infatti uno straordinario impulso alla meccanica e alla siderurgia.
1709 –Abrham Darby fonde il ferro con il carbone coke; 1733 –Navetta volante di John Kay; 1738 –Primo brevetto per il filatoio meccanico di Lewis Paul e John Wyatt; 1765 –Brevetto della filatrice meccanica di James Heargraves; 1769 –Brevetto filatoio idraulico di Richard Arkwright; 1775 – Brevetto della macchina a vapore di James Watt; 1784- Laminatoio di Henry Cort: fonde la ghisa con coke e produce ferro in barre; 1785- Introduzione della macchina a vapore di Matthew Boulton e James Watt in uno stabilimento per la filatura del cotone; 1814 –George Stephenson costruisce il prototipo della prima locomotiva a vapore; 1830 –Inaugurazione della linea ferroviaria Liverpool-Machester.
Il decollo industriale sul continente interessò prima il Belgio e la Francia (fra 1830 e 1860), poi la Germania (anni 60-70), poi la Russia (fine secolo), quindi Italia (inizio Novecento).
L’industrializzazione partì da alcune regioni nord-occidentali caratterizzate da condizioni socioeconomiche simili a quelle inglesi, che divennero trainanti rispetto alle regioni limitrofe: l’industrializzazione si estese così a cerchi concentrici, dal “centro” verso la “semiperiferia” e poi verso la “periferia”.
Vi furono anche regioni che non si industrializzarono, e altre che si “deindustrializzarono” cioè che videro cadere la loro produzione manifatturiera senza che se ne sviluppasse una moderna.
Il ventennio tra il 1850 e il 1870 fu di crescita spettacolare per le economie del “centro” europeo (Belgio, Francia, Germania) che le condusse a colmare in gran parte il divario che le separava da quella inglese.
Un ruolo decisivo fu giocato dalle trasformazioni del sistema finanziario e dalle politiche commerciali liberoscambiste. La rivoluzione finanziaria vedeva che alla banca di vecchio tipo (che forniva crediti a breve termine a sostegno di iniziative commerciali) si affiancasse la banca di investimento, cioè una società che raccoglieva capitali dai risparmiatori e li utilizzava in crediti a medio e lungo termine per investimenti industriali. La Germania adottò la forma della banca mista.
Si sviluppò anche il settore commerciale. Tra il 1850 e il 1870 il volume del commercio mondiale aumentò di oltre 3 volte. Questo processo favorito dall’adozione di politiche liberoscambiste dei governi europei, con l’abbandono o almeno la forte riduzione delle tendenze al protezionismo dominanti sino alla metà del secolo. Vennero firmati trattati con cui si abbattevano o riducevano fortemente i dazi su molte merci.
L’esistenza di un mercato mondiale delle merci era un dato di fatto.
Si chiama protezionismo una forma di politica economica che parte dal fatto che la produzione nazionale debba essere protetta dalla concorrenza.
La dottrina del libero scambio sostiene che la concorrenza deve essere lasciata libera di operare, perché ciò spinge al ribasso dei prezzi, favorendo gi operatori più competitivi e le produzioni più redditizie.
Un rilevante innalzamento del livello di benessere presso tutte le popolazioni europee accompagnò l’industrializzazione.
L’Europa contava 193 milioni di abitanti nel 1800 e alla fine del secolo 400 milioni.
Fino ad allora il regime demografico europeo era caratterizzato da alta natalità e alta mortalità, quest’ultima data da carestie ed epidemie, dovute al fatto che si creava uno squilibrio fra popolazione e risorse.
Con l’affermazione del sistema industriale le risorse crescevano in proporzione alla popolazione. Per tutto l’800 la natalità si mantenne alta ma la mortalità si ridusse, per il miglioramento delle diete alimentari e delle condizioni igienico-abitative e per i progressi nella medicina e nella cura delle malattie infettive.
Lo sviluppo economico favoriva l’aumento della popolazione, e questo a sua volta stimolava la produzione, mettendo a disposizione dell’industria abbastanza forza lavoro e ampliando il mercato dei consumatori.
Un’intensa trasformazione investì le campagne che produceva di più pur impiegando sempre meno braccia; la parte principale della produzione venne destinata la mercato e non all’autoconsumo; alla campagna venne dato il compito di produrre derrate alimentari per la città, al minor costo possibile.
La grande azienda agraria capitalistica, gestita da imprenditori che impiegavano manodopera salariata, era dominante in Inghilterra ma si trovava anche in Francia, Germania e nella pianura padana.
Nell’Europa occidentale prevaleva la media o piccola proprietà; nell’ Europa orientale dominava la grande proprietà aristocratica, spesso gestita con ordinamenti di tipo ancora feudale: si trattava di un’agricoltura estensiva con rese per ettaro molto inferiori a quelle dell’Europa occidentale.
Il dato generale è che l’agricoltura europea nel corso dell’800 aumentò la propria capacità produttiva, sia perché vennero messe a coltura nuove estensioni di terreno, sia perché vennero introdotti nuovi e più efficaci metodi di coltivazione e vennero meccanizzate alcune fasi della lavorazione (mietitura e trebbiatura). L’uso dei fertilizzanti chimici migliorò i rendimenti del terreno.
Questo aumento complessivo di produttività, associato all’incremento demografico e alla crisi dell’industria rurale a domicilio, ebbe come risultato una situazione di sovrappopolazione nelle campagne: molti contadini si trovarono privi di possibilità di sopravvivenza, senza neppure più l’aiuto delle tradizionali forme di protezione esistenti negli ordinamenti feudali. Nel giro di poco più di venti anni, migliaia di contadini inglesi furono costretti a prendere la via della fabbrica e della città oppure quella dell’emigrazione.
L’altro grande fenomeno che riguardò la popolazione europea dell’800 fu un’accentuata mobilità territoriale.
Le trasformazioni produttive e sociali nelle campagne, con i loro effetti di sovrappopolazione agricola, sommandosi alla crescita demografica, furono l’origine di un imponente e duraturo flusso migratorio.
Flussi ininterrotti di individui abbandonarono i propri luoghi d’origine per recarsi o nelle città o in altri paesi, addirittura in altri continenti. L’importanza degli spostamenti verso le città: industrializzazione e urbanizzazione vanno di pari passo.
La città 800esca si gonfiò a dismisura perché era un grande polo di attrazione economica, il vero centro del mercato. Lì si trovavano oltre a parecchie industrie, gli uffici pubblici e privati, i trasporti, i negozi, i servizi, i teatri, i giornali, le case editrici, le università; lì era possibile per i più fortunati trovare un lavoro fisso, per molti altri arrangiarsi a campare, sperando prima o poi di inserirsi stabilmente nel mercato del lavoro.
La crescita dei trasporti urbani nella seconda metà del secolo permise alle metropoli di estendersi a macchia d’olio, inglobando i comuni circostanti. Nasceva il modello di grande città; caratterizzato da un centro residenziale, commerciale e finanziario, e da una periferia industriale e operaia.
La città rappresentava la realtà contraddittoria della società dell’800; in essa il progresso, i traffici, la ricchezza si affiancavano alle stridenti disuguaglianze sociali, alla vita degradata dei quartieri operai.
L’inquinamento prodotto dalle fabbriche a carbone, le miserabili condizioni igieniche e abitative nelle vie putride e malsane; la prostituzione, la delinquenza, l’alcoolismo: questi erano i fattori di rischio che rendevano difficile la vita nei quartieri poveri delle città.
Solo negli ultimi decenni del secolo, con la costruzione di efficienti sistemi di fognature, l’illuminazione pubblica a gas e poi elettrica e gli interventi di risanamento urbanistico, la vita nei centri urbani diverrà più accettabile.
Nella società industriale il centro diviene la fabbrica, e intorno alla fabbrica si accende il conflitto sociale fra nuovi protagonisti: la borghesia e il proletariato.
Il concetto di borghesia racchiude un ampio arco di figure sociali e professionali, dal commerciante all’imprenditore, dall’intellettuale al professionista; ma in questo caso ci riferiamo alla borghesia capitalistica, cioè quella classe sociale che investe capitali in attività produttive per ricavarne un profitto. Questa fu la classe sociale dirigente, che soppiantò progressivamente l’aristocrazia.
Importante del proletariato agricolo e industriale è il suo ruolo nel processo produttivo: il proletario cede la sua forza-lavoro in cambio di un salario.
Nella società borghese industriale, almeno in teoria, nessuno è legato a ruoli fissi, è possibile modificare il proprio livello di ricchezza e di prestigio sociale. In realtà, le disuguaglianze di partenza operavano come pensanti vincoli alla mobilità sociale.
La realtà di quella società era meno rosea per i piccoli proprietari contadini, costretti dalle trasformazioni agricole a impiegarsi come braccianti salariati o ad ammassarsi in città per cercare un lavoro in fabbrica; per gli artigiani indipendenti, che filavano e tessevano a mano, e che la concorrenza delle nuove macchine gettò in breve tempo sul lastrico.
Uno dei primi movimenti di protesta contro la nuova realtà industriale, il cosiddetto luddismo, da Ned Ludd, mitico iniziatore della ribellione, prese di mira le macchine, distruggendole.
Nel grande processo di trasformazione in corso, le figure sociali più deboli venivano travolte; perdevano il loro ruolo e la loro indipendenza; venivano assoggettate al nuovo regime di fabbrica; divenivano, in una parola, operai.
Ed essere operai voleva dire lavorare 12-14 ore al giorno senza alcuna tutela, alla mercé di padroni e capireparto, in ambienti malsani e pericolosi, con ritmi disumani, sottoposti a una disciplina spesso intollerabile, per poi chiudere la giornata ammassati in quartieri cittadini affollati e degradati.