Materie: | Appunti |
Categoria: | Latino |
Voto: | 2 (2) |
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Data: | 07.03.2001 |
Numero di pagine: | 24 |
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Testo
LIBRO DECIMO
81
1 Ti lamenti di esserti imbattuto in un ingrato: se questa è la prima volta, ringrazia la fortuna oppure la tua prudenza. Ma in questo caso la prudenza non può fare niente, se non renderti gretto; difatti, se non vorrai correre il pericolo dell'ingratitudine, non dovrai più fare benefici; così, perché non vadano perduti per colpa d'altri, andranno perduti per te. È meglio non ricevere gratitudine piuttosto che non fare del bene; anche dopo un cattivo raccolto bisogna seminare. Spesso la produzione abbondante di un solo anno compensa le perdite dovute alla persistente sterilità di un terreno infecondo. 2 Vale la pena sperimentare anche l'ingratitudine pur di trovare una persona grata. Nessuno può elargire benefici con tanta avvedutezza da non ingannarsi di frequente: cadano pure nel vuoto, purché qualche volta non vadano perduti. I marinai riprendono il mare anche dopo un naufragio; se un debitore fallisce, non per questo l'usuraio abbandona i suoi affari. La vita si intorpidirebbe ben presto in un ozio inerte se dovessimo lasciare da parte tutto quello che non ha fortuna. Proprio questa delusione deve renderti più generoso; anche se la riuscita di un'azione è incerta, bisogna fare diversi tentativi perché prima o poi vada a segno.
3 Ma di questo argomento ho parlato abbastanza nel mio libro I benefici: mi sembra, invece, vada approfondito un problema che, secondo me, non è stato sviluppato a sufficienza: cioè, se il nostro benefattore in un secondo momento ci fa del male, siamo pari e liberi da ogni debito di riconoscenza? Aggiungi, se vuoi, anche questa evenienza: mi ha fatto più male poi di quanto mi avesse giovato prima. 4 Vuoi la giusta sentenza di un magistrato severo? Giudicherà che le azioni si compensano l'una con l'altra e sentenzierà: "Sebbene le offese siano preponderanti, tuttavia la parte di male in eccesso sia condonata in nome dei beneficî arrecati." Il male è stato maggiore, ma il beneficio è precedente; perciò anche il tempo deve avere il suo peso. 5 Ci sono poi dei fattori troppo evidenti perché debba ricordarteli: bisogna vedere se il bene è stato fatto volentieri, e il male invece contro la propria volontà, poiché sia i benefici che le offese hanno un valore a seconda dello spirito con cui si fanno. "Non avrei voluto concedere quel favore; mi sono lasciato vincere o dal rispetto, o dall'insistenza di chi me lo chiedeva o da una qualche speranza." 6 Ogni favore bisogna ricambiarlo con lo stesso spirito con cui è fatto, senza considerarne l'entità, ma la volontà che lo ha originato. Lasciamo ora da parte le ipotesi: quello è stato il favore e questa è l'offesa, che ha superato l'entità del favore. L'individuo virtuoso nel fare i calcoli si imbroglia da sé: aumenta il valore del beneficio, diminuisce quello dell'offesa. Un altro giudice più indulgente - e questo vorrei essere io - ci imporrà di dimenticare l'offesa e di ricordare il beneficio. 7 "Ma," ribatti, "è più giusto ricambiare ciascuno come si merita, il benefattore con la riconoscenza, chi ci ha offeso con la legge del taglione o almeno con il rancore." Questo sarà vero se chi ci ha fatto del male e chi ci ha beneficato non sono la stessa persona; in caso contrario il beneficio annulla il male. Se era giusto perdonare a chi ci fa del male, anche se non c'erano meriti precedenti, gli si deve più che il perdono se ci danneggia dopo che ci ha fatto del bene. 8 Per me beneficio e offesa non hanno il medesimo valore: valuto di più l'uno che l'altra. Non tutti sanno dimostrarsi grati: anche un uomo qualsiasi, sciocco e rozzo, può sentirsi obbligato, soprattutto se il favore l'ha ricevuto da poco; ignora, però in che misura deve esserlo. Solo il saggio sa quanto e che cosa bisogna valutare. Lo sciocco di cui parlavo ora, anche se ha buona volontà, ricambia in misura minore al dovuto, oppure non ricambia a luogo e tempo debito; così spreca e getta via la sua riconoscenza.
9 Per certi soggetti esistono vocaboli straordinariamente appropriati, e un'antica consuetudine linguistica designa taluni concetti con termini efficacissimi volti a indicare i doveri. Noi almeno diciamo abitualmente: "Gli ha ricambiato il favore." Ricambiare significa dare di propria iniziativa quanto è dovuto. Non diciamo: "Ha restituito il favore", perché restituiscono anche quelle persone che lo fanno su richiesta o contro voglia o quando pare a loro o per mezzo di un altro. Non diciamo: "Ha reso il favore" o "Ha pagato il suo debito": non ci piacciono le parole che si adoperano per i debiti. 10 Ricambiare è restituire il favore a chi te l'ha fatto. Questa parola indica un rapporto spontaneo: chi ha ricambiato, ha fatto appello a se stesso. Il saggio esaminerà fra sé tutto quanto ha ricevuto, da chi, il motivo, il momento, il luogo e la maniera. Perciò sosteniamo che solo il saggio sa ricambiare il favore, come è il solo che lo sa fare; egli certo gode a farlo più di quanto un altro goda a riceverlo. 11 Qualcuno classifica questo concetto tra quelli che noi sosteniamo contro l'opinione comune (i Greci li chiamano $ðáñÜäïîá$) e dice: "Nessuno, dunque, se non il saggio, sa ricambiare un favore? Nessun altro sa restituire il suo debito al creditore o, quando compra qualcosa, sa pagare il prezzo a chi vende?" Perché non mi si guardi male, sappi che Epicuro dice la stessa cosa. Metrodoro almeno sostiene che solo il saggio sa ricambiare un favore. 12 Lo stesso avversario si stupisce, poi, quando affermiamo: "Solo il saggio sa amare, solo il saggio è un vero amico." Ma la riconoscenza è parte integrante sia dell'amore che dell'amicizia, anzi è più comune e più diffusa della vera amicizia. Sempre lo stesso si stupisce, inoltre, perché diciamo che solo il saggio è leale, come se egli non dicesse poi la stessa cosa. Oppure, secondo te, può essere leale un uomo che non sa essere riconoscente? 13 La finiscano allora di accusarci come se affermassimo cose incredibili e sappiano che il saggio possiede l'onestà vera e propria, mentre la massa possiede solo immagini e parvenze di onestà. Nessuno, se non il saggio, sa essere riconoscente. Anche lo sciocco mostri la sua gratitudine, come sa e come può; gli manchi la scienza piuttosto che la volontà: la volontà non si impara. 14 Il saggio metterà a confronto ogni elemento: anche se è la stessa, un'azione può avere più o meno valore a seconda del momento, del luogo, delle cause. Spesso la ricchezza piovuta su una casa non ha avuto lo stesso effetto di mille denari dati al momento opportuno. C'è una grande differenza tra fare un regalo e dare un aiuto, tra salvare una persona con la propria liberalità, oppure dargli il superfluo; spesso quello che si dà è poco, ma produce molto. Che differenza pensi che ci sia se uno dà del proprio o ha ricevuto da altri per dare?
15 Ma per non ritornare sullo stesso argomento che abbiamo trattato a sufficienza, in questo confronto tra beneficio e offesa, il saggio giudicherà nel modo più equo, ma attribuirà più valore al beneficio e propenderà per esso. 16 In faccende del genere moltissimo dipende dal carattere di una persona: "Hai beneficato un mio schiavo, ma hai offeso mio padre; hai salvato mio figlio, ma mi hai tolto il padre." Proseguirà poi facendo tutti i debiti confronti e, se la differenza è minima, la ignorerà; ma, anche se è considerevole, e può però essere tralasciata mantenendo salvi lealtà e dovere, cioè, se l'offesa riguarda interamente lui solo, la trascurerà. 17 Il punto principale è questo: sarà generoso nel cambio; accetterà che gli si attribuisca un debito maggiore; sarà restio a ritenere il favore compensato dall'offesa; sarà propenso e incline a desiderare di dover riconoscenza e di ricambiare. È un errore ricevere un favore più volentieri che restituirlo: chi paga un debito è più felice di chi lo contrae; allo stesso modo chi si libera del grosso debito di un beneficio deve essere più contento di chi rimane obbligato. 18 Gli ingrati sbagliano anche in questo: pagano al creditore oltre al capitale anche gli interessi, e ritengono, invece, di poter usufruire gratuitamente dei benefìcî: anche questi crescono, se si tarda, e più si tarda, più bisogna pagare. L'individuo che ricambia un beneficio senza aggiungere gli interessi è un ingrato; bisogna, perciò tener conto anche di questo quando si metteranno a confronto i favori ricevuti e quelli fatti.
19 Dobbiamo fare di tutto per dimostrare la massima gratitudine. Questo è un bene nostro, allo stesso modo che la giustizia non riguarda gli altri, come comunemente si crede: gran parte ricade su se stessa. Ognuno, quando fa del bene a un altro, lo fa a se stesso. E non lo dico perché chi è stato aiutato vuole aiutare, chi è stato difeso vuole proteggere e perché il buon esempio ritorna sulla persona che lo ha dato, (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori, e se uno con le sue azioni ha insegnato che si può offendere, non trova commiserazione quando viene a sua volta offeso); ma lo dico perché ogni virtù trova in se stessa la sua ricompensa. Non la si esercita in vista di un premio: il guadagno di un'azione virtuosa consiste nell'averla compiuta. 20 Dimostro gratitudine non perché un altro spronato dal mio precedente esempio mi aiuti più volentieri, ma per compiere un'azione dolcissima e bellissima; sono grato non perché mi conviene, ma perché mi piace. Per renderti conto che le cose stanno così, sappi che se potrò dimostrare la mia gratitudine solo sembrando ingrato, se potrò ricambiare un favore solo sotto l'apparenza di un'offesa, con la massima tranquillità realizzerò questo giusto proposito anche a prezzo dell'onore. Nessuno, secondo me, tiene in maggior conto la virtù, nessuno le è più devoto di chi rovina la propria reputazione di uomo onesto per non tradire la propria coscienza. 21 Perciò come ho già detto, il dimostrare gratitudine è un bene maggiore per te che per il tuo prossimo; a lui càpita un fatto comune, di tutti i giorni, riavere quello che ha dato, a te un fatto importante, generato da uno stato d'animo di intensa felicità, aver dimostrato gratitudine. Se la malvagità rende infelici e la virtù felici, e l'essere riconoscenti è una virtù, hai dato una cosa comune e ne hai ottenuta una di valore inestimabile, la coscienza della gratitudine, che nasce solo in un animo straordinario e fortunato.
Chi nutre sentimenti contrari a questi è oppresso dalla più profonda infelicità; se uno è ingrato verso gli altri, non è gradito a se stesso. Tu pensi che io dica: l'ingrato sarà infelice? Non lo rinvio al futuro: è infelice subito. 22 Evitiamo perciò l'ingratitudine, non per gli altri, ma per noi stessi. La parte di malvagità che ricade sugli altri è minima e leggerissima: quella peggiore e, per così dire, più gravosa, rimane e opprime il malvagio; il nostro Attalo spesso diceva: "La malvagità stessa beve la maggior parte del proprio veleno." Quel veleno letale per gli altri, ma innocuo a loro stessi che i serpenti emettono non assomiglia a questo: questo è deleterio anche per chi lo possiede. 23 L'ingrato si tormenta e si macera, odia il favore ricevuto perché dovrà ricambiarlo e lo sminuisce, mentre gonfia ed esagera le offese. Chi è più infelice dell'uomo che dimentica i benefici e ricorda i torti? Il saggio, invece, esalta la bellezza di ogni beneficio, lo magnifica e si compiace di richiamarlo sempre alla memoria. 24 Unico e di breve durata è il piacere dei malvagi: il momento in cui ricevono un favore; al saggio, invece, rimane una gioia lunga e duratura. Per lui è un piacere non il ricevere, ma l'aver ricevuto, e questo piacere è perenne e continuo. Non si cura dei torti subìti, li dimentica e non per trascuratezza, ma di proposito. 25 Non interpreta tutto in senso volutamente negativo e nemmeno cerca un capro espiatorio, ma le colpe degli uomini preferisce attribuirle alla sorte. Non interpreta malignamente le parole o l'espressione del volto; minimizza tutto quello che càpita dandone un'interpretazione benevola. Non ricorda le offese più che i favori; se il ricordo precedente è migliore, cerca di conservarlo per quanto può non cambia i suoi sentimenti verso chi gli ha fatto del bene se prima non gli vengono fatti molti torti e se la differenza non è manifesta persino a occhi chiusi; ma anche allora, dopo aver subito un'offesa maggiore, cerca di mantenersi quale era prima di ricevere il beneficio. Infatti, quando il beneficio è pari all'offesa, conserva nell'intimo una certa benevolenza. 26 Come a parità di voti il reo viene assolto e, se c'è un dubbio, il senso di umanità fa propendere il giudizio a suo favore, così il saggio, quando i meriti sono pari alle colpe, non è più in debito, ma continua a sentirsi in debito e fa come quelle persone che pagano i loro debiti dopo che questi sono stati cancellati.
27 Nessuno poi può mostrarsi grato se non disprezza quelle avversità a causa delle quali il popolino precipita nel terrore: se vuoi dimostrare la tua riconoscenza, devi essere pronto ad andare in esilio, a versare il tuo sangue, ad accollarti la miseria, spesso a macchiare la tua stessa onestà e ad esporti a immeritate calunnie. La gratitudine costa molto. 28 Noi, quando chiediamo un favore, lo valutiamo moltissimo, quando poi lo abbiamo ottenuto, lo disprezziamo. Vuoi sapere che cosa ci fa dimenticare i benefici ricevuti? La smania di quelli che dobbiamo ricevere; non pensiamo a quanto abbiamo ottenuto, ma a quanto dobbiamo chiedere. Ci distolgono dalla retta via la ricchezza, gli onori, il potere e gli altri beni che riteniamo preziosi e che invece valgono poco. 29 Non sappiamo valutare cose che vanno giudicate non in base all'opinione comune, ma in base alla natura. In esse non c'è niente di magnifico che possa attirarci tranne la nostra abitudine ad ammirarle. Non vengono apprezzate perché sono desiderabili, ma vengono desiderate perché sono apprezzate, e quando l'errore di singoli individui ha causato un errore comune, questo a sua volta causa l'errore dei singoli. 30 Ma come abbiamo creduto in quei beni, così dobbiamo credere all'opinione comune anche in questo: non c'è niente di più bello della gratitudine; tutte le città, tutti i popoli, anche quelli barbari, lo proclameranno; su questo buoni e cattivi saranno d'accordo. 31 Ci sarà chi loda i piaceri e chi preferisce la fatica; chi dice che il dolore è il male più grave e chi, invece, non lo chiamerà neppure un male; qualcuno giudicherà la ricchezza il bene supremo, qualche altro dirà che è stata inventata per la rovina dell'umanità, che l'uomo più ricco è quello a cui la fortuna non trova niente da dare: in tanta diversità di pareri tutti affermeranno, come si dice, all'unisono, che bisogna essere grati con i propri benefattori. La massa tanto discorde concorderà su questo punto; e invece noi a volte ricambiamo benefici con offese, e la causa principale dell'ingratitudine è il non aver potuto mostrare abbastanza gratitudine. 32 La pazzia umana è arrivata al punto che fare grandi favori a qualcuno diventa pericolosissimo: costui, infatti, poiché ritiene vergognoso non ricambiare, vorrebbe togliere di mezzo il suo creditore. Tieniti pure quello che hai ricevuto: non lo voglio indietro, non lo reclamo, desidero solo che il mio gesto non mi sia fatale. Non c'è odio più funesto di quello che nasce dalla vergogna di aver tradito un beneficio. Stammi bene.
82
1 Ormai non mi preoccupo più per te. "Quale dio," chiedi, "hai accettato come garante?" Naturalmente quello che non inganna nessuno: un'anima che ama la giustizia e il bene. La parte migliore di te è al sicuro. La fortuna può farti del male: ma, e questo è l'importante, non temo che tu possa farne a te stesso. Continua per la strada che hai intrapreso e disponiti a questo sistema di vita tranquillo, non molle. 2 Preferisco vivere male che con mollezza - intendi "male" nel senso più comune del termine: duramente, con difficoltà, con fatica. Tante volte sentiamo che la vita di certa gente viene apprezzata ed è oggetto di invidia: "Vive nella mollezza"' ma questo significa: "È un uomo molle." Lo spirito a poco a poco si illanguidisce e si snerva a somiglianza dell'ozio e della pigrizia in cui giace. E allora? Non è preferibile per un vero uomo abituarsi addirittura alle durezze della vita? *** e poi quella gente effeminata teme la morte a cui ha reso simile la propria vita. C'è una grande differenza tra l'ozio e il sepolcro. 3 "E come?" chiedi. "Non è preferibile giacere nell'ozio piuttosto che essere trascinati nel vortice degli impegni?" Attivismo esasperato e inerzia sono entrambi detestabili. Per me chi giace tra i profumi è morto come chi è trascinato con l'uncino; l'ozio senza gli studî è morire, essere dei sepolti vivi. 4 E poi, a che serve appartarsi? Come se i motivi di preoccupazione non ci seguissero anche al di là del mare. C'è forse un nascondiglio in cui non entri la paura della morte? Un luogo tanto difeso e fuori mano dove si possa vivere tranquilli senza temere il dolore? Dovunque ti nasconderai, i mali dell'uomo ti circonderanno col loro strepito. Molti sono fuori di noi e ci stanno intorno per ingannarci o tormentarci, molti dentro di noi e ci ribollono dentro anche nella più completa solitudine. 5 Dobbiamo fare della filosofia una fortificazione, un muro inespugnabile, che la fortuna non possa superare anche attaccandolo con uno spiegamento di macchinari bellici. L'anima che ha trascurato tutto quello che è al di fuori di sé, occupa una posizione inaccessibile e si difende nella sua rocca; nessun colpo arriva fino a lei. La fortuna non ha le mani lunghe come pensiamo: agguanta solo chi le si aggrappa. 6 E allora, allontaniamocene il più possibile; solo la conoscenza di noi stessi e della natura, però può assicurarcelo. Ognuno sappia dove è diretto e da dove proviene, che cosa è per lui il bene e che cosa è il male, che cosa desiderare e che cosa evitare, in base a quale norma può distinguere quello che deve ricercare oppure fuggire, come possa placare la follia delle passioni, reprimere la violenza delle paure. 7 Qualcuno pensa di aver represso questi sentimenti anche senza la filosofia; ma quando qualche disgrazia lo mette inaspettatamente alla prova, riconosce, ormai tardi, la sua colpa; le belle parole vengono meno quando il carnefice gli afferra le mani, quando la morte si avvicina. Potresti dirgli: "Sfidavi a cuor leggero i mali quando erano lontani: ecco ora il dolore che definivi sopportabile; ecco la morte contro la quale pronunciavi tante parole coraggiose; sibila la sferza; scintilla la spada:
ora ci vuole coraggio, Enea, ora animo saldo."
8 Solo una preparazione assidua potrà rendere forte il tuo animo, ma dovrai esercitare lo spirito, non le parole, dovrai prepararti ad affrontare la morte; contro di essa non potranno spronarti o rinfrancarti quegli individui che con cavilli tenteranno di convincerti che la morte non è un male. Mi piace ridermela, mio ottimo Lucilio, di certe sciocchezze greche che, con mio stupore, non mi sono ancora levato di mente. 9 Il nostro Zenone si serve di questo sillogismo: "Nessun male può essere motivo di gloria; la morte è motivo di gloria; la morte non è un male." Ci sei riuscito! Mi sono liberato dalla paura; dopo questo ragionamento non esiterò a porgere il collo al boia. Non vuoi parlare con più serietà senza far ridere anche chi è in punto di morte? Perbacco non saprei dirti se è più sciocco chi ha ritenuto di eliminare la paura della morte con questo sillogismo, o chi ha cercato di dimostrarne l'infondatezza, come se fosse importante. 10 Lo stesso filosofo a questo sillogismo ne ha contrapposto uno contrario, originato dal fatto che noi poniamo la morte tra le cose indifferenti, quelle che i Greci chiamano "$PäéÜöïñá$". Dice: "Una cosa indifferente non è motivo di gloria: la morte è motivo di gloria; quindi la morte non è indifferente." Vedi in che cosa consiste la capziosità di questo sillogismo: motivo di gloria non è la morte, ma il morire da valoroso. E quando dici: una cosa indifferente non è motivo di gloria, sono d'accordo con te nel dire che non c'è niente di glorioso se non in rapporto alle cose indifferenti; per indifferenti, cioè, né beni, né mali, intendo le malattie, il dolore, la povertà, l'esilio, la morte. 11 Nessuna di queste cose è di per sé motivo di gloria e tuttavia non esiste gloria senza di esse. Non si loda la povertà, ma l'uomo che non si piega e non si sottomette alla povertà; non si loda l'esilio, ma l'uomo che va in esilio mostrando un coraggio maggiore che se fosse stato lui a mandare un altro; non si loda il dolore, ma l'uomo che non è soggiogato dal dolore; nessuno loda la morte, ma l'uomo cui la morte tolse la vita prima che il coraggio. 12 Tutte queste cose di per sé non dànno né onore, né gloria, ma è la virtù a renderle onorevoli e gloriose se interviene e le governa: esse stanno al centro; quello che importa è se vi mette mano la malvagità o la virtù: la morte, portatrice di gloria per Catone, diventa sùbito motivo di vergogna e di rossore per Bruto. Bruto infatti, in punto di morte, cercando dei pretesti per ritardare l'esecuzione, si appartò per scaricare il ventre; quando lo chiamarono al patibolo e gli fu comandato di porgere il collo, disse: "Lo porgo, e così potessi vivere." Che pazzia è cercare di fuggire quando non si può più tornare indietro! "Lo porgo, e così potessi vivere." Per poco non aggiunse: "Anche sotto Antonio." Che uomo degno di essere lasciato in vita!
13 Ma, come avevo cominciato a dire, vedi che la morte in se stessa non è né un male, né un bene: Catone morì nel modo più nobile, Bruto nel modo più disonorevole. Ogni cosa, anche se non è bella, lo diventa se associata alla virtù. La camera, che noi definiamo luminosa, di notte è completamente buia; è il giorno a darle la luce; la notte gliela toglie: 14 così è per queste cose che noi chiamiamo indifferenti e neutre, ricchezza, forza, bellezza, onori, potere, e di contro la morte, l'esilio, le malattie, i dolori e tutte le altre cose di cui abbiamo più o meno paura: sono o la malvagità o la virtù a farle diventare beni oppure mali. Un blocco di metallo di per sé non è né caldo, né freddo: se lo gettiamo in una fornace, si arroventa, immerso nell'acqua si raffredda. La morte è resa onorevole da quello che è onorevole, cioè dalla virtù e da un'anima che disprezza le cose al di fuori di noi.
15 Anche tra queste cose che definiamo neutre c'è, o Lucilio, una grande differenza. La morte non è indifferente come il fatto di avere un numero di capelli pari o dispari: la morte è tra quelle cose che non sono mali e tuttavia hanno l'apparenza di un male: c'è insito nell'uomo l'amore per se stesso, la volontà di durare e di conservarsi e la ripugnanza del dissolvimento: *** poiché sembra strapparci tanti beni e allontanarci dall'abbondanza di cose cui siamo abituati. Noi avversiamo la morte anche perché questa vita ormai la conosciamo, mentre non sappiamo a che cosa andiamo incontro e abbiamo orrore dell'ignoto. Crediamo poi che la morte ci condurrà nelle tenebre, e noi ne abbiamo una naturale paura. 16 Perciò anche se la morte è cosa indifferente, non è tuttavia tale che si possa trascurare con facilità: lo spirito va rafforzato con un costante esercizio perché ne sopporti la vista e l'avvicinarsi. Bisogna disprezzare la morte più di quanto si è soliti fare; su di essa ci siamo formati molti pregiudizi; parecchi uomini d'ingegno hanno fatto a gara per aumentarne la cattiva fama; hanno descritto una prigione sotterranea e un luogo immerso in una notte eterna, in cui
lo smisurato guardiano dell'Orco giacendo nell'antro cruento sulle ossa corrose, con i suoi eterni latrati atterrisce le pallide ombre.
Anche se ti persuaderai che queste sono favole e che per i defunti non c'è niente da temere nell'aldilà, si insinua un'altra paura: si teme il nulla al pari dell'aldilà. 17 Nonostante questi pregiudizi che ci ha inculcato una secolare credenza, perché morire da forti non dovrebbe essere un gesto apportatore di gloria tra i maggiori dell'animo umano? L'animo non si innalzerà mai alla virtù, se crederemo che la morte sia un male: ci arriverà solo convincendosi che è una cosa indifferente. L'uomo per natura non può affrontare con coraggio quello che giudica un male: lo farà svogliatamente e con esitazione. Ma non può essere motivo di gloria un gesto compiuto contro voglia e tergiversando; la spinta della virtù non è la necessità. 18 Inoltre, nessuna azione è onorevole se non quella a cui l'animo si è applicato e ha preso parte attiva con tutto se stesso. Quando però ci si accosta a un male o per paura di mali peggiori o per la speranza di beni che vale la pena raggiungere a costo di sopportare un solo male, chi agisce non sa che decisione prendere: da una parte c'è l'impulso di attuare i propri propositi, dall'altra vorrebbe ritirarsi e fuggire da una cosa sospetta e pericolosa; quindi è lacerato da pareri opposti. In questo caso la gloria viene meno: la virtù, infatti, attua le decisioni prese con serenità, quello che fa, non lo teme.
Non cedere ai mali, ma affrontali più fiero
per la via che ti consentirà la fortuna.
19 Se giudicherai che sono mali, non li affronterai con fierezza. Cancella dall'intimo questa convinzione, altrimenti il sospetto, che è causa di indugio, arresterà il nostro slancio; si finisce per essere trascinati in quella situazione sulla quale ci si doveva gettare con entusiasmo.
Gli Stoici vorrebbero che fosse preso per buono il sillogismo di Zenone, e giudicato ingannevole e falso quello che gli viene opposto. Io non riduco l'argomento a formule dialettiche, a intrichi artificiosi e oziosi: penso che tutti questi tipi di argomentazione debbano essere tolti di mezzo: chi è interrogato si sente irretito e quando arriva il momento di esprimere il proprio parere dice una cosa e ne pensa un'altra. Per difendere la verità ci vuole più schiettezza, e più coraggio per combattere la paura. 20 Io preferirei sciogliere e spiegare i nodi che essi intrecciano, per persuadere, non per ingannare. Al momento di condurre l'esercito sul campo di battaglia ad affrontare la morte in difesa delle spose e dei figli, come gli farai coraggio? Prendi i Fabî che hanno addossato a una sola famiglia tutta una guerra di stato. E gli Spartani appostati al passo delle Termopili: non sperano nella vittoria e nemmeno nel ritorno; quel luogo sarà il loro sepolcro. 21 Come li esorterai a sostenere, facendo scudo coi loro corpi, l'impeto di tutto un popolo e lasciare la vita piuttosto che il loro posto? Dirai loro: "Il male non è motivo di gloria; la morte è motivo di gloria; dunque la morte non è un male"? Che discorso efficace! Dopo averlo ascoltato chi esiterebbe a lanciarsi contro le spade nemiche e a morire sul posto? Ma che parole coraggiose rivolse loro Leonida! "Compagni," disse, "pranzate sapendo che cenerete agli inferi!" Il cibo non crebbe loro in bocca, non si fermò in gola, non cadde dalle mani: allegri accettarono tanto l'invito a pranzo quanto quello a cena. 22 E allora? Un famoso condottiero romano, che mandava i suoi soldati a occupare una posizione e ad affrontare ingenti forze nemiche, parlò così: "Soldati, è necessario andare là, ma non è necessario fare ritorno." Vedi come è semplice e potente la virtù: i vostri sofismi non possono rendere nessuno più forte, nessuno più coraggioso. Fiaccano lo spirito che, invece, non deve essere limitato e costretto in questioni capziose e di poco conto, soprattutto quando si prepara a un'azione importante. 23 Non a trecento soldati, ma a tutti gli uomini bisogna togliere la paura della morte. Come insegnerai loro che non è un male? Come vincerai le convinzioni di sempre che ci vengono inculcate fin dall'infanzia? Quale aiuto troverai per la debolezza umana? Cosa dirai perché infiammati affrontino il pericolo? Con quali parole allontanerai questa paura comune, con quali forze d'ingegno scaccerai questa radicata opinione dell'umanità in contrasto con il tuo pensiero? Mi metterai insieme discorsi capziosi per trarne conclusioni assurde? Ci vogliono grandi armi per uccidere grandi mostri. 24 In Africa i soldati cercarono invano di colpire con frecce e fionde quel terribile serpente che atterriva le legioni romane più della stessa guerra: neppure Apollo avrebbe potuto ferirlo. Il suo corpo di smisurate dimensioni era massiccio, e le lance e tutte le armi scagliate dalle mani degli uomini le respingeva; infine, fu schiacciato sotto enormi macigni. E tu scagli contro la morte armi tanto ridicole? Affronti il leone con una lesina? Quello che dici è sottile: niente è più sottile di una spiga; è la sottigliezza stessa a rendere inutili e inefficaci certe cose. Stammi bene.
83
1 Mi chiedi di descriverti interamente ogni mia giornata: mi stimi molto se pensi che io non abbia niente da nasconderti. Dobbiamo vivere come se fossimo in pubblico e pensare come se qualcuno potesse guardarci dentro: ed è possibile. Che giova nascondere qualcosa agli uomini? Dio vede tutto; è nelle nostre anime e interviene nei nostri pensieri - dico "interviene" come se a volte se ne allontanasse! 2 Farò dunque, come vuoi e ti scriverò volentieri quello che faccio e in che ordine. Rivolgerò immediatamente l'attenzione su me stesso e, cosa utilissima, passerò in rassegna la mia giornata. Nessuno esamina la propria vita ed è questo che ci rende veramente malvagi; noi pensiamo, e di rado, a quello che faremmo, mai a quello che abbiamo fatto; eppure l'ammaestramento per il futuro ci viene dal passato.
3 Oggi è stata una giornata piena, nessuno mi ha fatto perdere nemmeno un attimo; l'ho divisa interamente tra il letto e la lettura; alla ginnastica ho dedicato pochissimo tempo e di questo ringrazio la vecchiaia: non mi costa molto. Appena mi muovo, mi stanco; e anche per i più forti il fine della ginnastica è questo. 4 Vuoi sapere quali siano gli schiavi che mi fanno compagnia durante gli esercizî? Mi basta il solo Fario, un fanciullo, come sai, amabile, ma lo cambierò: ne cerco ormai uno più giovane. Egli dice che noi attraversiamo la stessa crisi: a entrambi cadono i denti. Ma ormai nella corsa gli tengo dietro a stento e tra pochissimi giorni non ce la farò più: vedi a che serve l'esercizio quotidiano. Presto la distanza tra noi due che andiamo in direzioni opposte sarà grande: nello stesso momento lui sale e io scendo, e tu sai quanto la discesa sia più veloce della salita. Ma non ho detto la verità; ormai la mia vita non scende, precipita. 5 Chiedi come è finita la gara di oggi? Siamo arrivati alla pari, cosa rara per dei corridori. Dopo la corsa, che è stata più una fatica che un esercizio, ho fatto il bagno nell'acqua fredda: chiamo così l'acqua non molto calda. Io che amavo tanto tuffarmi nell'acqua gelata, che il primo gennaio salutavo i canali intorno al Circo, che cominciavo il nuovo anno non solo leggendo, scrivendo, conversando un po', ma anche facendo un tuffo nella sorgente chiamata Vergine, ho spostato dapprima le tende al Tevere, poi a questa tinozza scaldata dal sole, quando sono, però particolarmente in forze e va tutto bene: non per molto tempo ancora farò bagni. 6 Quindi il pranzo: pane secco, senza mettersi a tavola: dopo un simile pasto non occorre lavarsi le mani. Dormo pochissimo, tu conosci le mie abitudini: faccio sonni brevissimi e a intervalli; mi basta riposarmi un po'; a volte so di aver dormito, a volte non ne sono sicuro. 7 Ecco, si sentono grida provenire dal Circo; un vociare improvviso e generale mi ferisce le orecchie, ma non mi distoglie dai miei pensieri, e neppure li interrompe. Sopporto il rumore con molta pazienza, il vociare confuso della folla è per me come l'infrangersi delle onde o il vento che sferza gli alberi o altri suoni indistinti.
8 Quali sono i miei pensieri? Eccoli. Ieri ho fatto una riflessione che devo ancora risolvere: a che mirano uomini tra i più saggi dando di problemi veramente importanti dimostrazioni superficialissime e capziose che, se pure sono vere, sembrano false. 9 Quell'uomo straordinario che fu Zenone, fondatore di questa fortissima e venerandissima scuola filosofica, vuole tenerci lontani dall'ubriachezza. Senti come cerca di concludere che l'uomo virtuoso non sarà mai ubriaco. "Nessuno confida a un ubriaco un segreto, lo confida a un uomo onesto, dunque, l'uomo onesto non sarà mai ubriaco." Guarda come questo sillogismo può essere messo in ridicolo da uno simile, ma contrario (basta citarne uno dei molti): "Nessuno confida a un uomo che dorme un segreto, a un uomo onesto lo confida; quindi, l'uomo onesto non dorme." 10 Posidonio cerca di difendere il nostro Zenone nell'unico modo possibile, ma nemmeno così, a mio parere, può essere difeso. Sostiene che "ubriaco" si può usare in due sensi, il primo quando uno è pieno di vino e non è padrone di sé, il secondo se uno è solitamente ubriaco ed è soggetto a questo vizio; Zenone parla non di chi è ubriaco, ma di chi lo è abitualmente; a costui nessuno affiderebbe un segreto perché potrebbe rivelarlo sotto l'effetto del vino. 11 Ma questo è falso; la prima parte del sillogismo si riferisce a chi è ubriaco, non a chi lo sarà. Devi ammettere che c'è una grande differenza tra un ubriaco e un ubriacone: chi è ubriaco può esserlo allora per la prima volta e non avere questo vizio, e l'ubriacone spesso può essere sobrio; la parola ubriaco, perciò io la intendo nel suo senso comune, soprattutto perché viene usata da un uomo notoriamente preciso e solito a pesare le parole. Inoltre, se Zenone ha inteso una cosa e voleva che noi ne intendessimo un'altra, ha cercato di ingannarci usando una parola ambigua, e questo è inammissibile quando si ricerca la verità. 12 Ma ammettiamo pure che l'abbia intesa in questo senso: la seconda parte, però cioè che non si confida un segreto a chi è abitualmente ubriaco è falsa. Pensa a quanti soldati non sempre sobri il comandante, il tribuno o il centurione hanno affidato messaggi segreti. Per l'assassinio di Cesare, parlo di quello che prese il potere dopo aver sconfitto Pompeo, ci si affidò sia a Tillio Cimbro, sia a C. Cassio. Cassio era completamente astemio, Tillio Cimbro era un ubriacone e un attaccabrighe. Su questo fatto scherzava lui stesso: "Io che non posso tollerare il vino," diceva, "come potrei sopportare qualcuno?"
13 Ciascuno di noi potrebbe a questo punto nominare delle persone a cui sa di non poter affidare del vino, ma un segreto sì; io citerò un solo esempio che mi viene in mente e vorrei che fosse ricordato perché non si perda. La nostra vita dobbiamo formarla con esempi celebri, senza ricorrere sempre a quelli antichi. 14 L. Pisone, prefetto di Roma, era sempre ubriaco fin dal giorno in cui fu eletto. Passava la maggior parte della notte banchettando; dormiva quasi fino a mezzogiorno; questa era la sua alba. E tuttavia adempì con grande diligenza ai suoi còmpiti che riguardavano la difesa della città. Anche l'imperatore Augusto gli diede incarichi segreti, quando gli affidò il comando della Tracia, che egli riuscì a domare, e lo stesso fece Tiberio che partì per la Campania, lasciando in città una situazione pericolosa e ostile. 15 Secondo me, poiché Pisone, nonostante la sua ubriachezza, gli aveva reso un buon servizio, in sèguito nominò prefetto della città Cosso, uomo serio, moderato, ma dedito al bere e avvinazzato al punto che una volta, sopraffatto da un sonno profondo, fu portato via di peso dal senato, dove si era recato dopo un banchetto. E tuttavia Tiberio gli scrisse di suo pugno molte cose che giudicava di non poter confidare neppure ai suoi ministri: ma Cosso non si lasciò sfuggire nessun segreto su questioni private o pubbliche.
16 Facciamo, perciò piazza pulita di tutte queste vuotaggini: "Se uno è schiavo dell'ubriachezza non è padrone di sé: il mosto fermentando fa scoppiare anche le botti e la forza del calore rigetta in alto la feccia del fondo, così il vino ribolle dentro di noi e porta fuori, rivelandolo a tutti, ogni più intimo segreto. Chi è gonfio di vino non riesce a trattenere il cibo poiché il vino trabocca, allo stesso modo non trattiene neppure i segreti; mette fuori i suoi e quelli degli altri." 17 Ma nonostante le cose vadano in genere così, accade anche che su questioni importanti ci consigliamo con persone notoriamente dedite al bere; è, dunque, falsa l'affermazione fatta per difendere Zenone che a un ubriacone non si confida un segreto.
Quanto sarebbe meglio accusare apertamente l'ubriachezza e metterne in luce i vizi: anche un uomo normale dovrebbe evitarli, e a maggior ragione l'uomo compiutamente saggio; a lui basta togliersi la sete e anche se a volte è spinto a bere da un'allegria che si protrae non per sua volontà, si ferma prima di ubriacarsi. 18 Vedremo in seguito se il bere eccessivo turba l'animo del saggio e se lo porta ad agire come gli ubriachi: intanto se vuoi arrivare alla conclusione che un uomo onesto non deve ubriacarsi, perché vai avanti a forza di sillogismi? Di' piuttosto come è vergognoso ingoiare più di quanto si può contenere, e non conoscere la capienza del proprio stomaco, quanti spropositi che fanno arrossire le persone sobrie commettono gli ubriachi: l'ubriachezza non è altro che una pazzia volontaria. Il comportamento di un ubriaco prolungalo per diversi giorni: dubiterai che si tratti di pazzia? Anche l'ubriachezza momentanea è la stessa cosa, solo più breve. 19 Fai l'esempio di Alessandro Magno: durante un banchetto trafisse Clito, il suo più caro e fedele amico; quando si rese conto del suo delitto, voleva morire e certo avrebbe dovuto farlo. L'ubriachezza esaspera e mette a nudo tutti i vizi, cancella il pudore che fa da freno ai cattivi impulsi; è la vergogna di fare il male più che la buona volontà a distogliere la maggior parte degli uomini da azioni illecite. 20 Quando l'animo è in preda all'effetto violento del vino, tutta la malvagità nascosta emerge. L'ubriachezza non origina i vizi, ma li mette in luce: è allora che l'uomo libidinoso non aspetta nemmeno di entrare in camera da letto, ma soddisfa subito le sue voglie; che l'impudico rivela apertamente i suoi istinti morbosi; che l'insolente non tiene più a freno la lingua e le mani. Cresce la superbia dell'arrogante, la crudeltà del violento, la malevolenza dell'invidioso; ogni vizio viene fuori ingigantito. 21 C'è, inoltre, uno stato di incoscienza, un modo di esprimersi incerto e confuso, lo sguardo velato, il passo incerto, i giramenti di testa, l'ondeggiare del tetto come se un vortice facesse girare tutta la casa, il mal di stomaco, quando il vino fermenta e gonfia le viscere. E tuttavia è in qualche modo tollerabile, quando manifesta il suo effetto naturale: ma che dire quando il vino è guastato dal sonno e l'ubriachezza diventa indigestione? 22 Pensa quali sventure ha generato l'ubriachezza di un popolo: ha consegnato ai nemici genti fiere e bellicose, ha aperto un varco in mura difese per molti anni con una lotta ostinata, ha assoggettato al dominio straniero popoli superbi e insofferenti di ogni dominazione, grazie al vino ha domato uomini invincibili in guerra. 23 Alessandro, che ho nominato or ora, superò senza pericolo tante marce, tante battaglie, inverni trascorsi vincendo le avverse condizioni climatiche e ambientali, tanti fiumi dalle sorgenti ignote, tanti mari: ma l'intemperanza nel bere e quella fatale coppa di Ercole lo mandarono sotto terra. 24 Che gloria ci può essere nel reggere bene grandi quantità di vino? Quando avrai nelle tue mani la palma della vittoria e i commensali vinti dal sonno, vomitando, rifiuteranno i tuoi inviti a bere, quando sarai l'unico superstite dell'intero banchetto, quando avrai stroncato tutti con questa magnifica prova di valore e nessuno sarà stato in grado di bere tanto vino, sarai vinto da una botte. 25 M. Antonio, grande uomo e di nobile ingegno, che altro lo mandò in rovina e lo trascinò ad abitudini straniere e a vizi sconosciuti ai Romani, se non l'ubriachezza e l'amore per Cleopatra, non meno funesto del vino? Questo lo rese nemico della patria e inferiore ai suoi nemici; questo lo rese crudele: gli venivano portate, mentre cenava, le teste dei notabili della città e riconosceva il volto e le mani dei proscritti sedendo a tavole riccamente imbandite, tra un lusso regale, e gonfio di vino aveva ancora sete di sangue. Era intollerabile che si ubriacasse mentre commetteva queste atrocità: ma quanto più intollerabile ancora che le commettesse mentre era ubriaco! 26 Il vizio del bere porta di solito alla crudeltà; un animo sano viene corrotto e inasprito. Le lunghe malattie rendono gli uomini intrattabili, irritabili e furiosi per ogni più piccola offesa: così un continuo stato di ubriachezza abbrutisce gli animi; poiché gli ubriachi sono spesso fuori di sé, questo stato di demenza diventa costante e i vizi derivanti dal vino perdurano anche senza i suoi effetti.
27 Spiega, allora, perché il saggio non deve ubriacarsi; mostra a fatti, non a parole, l'infamia e la brutalità di questo vizio. Prova, ti sarà facilissimo, che i cosiddetti piaceri, quando passano la misura, diventano sofferenze. Se cercherai di dimostrare con cavilli che il saggio non si ubriaca anche bevendo molto vino e può condurre una vita onesta anche se è un ubriacone, potrai concludere che non morirà se beve un veleno, non dormirà se ingerisce un sonnifero, e non vomiterà quello che ha nello stomaco, se prenderà l'elleboro. Ma se i piedi sono incerti, se la lingua balbetta, come puoi ritenerlo in parte sobrio e in parte ubriaco? Stammi bene.