Catullo, Cesare, Orazio, Lucrezio, Persio, Petronio, Sallustio, Seneca, Virgilio

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Testo

CATULLO - Il liber catulliano (116 carmi :”nugae” e “carmina docta”)
Attraverso la poesia si può ricostruire la sua vita. Nacque a Verona da famiglia agiata;ospiti della sua casa furono Q.Metello Celere e Giulio Cesare. A 20 anni lasciò Verona e andò a Roma , richiamato dalla vita intellettuale e dalla speranza di trovare amicizie ed appoggi per affermarsi come poeta. Catullo non entrò in politica, anzi nei suoi epigrammi prese spesso di mira personaggi politici in vista. La satira politica di Catullo è rivolta contro le persone più che contro i partiti e nasce sia dallo spirito beffardo e di fronda che è proprio di tutti i circoli intellettuali,sia dal suo moralismo che lo porta ad indignarsi di fronte alla bassezza morale dei politicanti profittatori e all’assenza di scrupoli che caratterizza gli intrighi politici. Negli ultimi tempi della vita lo spettacolo della corruzione politica porta il poeta a lanciare un grido di disperata rivolta (O Catullo, perché indugi a morire?)
Una svolta decisiva fu l’amore per Clodia, una donna affascinante, colta, spregiudicata e libera da inibizioni morali: Cicerone, nemico di Catullo, in una sua orazione Pro Caelio la rappresenta come perfida e corrotta. Catullo la cantò con lo pseudonimo di Lesbia. L’amore per Lesbia passò attraverso varie fasi:beatitudine, disprezzo, disperazione. Le vicende d’amore rendono la poesia di Catullo più drammatica.

CESARE – Commentarii de bello Gallico – Commentarii de bello Civili
Spirito colto e raffinato, si occupò di poesia, grammatica, filosofia.Famoso oratore; nulla ci è pervenuto delle sue orazioni e possiamo avere un’idea del vigore della sua eloquenza solo dai pochi discorsi che si trovano riportati in sunto nei Commentarii. Seguace dell’atticismo (discorso semplice e asciutto) avversò lo stile magniloquente, caratteristico dell’asianesimo. Scrisse i
Commentarii de bello Gallico nel52 –51, l’opera comprende 7 libri e descrive le operazioni in Gallia dal 58 al 52, un ottavo libro fu aggiunto dal generale cesariano Aulo Irzio. Il termine Commentarii equivale al nostro “appunti” o “promemoria”, i Commentarii si differenziano dalle historiae perché rinunciano agli abbellimenti letterari, alle considerazioni moralistiche ed hanno la forma di documento, di diario.
Scrivendo il De bello Gallico Cesare aveva anche uno scopo polemico, difendere la sua campagna in Gallia, in quanto i nemici lo accusavano di aver mosso un’inutile e ingiusta guerra di aggressione, spinto soltanto dall’ambizione politica.
Cesare lascia parlare i fatti: le descrizioni delle battaglie e dei luoghi sono condotte col rigore e con la chiarezza di una dimostrazione geometrica.Le mosse di strategia militare sembrano dettate da una necessità logica e dalla lucida chiaroveggenza degli eventi,anche gli atti che appaiono più audaci rispondono ad un preciso calcolo. Sotto l’apparente modestia della narrazione impersonale è palese la coscienza che l’autore ha della propria superiore levatura ;questa coscienza si manifesta in una sottile ironia verso le debolezze e gli errori degli uomini mediocri ,come quando vengono descritti i terrori degli ufficiali novellini impauriti dalla fama di Ariovisto e dei Germani.
Nel 45 a.C. Cesare scrisse i Commentarii de bello Civili in tre libri, che trattano delle campagne contro Pompeo e i pompeiani negli anni 49 – 48, in Italia, in Ispana, in Africa e in Oriente, fino a Farsalo e alla tragica morte di Pompeo in Egitto.
Anche nel “De bello civili” Cesare cerca di mantenere al racconto il tono obiettivo e distaccato, ma non sempre vi riesce, e la persona dello scrittore emerge più distinta con risentimenti e apprezzamenti polemici. Ciò è perfettamente spiegabile se si pensa alla diversità della materia: nelle guerre civili le passioni sono più accese e le lotte di fazione provocano inevitabilmente accanite polemiche. Cesare vuole anzitutto scagionarsi dall’accusa di essere stato lui a provocare la guerra civile e cerca di addossare ogni responsabilità al partito avverso; per dimostrare questa sua tesi non solo omette i fatti a lui sfavorevoli, ma giunge ad alterare la cronologia degli avvenimenti.

LUCREZIO

Lucrezio
Notizie biografiche.
99-94 a.C.: nacque in una località della regione campana Tito Lucrezio
Caro. Ricevette una educazione raffinata e sicuramente visse a Roma,
dove strinse amicizia con Memmio, cui dedicò il poema.
55-50 a.C.: intorno a questa data si colloca la morte di Lucrezio. Le
notizie tramandateci da S. Girolamo, secondo cui il poeta, affetto da
follia a causa di un filtro amoroso, sarebbe morto suicida, sono oggi
considerate leggende nate in ambiente cristiano dopo il IV sec. come
tentativi per spiegare in qualche modo una posizione filosofica che
appariva aberrante. Il “De Rerum Natura” fu pubblicato da Cicerone.
Lucrezio contro la religione tradizionale.
Il concetto della divinità come un’autorità superiore alla quale prestare obbedienza in cambio di concreti favori, rappresenta uno fra i principali obbiettivi della polemica lucreziana. Due sono, secondo Lucrezio, le cause dei mali dell’uomo: da un lato egli è legato alle proprie passioni che lo tormentano col desiderio di possedere e con la paura di perdere i beni materiali; dall’altro la paura della morte. A tali mali Epicuro contrappone il “farmaco”, una medicina consistente in quella che Lucrezio chiamava “ratio”, cioè nella conoscenza autentica sia della natura che della realtà propria dell’uomo. Nel 173 a.C. due filosofi epicurei erano stati allontanati da Roma perché la loro dottrina era considerata nociva alla mentalità dei cittadini romani, ma un secolo dopo l’epicureismo era la filosofia di moda negli ambienti intellettuali. Lucrezio stesso riconosce che la dottrina epicurea è spesso fraintesa e interpretata in modo riduttivo dai Romani: essa cioè è presentata come più triste di quanto non sia in realtà. In vero Epicuro aveva avversato la poesia di tutto l’immaginario della religione pagana. Lucrezio invece vuole dimostrare che la poesia può assumersi il compito di illuminare le menti: che si tratti di impresa ardua e unica è il poeta stesso ad affermarlo e a chiarirlo nel vv. 925 e segg. del I libro. La scelta della forma poetica, assai più familiare e cara al pubblico romano di quella del trattato filosofico, si prestava in modo particolare a illustrare i motivi più lieti e attraenti di una dottrina alla quale si rinfacciava il pessimismo. Il poema affronta prima la conoscenza della natura perché l’etica epicurea presupponeva una visione della natura del tutto nuova e rivoluzionaria, fondata sull’atomismo e sul naturalismo. La natura non viene più contemplata nel travestimento mitologico, ma indagata nella sua molteplice realtà. Gli eventi della terra e del cielo acquistano profondità e verità, si svelano nelle loro leggi e insieme si occultano in un più oscuro mistero. In questa rappresentazione della natura “bella e terribile”, come la vedrà il Leopardi, rientra anche la celebre visione della peste di Atene nel VI libro. Essa per i posteri suggella il poema in una atmosfera di estrema tragicità, certo non conforme alle intenzioni di Lucrezio che amava piuttosto rappresentare la natura nella sua stagione più florida e verde, la primavera. La pregiudiziale contro gli dei non impedisce infatti a Lucrezio di sciogliere, all’inizio della sua opera, l’inno a Venere, dea della primavera, della generazione e dell’amore. Il culto di Venere aveva eccezionale diffusione nella Roma del I sec. Comunque l’immagine di Marte disarmato tra le braccia di Venere introduce il tema della pace. In caso di guerra Memmio non avrebbe il tempo di dedicarsi alla filosofia: l’onore della sua stirpe sarebbe infatti ferito se egli non intervenisse in difesa della patria. Il confronto di Lucrezio con la civiltà del suo tempo viene sviluppato nella seconda parte dell’opera: cardine della morale epicurea è il rifiuto delle passioni, in gran parte generate dai falsi bisogni di una società sofisticata e corrotta. Uno fra i nefasti risultati del progresso è per Lucrezio l’organizzazione della collettività e la necessità del diritto, “leges artaque iura”. Infatti la sete dell’oro, smodata fino alla follia, ha distratto a tal punto la solidarietà umana da render necessario il freno delle leggi e del potere. Coerentemente allo sviluppo di questo tema Lucrezio afferma che la cosa migliore è limitarsi ad obbedire all’autorità senza lottare per ottenere il potere. E la stessa caduta della monarchia e l’avvento dei regimi democratici sono avvertiti come ulteriori passi verso un esistenza complicata dai ceppi della “vis” e dell’ “iniuria”. Questo segmento del discorso lucreziano, quasi anarchico, si conclude però con una condanna precisa di chi viola i “communia foedera pacis”. La stessa esigenza di umanità e di giustizia induce Lucrezio a rigettare la religione tradizionale in uno dei suoi aspetti più crudeli e più diffusi fra i popoli primitivi: il sacrificio umano, rappresentato nei celeberrimi versi sul sacrificio di Ifigenia. La figura della fanciulla sacrificata si contrappone, nella sua innocenza, a quella degli uomini che sono pronti a versare il sangue di lei. Nella figura di Agamennone, fisso nel proprio fanatismo, Lucrezio respinge anche quei genitori spietati in cui si era incarnata la “virtus” romana delle origini. Religione autentica non è compiere atti formali: il comportamento degno dell’uomo razionale è una contemplazione mente pacata, nella coscienza che un infinito abisso separa gli uomini dalle divinità. Il pessimismo lucreziano nasce da una acuta sensibilità verso la bellezza della natura e le mille ferite che ne deturpano troppo spesso il fascino, e insieme da una generale visione del mondo che lo vede segnato da una legge di fatale decadenza: la terra è vecchia, l’uomo, corrotto da abitudini troppo innaturali, va verso la propria rovina: la lucida visione delle colpe e delle sofferenze dell’essere umano, priva di ogni spiraglio provvidenzialista, risulta profondamente tragica. Lucrezio implicitamente arriva a postulare una sorta di colpa originaria che ha marchiato questa creatura singolare, destinandola al dolore e alla inquietudine, dal primo vagito all’ultimo sospiro.

Il “De Rerum Natura”.
-Struttura e contenuti.
Scrive Cicerone al fratello Quinto nel febbraio del 54 a.C.: “Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis luminibus ingeni, multe tamen artis”. La maggior parte degli studiosi ritiene che il poeta dovesse essere morto da poco e che Cicerone avesse in mano il poema lucreziano per una revisione. In sei libri, preceduti da un proemio sotto forma di un inno a Venere, Lucrezio espone la dottrina di Epicuro con dedica dell’opera a C. Memmio, esponente di quella classe sociale più restia a prestare ascolto alla dottrina di Epicuro. Questa era rivoluzionaria per Roma e per il suo assetto politico-sociale. Tre i motivi principali che la percorrono: la felicità dell’uomo non riposa nell’adempimento dei doveri verso la patria e la società, ma nel piacere contemplativo; la religione tradizionale è considerata superstizione; viene consigliata una vita di rinuncia lontana dalle competizioni politiche e dalla gloria. Il “De Rerum Natura” è strutturato in coppie di libri che hanno per oggetto la fisica, la gnoseologia nell’aspetto concreto della lotta alle passioni e infine la vicenda dell’uomo nel mondo che non è stato creato per lui. Manca una trattazione della morale “ex professo” e Lucrezio non tiene fede alla promessa di trattare delle sedi beatifiche degli dei collocate negli intermundia. E’ stata sostenuta perciò la non completezza dell’opera, ipotizzando che Lucrezio avrebbe voluto far seguire un epilogo dedicato alla divinità, da contrapporre al prologo.

-Lingua e stile.
Lucrezio è il primo scrittore che tenti di esporre in poesia ed in lingua latina una filosofia che viene dalla Grecia: deve quindi trovare una espressione che rispetti il rigore scientifico della dottrina epicurea ma nello stesso tempo affascini l’animo del lettore con le immagini poetiche; a questo scopo Lucrezio adotta un linguaggio solenne da qualcuno definito “oracolare”, riprendendo i procedimenti stilistici dei poeti arcaici (numerosi sono gli arcaismi, gli aggettivi composti, le perifrasi, le onomatopee, le allitterazioni, le metafore). Dal punto di vista stilistico, Lucrezio adotta spesso un andamento didascalico con inviti frequenti al lettore perché faccia attenzione, e con l’uso frequente di analogie e similitudini. Si può dire che Lucrezio abbia usato mezzi stilistici diversi nel suo poema, passando dall’asciuttezza del linguaggio nelle dimostrazioni scientifiche, alla sonorità e arditezza delle immagini nelle contemplazioni dell’universo e nella descrizione di catastrofi immani.

-Metrica.
Esametro dattilico: metro usato da Omero; introdotto da Ennio (padre dell’etica latina); metro dell’epica e del poema didascalico.
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Brani tratti dal “De Rerum Natura”.
-Inno a Venere (I, 1-43).
vv. 1-20: Lucrezio sta iniziando un poema didascalico e quindi deve, in conformità alle leggi del genere letterario, aprire il poema con un invocazione alla divinità: altrimenti il lettore “antico” non avrebbe riconosciuto il tipo di prodotto letterario. Molti interpreti si sono stupiti di questo inno a Venere, ma per capire la presenza di questa preghiera bisogna tener presente alcuni punti: -l’epicureismo non era affatto una filosofia atea: Epicuro riteneva che gli dei fossero molto più perfetti degli uomini e che costituissero una sorta di modello al quale il saggio aspirava; -esistevano le esigenze del genere letterario, come già detto; -la scelta di Venere non è certo casuale: l’epicureismo è la filosofia che asserisce che il piacere è il motore della natura e Venere-Afrodite veniva appunto riconosciuta come “la divinità del piacere”. vv. 21-43: la preghiera si divide in due parti: -letteraria, qui Lucrezio invita Venere a cooperare al suo progetto; -civile, qui Lucrezio prega Venere per la pace dello stato; -fra esse si inserisce la dedica a Memmio.

-Elogio di Epicureo (I, 62-79).
In generale: dopo l’inno a Venere, un inno ad un essere umano, Epicuro, alla divinità e al filosofo, ambedue modelli per costruire la propria vita. L’inno a Epicuro, considerato il maestro, colui che ha liberato l’umanità da una condizione di servitù e di dipendenza, restituendo all’uomo la dignità e la libertà della ragione. E’ un atteggiamento tipicamente “illuminista” che si fonda sulla convinzione che le forze della ragione umana siano in grado, da sole, di liberare l’uomo. vv. 62-71: in questi versi Lucrezio delinea il quadro delle condizioni dell’umanità prima che il genio di Epicuro realizzasse la liberazione dell’umanità: gli uomini sono schiacciati sotto un peso, quello della superstizione religiosa, che incombe sui poveri mortali. Epicuro, come un eroe dei poemi epici, si volge contro quelle forze oscure, ingaggia la sua battaglia contro di loro. vv. 72-79: il maestro è raffigurato come un esploratore che si slancia oltre i confini del mondo e che al ritorno dal suo viaggio riferisce, vincitore, ciò che ha veduto e scoperto. In conseguenza di questo atto eroico, il rapporto di sudditanza con la religione è superato, ed è anzi essa ora ad essere schiacciata sotto i piedi da una umanità finalmente vittoriosa. Epicuro è descritto come un generale vittorioso (victor, vv. 75).

-Il sacrificio di Ifigenia (I, 80-101).
Non è la filosofia che spinge a comportamenti non umani, ma la religione. Il vate Calcante persuade il re Agamennone a sacrificare la figlia Ifigenia sull’ara della dea Artemide. L’esempio mitologico è evocato da Lucrezio per compiere l’operazione della “relatio criminis” cioè il rovesciamento dell’accusa contro l’accusatore stesso. La raffigurazione delineata da Lucrezio è caratterizzata da una vivissima capacità iconica: si veda il concentrarsi della descrizione su particolari fisici. Ifigenia è stata ingannata, era convinta di andare sull’ara per sposare Achille, invece sposa la morte.

-La felicità del filosofo (II, 1-62).
vv. 1-13: è descritta la tempesta, in più ci sono quadri che ritraggono eventi familiari al lettore romano (le manovre militari, etc.). Il filosofo osserva dall’alto ed è triste per il prossimo, ma contento per se stesso. vv. 14-16: esclamazioni contro la stupidità dell’uomo. vv. 17-18: enunciazione della norma ascetica epicurea, che porta al benessere psicologico (vv. 18-19). I desideri fondati sulla fisicità (vv. 20-22) e i piaceri non necessari (vv. 23-28) si contrappongono alle gioie della vita semplice (vv. 29-33).

-La noia (III, 1053-1075).
La sete di vita, l’avidità di gioie sempre nuove che continuamente agita l’uomo è follia, perché non sta in esse la serenità e la pace dell’anima. Gli uomini dovrebbero comprendere quanto è inutile questa loro ricerca di beni irraggiungibili e inesistenti, e che questo loro affannarsi opprime e rattrista senza tregua la vita; e troverebbero allora nella scienza la tranquillità e la serenità tanto agognate. L’originalità e la forza di Lucrezio non si sentono forse mai come in questo finale, in cui egli rende con la maggior concretezza e plasticità il sentimento più vago e quasi impalpabile delle età decadenti e stanche per il troppo godere: quella noia, la cui parola fu creata dall’età moderna e che non ha neppure un vocabolo altrettanto espressivo e quasi pittorico, nella mollezza delle sillabe, che lo designi nelle età antiche e, soprattutto, in quella di Lucrezio, la quale non conosce se non il solido, corpulento, romano taedium vitae. Nell’età imperiale, in Seneca, nel suo dialogo “De vita beata”.

-Gli amari frutti dell’amore (IV, 1131-1148).
La passione amorosa acceca l’uomo, che cerca così di evitare la noia attirando la donna in banchetti fastosi e dispendiosi, in cui disperde le sostanze acquistate faticosamente dagli antenati. Oltre a ciò, pur nel bel mezzo del convito, basta uno sguardo per insospettire l’infelice amante, che muta in amarezza l’esaltante ebrezza del banchetto. Se tanti sono i rischi di un amore che si crede fortunato, ancora peggiori sono quelli di un amore meno sicuro. È meglio quindi non lasciarsi irretire dalla passione d’amore, cosa più facile che uscire da essa.

ORAZIO- nelle sue opere ci parla molto di se stesso, poiché oggetto della sua poesia sono principalmente le proprie esperienze di vita; dalle sue opere ricaviamo dunque non solo la storia della sua anima, ma anche molte notizie biografiche. Nacque a Venosa nell’Apulia. Il padre era un liberto, di condizione umile,ma agiata.verso i 20 anni Orazio appartenne al circolo epicureo di Sirone e Filodemo in Campania, insieme a Virgilio, poi andò a perfezionare i suoi studi filosofici ad Atene, come era costume dei giovani di nobile famiglia. Mentre era ad Atene scoppiò la guerra civile fra Bruto e Cassio e i triumviri ed Orazio si arruolò nell’esercito dei cesaricidi.Non sappiamo bene le ragioni che lo indussero a questa scelta: forse egli seguì la tendenza più diffusa fra i giovani intellettuali seguaci delle scuole di filosofia, che vedevano in Bruto il difensore della libertà contro la tirannide. Dopo la battaglia di Filippi del 42 a.C. il poeta potè tornare in Italia grazie all’amnistia del 41, ma gli furono confiscati i beni paterni. Frattanto le sue prime poesie attirarono su di lui l’attenzione di Mecenate, a cui fu presentato dagli amici Virgilio e Vario, nel 38 a.C.Con Mecenate Orazio ebbe rapporti di sincera amicizia, nonostante il dislivello della posizione sociale e seppe mantenere il giusto equilibrio fra l’ossequio e l’indipendenza. Colprocedere degli anni crescono in Orazio il desiderio di isolamento e della meditazione interiore, il fastidio dei doveri e delle convenienze sociali e della vita della metropoli.Rifiutò la carica di segretario particolare offertagli da Augusto, si dichiarò disposto a restituire a Mecenate i doni ricevuti e a tornare povero, se egli avesse preteso di averlo sempre a Roma al suo fianco. Morì nell8 a.C. due mesi dopo la morte di Mecenate.
La prima raccolta poetica di Orazio è costituita dagli Epodi, pubblicati nel 30. Sono 17 componimenti . Modello è Archiloco, il grande poeta giambico greco del VII secolo,aggressivo e violento nel sarcasmo e nell’odio; avvertibile è anche l’influenza di una certa poesia epigrammatica di Catullo.
Più o meno contemporanei sono i due libri di Satire, che partono dallo stesso stato d’animo degli Epodi, cioè da un atteggiamento polemico verso la società e da un desiderio di miglioramento e di risanamento. Il modello è Lucilio, come dice il poeta stesso, come Lucilio, Orazio vuole muovere una critica spregiudicata ai vizi degli uomini del suo tempo ed insieme presentare il proprio ideale di vita. Tuttavia vi è un aspetto essenziale che distingue Orazio da Lucilio: mentre la satira luciliana attaccava i personaggi in vista, ed entrava nel vivo delle questioni politiche del suo tempo, in Orazio mancano attacchi a personaggi eminenti, le persone che cita mettendole in ridicolo sono o illustri sconosciuti o nomi fittizi e i temi trattati non hanno un’attualità diretta, ma sono attinenti ad aspetti generali dell’uomo e della società.(Diverso è il periodo storico e la situazione politica).Orazio definisce la sue satire “sermones”,,discorsi alla buona, con i quali egli vuole mostrare a se stesso e agli altri la via da seguire per fuggire i vizi.
Uno dei concetti fondamentali del pensiero graziano, quello dell’autosufficienza, ottenuta attraverso la rinuncia al piacere superfluo, è riconducibile all’epicureismo. A tale meta si giunge attraverso l’aurea mediocritas, che permette il conseguimento dell’imperturbabilità. Tutto ciò richiama il motivo stoico dall’”apatheia”.Il moralismo oraziano è contrario ad ogni forma esasperata di rigorismo morale e per questo il sapiente è indulgente verso i suoi simili, perché sa di essere anche lui soggetto all’errore.
Accanto all’Orazio satirico abbiamo l’Orazio lirico , l’Orazio delle Odi. Egli scrisse 103 odi in 4 libri , più il Carmen speculare. Col Carmen speculare, composto nel 17, asseconda il programma augusteo di restaurazione del costume familiare e di propaganda demografica.
Con i carmi il classicismo augusteo tocca il vertice di perfezione:limpidezza di dettato, distacco del poeta dalla materia che tratta.Il motivo centrale è rappresentato dal “carpe diem”, pronunciato però con intonazione elegiaca e pessimistica (la vita è breve, godiamola).
Il molteplice contenuto delle Odi si può ridurre, schematizzandolo ai seguenti tipi essenziali:odi civili e politiche, odi religiose e mitologiche, odi che svolgono temi di amore, odi di invito simposiaco, odi gnomiche di meditazione sulla vita e sulla morte e sulla scelta del tipo di esistenza
Scrisse anche epistole in versi: Per questo egli si può considerare il creatore di tale genere, perché la letteratura latina ignorava ancora l’epistola poetica..Sono 23 epistole in 2 libri ,esse si differenziano dalle satire perché sono dirette ad amici assenti, sono più profondamente riflessive.L’originalità delle Epistole consiste nel fatto che sono il primo diario intimo della letteratura mondiale. La tendenza dello spirito latino all’autobiografia interiore, che ha dei precedenti in Catullo’ e molto più superficialmente in Lucilio, proseguirà sulla linea tracciata da Orazio con Seneca e con Agostino, che hanno in comune con lui l’appassionata ricerca di perfezionamento e il riconoscimento della propria debolezza.

PERSIO – Sei satire
Con Persio, allievo dello stoico Anneo Cornuto,la satira assume un carattere spiccatamente filosofico. L’adesione al genere satirico per il giovane poeta, animato da forte tensione morale, alimentata dallo stoicismo, era stata quasi una scelta obbligata: la sua poesia è ispirata da un’esigenza etica e dalla necessità di smascherare e combattere la corruzione e il vizio. Secondo La Penna Persio vuole “defigere”, “revellere”, “radere mores”, ossia rigenerare le coscienze
Nella descrizione delle molteplici forme in cui il vizio, la corruzione si manifestano, Persio ricorre con frequenza ad un particolare campo lessicale, quello del corpo e del sesso. Il vizio, l’abiezione morale, assimilati a malattia fisica era un presupposto della filosofia stoica.
Poche sono in lui le indicazioni sul “recte vivere”, sulle norme cui uniformare l’esistenza, diversamente da Orazio,che non si atteggia a maestro e che insieme all’amico percorre un cammino verso l’obiettivo propostosi. In Persio non c’è più un collaboratore, ma un maestro inflessibile,che enumera dogmaticamente una morale prestabilita, destinata ai miseri ,che sono preda del vizio.

PETRONIO – Satyricon
Il Satyricon è comunemente definito “romanzo”; tale definizione richiede tuttavia qualche precisazione. Nelle letterature classiche non esiste un genere letterario che corrisponda esattamente al romanzo moderno. Caratteristica del “romanzo” antico è quella di raccontare vicende complesse e avventurose disposte di regola lungo l’asse narrativo di un viaggio. Formalmente tuttavia si discosta da essi in quanto alterna alla narrazione prosastica brani in versi.Tale alternanza di prosa e poesia è il tratto distintivo della satira menippea.
La vicenda è narrata in prima persona da un giovane di nome Encolpio, che rievoca le avventure e le peripezie di un viaggio compiuto in compagnia di un bellissimo giovinetto, Gitone, di cui è innamorato.
L’opera di Petronio è sicuramente da collocare nell’ambito della letteratura d’intrattenimento. In essa l’autore ha fatto confluire la sua vastissima cultura, senza proporsi alcun fine morale o moralistico (e qui si rivela una differenza fondamentale rispetto alla satira di Orazio e di Persio), mirando soltanto al divertimento proprio e del pubblico per cui scriveva: un pubblico che possiamo identificare con gli aristocratici romani e forse con Nerone stesso .
Indubbiamente il Satyricon è un capolavoro di comicità: in esso il comico si manifesta in tutte le sue forme, dall’umorismo raffinato e sottile, alla risata aperta, alla battuta oscena. E’ dunque perfettamente naturale che i personaggi e gli ambienti descritti siano quelli dei ceti sociali più bassi. Data la materia quotidiana predomina naturalmente il linguaggio colloquiale,ma esistono notevoli differenze fra il modo di esprimersi del narratore (Encolpio, studente spiantato e scapestrato,ma non privo di cultura e di buon gusto) e dei suoi amici colti (quali il poetastro Eumolpo) e quello di altri personaggi appartenenti ad un livello sociale e culturale inferiore (rappresentati emblematicamente dal liberto Trimalchione e dai suoi commensali).

SALLUSTIO – De coniuratione Catilinae – il Bellum Iugurthinum – le Historiae
Sallustio abbandona la forma annalistica e adotta la forma monografica, analizzando un singolo fatto o un singolo momento storico.Come per Tucidide, il grande storico greco che gli fu di modello nella storiografia politica, la storia per Sallustio ha sempre un valore attuale e il suo studio viene intrapreso per illuminare i problemi del presente. Egli scelse come soggetto delle sue opere quegli episodi o quei periodi della storia che a suo giudizio meglio spiegavano la crisi politica della repubblica romana e la decadenza della classe dirigente. Nella congiura di Catilina egli vede il preludio all’esplosione di lotte più aspre e cruente.
In Catilina presentato come un ambizioso privo do scrupoli egli vede il tipico esponente della corruzione politica e morale dell’aristocrazia sillana.
Dal punto di vista storico si possono riscontrare nel Bellum Catilinarium errori di cronologia, inesattezza di informazione, poca chiarezza nella concatenazione degli eventi. La deformazione sallustiana degli avvenimenti in parte deriva da ragioni artistiche e drammatiche, in parte da ragioni politiche; ad esempio il democratico Sallustio ci tiene a discolpare Cesare dall’accusa di collusione con i congiurati e a distinguere nettamente Catilina dalla linea politica del partito popolare.
Per la sua seconda opera storica, il Bellum Iugurthinum, egli sceglie come soggetto della sua monografia un episodio storico che risale più addietro nel tempo, fra il111 e il 105 a.C., perché gli sembra che in quell’episodio si possano scorgere i segni più evidenti della corruzione della nobiltà dirigente. La guerra giugurtina inoltre era stata l’occasione che aveva consentito al partito democratico, escluso dalla vita politica dopo la sconfitta dei Gracchi, di rialzare la testa e di contrastare con successo per la prima volta la superbia dei nobili.
Approfondendo e ampliando ulteriormente la sua indagine sulle cause e sugli aspetti della crisi della repubblica, dopo il Bellum Iugurthinum Sallustio compose le Historiae ,in cinque libri (solo frammenti) ,che trattavano del periodo dalla morte di Silla (78) al 67a.C. Forse egli voleva giungere fino al 63, ricollegandosi così alla congiura di Catilina, ma la morte troncò il suo lavoro.
E’ lecito affermare che Sallustio è uno dei maggiori storici romani .Pochi sanno penetrare,come lui, nei fenomeni sociali ed economici; egli è pur sempre un moralista come lo sono tutti gli storici latini, ma il suo moralismo non è generico e astratto, illumina il gioco degli interessi di classe e di fazione.

SENECA

Seneca
Notizie biografiche.
2 a.C.: nacque a Cordova, città spagnola di fede pompeiana. Il padre era Seneca detto il Retore che lasciò un’importante raccolta delle esercitazioni retoriche praticate al suo tempo. Venuto a Roma seguì le lezioni dei filosofi stoici Attalo e Sestio e subì l’influenza del pitagorico Sestio.
36 d.C.: tornato a Roma dopo n viaggio in Egitto, intraprese la carriera politica.
41 d.C.: viene esiliato in Corsica e scrisse la “Consolatio” alla madre.
49 d.C.: gli viene affidata l’educazione di Nerone che sale al torno 5 anni più tardi.
59 d.C.: Nerone uccide la madre.
62 d.C.: si ritira a vita privata.
65 d.C.: si trova coinvolto nella congiura senatoria contro Nerone detta Congiura dei Pisoni e quando Nerone gli ordina di suicidarsi obbedisce. Le opere di Seneca furono raccolte in 12 libri intitolati “Dialogi”. Trattano questioni etiche, psicologiche, naturalistico, tragedie e un’opera satirica in morte di Claudio.
Seneca, “Epistulae ad Lucilium”.
Le lettere di Seneca a Lucilio appartengono all’ultima fase della produzione di Seneca. Esse non furono scritte da un filosofo di professione, da un sapiente che avesse trascorso l’esistenza in un sereno isolamento. Sono invece opera di un uomo che aveva conosciuto la brama di potere e il successo. Lucilio, il personaggio cui Seneca scrive le lettere, era un funzionario della Roma neroniana e alle mansioni pubbliche di lui Seneca fa talora riferimento. Fin dalla prima lettera Seneca afferma che intende avviare l’amico al culto della sapienza e la sapienza è per Seneca la filosofia stoica. Il ruolo può ricordare quello svolto da Lucrezio nei confronti di Memmio, ma il tono di Seneca è in genere più dimesso e familiare, come richiesto dal genere prescelto, quello epistolare: la lettera senecana, un linguaggio inlaboratus et facilis. L’ideale stilistico dell’epoca è quello che tende al mirum, a suscitare stupore e ammirazione e, se l’espressione di Seneca è decisamente epigrammatica, non manca nel suo linguaggio la cura per il ritmo del periodo. Antitesi, ripetizioni, interrogazioni, minutissimae sententiae sono gli artifici che arricchiscono la pagina senecana. Seneca ammonisce, richiama, esorta Lucilio. Evita però di adottare il tono del maestro libero da compromessi e debolezze, sottolineando invece come le stesse esortazioni egli rivolga a se stesso. Nelle lettere non mancano scorci sulle consuetudini di Roma imperiale per ribadire il rifiuto, da parte dell’autore, di partecipare all’esistenza dispersiva della società romana. Le letture manifestano in diversi passi l’attenzione di Seneca per il mondo della natura, soprattutto agli eventi più drammatici e misteriosi (sismi, eruzioni, tempeste). Gli accenni alla vita privata dell’autore sono rari: sono occasioni per sviluppare alcuni temi fondamentali della morale stoica: l’accettazione del dolore e della morte, la fiducia in un disegno provvidenziale che guidi il destino di ciascuno. Nelle citazioni storiche affiora la profonda nostalgia di Seneca per l’epoca repubblicana: si veda soprattutto la lettera dedicata alla visita alla villa di Scipione l’Africano, che preferì l’esilio volontario alla contrapposizione nei confronti del senato, con l’esaltazione della modestia del personaggio, emblematizzata nel bagno che Seneca contrappone con scintillante ironia ai bagni raffinati dei nuovi ricchi romani. L’eroe del mondo politico di Seneca è Catone l’Uticense. L’insistenza con cui Seneca ritorna su questo personaggio è quasi un presentimento della sorte che attendeva lo scrittore, destinato anch’egli al suicidio. La morale ascetica stoica è fondata sul distacco dei beni, sul rifiuto delle esigenze dell’ambizione, sull’accettazione del bene e del male come frutto, di un disegno provvidenziale. Seneca affronta spesso questo tema, affermando che egli non ritiene di possedere la perfezione, ma semplicemente di averla individuata e di tendere ad essa. La ricerca della sapientia presuppone la scelta in favore dell’otium: nei trattati filosofici egli aveva collegato le virtù della clemenza, della moderazione, dell’umanità al contesto sociale in cui esse venivano praticate. Nelle lettere a Lucilio invece l’ideale di virtus è collegato all’otium, è cioè squisitamente individuale: permette di coltivare una dignità e serenità di vita che sarebbero continuamente minacciate e contaminate nella vita pubblica. Nella lettera 73 Seneca ribatte l’accusa secondo cui il sapiente stoico sarebbe un suddito irrispettoso e un cittadino infido alla pubblica autorità. La risposta di Seneca: il sapiente stoico non chiede altro al sovrano che il bene comune e la sicurezza pubblica, grazie alle quali può dedicarsi al proprio fecondo otium. La celebre pagina in cui Seneca riconosce agli schiavi la dignità di persona nasce appunto dal fatto che l’individuo, la libertà e la serenità dell’animo umano, sono gli unici valori che Seneca ormai riconosce. La grandezza di Dio risplende pienamente solo nel mistero dell’animo grande. L’anima che trascende le sue passioni, domina l’avversa fortuna, è in pace con se stessa e con gli altri, non può essere mortale perché non ha in sé la fragilità dell’essere mortale. Dio è nella natura, nell’anima grande, ma anche nella storia, in tutto ciò che avviene. Se da un lato la meditazione di Seneca è il vertice della meditazione filosofica del mondo romano, dall’altra la sua morale risulta fondata sulla negazione delle pulsioni ineliminabili e fondamentali della natura umana: l’ambizione, l’amore, le illusioni giovanili.

Brani tratti dalle “Epistulae ad Lucilium”.
-L’esistenza e il tempo (I).
È un inviti pressante dell’autore a Lucilio perché si decida a dedicare il tempo alla conquista della sapienza invece di perderlo in vane occupazioni.

-La presenza di Dio (41).
Seneca si occupa principalmente della presenza di Dio in noi e nella natura: la ricerca di Dio è uno dei temi più costanti del pensiero di Seneca. Questa lettera è pregevole anche per un consistente vigore letterario; l’autore ci permette di apprezzare il senso di religioso timore che talvolta ci coglie quando paesaggi naturali o fenomeni fisici ci ispirano quello che potremmo chiamare “senso del luminoso”, ovvero la sensazione della presenza di un nume. Fenomeni speleologici o boschi secolari, dove l’intrico dei rami a grande altezza toglie all’improvviso al viandante la vista del cielo, e il buio improvviso e il freddo che ci coglie, anche nelle giornate estive, incutono nel viandante un senso di timore non diverso da quello che proviamo per le eclissi di sole nel cuore della giornata. Il Dio di Seneca non appare qui trascendente e gelidamente superiore al mondo degli uomini. Vi è chi vive tra noi senza confondersi con le nostre debolezze, senza soffrire per desideri inappagati, qualcuno che è presente sulla terra solo nella misura in cui percorre la terra un raggio di sole: rimanendo cioè nella sostanza, nella maggior parte di sé legato all’astro che lo produce. Questo uomo è il sapiente stoico, che reca in sé più ampia orma del Dio e quindi suggerisce a chi gli sta intorno quel “senso luminoso” che non è diverso da quello che ci ispirano i boschi o le orride spelonche. Altre similitudini completano questa lettera e ci portano nel mondo affollato e colorato del circo o sulle balze delle colline ricche di vigneti. Se in tutto ciò sappiamo cogliere ciò che è veramente essenziale (velocità nel cavallo, ferocia nel leone…), dovremmo saper cogliere anche ciò che è essenziale nell’uomo, che non può essergli dato o tolto dal fato. L’uomo è un essere vivente dotato di ragione, il suo comando è uno solo: vivere secondo natura.

VIRGILIO- nacque ad Andes ,presso Mantova, nel 70 a.C., da famiglia agiata di proprietari terrieri.La sua estrazione sociale e il paesaggio georgico nostalgicamente impresso nella memoria concorrono a spiegare la sua idealizzazione della figura del contadino, il suo attaccamento alla tradizione e ai volori morali e religiosi.
Dopo aver studiato grammatica e retorica a Cremona, a Milano, venne a Roma. Dopo lo scoppio della guerra civile fra Cesare e Pompeo,nel 49 lasciò Roma e si recò a Napoli alla scuola del filosofo epicureo Sirone, frequentata da altri illustri spiriti del tempo. L’epicureismo era la filosofia più seguita in quel tempo, poiché prometteva la serenità interiore e un porto sicuro agli animi disgustati dagli avvenimenti esterni. Terminata l’Eneide, se la morte non l’avesse colto prematuramente,si sarebbe dedicato interamente agli studi di filosofia.
La prima grande opera di Virgilio furono le Bucoliche,scritte tra il 42 e il 39. Sono carmi in forma di dialogo ed hanno per protagonisti pastori. Si riallacciano al genere greco dell’idillio, di cui era stato iniziatore il poeta siciliano Teocrito del III sec.a.C. tale genere bucolicoo costituiva una novità,rispondeva a quell’ideale di vita semplice e agreste, a quel desiderio di pace e di isolamento che l’epicureismo andava predicando e che si faceva tanto più vivo quanto più infuriavano le guerre civili.
La I e la IX hanno un fondo autobiografico: nella I il poeta, sotto il nome di Ritiro, ringrazia Ottaviano per aver potuto salvare dalle confische le sue terre; nella IX, sotto il nome di Menalca, si lagna per aver perduto il suo podere. La IV annuncia la nascita di un fanciullo che riporterà sulla terra l’età dell’oro.( forse il figlio di Asinio Pollione o il figlio nascituro di Augusto) . In epoca successiva si volle vedere una profezia del Redentore.
Il poeta siciliano nel trattare la natura e il mondo pastorale è più realistico e oggettivo;anche nel narrare le vicende sentimentali dei pastori mantiene un certo distacco ironico, che impedisce di giungere ad una vera drammaticità. In Virgilio le pene dei personaggi sono rappresentate con un “pathos”intensamente malinconico e con viva partecipazione sentimentale dell’autore.
Il dolore e la violenza della storia penetrano nel mondo bucolico.
Georgiche,poema didascalico in 4 libri,scritto dal 37 al 30 .In esso Virgilio celebra il lavoro dei campi e la natura . E’ probabile che il proposito di Virgilio collimasse con alcune linee ideologiche del programma augusteo .Il I libro tratta della coltivazione dei cereali , delle stagioni e dei segni del cielo di cui l’agricoltore deve tener conto; il II della coltura degli alberi e della vite; il II dell’allevamento del bestiame; il IV dell’apicoltura. Le Georgiche hanno per modello “Le opere e i giorni di Esiodo.
Dopo la vittoria di Azio del 31 a.C. Augusto aveva assunto da solo le redini dell’impero e tutto il mondo mediterraneo godeva i benefici della pace romana. L’idea della missione civile universale di Roma viene apertamente proclamata da Augusto e diffusa dai poeti del circolo di Mecenate. Virgilio concepì la composizione di un poema epico che celebrasse la gloria di Augusto e della sua casata. Da proemio del II libro delle Georgiche si deduce che in un primo tempo Virgilio intendeva scrivere un poema epico-storico sulle gesta di Augusto, però successivamente si volse a trattare le leggendarie vicende di Enea , a cui la casa Giulia faceva risalire le sue origini. La grandezza presente di Roma nell’Eneide viene introdotta di scorcio, per via di digressioni e di profezie (lo sudo di Enea, la profezia di Anchise nei Campi Elisi).
Virgilio vi lavorò a lungo , fra ul 29 e il 19 ,anno in cui morì a Brindisi di ritorno dalla Grecia.
Prima di morire ordinò agli amici Vario e Tucca di bruciare l’opera, riconoscendolo imperfette, ma Augusto si oppose.
Virgilio si proponeva con l’Eneide di dare alla letteratura romana, un poema degno di rivaleggiare con i poemi omerici.L’imitazione omerica è evidente in primo luogo nella struttura del poema: i primi6 libri, con le peregrinazioni di Enea, si richiamano all’Odissea; la seconda parte dell’Eneide , con la guerra fra Latini e Troiani, per molti aspetti si rifà all’Iliade. Oltre che al Omero, Virgilio, si riallaccia alla tradizione dell’epica latina, in particolare a Nevio, per il legame tra mito e storia nazionale e per l’intento patriottico. D’altra parte non mancano influenze della letteratura alessandrina, alla quale si rifacevano anche i poeti “novi” e quindi Catullo: l’episodio di Didone è influenzato da quello di Medea abbandonata delle “Argonautiche” di Apollonio Rodio.
Le virtù celebrate nell’Eneide non sono le virtù guerriere, ma la pietà religiosa, la dedizione al dovere, la tenacia e la sopportazione, lo spirito di sacrificio, la semplicità dei costumi, l’umanità verso i deboli e i vinti.Sono le virtù tradizionali romane, elevate e arricchite dagli apporti del pensiero filosofico .Portatore di questi valori morali e religiosi è Enea, a cui spesso è stato mosso il rimprovero di non essere personaggio epico, di mancare di carattere e di volontà, di nomn sapere agire, ma soltanto subire passivamente gli ordini divini.
Anche nell’Eneide, come nelle Bucoliche e nelle Georgiche, il poeta si sofferma a contemplare e a considerare la sorte degli uomini che soffrono senza colpa e senza ragione apparente;anche nell’Eneide spesso il mondo appare dominato da un destino misterioso ed ingiusto che stronca gli innocenti e crudelmente calpesta le speranze e gli affetti più dolci.Ma nell’Eneide il problema delle ragioni del dolore e delle sofferenze, delle guerre e delle ingiustizie della sorte viene indirizzato verso una soluzione religiosa e provvidenziale: la distruzione di Troia, le peregrinazioni degli esuli, i lutti e le guerre sono necessari perché un giorno dalle sofferenze scaturisca la pace che l’impero romano, nato dalla discendenza di Enea, assicurerà al mondo intero.

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