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Categoria: | Latino |
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Testo
Seneca
E’ una delle figure di spicco della letteratura romana, e con Cicerone è esponente della letteratura filosofica: Seneca prende in esame la filosofia morale antica (greca in particolare), ma non viene mai recuperata in maniera pedissequa, c’è sempre qualcosa di innovativo. E’ abile stilisticamente, quindi la sua prosa filosofica è energica.
Seneca è l’unico poeta tragico latino che non possediamo in maniera frammentaria, e influenzerà anche i posteri (esempio: Shakespeare).
Segue le migliori scuole filosofiche di Roma; dalla filosofia neopitagorica apprende le abitudini sobrie (v.p.352). La filosofia a cui aderisce è quella stoica, anche se prende le distanze da alcuni insegnamenti: in qualche ambito apprezza Epicuro. Anche se da giovane egli aveva una vita contemplativa, egli l’abbandona per non dispiacere al padre dopo essersi recato in Egitto, pare per motivi di salute. Dopo la parentesi in Egitto, rientra a Roma e intraprende il suo cursus honorum (senatore, pretore).
Ebbe nelle sue mani il governo dell’impero, sembra che gestisca il potere con Burro e Agrippina. Le fonti affermano i primi quattro anni del principato di Nerone (54 – 59 d.C.) siano visti positivamente; nel 59 d.C., Nerone si stanca della madre Agrippina, che si oppone al matrimonio del figlio con Poppea, e così decide di ucciderla. Non conosciamo con certezza il ruolo di Seneca nell’uccisione, sappiamo che non è coinvolto direttamente, ma che quasi sicuramente ne era al corrente. Seneca resta al fianco di Nerone anche dopo il matricidio: egli dice che se avesse condannato l’atto di Nerone, sarebbe stato espulso dalla politica: il saggio deve giovare al potere e migliorare lo Stato, sedando le tendenze omicide dell’imperatore. La sua posizione appare più debole, quando alla morte di Burro, questi viene sostituito da Tigellino, che se possibile, è ancora più perfido di Nerone.
62 d.C.: ritiro dalla politica, si dedica allo studio.
61 – 65 d.C.: si dedica alla composizione di opere. Nel 65 d.C. è accusato da Nerone di una congiura ai suoi danni, e Seneca prende la decisione del suicidio.
I dialoghi di Seneca sono diversi da quelli di Cicerone. La discussione non si svolge tra due o più personaggi, e non c’è l’ambientazione storica: c’è una sola voce che per interlocutore, ha il destinatario. L’autore parla in prima persona, e usa si pone una serie di questioni, anticipando così le possibili domande ed obiezioni avanzate dall’interlocutore. L’impostazione è diatribica, stoica e cinica, dove le domande dell’interlocutore sono previste dalla voce che parla.
Opere di Seneca
De Ira: l’ira non è mai accettabile, né utile perché prodotta da un impulso che offusca la ragione. Tra gli esempi spicca quello di Caligola, descritto come belva assetata di sangue (è odiato da Seneca).
Consolatio ad Helviam matrem: in quest’opera Seneca sostiene, con l’ausilio di fonti storiche, che l’esilio non è un male, perché con l’esilio cambio semplicemente il luogo, ma si può negare la virtù. Per lo stoicismo, che ha una tendenza cosmopolita, il sapiente ha il mondo intero come patria. Il filosofo si descrive come persona serena, dedita alla filosofia e impegnata nella ricerca della verità, magnanimo nonostante la sventura.
Consolatio ad Polibium: è una delle opere meno belle di Seneca, nella quale supplica e adula il sovrano. Polibio è un liberto di Claudio.
De Brevitate Vitae: è l’invito a realizzare l’autarcheia, essendo libero dai condizionamenti esteriori: il saggio domina il suo mondo, pace e serenità sono gli obiettivi della vita. [p.70]
De Vita Beata: Seneca dice di non condannare le ricchezze, e ammette di non esser riuscito a raggiungere i precetti e i proponimenti della filosofia di cui parla (“De virtute, non de me loquor”). [p.74]
De Tranquillitate Animi: Seneca dice che il saggio, anche nelle situazioni più negative, deve agire politicamente perché il suo operare retto, può essere utile a tutti: giustifica la sua permanenza accanto a Nerone dopo l’omicidio di Agrippina t giustificazione teorica del compromesso, si mette in evidenza che non conta tanto l’azione, ma l’animo con la quale la si compie t interiorizzazione dei valori. [p.80]
De Otio: Seneca sostiene la validità dell’otium, è infatti praticamente impossibile trovare uno stato, dove il filosofo può agire coerentemente con i suoi principi. Ci si impegna politicamente solo in casi eccezionali.
De Providentia
De Constantia Sapientis
Trattati di Seneca
I trattati non differiscono sostanzialmente dai dialoghi:
• L’autore parla in prima persona
• Si rivolge ad un dedicatario, che è anche l’interlocutore immaginario
• Impianto di tipo argomentativo e dialettico
• Seneca stabilisce delle polemiche con degli obiettori ipotetici (sono presenti degli interventi, da parte dell’autore, come “Qualcuno potrebbe dire che..”)
• Frequente è il ricorso ad aneddoti, esempi, racconti dalla storia greca e romana
Trattati:
- De Clementia
- De Beneficiis
- Naturales Quaestiones
De Clementia: questo è un trattato di filosofia politica. Seneca esalta la monarchia illuminata, e con quest’opera, cerca di giustificare teoricamente la positività del principato, trovando efficace supporto nella filosofia stoica che collocava tradizionalmente nella monarchia, la migliore forma di governo, a condizione che il re sia anche sapiens cioè saggio c il principe deve essere anche un filosofo.
Seneca si rivolge a Nerone, che è diventato imperatore, e lo invita ad essere contento, poiché pur disponendo di un potere illimitato, ha saputo esercitarlo con eccezionale mitezza; egli ha dato prova di possedere la virtù più grande del sovrano che è la clemenza. La clemenza per Seneca, è definita dalla moderazione e dalla capacità d’essere indulgente, che colui che detiene il potere di punire, adotta spontaneamente nell’infliggere le punizioni. La clemenza contraddistingue il re giusto e buono contrapposto al tiranno, e procura a chi governa amore e riconoscenza al potere, da parte dei sottoposti, garantendo così la stabilità dell’impero. Il re buono e clemente, instaura con i sudditi un rapporto paterno, punisce malvolentieri, ma sempre per il bene dei sudditi, che lo ricambiano con affetto e rispetto. Seneca in questo modo, prende atto che la repubblica è definitivamente morta, e il principato si è consolidato.
La giustizia, per Cicerone ma anche per Platone, è considerata la virtù politica per eccellenza, mentre per Seneca questa è la clemenza, che implica un potere assoluto. Il principe è il superiore che può fare ciò che desidera, i cittadini sono adesso sudditi. La giustizia si basa sulle leggi, che ora non sono più un riferimento al quale tutti devono sottostare; adesso vige la volontà del principe, libera da tutto e senza limite di sorta.
Quando Seneca parla di Nerone come figura di giusto, proietta su di lui un’immagine ideale, ma elogiandolo vuole proporre all’imperatore un modello. Il comportamento esemplare che gli attribuisce, vuole essere una sorta di programma politico, e vuole esortare Nerone a realizzarlo. Questa concezione è astratta, perché prevede che al governo vi siano sempre dei principi illuminati. Inoltre, è improbabile che il principe possa coincidere con il sapiens stoico, che è una condizione indispensabile affinché la sua teorizzazione sia possibile.
De Beneficiis: l’opera è in sette libri. Da’ indicazioni sul modo di fare e ricevere benefici, che sono presentati come il fondamento della vita sociale e civile. E’ importante che nell’opera vengano svolti i temi dell’aiuto reciproco, della riconoscenza, dell’ingratitudine, della liberalità, del dovere che hanno i superiori nei confronti degli inferiori. C’è una valorizzazione del significato etico del beneficio, che consiste nel fatto stesso di donare. L’intenzione del rendersi utili è considerata sempre positivamente, anche quando le conseguenze dell’azione non portano beneficio: viene perciò valorizzata l’interiorità degli individui.
Naturales Quaestiones: Seneca subordina all’etica ogni altro interesse, e vuole studiare solo ciò che ritiene utile. Nell’opera, vuole liberare gli uomini dai timori che nascono dall’ignoranza, vuole insegnare il retto uso dei beni che la natura ci mette a disposizione. In particolare, Seneca si lamenta che la maggior parte degli uomini trascura lo studio della natura per dedicarsi ad altre occupazioni, che sono inutili o moralmente nocive. Dice anche che gli uomini spesso usano le conoscenze scientifiche e tecniche per aumentare la loro corruzione. La ricerca scientifica è considerata il mezzo per innalzarsi al di sopra di ciò che è puramente umano, ed elevarsi fino alla conoscenza delle realtà divine.
Epistules morales ad Lucilium
Nelle epistole morali, Seneca lascia una sintesi del suo pensiero filosofico, è la sua opera più ricca dal punto di vista della filosofia. Seneca si presenta come uomo ormai in vecchiaia, ha abbandonato le occupazioni nelle quali ha “sprecato” la sua esistenza: si dedica così allo studio.
Lucilio è più giovane, quindi Seneca prende la parte del maestro e del consigliere, e appunto lo vuol consigliare per dargli la saggezza che lui stesso non ha raggiunto: mentre insegna al più giovane, egli si auto-educa, non parla ex catedra; in un passo egli afferma che scrive per giovare non solo a Lucilio, ma anche per sé e per i posteri.
La lettera
Le lettere a Lucilio sono epistole letterarie, sono diverse da quelle ciceroniane, sono scritte espressamente per la pubblicazione. Quello di Seneca è il primo epistolario propriamente letterario in latino, perché è stato scritto in vista della pubblicazione: questo non significa che le lettere a Lucilio siano false, probabilmente le inviò, ma non si limita a questo il suo obiettivo.
Nel recupero della forma della lettera, Seneca riprende Epicuro, che aveva utilizzato la forma epistolare, come mezzo per esporre in maniera discorsiva le sue dottrine filosofiche. Lo stesso Seneca si rifà agli epistolari di Cicerone, dicendo che nella sua opera non sono trattati gli argomenti futili e quotidiani (cronaca, fatti, etc.) citati da Cicerone, ma egli parla di vizi, virtù, filosofia.
Uno degli aspetti caratteristici dell’epistolario, è il riferimento alla quotidianità: Seneca non ne vuole parlare di per sé, ma deve attenersi alle regole del genere, quindi si trovano moltissimi riferimenti alla vita d’ogni giorno. Mentre Cicerone parla della quotidianità in sé, Seneca usa degli spunti che hanno funzione morale, al fine di trarre insegnamenti utili per riflettere e meditare sulla vita, perciò i fatti quotidiani vengono usati per lo sviluppo di particolari tematiche filosofiche. Tutto ciò porta con sé anche l’idea, che i verba devono subordinare le res, cioè la parola non deve aver valore di per sé, ma bisogna dare importanza al contenuto più che alla forma: usa il sermo quotidianus, che è un linguaggio più vicino al colloquiale.
Nella trattazione della materia non c’è sistematicità, si procede per associazioni d’idee, ed anche le lettere non seguono un preciso ordine. Tuttavia, v’è un filo conduttore: c’è un avanzamento di Lucilio sulla strada filosofica; le prime lettere sono di esaltazione alla filosofia, poi Seneca si compiace dei progressi dell’allievo, quindi passa all’approfondimento di tematiche filosofiche più complesse: ciò significa che ci si trova a vedere Lucilio che avanza nella conoscenza, c’è il suo perfezionamento morale. Lucilio appare distaccato dalle attività pubbliche e più dedito all’otium: solo nella virtù risiede la vera gioia, e la sapientia si può conquistare se ci s’impegna a tempo pieno.
La sintesi di queste lettere è che l’unico bene è la virtù.
La dottrina cui aderisce l’opera è quella stoica, ma Seneca la contesta, rivendicando spesso la sua autonomia di giudizio. Cita spesso Epicuro, soprattutto quando parla del tema della morte, dell’otium, e dell’amicizia. A Lucilio, che si sorprende di queste citazioni della filosofia opposta a quella che Seneca aveva sempre seguito, l’autore risponde che la verità è cosa comune.
Temi
• Otium
• Tempo e morte: quest’ultima non è temibile perché o ci porta in un mondo migliore (segue lo stoicismo, insegue il Logos), oppure in quel momento noi non ci saremo (epicureismo)
• Virtù
• Libertà da ogni condizionamento esteriore: riferimento all’autarkeia
• Idea del suicidio per il sapiente che non vive con dignità e libertà
Stile
Cicerone riteneva che scrivere di filosofia, dovesse semplicemente docere, solo all’oratore era concesso di dilettare e di muovere passioni. Invece Seneca, cerca con passione la verità, e con passione egli intende dedicarsi agli altri, quindi trasferisce in ambito filosofico quegli aspetti retorici che aiutano a convincere, a dilettare e ad appassionare (v. Lucrezio). Per Cicerone, la filosofia può insegnare, al massimo dilettare, ma non appassionare, ma anche il diletto non è d’obbligo.
Lo stile di Seneca è asiano, concettoso, ampolloso; nelle sententie, parliamo di uno stile artificioso. Seneca vuole che il pensiero sia espresso in una frase concisa, dove in poche righe vengano espressi il maggior numero di concetti.
Le tragedie di Seneca
La datazione delle tragedie è incerta e questo dilemma è legato all’interpretazione degli intenti perseguiti dal filosofo. Si può osservare che le tragedie hanno ossessive caratteristiche antitiranniche, e due sono le ipotesi riferibili a questo fatto: o Seneca voleva creare un teatro d’opposizione, oppure voleva un teatro di esortazione, rivolto al giovane Nerone e al potere più in generale. Se noi sapessimo quando queste sono state scritte, potremmo avere la certezza in merito a queste due possibilità. Ci sono degli elementi che fanno propendere al teatro di esortazione, perché noi sappiamo che nemmeno in esilio, Seneca decise di fare opposizione (si veda la Consolatio ad Polibium); anche nel periodo del ritiro, egli non si volle opporre al governo.
Le tirate antitiranniche possono passare se rivolte non contro, ma per il potere, quindi vengono proposti degli esempi negativi. Del resto, Seneca come Lucrezio, ritiene che la composizione d’opere in versi possa aver valore solo se si attribuisce a questa, un significato pedagogico. Anche la poesia viene così a diventare un mezzo di aiuto alla filosofia, ecco che nasce il legame fra la produzione tragica e quella filosofica. I drammi di Seneca sono stati composti per evidenziare gli effetti negativi del potere della tirannide e delle passioni scellerate.
Altro dilemma che ci si pone in merito alle tragedie di Seneca, è quello del fine pratico delle opere, cioè se queste sono state scritte per essere lette nelle recitationes o recitate e rappresentate. Le recitationes consistono in delle letture pubbliche di testi, che potevano tenersi in case private, in apposite sale o talvolta alla corte; lo scopo di queste letture era il diletto, la diffusione di determinate idee, ma soprattutto erano utili per poter pubblicizzare e promuovere una nuova opera.
Probabilmente le tragedie sono state composte per la lettura, e questo si può affermare sulla base di alcune caratteristiche tecniche:
• I fatti orribili delle tragedie di Seneca sono contenuti e rappresentati nella scena, mentre nel teatro greco sono solo raccontati
• Seneca accenna più volte al teatro come un suscitatore di passioni verso la plebe, e questa incolta, non le capisce fino in fondo e ne resta suggestionata: egli non è d’accordo con il teatro per il grande pubblico, che fomenta le passioni
• Gli imperatori non avrebbero mai acconsentito alle rappresentazioni di fronte ad un vasto pubblico, perchè queste li dipingevano come dei tiranni, delle figure odiose e scellerate.
Le tragedie di Seneca mantengono le strutture delle tragedie greche, hanno titoli e argomenti calcati da quelle classiche. Si compongono di:
• Prologo, cioè introduzione
• Cinque atti
• Tra un atto e l’altro c’è l’intermezzo musicale del coro
• Tutti i tiranni hanno una conclusione tragica, però i drammi di Seneca sono accentuano gli aspetti orridi, il gusto per il macabro a differenza delle tragedie greche. I fatti atroci descritti, sono tipici delle tragedie di Seneca
• Al centro delle tragedie ci sono delle passioni esagerate, non dominate dalla ragione, e queste provocano effetti deleteri. Nello scontro nell’animo umano, fra impulsi positivi e negativi, dominano questi ultimi; da un lato c’è la razionalità, di cui si fanno portavoce nella tragedia alcuni personaggi secondari, che cercano di dissuadere i protagonisti dai loro intenti. D’altra parte c’è il furor, la passione irrazionale, l’ira, la sete di potere, l’amore, il rancore, che in accordo all’etica stoica, sono rappresentazione della pazzia, perché travolgono irrimediabilmente l’animo. Nella lotta fra ragione e furor, viene dato spazio alla colpa, alla nostra parte oscura, ed emerge l’interesse quasi morboso di Seneca per la psicologia e per le passioni dei personaggi.
Si può pensare che Seneca in quanto storico, pensi che vi sia una sorta di provvidenza, così che anche i personaggi negativi siano portati al positivo. Vi sono degli esempi negativi nelle tragedie, ma non c’è un positivo: manca la provvidenza e sembra invece che siano i peggiori a prevalere, che la fortuna dispensi i suoi beni ciecamente; in questo modo l’autore è in contraddizione con il pensiero stoico, che prevedeva invece la presenza della provvidenza.
L’interesse di Seneca, più che sui fatti, è concentrato sui dialoghi; c’è scarsa cura per gli intrecci, lo sviluppo della vicenda all’autore non interessa, poiché si affrontano tematiche già note e quindi si poteva sorvolare su questo aspetto. Fatti e personaggi risultano utili per mostrare la psicologia delle passioni, per dibattere su questioni di carattere morale e politico, temi importanti sono:
• colpa
• delitto
• potere
• fides (lealtà)
La parola è importante perché il discorso è argomentativo: i personaggi sono portatori di determinati temi, e servono per scavare negli abissi dell’animo umano. La tensione patetica è raggiunta negli effetti di passione e coinvolgimento.
Stile
Lo stile è magniloquente, ripetitivo. Ci sono degli eccessi barocchi nel risalto dato a situazioni macabre; c’è uno stile concettoso e concentrato, nel quale in poche parole sono espressi molti concetti. Seneca utilizza battute molto rapide (es. “Riconosci i tuoi figli?” “Riconosco mio fratello”): alle volte mezzo verso consta della battuta d’un personaggio, e l’altro mezzo è la battuta di risposta d’un secondo personaggio.
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