Se questo è un uomo

Materie:Scheda libro
Categoria:Letteratura Italiana

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Data:13.11.2006
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Testo

SE QUESTO È UN UOMO

Questo libro è la testimonianza di un uomo, Primo Levi, che catturato dai nazisti racconta la sua vita nel campo di Monowitz: la Buna. E’ quindi sia un libro di tristi ricordi sia un importante documento storico che permette di conoscere le atrocità nei campi di sterminio.
Il libro inizia con una poesia molto significativa che colpisce il lettore poiché si rivolge a lui dicendogli di non dimenticare il nazismo e la condizione degli ebrei nei campi di concentramento e di pensare a questo quando torna a casa e vede i visi sorridenti dei suoi cari e trova la cena pronta, di conseguenza capirà quanto è fortunato. Dopo la poesia c’è una prefazione scritta dall’autore in cui dice di essere stato catturato nel 1944 e ritiene che dato il fatto che in quell’anno serviva molta manodopera allungava la vita ai prigionieri e per questo si ritiene fortunato perciò dice che non ci sono particolari atroci e che lui non vuole denunciare i tedeschi. Ritiene che ogni popolo consideri gli stranieri nemici, si scusa anche del fatto che ci siano difetti strutturali nel libro e con questo libro vuole rendere l’uomo partecipe alla vita nei Lager.

Sequenze
Il racconto si divide in macro sequenze:
• La cattura e il viaggio
• L’ingresso in campo
• La tatuazione del numero
• La vita in campo
• I trasferimenti
• La ferita al piede e il ricovero in Ka-Be
• La selezione in Ka-Be
• La vita di notte
• L’incontro con Alberto
• Il lavoro quotidiano
• Un buon giorno
• Il ricordo dell’Italia
• Il cambio dei vestiti
• La borsa i baratti, i furti
• Come raggiungere la salvezza
• L’esame di chimica e il ricordo dell’università
• L’Odissea
• L’estate e i bombardamenti
• La selezione
• L’incontro con Kraus
• Il laboratorio
• L’impiccagione del ribelle
• La malattia e il ricovero in Ka-Be
• L’evacuazione del campo
• La sopravvivenza
• La liberazione

Fabula
La fabula coincide con l’intreccio, tranne quando Primo ha dei flashback sulla sua vita prima della cattura e l’università. Il primo si verifica ogni tanto nel racconto il secondo all’esame di chimica e dentro il laboratorio.

Riassunto
Primo Levi è stato catturato dai nazisti e dopo un lungo viaggio viene portato in un campo di concentramento polacco. Appena arrivato viene rasato e gli viene tatuato il numero 174517. Egli da quel momento perde ogni diritto ed è costretto a lavorare come schiavo. Un giorno durante il lavoro si ferisce un piede e viene portato in Ka-Be l’infermeria del campo e conosce per la prima volta le selezioni. Dopo poco tempo però, viene dimesso e portato in un’altra baracca dove ritrova l’amico Alberto che neanche il campo aveva potuto rovinare questa amicizia. Durante la giornata lavorativa conosce il suo compagno di cuccetta che l’aiuta nel lavoro. Lui e Alberto decidono di entrare a far parte del Kommando chimico ma prima devono passare un esame, finito l’esame però a loro viene affidato un lavoro ancora più pesante di prima ma Levi riesce a ottenere un nuovo posto: quello di trasportare la zuppa e nel viaggio verso le cucine racconta a Jean l’Odissea. La vita nel campo è dura e fin dal primo giorno bisogna cercare di non farsi derubare o se è possibile rubare ciò che si trova. Gli oggetti vengono quotati in Borsa dove ogni oggetto viene valutato con razioni di pane. A ottobre c’è di nuovo la selezione ma Primo per un caso fortunato riesce a salvarsi e viene chiamato in Laboratorio per aver superato l’esame di chimica. Primo è invidiato dai compagni, tranne che da Alberto, perché non fa un lavoro difficile e può stare al caldo ma lui viene da delle donne civili deriso e ripensa così al passato. Nel frattempo i russi si avvicinano e tutti sperano nella liberazione ma Primo si ammala ed è costretto ad andare in Ka-Be insieme a altri prigionieri. Nel frattempo il campo viene evacuato e Alberto fugge, gli ufficiali e le SS fuggono. Primo chiuso in Ka-Be insieme ad altri riesce a sopravvivere finché non sono liberati dai Russi.
Personaggi
Levi descrive tutti i personaggi che conosce ma soprattutto psicologicamente o racconta di loro la loro storia perché nel campo sono tutti uguali.
Primo Levi: E’ il protagonista e l’autore del libro non si descrive molto fisicamente e neanche psicologicamente ma si può ricostruire i tratti della sua personalità dai suoi pensieri e dalle sue azioni. All’inizio del libro parla un po’ di sé: «Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, a vivere in un mondo scarsamente reale. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione». E’ un cittadino italiano di razza ebraica; all’inizio il campo lo disorienta non capisce dove si trova e curioso chiede in giro ma come risposta viene deriso e offeso e anche se lui si vorrebbe ribellare sa che non può perciò sta in silenzio. Si potrebbe dedurre che è una persona codarda senza dignità come lui spesso definisce sé stesso e i suoi compagni ma nel Lager se si ribella verrebbe ucciso e a conoscenza di questo accetta gli ordini e viene picchiato senza discutere. All’inizio è speranzoso ma con il passare del tempo perde questa sua speranza e non ha come all’inizio più paura della morte e diventa come tutti una persona pessimistica che ripensa al suo passato con nostalgia, non è una persona fisicamente forte infatti nel lavoro molte volte cade si fa male o si lascia aiutare ma è un poliglotta, socievole. Nel campo diventa più astuto imparando a rubare e a non fidarsi troppo della gente di cui con il tempo impara a non averne neanche molta compassione. Non divide niente con nessuno, tranne con Alberto con cui era già molto amico prima dell’entrata in campo, l’amico compare a metà del racconto ma se ne parla di lui fino alla sua fuga (verso la fine del libro) ma tornato in Italia non l’ha più risentito. Alla fine del racconto nel Ka-Be quando rimane a curarsi insieme a due amici degli ammalati nella sua baracca si rivela una persona compassionevole e intelligente. E’ un personaggio statico.
Alberto: Grande amico di Primo compare a metà della narrazione ha la funzione di co-protagonista e su di lui l’autore scrive molto:«Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento migliori alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente giusto. Intende tutto a volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. «Sa» chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere. Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte.» Da questa descrizione emerge come l’autore ammiri moltissimo Alberto e lo prenda quasi come un modello da seguire inoltre vede in lui due visioni opposte lo vede infatti come una persona forte, astuta che sa farsi rispettare, ma allo stesso tempo buona. In un’altra descrizione invece specifica il legame che c’era tra loro due:«Alberto, con genuina gioia, senza ombra d’invidia. Alberto non trova nulla a ridire sulla fortuna che mi è toccata, e ne è anzi ben lieto, sia per amicizia, sia perché ne trarrà lui pure dei vantaggi: infatti noi due siamo ormai legati da uno strettissimo patto di alleanza, per cui ogni boccone «organizzato» viene diviso in due parti rigorosamente uguali. Non ha motivo di invidiarmi, poiché entrare in Laboratorio non rientrava né nelle sue speranze, né pure nei suoi desideri. Il sangue delle sue vene è troppo libero perché Alberto, il mio amico non domato, pensi di adeguarsi in un sistema; il suo istinto lo porta altrove, verso altre soluzioni, verso l’imprevisto, l’estemporaneo, il nuovo. A un buon impiego, Alberto preferisce senza esitare gli incerti e le battaglie della “libera professione”.» Anche qui compare lo stesso senso di ammirazione e fa capire come tutti e due nonostante la fame che li possiede dividono sempre tutto e nonostante Primo si trovi meglio di lui, a egli non gliene importa ed è anzi contento per lui. Questo descrizione è una testimonianza di una fortissima amicizia che niente del campo ha potuto rovinare e in un’altra descrizione è ancora più evidente:«E venne finalmente Alberto, sfidando il divieto, a salutarmi dalla finestra. Era il mio indivisibile: noi eravamo “i due italiani” e per lo più i compagni stranieri confondevano i nostri nomi. Da sei mesi dividevamo la cuccetta, e ogni grammo di cibo organizzato extra-razione; ma lui aveva superata la scarlattina da bambino, e io non avevo quindi potuto contagiarlo. Perciò lui partì e io rimasi. Ci salutammo, non occorrevano molte parole, ci eravamo dette tutte le nostre cose già infinite volte. Non credevamo che saremmo rimasti a lungo separati. Aveva trovato grosse scarpe di cuoio, in discreto stato: era uno di quelli che trovavano subito ciò di cui hanno bisogno. Anche lui era allegro e fiducioso, come tutti quelli che partivano.». In altre frasi sottolinea la sua intelligenza. E’ un personaggio statico.
Steinlauf: E’ uno della lunga serie di personaggi dal ruolo marginale ma molto descritti da Levi:«Il mio amico quasi cinquantenne, a torso nudo, che si strofina collo e spalle con scarso esito (non ha sapone) ma con estrema energia. Steinlauf mi vede e mi saluta, e senza ambagi mi domanda severamente perché non mi lavo.», «Ma Steinlauf mi dà sulla voce. Ha terminato di lavarsi, ora si sta asciugando con la giacca di tela che prima teneva arrotolata fra le ginocchia e che poi infilerà, e senza interrompere l’operazione mi somministra una lezione in piena regola. Ho scordato ormai, e me ne duole, le sue parole diritte e chiare, le parole del già sergente Steinlauf dell’esercito austro-ungarico, croce di ferro della guerra ’14-18.» «Queste cose mi disse Steinlauf, uomo di volontà buona: strane cose al mio orecchio dissueto, intese e accettate solo in parte, e mitigate in una più facile, duttile e blanda dottrina, quella che da secoli si respira al di qua delle Alpi, e secondo la quale, fra l’altro non c’è maggior vanità che sforzarsi di inghiottire interi i sistemi morali elaborati da altri, sotto altro cielo. No, la saggezza e la virtù di Steinlauf, buone certamente per lui, a me non bastano.» Da queste descrizioni si capisce che Levi lo ammira molto e inoltre lo vede come un vecchio buon saggio che si preoccupa per lui, anche per il fatto che era un sergente si capisce come eseguisce gli ordini impartiti dai tedeschi con scrupolo e da il buon esempio agli altri, inoltre fa a Levi un discorso, come lo fa un sergente a un militare, per rimetterlo in riga. Se ne parla di lui solo all’inizio, è un personaggio statico.
Schepschel: L’autore parla di lui insieme ad altri tre per far capire come ci si può salvare nel Lager:«Schepschel vive in Lager da quattro anni. Si è visti morire intorno decine di migliaia di suoi simili, a partire dal pogrom che lo ha cacciato dal suo villaggio in Galizia. Aveva moglie e cinque figli, e un prospero negozio di sellaio, ma da molto tempo si è disabituato dal pensare a sé altrimenti che come a un sacco che deve essere periodicamente riempito. Schepschel non è molto robusto, né molto coraggioso, né molto malvagio; non è neppure particolarmente astuto, e non ha mai trovato una sistemazione che gli conceda un po’ di respiro, ma è ridotto agli espedienti spiccioli e saltuari, alle “kombinacje”, come qui si chiamano. Ogni tanto ruba in Buna una scopa e la rivende al Blockältester; quando riesce a mettere da parte un po’ di capitale-pane, prende in affitto i ferri del ciabattino del Block, che è suo compaesano, e lavora qualche ora in proprio; sa fabbricare bretelle con filo elettrico intrecciato; Sigi mi ha detto che nella pausa di mezzogiorno lo ha visto cantare e ballare davanti alla capanna degli operai slovacchi, che lo ricompensano qualche volta con gli avanzi della loro zuppa. Ciò detto, ci si può sentire portati a pensare a Schepschel con indulgente simpatia, come a un meschino il cui spirito non alberga ormai che umile ed elementare volontà di vita, e che conduce valorosamente la sua piccola lotta per non soccombere. Ma Schepschel non era un’eccezione, e quando l’occasione si presentò, non esitò a far condannare alla fustigazione Moischl, che gli era stato complice in un furto alla cucina, nella speranza, malamente fondata, di acquistarsi merito agli occhi del Blockältester, e di porre la sua candidatura al posto di lavatore delle marmitte.». Da questa descrizione emergono tutte le caratteristiche psicologiche chiaramente dette dall’autore, che inoltre dall’ultima parte fa notare la vasta considerazione che ha di lui e disapprova il suo comportamento e il suo modo di cercare di salvarsi. Dopo questa descrizione non lo nomina più.
Il vecchio Gattegno: «Nella baracca sei abitava il vecchio Gattegno con la moglie, i molti figli, i nipoti, i generi e le nuore operose. Tutti i componenti uomini della famiglia erano falegnami ; venivano da Tripoli, attraverso molti e lunghi viaggi, e sempre avevano portato con se gli strumenti del mestiere, la batteria di cucina, le fisarmoniche e il violino per suonare e ballare dopo la giornata di lavoro perché erano gente lieta e pia. Le loro donne furono le prime tra tutti a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse tempo per il lutto; e quando tutto fu pronto , le focacce cotte, i fagotto legati, allora si scalzarono, si sciolsero i capelli e disposero al suolo le candele funebri , e le accesero secondo il costume dei padri e sedettero a terra a cerchio per la lamentazione, a tutta la notte pregarono e piansero». L’autore parla di lui solo in questa descrizione da cui non emerge però alcun suo giudizio.
Emilia: Era la figlia dell’ingegner Aldo Levi da Milano. Aveva tre anni, era intelligente, curiosa, allegra e ambiziosa. Mori in una nuvola di gas.
Quando terminò il viaggio Levi ed altri suoi compagni si ritrovarono in una stanza che probabilmente serviva per le docce.
Flesch: «Era il loro compagno che traduceva ciò che il maresciallo tedesco diceva. Era un ebreo tedesco sulla quarantina che portava in viso una grossa cicatrice di una ferita riportata combattendo contro gli italiani sul Piave. Era un uomo chiuso e taciturno per il quale Levi provava un istintivo rispetto in quanto sentiva che egli aveva cominciato a soffrire prima di tutti gli altri.
Aggiogato con lui un giorno sotto lo stesso carico era Null Achtzehn».
Null Achtzehn: Levi in questo personaggio non vedeva ne un nemico ne un rivale. Si chiamava molto semplicemente zero diciotto che erano le ultime tre cifre del suo numero di matricola. «Quando parla, quando guarda dà l’impressione di essere vuoto interiormente, nulla più che un involucro, come certe spoglie di insetti che si trovano in riva agli stagni, attaccate con un filo ai sassi e il vento le scuote. Null è molto giovane il che costituisce un pericolo molto grave. Non solo perché i ragazzi sopportano peggio le fatiche e il digiuno, ma soprattutto perché qui per sopravvivere occorre un lungo allenamento alla lotta di ciascuno contro tutti , che i giovani raramente posseggono. Null non è neppure particolarmente indebolito. Ma tutti rifuggono dal lavorare con lui.. Tutto gli è a tal punto indifferente che non si cura più di evitare la fatica e le percosse e di cercare il cibo. Esegue tutti gli ordini che riceve ,ed è prevedibile che , quando morirà lo farà con la stessa identica indifferenza. Egli non possiede la rudimentale astuzia dei cavalli da traino , ma tira, sforza o spinge finche le forze glielo permettono e poi cede di colpo senza un avvertimento, senza sollevare gli occhi tristi e opachi dal suolo. Levi paragona questo personaggio ai cani da slitta dei libri di London che faticano fino all’ultimo respiro e muoiono sulla pista». L’autore lo considera uno sciocco perché lavora troppo ed esegue con troppo scrupolo gli ordini che gli vengono impartiti.
Chajim: è il compagno di letto di Levi. Levi aveva una fiducia cieca di lui. Egli era un polacco, ebreo pio, studioso della legge. Aveva press’a poco la stessa età di Levi e di mestiere faceva l’orologiaio mentre in Buna faceva il meccanico di precisione; era perciò uno tra i pochi che conservavano la dignità e la sicurezza di sé stessi che nascono dall’esercitare un arte per cui si è preparati.
Uno dei vicini di cuccetta di Levi si chiamava Walter Bonn, un olandese civile e anche abbastanza colto. Era molto gentile e lo si può capire dalle azioni bonarie che egli compie verso l’amico Levi: vedeva che Primo non aveva nulla per tagliare il pane e gli prestava il suo coltello, poi si offriva di venderglielo per mezza razione di pane.
Il vicino di Walter era un ebreo polacco, albino dal viso scarno e bonario, non più giovane di Levi. Egli si chiama Schmulek.
Resnyk: era il compagno di letto di Levi. Era di statura alta ed è anche per questo che spettava a lui dormire con Resnyk dato che Levi era piccolo e Resnyk era alto dovevano per forza dormire insieme perché due alti in una sola cuccetta non potevano entrarci. Levi racconta che è una sciagura dormire con uno più alto di te ma nonostante tutto egli era un bravo compagno. Parlava poco e molto cortesemente, era pulito, non russava , non si alzava che due o tre volte per notte e sempre con molta delicatezza. Resnyk era polacco e aveva vissuto per vent’anni a Parigi, ma parlava un francese incredibile. Aveva trent’anni. La storia della sua vita Levi l’ha dimenticata ma ricorda bene che era dolorosa, crudele e commonente.
Un altro amico di Levi era l’ingegner Alfred e la sua storia dimostra quanto sia vano il mito dell’uguaglianza originale tra gli uomini.
Alfred: dirigeva nel suo paese un’importantissima fabbrica di prodotti chimici ed il suo nome era noto negli ambienti industriali di tutta Europa. Era un uomo robusto sulla cinquantina e nel campo ci era entrato come tutti entravano: nudo, solo e sconosciuto. Quando Levi conobbe Alfred egli era molto deperito, ma conservava sul viso i tratti di un’energia disciplinata e metodica; in quel tempo i privilegi si limitavano alla pulitura giornaliera della marmitta degli operai polacchi; Questo lavoro gli fruttava mezza gamella di zuppa al giorno. Alfred aveva le mani ed il viso sempre perfettamente puliti, aveva la rarissima abnegazione di lavarsi, ogni quindici giorni, la camicia, senza aspettare il cambio bimestrale degli indumenti. Egli lavorava con impegno ostentato , esortando anche all’occasione i compagni pigri con tono suadente e deprecatorio; evitava la lotta quotidiana per il posto migliore nella coda del rancio e si adattava a ricevere ogni giorno la prima razione.
Nei rapporti con i compagni si comportava sempre con la massima cortesia compatibile con il suo egoismo che era assoluto.
Un’altra figura che Levi nel drammatico libro descrive accuratamente è Elias Lindzin.
Elias Lindzin: Egli era un nano non più alto di un metro e mezzo ma con una muscolatura incredibile. Quando era nudo si distingueva ogni muscolo lavorare sotto la pelle , potante e mobile come un animale a se stante; Sotto il cuoio capelluto le suture craniche sporgevano smisurate. Il suo cranio era massiccio e dava l’impressione di essere di metallo o di pietra; si vedeva il limite nero dei capelli rasi appena un dito sopra le sopracciglia. Il naso, il mento, la fronte, gli zigomi erano duri e compatti, l’intero viso sembrava una testa d’ariete, uno strumento adatto a percuotere. Dalla sua persona emanava un senso di vigore bestiale.
Henri: invece era un uomo eminentemente civile e consapevole, e sui modi di sopravvivere nel lager possedeva una teoria completa e organica. Non aveva che ventidue anni ed era intelligentissimo. Parlava il francese, il tedesco l’inglese e il russo ed aveva un’ottima cultura scientifica e classica; suo fratello era morto in Buna e da quel giorno aveva reciso ogni vincolo di affetti; si era chiuso in se stesso come in una corazza e lottava per vivere senza distrazione. Henri aveva il corpo ed il viso delicati e sottilmente perversi del San Sebastiano del Sodomia; i suoi occhi erano neri e profondi, non aveva ancora la barba data la giovane età e in campo si muoveva con languida naturale eleganza.
In occasione dell’esame di chimica Levi conosce Mendi.
Mendi: era un rabbino della Russia subcarpatica, di quel groviglio di popoli in cui ciascuno parla almeno tre lingue e Mendi ne sapeva parlare sette. Sapeva moltissime cose ed oltre che rabbino è anche sionista militante, glottologo, è stato partigiano ed è dottore in legge; non è chimico ma vuole tentare ugualmente. Insomma è un piccolo uomo tenace, coraggioso e acuto.
Jean: era uno studente alsaziano e benché avesse già ventiquattro anni era il più giovane Haftling del Kommando Chimico. Egli palava correntemente il francese ed il tedesco. Era un Pikolo eccezionale. Era scaltro e fisicamente robusto, e insieme mite e amichevole: pur conducendo con tenacia e coraggio la sua segreta lotta individuale contro il campo e contro la morte, non trascurava di mantenere rapporti umani con i compagni meno privilegiati; d’altra parte era stato tanto abile e perseverante da affermarsi nella fiducia di Alex, il capo.
Alex aveva mantenuto tutte le sue promesse. Si era dimostrato un bestione violento e infido, corazzato ci una solida e compatta ignoranza e stupidità, eccezion fatta per il suo fiuto e la sua tecnica di aguzzino esperto e consumato. Non perdeva l’occasione di dimostrarsi fiero del suo stesso sangue e del suo triangolo verde, e ostentava un altero disprezzo per i suoi chimici cenciosi e affamati.
In quel mondo scosso ogni giorno più profondamente Levi conobbe Lorenzo. Egli era un operaio civile italiano. Aveva fatto molti favori a Levi e non aveva voluto proprio niente in cambio di cio che aveva fatto e questo perchè era semplice e buono e non pensava che di dovesse il bene per un compenso. Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. È proprio grazie a Lorenzo che Levi non ha dimenticato neanche in quell’inferno di essere un uomo.
Kraus era un ungherese e capiva assai male il tedesco, non sapeva una parola di francese. Era un uomo alto, con gli occhiali ed una curiosa faccia piccola e storta; quando rideva sembrava un bambino e lo faceva spesso. Lavorava troppo e troppo vigorosamente. Non sa ancora che è meglio farsi picchiare che lavorare perché delle volte di botte non si muore ma di fatica sì. Kraus era maldestro infatti si era già preso un calcio dal capo perché non sapeva camminare allineato.
Stawinoga assegnava i posti di lavoro. Era un tedesco polacco ancora giovane , dal viso energetico ma insieme triste e stanco. Lui era un dottore non in chimica ma in glottologia. Tuttavia era il capo laboratorio. Con noi non parlava volentieri ma non sembrava mal disposto. Ci chiama “Monsieur”, il che è ridicolo e sconcertante. Non dice mai di no e se ritardi non fa domande; ha l’aria di soffrire nella sua carne per la rovina che lo circonda. Fraulein Liczba, Frau Mayer: la prima era polacca e magazziniera, la seconda era segretaria. Hanno la pelle liscia e rosea, dei begli abiti colorati, puliti e caldi, i capelli biondi, lunghi e ben ravviati; parlano con molta grazia e compostezza, e invece di tenere il laboratorio ordinato e pulito, come dovrebbero, fumano negli angoli, mangiano pubblicamente tartine di pane e marmellata, si limano le unghie, rompono molta vetreria e poi cercano di darne a noi la colpa; quando spazzano ci spazzano i piedi. Con noi non parlano, e arricciano il naso quando ci vedono trascinarci per il laboratorio, squallidi e sudici, disattati e malfermi sugli zoccoli. Queste ragazze cantano, come cantano tutte le ragazze di tutti i laboratori del mondo, e questo ci rende profondamente infelici. Discorrono tra loro: parlano del tesseramento, dei loro fidanzati, delle loro case, delle loro feste prossime… L’autore disprezza queste ragazze perché lo trattano come una persona di rango inferiore e gli fanno rivivere tristi ricordi.
Arthur e Charles erano due francesi con la scarlattina, simpatici. Erano due provinciali dei Vosgi, entrati in campo da pochi giorni con un grosso trasporto di civili rastrellati dai tedeschi in ritirata dalla Lorena. Il più anziano era Arthur, era contadino piccolo e magro. L’altro era suo compagno di cuccetta, era maestro di scuola e aveva trentadue anni; invece della camicia gli era toccata una canottiera estiva comicamente corta. Levi era molto attaccato a loro due e li stimava molto. Tutti e tre, mossi da compassione, aiutavano i malati della loro baracca provvedendo ai loro bisogni.
Kosman era un alsaziano. Era, da civile, corrispondente della “Reuter” a Clermont-Ferrand: anche lui eccitato ed euforico. Disse:-Se dovessi tu ritornare prima di me, scrivi al sindaco di Metz che io sto per rientrare-. Aveva notoriamente conoscenze fra i prominenti. Da questo si capisce che l’autore aveva rispetto di lui per la sua posizione.
Sertelet era un contadino dei Vosgi, di vent’anni; pareva in buone condizioni, ma di giorno in giorno la sua voce andava assumendo un sinistro timbro nasale, a ricordarci che la difterite raramente perdona.
Lakmaker era uno sciagurato rottame umano. Era un ebreo olandese di diciassette anni, alto, magro e mite. Era in letto da tre mesi, non so come fosse sfuggito alle selezioni. Aveva avuto successivamente il tifo e la scarlattina; intanto gli era palesato un grave vizio cardiaco ed era brutto di piaghe da decubito, tanto che non poteva ormai giacere che sul ventre. Con tutto ciò, un appetito feroce; non parlava che olandese, nessuno di noi era in grado di comprenderlo. Dalla seguente descrizione emerge che l’autore aveva compassione per lui ma lo riteneva allo stesso tempo inutile.
Sòmogyi era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. Come l’olandese era convalescente di tifo e di scarlattina. Gli si era gonfiata una metà del viso. Finchè conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. L’autore lo riteneva un uomo laborioso e compassionevole verso di loro, visto che prima di morire gli aveva donato la sua razione di pane.

Spazio
Sullo spazio ci sono molte descrizioni dato che Levi descrive ogni luogo che vede e molto dettagliatamente, gli spazi sono reali e sembrano riflettere la condizione sociale degli schiavi infatti sono locali angusti, sporchi, piccoli; dove la gente è costretta a stare a stretto contatto. Nella breve descrizione dell’arrivo dei tedeschi Levi descrive l’ambiente come se fosse colpevole e i sentimenti delle persone:«L’alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case. Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria.». In quest’altra descrizione descrive il treno che li avrebbe portati in Polonia:«I vagoni erano dodici, e noi seicentocinquanta; nel mio vagone eravamo quarantacinque soltanto, ma era un vagone piccolo. Ecco dunque, sotto i nostri occhi, sotto i nostri piedi, una delle famose tradotte tedesche, quelle che non ritornano,quelle di cui, fremendo e sempre un poco increduli, avevamo così spesso sentito narrare. Proprio così, punto per punto: vagoni merci, chiusi dall’esterno, e dentro uomini donne bambini, compressi senza pietà, come merce di dozzina, in viaggio verso il nulla, in viaggio all’ingiù, verso il fondo.». Alla fine del viaggio descrive la stazione:«La neve era alta. Doveva essere una linea secondaria, le stazioni erano piccole e quasi deserte.(…)Si vedevano, da entrambi i lati del binario, file di lumi bianchi e rossi, a perdita d’occhio; ma nulla di quel mormorio confuso che denunzia di lontano i luoghi abitati. Alla luce misera dell’ultima candela, spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono umano attendemmo che qualcosa avvenisse.(…)La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata dai riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce. Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano.(…)Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni», in questa descrizione è evidente il forte disprezzo dell’autore per i tedeschi e come lui confuso cerca di capire osservando il paesaggio attorno a sé dove si trovi, infatti in questa descrizione si nota come si alternano il caos e il silenzio. Molto significativa è la descrizione del Lager:«Questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. E’ costituito da sessanta baracche in legno, che qui si chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Haftilinge privilegiati; le baracche delle docce delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. Di più, alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo di otto, all’estremità est del campo, costituisce l’infermeria e l’ambulatorio; vi è poi il Block 24 che è il Kratzeblock, riservato agli scabbiosi; il Block 7, il cui nessun comune Haftilng è mai entrato, riservato alla “Prominens”, cioè all’aristocrazia, agli internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche; il Block 49, per soli Kapos; il Block 12, una metà del quale, ad uso dei R. e Kapos, funge da Kantine cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida,e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria centrale e l’Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che a le finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo, servito da ragazze Haftilinge polacche, e riservato ai R.. I comuni Blocks di abitazione sono divisi in due locali; in uno vive il capo baracca con i suoi amici: vi è un lungo tavolo, sedie, panche; ovunque una quantità di strani oggetti dai colori vivaci, fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori finti, soprammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole inneggianti all’ordine, alla disciplina, all’igiene; in un angolo, una vetrina con gli attrezzi del Blockfrisor, i mestoli per distribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima. L’altro locale è il dormitorio; non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveari, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni Haftilinge, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quinti in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare in un Block a qui non si appartiene. In mezzo al Lager è la piazza dell’Appello, vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell’Appello c’è un’aiuola dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre.», è una descrizione oggettiva e dettagliata. Nella descrizione emerge una sensazione di ordine al contrario del caos mattiniero all’interno della baracca:«L’intera baracca si squassa dalle fondamenta, le luci si accendono, tutti intorno a me si agitano in una repentina attività frenetica: scuotono le coperte suscitando nembi di polvere fetida, si vestono con fretta febbrile, corrono fuori nel gelo dell’aria esterna vestiti a mezzo, si precipitano verso le latrine e il lavatoio; molti, bestialmente, orinano correndo per risparmiare tempo, perché entro cinque minuti inizia la distribuzione del pane, del sacro blocchetto grigio che sembra gigantesco in mano del tuo vicino, e piccolo da piangere in mano tua. E’ un’allucinazione quotidiana, a cui si finisce col fare l’abitudine: ma nei primi tempi è così irresistibile che molti fra noi, dopo lungo discutere a coppie sulla propria palese e costante sfortuna, e sfacciata fortuna altrui, si scambiano infine le razioni, al che l’illusione si ripristina invertita lasciando tutti scontenti e frustrati.», da questo possiamo capire quanto era difficile la vita nel Lager e come la fame fosse terribile.

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