IL PESSIMISMO DI GIACOMO LEOPARDI

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Testo

IL PESSIMISMO DI GIACOMO LEOPARDI
L’opera da cui emerge chiaro il pensiero del Leopardi è senza dubbio rappresentato dalle “Operette Morali”, in cui il “sistema del pessimismo del poeta recanatese si snoda in modo organico attraverso vari momenti “. I presupposti da cui parte la meditazione del poeta sono alcune affermazioni scettiche, per cui all’uomo non e dato di poter conoscere la verità su quanto lo circonda, mentre la realtà viene intesa come ”pura natura”, in senso strettamente meccanicistico, come, cioè, svolgersi eterno di leggi meccaniche prive di idealità e senza alcuna luce provvidenziale di Dio. Pertanto da tali presupposti il Leopardi fa una semplice constatazione che l’esperienza gli rivela in modo indubbio : l’uomo vivendo è infelice, perché è la vita stessa che reca dentro la sua legge di dolore. Su questa affermazione si svolge il pensiero leopardiano alla ricerca dell’origine di questa infelicità ; in un primo momento il poeta pensa che la causa della nostra vita infelice sia la nostra ragione che vuole a tutti i costi conoscere le leggi meccaniche che regolano la vita dell’universo, squarciando così quel velo di illusione, di immagine in cui la Natura Materna ha avvolto l’uomo per impedirgli di conoscere la “tragica verità”, le leggi dolorose della vita, quindi la storia del genere umano non è altro, per il Leopardi, se non la storia della discoperta progressiva della nostra fatale infelicità. Per questo al giudizio del poeta felici sono stati gli uomini primitivi che hanno sfruttato la loro fantasia per creare una vita fatta di miti, di illusioni, così come fanno in genere i fanciulli ; pertanto la storia del destino umano sta in questa lotta tra la Natura Privvida che vuol nascondere la verità agli uomini e dall’altra la Ragione che ci spinge a conoscere “l’orrido vero”. In tal modo la ragione è si illuminatrice come volevano gli illuministi, ma non dei diritti comuni a tutti gli uomini bensì illuminatrice dell’infelicità umana. E’ dunque questa la ragione del dolore umano, ma il Leopardi approfondisce la sua meditazione e scopre che l’origine della nostra infelicità sta nella contraddizione, che è dentro di noi, tra il desiderio di felicità, che appartiene alla natura umana, e la impossibilità di poterla conseguire proprio a causa di leggi naturali che ne impediscono il conseguimento. Questi due punti fondamentali costituiscono le basi della prima concezione pessimistica del Leopardi da cui derivano l’ironia il sarcasmo Leopardiano contro il facile ottimismo proclamato dagli illuministi e contro l’esaltazione delle sorti dell’umanità proclamata dai filosofi idealisti di quel periodo. Ma il Leopardi non si ferma qui, va avanti nella sua meditazione per cui gli viene spontaneo chiedersi da che cosa derivi la contraddizione che è dentro di noi da cui si genera il dolore e l’infelicità, chi cioè ci faccia nascere con quell’insaziabile desiderio di felicità in un mondo invece che si svolge solo per negarcela e poiché noi siamo elementi della Natura, elementi di puro meccanismo, così come tutte le altre cose della realtà che ci circonda, chi se non la natura, generatrice del mondo di essere di tutte le cose, ci ha creati in questo modo apposta per farci soffrire. A questo punto il poeta si rende conto allora che quella contraddizione, che è dentro di noi e che è all’origine dell’infelicità che ci accompagna per tutto l’arco della nostra vita, è voluto a posta, come un perfido gioco della Natura e pertanto essa si rivela per quello che è : matrigna perfida e feroce. Il pessimismo del Leopardi si allarga a macchia d’olio : non soltanto gli uomini delle epoche più recenti che hanno dissolto con la Ragione l’incanto delle illusione, sono infelici, ma tutti lo sono stati fin dalle origini e l’infelicità colpisce non solo gli uomini ma tutte le creature.
Dice il poeta in un passo dello Zibaldone : “tutto è male. Cioè tutto ciò che è male vive, ciascuna cosa esiste per fin di male, l’esistenza è un male ed è ordinata dal male ; l’ordine, lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo è un male. Non vi è altro bene che il nostro esistere, le cose che non sono buone, l’esistenza per sua natura ed essenza propria e generale è imperfezione, un’irregolarità , una mostruosità”.
La natura muove ogni cosa e crea le sue creature solo per il gusto feroce di vederle soffrire.
Da quanto abbiamo visto la condizione di spirito del Leopardi non può che essere un distacco della vita, un’assoluta incapacità ad aderirvi ; il poeta diventa uno spettatore solitario della vita, che gli appare quindi un vano ed inutile meccanismo che si svolge secondo rigide regole predeterminate, una inutile fatica la prima conseguenza di questa condizione di spirito è la così detta noia della vita assenza cioè di qualsiasi desiderio di bene o di male, infatti l’infelicità del poeta non deriva dal non vedere concretizzare questa o quella idealità o speranza, ma dalla incapacità di concepire una qualsiasi idealità o speranza. Dice infatti il poeta : ”le sventure potranno anche indurre il desiderio della morte o anche far morire, ma quel dolore per l’avversità è esso stesso pieno di vita, e quest’altro dolore che io sento è invece tutta morte ; è quella morte prodotta immediatamente dalle sventure è cosa più viva, là dove quest’altra ( mia morte spirituale ) è più sepolcrale, sensazione, senza movimento, e quasi senza dolore, ma piuttosto un’oppressione smisurata e un accoramento simile a quello che deriva dalla paura degli spettri nella fanciullezza o dal pensiero dell’inferno”.
Una simile concezione pessimistica avrebbe potuto condurre il Leopardi al suicidio o alla pazzia ma il poeta trova invece la forza di trascinarsi lungo il doloroso cammino della vita riuscendo a staccarsi quasi ad obbiettivarsi dal proprio stato d’animo, per ricantarlo o raccontarlo a se stesso e soprattutto trova una sorta di liberazione quando esprime il grande compianto della vita e degli uomini per il loro destino così tanto triste. Da questa concezione pessimistica nascono i grandi temi della poesia del Leopardi, contenuto soprattutto negli “ Idilli ” della prima giovinezza e “I Grandi Idilli “ della maturità. Uno di questi temi riguarda la dottrina per cui il poeta ritiene che ci sia stato un’epoca nella storia dell’uomo, quella primitiva, anteriore all’epoca della Ragione, in cui l’umanità abbia vissuto in modo semplice, ignara della verità tragica, epoca che, quasi per un pietoso prodigio si rinnova in ognuno di noi durante il periodo della fanciullezza, quando esiste ancora una grande forza di immaginazione, quando ci è ancora possibile nutrire speranze per il nostro futuro. E’ questa l’ora delle illusioni che non hanno la funzione di consolarci ( come nel Foscolo ) del dramma della vita, ma che rappresentano solo un momento della vita in cui non si ha conoscenza del vero che è male. Da quanto abbiamo osservato e dall’analisi delle poesie prese in esame possiamo dire che un tema poetico particolarmente significativo è il canto nostalgico dalla giovinezza perduta, intesa come obbligo della vita, è il compianto per il tragico destino che attende ci ancora non sa chi “ cioè non conosce ancora la verità”. E’ questo il momento in cui il Leopardi canta le illusioni della giovinezza come un canto di cose perdute per sempre, un cantare le illusioni con la piena conoscenza che si tratta solo di illusioni un cantare un bene ( la giovinezza ) con la coscienza che essa è perduta per sempre e mai potrà alcuna forza dell’universo farcela a riconquistare, un conto quindi di cose morte . Perciò tali illusioni sono guardate con struggente tenerezza ma insieme con dolente rassegnazione, con il compatimento per coloro che insistono ancora a vivere ignari del loro destino ( tutto ciò lo possiamo riscontrare nella poesia IL PASSERO SOLITARIO ).Il poeta non ha quindi bisogno di grandi soggetti da cantare ma bastano le piccole cose, qualunque momento della vita anche il più semplice, perché riescano a muovere in lui quell’onda di tristezza che tutto avvolge e travolge. Talvolta poi il Leopardi non compiange gli altri ma se stesso per quello che egli era quando viveva nel suo grande errore cioè in una speranzosa visione della vita che gli dava la giovinezza come nella poesia A SILVIA.
IL PESSIMISMO DEL LEOPARDI: ORIGINE E NATURA
Gli elementi che spiegano il sorgere del pessimismo in Leopardi sono:
1. l’esperienza dolorosa della vita
2. l’accettazione delle dottrine illuministiche
3. la lettura di opere preromantiche
Per quanto concerne il primo punto, essa giunge al suo apice nel 1819 in una lettera al Giordani parla di un crescente travaglio fisico e spirituale, di un’orrida malinconia, della fatica dello studio, dell’odio contro la famiglia e Recanati (sentiti come ambienti soffocatori).
Per quanto concerne il secondo punto, bisogna ricordare Leopardi si formò nella sua giovinezza sotto l’influenza delle dottrine illuministiche, che sentì consone alla mente (ragione), ma ostili alle ansie del cuore (sentimento). In altre parole il pessimismo non sarebbe sorto in lui se le conclusioni dell’Illuminismo non si fossero scontrate con un animo romantico: era infatti quell’ultimo che lo induceva a chiedersi i “perché” e i “fini” delle leggi dell’universo, piuttosto che limitarsi a conoscerle.
Una risposta soddisfacente non poteva essere di ordine razionalistico o scientifico ma andava ricercata in una filosofia diversa da quella illuministica. La sua era una posizione che non poteva condurre che al mistero: “l’uomo non è nulla, non sa nulla, non può nulla”. È l’individualismo romantico che soffre per la nullità del suo essere di fronte alla natura onnipresente (l’uomo non è) è l’individualismo romantico che cerca una luce e trova il mistero (l’uomo non sa) è ancora l’individualismo romantico che, chiuso in una morsa di limiti insuperabili, che non può sperare di superarli ne ora ne mai (l’uomo non può sapere nulla).
Ne consegue che la vita appare un cammino faticoso che non ha altro scopo che quello di precipitare nel nulla. Questa legge è valida per tutti gli uomini, per gli animali, per gli astri, per tutto l’universo. La natura fa esistere gli essere soltanto per attuare il suo cieco e misterioso ciclo del nascere, del vivere e del morire. Tra gli esseri il più infelice è l’uomo, perché la sua infelicità è soprattutto coscienza dell’infelicità stessa e non c’è illusione che riesca a far tacere questa verità.
Il pessimismo leopardiano, dunque, può essere definito come la convinzione ferma, costante e assoluta che ogni essere ubbidisce ad una legge di dolore, alla quale è impossibile contrastare.
Gli studiosi parlano di tre fasi del pessimismo leopardiano: dapprima personale, poi storico, in fine cosmico. Si tratta di tre momenti non completamente cronologici, ma ideali del dolore, nel senso che a volte il Leopardi sentì esclusivamente la propria tristezza personale in mezzo ad un mondo di felicità, a volte gli parve che la tristezza fosse di tutti gli uomini, a volte di ogni essere esistente. In sostanza queste sono tre diverse maniere con cui reagisce sentimentalmente, non filosoficamente alle dottrine illuministiche. Nell’ultimo periodo della sua esistenza quando vive a Napoli, Leopardi approda ad una quarta posizione che potremmo definire del pessimismo eroico. Questa nuova posizione sembra testimoniare una reazione “attiva” all’accettazione delle dottrine illuministiche: partendo da un profondo amore di conoscenza, riconoscendo che se l’intelligenza dell’uomo è causa di infelicità è anche principio di libertà, Leopardi giunge alla conclusione che anche se all’uomo è negata la possibilità di raggiungere la felicità, questi deve continuare a desiderarla e ad opporsi al proprio destino pur nella consapevolezza razionale dell’inutilità di tale tentativo. È così che il Leopardi esprime il suo alto concetto di dignità umana, il suo sostanziale amore per la vita, il suo eroismo morale. Per il Leopardi è possibile parlare di felicità solo nei riguardi dei fanciulli e dei giovinetti, prima che in loro insorga la ragione e, a riguardo dei popoli, ha senso parlare di felicità per i popoli antichi che vivevano di fantasia. Ne deriva in Leopardi lo sdegno contro la civiltà perché rappresenta la fine del fantasticare rifiuto di ordine sentimentale.
Per quanto concerne la lettura di opere preromantiche, Leopardi apprende da Vico l’idea dell’antica giovinezza dei popoli, e da Rousseao il dualismo Natura – Ragione.
Seguendo l’insegnamento di Rousseao il poeta considera la Natura benigna, fonte di vita, ispiratrice di poesia, creatrice di sogni, di illusione, di entusiasmi, mentre la Ragione è fonte di miseria, rivelatrice dell’orrido vera dissacratrice dell’entusiasmo, chiarificatrice della morte. Sia la storia dell’umanità sia quella di ogni individuo è reale decadenza dell’inconsapevole infelicità della fanciullezza ad una conclusione di consapevole dolore.
Questa posizione iniziale cambia con le Operette morali (1824), in cui il concetto intorno alla Natura viene sottoposto ad analisi e gradatamente è scoperto l’aspetto ingannevole della sua benignità. La Natura appare a Leopardi nella sua vera essenza di matrigna perché intenta a perseguitare col dolore le sue stesse creature in quanto le crea col desiderio della felicità e al tempo stesso nega loro la possibilità di realizzarla.
Conseguenza diretta di tali meditazioni fu la solitudine del poeta: mancando una fede mancava l’azione, perciò il giovane Leopardi rimane sempre ai margini della vita sociale, pur desiderando vivamente di farne parte.
Il motivo della sua solitudine, appare ne “Il passero solitario” come incapacità di vivere con gli altri, ne “La sera del dì di festa” come esclusione dagli affetti, nel “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia” come solitudine del pastore e dell’umanità tutta, è nell’“Infinito” come realtà fisica che conduce alla religiosa scoperta dell’illimitato.

GIACOMO LEOPARDI (1798 – 1837)
I Canti (1818 – 1836), le Operette Morali (1824 – 1832), lo Zibaldone (1817 – 1832) pubblicato postumo, i Pensieri (1833 – 1837)
LA FORMAZIONE GIOVANILE
Per delineare il pensiero e la poetica dell’autore si rende necessaria un’analisi del processo di formazione ideologica e letteraria del giovane Leopardi, che è antecedente al 1819 e ha il suo periodo più significativo nel triennio 1816 – 1819.
PRIMA DEL 1816
CAMPO LETTERARIO: formazione tipicamente ‘700, prevalentemente esteriore e retorica (forma scritta) con preferenza per l’eleganza e disattenzione alla grande poesia degli antichi e dei moderni. Studio filosofico ed erudito di autori minori (studio di lingue antiche quali latino, greco, ed ebraico).
CAMPO FILOSOFICO: aderisce al pensiero illuministico (razionalismo meccanicista) che cerca, però, di adattare all’educazione religiosa improntatagli dalla famiglia.
CAMPO POLITICO: segue le idee del padre Monaldo (dispotismo illuminato) e afferma che è meglio un’Italia divisa ma pacifica e quieta.
CAMPO RELIGIOSO: segue la tradizione familiare ma soprattutto nelle manifestazioni esteriori.
1816 – 1819
CAMPO LETTERARIO: si verifica la conversione dall’erudito al bello cioè la scoperta dei grandi classici e dei romantici. L’incontro col Romanticismo dà l’avvio al progressivo maturarsi in Leopardi di un nuovo gusto letterario premessa per una poetica originale.
CAMPO FILOSOFICO: si verifica la conversione dal bello al vero: momento in cui Leopardi approda al raccoglimento meditativo e doloroso sul proprio dolore oggetto della sua poesia.
CAMPO POLITICO: nel 1818 con la Canzone all’Italia Leopardi si allontana dalle idee del padre e aderisce agli ideali unitari e indipendentistici dell’Italia (Risorgimento).
CAMPO RELIGIOSO: abbandono della fede cristiana e adesione all’ateismo materialista
LA POETICA DI LEOPARDI
1) Adesione ai postulati negativi della scuola romantica. Fin dall’inizio il Leopardi accoglie i postulati negativi, nel senso che critica anch’egli il concetto di imitazione, rifiuta cioè le regole imposte dai generi letterari codificati.
2) Adesione ai postulati positivi della scuola romantica. Successivamente Leopardi afferma il valore suggestivo e poetico del sentimento, noto anche ai popoli antichi, i quali però lo usavano con sobrietà ottenendo risultati migliori che non le moderne e romantiche ostentazioni sentimentali.
Ben presto Leopardi fa sua la distinzione (teorizzata da altri pensatori romantici) fra poesia di immaginazione e poesia di sentimento: la prima è propria delle civiltà antiche, la seconda di quelle moderne. Vera poesia è quella di immaginazione, nutrita di fantasia, ma non è più ripetibile, al punto che i tentativi moderni diventano imitazione: quindi al poeta non rimane che fare poesia di sentimento facendo prevalere del romanticismo gli aspetti legati all’intimità e all’immediatezza del sentimento.
3) L’originale poetica Leopardiana. Dopo il 1819 il concetto di poesia in Leopardi coincide con L’infinito e le sue “Rimembranze” dove, in particolare il termine infinito coincide con il termine indefinito e di immenso: il remoto, l’oscuro, l’immenso sono di per sé poetici, come il fantasticare dei fanciulli che è senza limiti, vago naturale e non razionale. “Ciò che è sommamente vago – dice Leopardi – è sommamente poetico”: per questo ogni poesia si esplicita in una rimembranza in un ritorno a quel mondo fanciullesco tutto fatto di remote e sognanti fantasie.
La poesia è sempre più tale quanto più si allontana dalla pura narrazione e quanto più si accosta alla musica e non rappresenta ma esprime la vita del sentimento nella sua immediatezza: quanto meno imita, quanto meno narra, tanto più canta.
Donde il titolo delle poesie leopardiane: i Canti.
IL ROMANTICISMO DEL LEOPARDI
Questo presenta un aspetto comune a tanti altri spiriti nel tempo cioè la ribellione del cuore e del sentimento alle leggi della materia trasformatrice e demolitrice dell’individuo, ma presenta anche altri aspetti caratteristici di Leopardi; in particolare
1. la malinconia determinata dall’impossibilità di raggiungere i propri ideali;
2. un atteggiamento polemico e coraggioso contro il destino, accompagnato da rifiuto di ogni conforto religioso;
3. il suo rifiuto di una concezione borghese della vita, che gli permette di sentirsi al disopra di ogni spirito comune e mediocre che con la vita scende a patti e che facilmente si accontenta;
4. le forme e la tecnica del suo poetare che si distaccano progressivamente dalla tradizione classicheggiante;
5. il linguaggio, dal tono quotidiano e semplice non però popolare ma nobile e dignitoso con ricorso di parole difficili.
GLI IDILLI LEOPARDIANI
L’idillio leopardiano può essere definito una raffigurazione serena e contemplativa del proprio mondo interiore attraverso le immagini della natura: una storia intima affidata alle immagini del paesaggio.
Per ciò l’idillio leopardiano non può essere una confessione autobiografica e neppure una semplice descrizione: si conclude che l’idillio è assunzione della natura con forma poetica di una storia interiore.
Nella stesura dei Canti (che sono appunto gli idilli) si può osservare un’evoluzione poetica e positivista dei contenuti da parte del poeta; in particolare:
1) negli idilli maggiori si ritrova la stessa materia dei minori (costituita dagli aspetti familiari a Leopardi: i piccoli aspetti della vita quotidiana interiori ed esteriori), ma nei minori tale materia è vissuta quasi sempre in forma immediata e presente, cioè nel momento stesso dell’esperienza, mentre nei maggiori riappaiono nel ricordo, come se il poeta li contemplasse da un mondo lontano;
2) la materia, poi, nei minori si presenta in forme brevi e schematiche, mentre nei maggiori si estende in un disegno poetico più ampio e complesso;
3) negli idilli maggiori il contrasto tra la felicità sognata e l’amarezza dell’inganno è collocato in una lontananza senza impeti e senza fremiti, cosa che non sempre avviene nei minori;
4) il ricordo è espresso, negli idilli maggiori attraverso toni di tenerezze e non di impeto o di ribellione: una tenerezza che non investe soltanto le persone, le cose rievocate, ma anche le parti riflessive;
5) il linguaggio poetico si accorda col modo semplice, col sogno e con la contemplazione usata nei vari idilli; è un linguaggio che realizza l’incontro fra il famigliare ed il raro, fra il semplice e l’elegante, fra la novità e la preziosità: l’impressione però che resta non è quella di un linguaggio accademico ma famigliare e spontaneo.
Oltre la negazione, l'inno
Leopardi suggerisce un dato antropologico fondamentale:
la sproporzione tragica
tra l'uomo e la realtà.
Tra la sublimità del suo sentire
e il senso del proprio limite.
E soprattutto come l'uomo
sia rapporto con l'infinito.
Fattore primo dell'antropologia leopardiana - o, per dir meglio, il primo fattore della modalità con cui in Leopardi, l'uomo osserva se stesso vivere - è quella che egli stesso chiama la «sublimità del sentire». Questa formula sta ad indicare la densità di emozione, di struggimento e di timore enigmatico causata dalla sperimentata sproporzione fra l'uomo e la realtà: una sproporzione doppiamente tragica; da un lato, infatti, alla grandezza dell'uomo la realtà sembra cinicamente opporre un limite che la dissolve mentre dall'altro alla vastità e all'imponenza della realtà corrisponde la minuta piccolezza, l'effimera banalità dell'uomo. L'inno leopardiano che più plasticamente esprime questa sproporzione, è l'ode Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima. In essa, Leopardi comunica in modo così potente questa «sublimità del sentire», che tutta la negatività sensistica in cui la sua opera parrebbe risolversi risulta posticcia e cerebrale. Il suo modo di esplicitare questa sproporzione lascia infatti indenne l'interrogativo che ci fa levare ogni mattina come «sprone che quasi ci punge sì che anche giacendo più che mai siam lungi dall'aver pace, o loco».
La verità del Leopardi non può consistere in una negazione. Essa consiste nel «misterio eterno dell'esser nostro» e nella domanda che conclude l'ode citata:
Natura umana, or come, / se frale in tutto e vile, / se polve ed ombra sei, tant'alto senti?
Qui, la coscienza del poeta si trova come avvolta da una penombra e dal suo duplice gioco. Se, infatti, le spalle vengono rivolte alla luce, la penombra sembrerà introdurre all'oscurità totale - e in tal caso all'oscurità spetta l'ultima parola -; se, invece, le spalle saranno rivolte all'oscurità, si dovrà dire che la penombra è il vestibolo della luce-cui spetterà, stavolta, l'ultima parola. Tuttavia, fra queste due posizioni la seconda è quella più adeguata al fenomeno, dal momento che la penombra non può essere spiegata dall'ombra. Ora questo è, a mio avviso, il vero messaggio che Leopardi reca circa l'esperienza umana. In tal senso si può dire che il genio è sempre profeta, in quanto esprime in modo inesorabile ciò cui l'uomo è destinato.
Certo, ognuno ricorda il:
vecchierel bianco, infermo, / mezzo vestito e scalzo, / con gravissimo fascio in su le spalle
il cui cammino termina nel nulla: «abisso orrido, immenso, / ov'ei precipitando, il tutto obblìa».
Tuttavia, il cammino non si ferma qui. Subito, il velivolo umano risale: «Pur tu, solinga, eterna peregrina, / che sì pensosa sei, tu forse intendi», e, pochi versi oltre: «e tu certo comprendi».
A questi versi del Canto notturno fa eco il finale della bellissima poesia citata in apertura:
Come i più degni tuoi moti e pensieri / son così di leggeri / da sì basse cagioni e desti e spenti?
Ma nelle poesie citate (cui potremmo aggiungere, per l'immediata suggestione in cui i termini del dramma vi si esprimono, anche La sera del dì di festa) non si esprime solo questa «sublimità del sentire», che è il primo tratto del sentimento leopardiano dell'umano. In esse compare anche il secondo tratto, che potremmo definire con la parola sogno, o, meglio, esaltazione. Il sentimento tragico-sublime della sproporzione fa della realtà una sollecitazione al «sogno umano».
La tragicità di Leopardi sorge perché la realtà fa sognare l'uomo, lo esalta, nel senso latino del termine-ossia, lo prende e lo estrae innalzandolo in tutta la sua statura -; dal suolo della realtà l'uomo, che è come accovacciato e dormiente, si solleva. La realtà, insomma, esalta l'anima umana, che diviene in essa un respiro sognante, che è ciò che fa vivere nonostante la sproporzione sofferta e la tragicità del sentimento.
Tale sproporzione diventa, in questa evocazione della vita come sogno, sorgente di vaste meditazioni, cui il genio di Leopardi sa dare spazi di immagini, di parole e di musicalità che non hanno paragone in tutta la letteratura italiana.
Credo che in tal senso l'inno leopardiano più tipico sia il Canto notturno, dove l'esaltazione consegue l'abisso medesimo, l'abisso del nulla «ov'ei precipitando, il tutto obblìa», leggiamo:
E tu certo comprendi / il perché delle cose, e vedi il frutto / del mattin, della sera, / del tacito, infinito andar del tempo. / Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore / rida la primavera, / a chi giovi l'ardore, e che procacci / il verno co' suoi ghiacci. / Mille cose sai tu, mille discopri, / che son celate al semplice pastore. / Spesso quand'io ti miro / star così muta in sul deserto piano, / che, in suo giro lontano, al ciel confina; / ovver con la mia greggia / seguirmi viaggiando a mano a mano; / e quando miro in cielo arder le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / Che fa l'aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? / ed io che sono?
Questa esaltazione del sentimento di sé rende la vita dell'uomo dominata da una tensione ad un ultimo risolutivo, da un «pensiero dominante», che può, ovviamente, prender volto nella donna amata, o nella contemplazione della natura, o nel pensiero rivolto al «volo delle etadi». Ogni uomo, pur senza rendersene conto, ha dentro di sé un'immagine che lo fa vivere:
Dolcissimo, possente / dominator di mia profonda mente; / terribile, ma caro / dono del ciel; consorte / ai lugubri miei giorni, / pensier che innanzi a me sì spesso torni.
Ma questa esaltazione, o sogno, ha alla fine, per Leopardi, davvero la consistenza di un sogno - inteso stavolta nel senso deteriore del termine -. Vi sono, è vero, momenti in cui essa desta un'esperienza di felicità e di gioia, tuttavia sarà «finalmente un sogno»: tutto ciò che di attraente e di esaltante sorge nello scontro io-realtà ha l'inconsistenza del sogno. È un'amarezza che sorge nel cuore medesimo della gioia il terzo aspetto del sentimento leopardiano dell'umano. È quanto egli chiama la «rimembranza acerba».
... e fia compagna / d'ogni mio vago immaginar, di tutti / i miei teneri sensi, i tristi e cari / moti del cor, / rimembranza acerba.
Tale sentimento, che ha nell'inno Le ricordanze la sua documentazione più espressiva, fa parte, come gli altri due aspetti sopra ricordati, del contenuto della coscienza umana, cosicché si può dire non sussistere coscienza umana senza quella «rimembranza acerba». Val la pena di notare un particolare di questo sentimento: che, qualunque sia l'età dell'uomo, la giovinezza rimane il suo termine di paragone fondamentale, consapevole o inconsapevole. È nella giovinezza che tutta la vita appare un sogno, e in essa sta il momento più illusivo, e insieme più corrispondente al desiderio e all'attesa che è nell'uomo. Come sottolineano questi versi de La vita solitaria:
... Amore, amore, assai lungo volasti / dal petto mio, che fu sì caldo un giorno, / anzi rovente. Con sua fredda mano / lo strinse la sciaura, e in ghiaccio è volto / nel fior degli anni. Mi sovvien del tempo / che mi scendesti in seno. Era quel dolce / e irrevocabil tempo, allor che s'apre / al guardo giovanile questa infelice / scena del mondo, / e gli sorride in vista / di paradiso. Al garzoncello il core / di vergine speranza e di desìo / balza nel petto; e già s'accinge all'opra / di questa vita come a danza o a gioco / il misero mortal. Ma non sì tosto, / Amor, di te m'accorsi, e il viver mio / fortuna avea già rotto, ed a questi occhi / non altro convenìa che il pianger sempre.
È quest'ultima nota che fa scaturire, per dir così, la connotazione morale e sociale dell'immagine leopardiana dell'uomo: il sentimento del mondo come ingiustizia: «... e cieco il tuono /per l'atre nubi e le montagne errando, / gl'iniqui petti e gl'innocenti a paro / in freddo orror dissolve...», come si legge nell'inno Alla primavera o delle favole antiche. O, peggio, come si legge nel Bruto minore: «... dunque degli empi / Siedi, Giove, a tutela?...».
Ma la parola più sconsolante, riguarda il cinismo della natura: «Ne scolorò le stelle umana cura», leggiamo ancora nel Bruto minore. Sempre la natura, laddove il genio non abbia la dimensione religiosa, funge da quinta, imperterrita, al dolore e alla tragedia dell'uomo; viceversa, laddove l'artista, o il poeta, abbia un tratto religioso, la natura diventa parte del pathos umano della gioia come della tragedia. Infatti, la struttura poetica forse più compiuta e più vissuta, che è la Liturgia della Chiesa cattolica, trattiene in profonda unità dolore e gioia, attesa e delusione dell'uomo, male e bene, peccato e bene, esprimendo insieme la profonda unità di tutto ciò con la natura e i suoi ritmi.
Proprio per questa ingiustizia, perpetrata dal potere della realtà nei confronti dell'uomo, innocente o no, il mondo appare ripugnante, e «superba» «questa età»: dove «questa», nella descrizione che il poeta ne fa, sempre ne Il pensiero dominante, può benissimo valere per la nostra, «che di vòte speranze si nutrica» - la ideologia «vaga di ciance» - tutti parlano -, «e di virtù nemica; stolta, che l'util chiede» - tale è infatti l'unico criterio del nostro mondo-, «e inutile la vita / Quindi più sempre divenir non vede».
Ma la nostra indagine deve compiere ancora due passi. Leopardi va oltre la negazione. Nell'inno Aspasia leggiamo:
Raggio divino al mio pensiero apparve, / Donna, la tua beltà. Simile effetto / Fan la bellezza e i musicali accordi, / Ch'alto misterio d'ignorati Elisi / Paion sovente rivelar...
La bellezza della donna richiama il poeta a qualcosa che sta oltre «raggio divino», così come la musica, che pare custodisca un «misterio d'ignorati Elisi», ossia un mistero di felicità. Ed è a quello, allora, che la bellezza femminile richiama:
...Vagheggia / Il piagato mortal quindi la figlia / Della sua mente, l'amorosa idea, / Che gran parte d'Olimpo in sé racchiude, / Tutta al volto ai costumi alla favella, / Pari alla donna che il rapito amante / Vagheggiare ed amar confuso estima. / Or questa egli non già, ma quella, ancora, / Nei corporali amplessi, inchina ed ama.
L'uomo si innamora di quest'immagine che sta oltre il volto della donna, di questa sorgente di emozione che travalica la di lei figura, così come travalica ogni apparato musicale; Leopardi la chiama «la figlia della sua mente», perché questa emozione, o richiamo, avviene dentro la coscienza, poiché obiettivamente non è il volto della donna a suggerire questa inferenza. Ne viene una confusione: l'uomo confonde infatti l'oggetto del vagheggiamento, scambiando la donna che ha davanti con ciò che la donna gli suscita dentro.
In Aspasia, è a questo «qualcos'altro» che l'uomo reca omaggio. E «alfin l'errore e gli scambiati oggetti conoscendo s'adira»: s'accorge di come la donna che ha davanti sia sproporzionata all'immagine che ella stessa destò in lui.
Ma se il limite della donna non definisce ciò che l'uomo è suscitato ad essere dalla sua presenza; se, cioè, il limite delle cose, di ciò che Leopardi incontrava nelle sue giornate, se il limite dello stesso universo che egli era solito contemplare non definiva la sua domanda, ciò implica l'introduzione di una parola suprema, «la» parola suprema per la ragione dell'uomo: la parola segno. La donna, nel caso di Aspasia, è dunque segno di qualcos'altro. Sia o non sia criticamente cosciente di ciò, l'uomo subisce il dinamismo con cui questo segno lo percuote. Se un uomo non è definito dal limite in cui si trova, perciò stesso afferma una presenza che lo richiama e lo suscita.
L'affermazione della realtà come segno è, a mio avviso, un tratto assai chiaro nella poesia del Leopardi. Dunque, l'affermazione di una sproporzione fra l'uomo e la realtà - la «sublimità del sentire» -, così come quell'esaltazione, o sogno, così come la «rimembranza acerba» che permane anche nei momenti migliori, possono, sì, essere rese oggetto di un giudizio negativo, ma tale giudizio rimarrà un'opzione, non una ragione. Se il limite non definisce ciò che si è, se un'attrattiva rimane aperta, ciò implica l'inevitabilità dell'affermazione di una Presenza misteriosa. E tale Presenza è così implicita nello sguardo che la ragione porta alla realtà, che Leopardi stesso, per un istante, ha finito col riconoscerLa: istante che gli studiosi di letteratura, almeno nell'epoca in cui io me ne interessavo attivamente, non mancarono di identificare come il più autentico dell'esperienza interiore di Giacomo Leopardi. Di un istante si tratta in cui non solo, come in Aspasia, la realtà, toccando l'uomo, lo rende cosciente di non essere definito dai limiti del suo rapporto con il reale, e dai suoi medesimi, ma in cui Leopardi è giunto anche a riconoscere questo «qualcos'altro». Ciò ha luogo nella mirabile ode Alla sua donna, dove, in un momento equilibrato e potente, Leopardi stende un inno non già a questa o quella donna, ma alla Donna, alla Bellezza, ossia a quell'amorosa idea che ogni donna gli suscita, e che qui viene intuita come presenza reale:
Cara beltà che amore / Lunge m'ispiri o nascondendo il viso, / Fuor se nel sonno il core / Ombra diva mi scuoti, / O ne' campi ove splenda / Più vago il giorno e di natura il riso...
Qui, la negazione viene superata d'un balzo: «Viva mirarti omai / Nulla speme m'avanza»; ma prosegue: «S'allor non fosse, allor che ignudo e solo / Per novo calle a peregrina stanza / Verrà lo spirto mio... ».
Metterebbe conto di leggere e commentare verso per verso, parola per parola, questo inno. Ma basterà leggere l'ultima strofa, una delle più belle preghiere della nostra letteratura:
Se dell'eterne idee / L'una sei tu, cui di sensibil forma / Sdegni l'eterno senno esser vestita, / E fra caduche spoglie / Provar gli affanni di funerea vita; / O s'altra terra ne' superni giri / Fra' mondi innumerabili t'accoglie, / E più vaga del Sol prossima stella / T'irraggia, e più benigno etere spiri, / Di qua dove son gli anni infausti e brevi, / Questo d'ignoto amante inno ricevi.
È stato leggendo questa sublime preghiera che, a quindici anni, mi s'illuminò tutto Leopardi. Questa Donna, questa Bellezza altro non è se non ciò che il cristianesimo chiama il Verbo, cioè Dio nella sua espressione: la Bellezza con la «B» maiuscola, la giustizia con la «G» maiuscola, la Bontà con la «B» maiuscola, è Dio. Ogni volta che leggo questa poesia un'evidenza mi conquista: in cosa consiste - mi chiedo - l'annuncio cristiano? In questo: che questa Bellezza non solo l'eterno senno che non ha sdegnato rivestire «di sensibil forma», non solo non ha sdegnato di «provar gli affanni di funerea vita», ma è diventata Uomo, e per l'uomo è morto. Non l'uomo è ignoto amante di Lui, ma Lui è l'ignoto amante dell'uomo. Così si apre il Vangelo di san Giovanni: «Venne tra i suoi e i suoi non lo ricevettero ».
Questa di Leopardi è, dunque una profezia, perché il genio è sempre profeta di Cristo. È la profezia di un ateo, il grido, milleottocento anni dopo quell'avvenimento, dal fondo dell'uomo all'incarnazione di Cristo. E richiama alla mente una poesia di Karol Wojtyla, che inizia così: «Io T'invoco e Ti cerco, Uomo - in cui la storia umana può trovare il suo Corpo. / Mi muovo incontro a Te, non dico "Vieni" / semplicemente dico "Sii"».
Il nesso di cui il cuore dell'uomo è fatto fa da sottofondo a tutto il discorso leopardiano, e anima tutta la parola che il grande sofferente Giacomo Leopardi ci dice: che l'uomo è niente, e che tutta la sua grandezza consiste nel rapporto con l'infinito.
Il «no», l'opzione leopardiana, mutuata dalle gnoseologie sensistiche dell'epoca, nasce da un'errata concezione della ragione intesa come misura del reale. La ratio rattrappita dell'uomo post-umanistico e post-rinascimentale, che procede a un'indebita identificazione.
Ma il reale esiste prima dell'uomo che lo pensa, perciò per sua natura la realtà è più vasta della misura della ragione. La ragione è una finestra spalancata sulla realtà: tanto sulla realtà del volto materno come sulla realtà che si nasconde dietro il segno dell'universo e di ogni cosa: l'infinito, il mistero, Dio. La ragione è un abbraccio senza fine alla realtà, ossia essa è il cuore dell'uomo. In questo concetto di ragione, ogni istante è novità, ricchezza, amore; viceversa, se la ragione è misura delle cose, ogni momento è tenebra, sepolcro.
Siamo stati sepolti vivi nella cultura post-rinascimentale, illuminista, razionalistica moderna. E Leopardi ne fu una vittima. La sua ragione era davvero il suo cuore, quello che gli faceva gridare il Canto notturno, o invocare: «Dolcissimo, possente, dominator di mia profonda mente... », quello che gli aveva dettato l'inno Alla sua donna.
Egli non ebbe un incontro amico che gli rendesse facile, o più facile, questa osservazione ovvia. Egli fu sempre, come direbbe sant'Agostino, «fugitivus cordis sui», lontano dal suo cuore.
Infine, forse, si può aggiungere una riflessione. Leopardi, il cui senso etico si mostrò fortissimo in certe situazioni, ebbe forse un'ultima banda d'animo in cui era fragile anche eticamente. L'ho pensato leggendo questa frase sul diario di Franz Kafka: «Non bisogna buttarsi via; anche se la salvezza non viene, voglio esserne degno in ogni momento».
È l'obbedienza al «Vigilate» del Vangelo.
Forse, Leopardi non trovò un'amicizia che lo rincuorasse fino a questo punto.
LUCREZIO – LEOPARDI
Lucrezio e il De rerum Natura
Sappiamo che Lucrezio ebbe un temperamento solitario e malinconico, sdegnò la politica e la vita mondana. Non pubblicò poesie da vivo: di qui il silenzio e il mistero che avvolgono la sua vita (ne abbiamo solo qualche cenno sommario fornitoci da S. Girolamo). Sofferente, forse, di una nevrastenia acuta, o di una forma di pazzia alternante, pare che si sia ucciso.
Se questa morte sia stata conseguenza delle patite delusioni amorose e dello stato pietoso della sua salute, oppure se egli, che in tutto il poema condannò il timore della morte, abbia voluto dimostrare che parlava sul serio, o, ancora, se abbia ceduto alla disperazione per non essere riuscito a trovare nella filosofia epicurea la serenità e il conforto che tanto affannosamente vi aveva cercato, non si può affermare con certezza
Anche Leopardi, pensò di comporre un'opera sulla natura delle cose (in una lettera del 1829, egli promette al Colletta di esporgli l'elenco dei suoi intenti: "Il trattato della natura degli uomini e delle cose conterrebbe le questioni delle materie astratte, dalle origini della ragione, dei destini dell'uomo, della felicità e simili"). Abbiamo tracce ed elementi di una sintesi compiuta del mondo materiale e morale nello Zibaldone, corpus di osservazioni erudite e filosofiche.
Secondo Carducci, poi, "Leopardi è il Lucrezio del pensiero italiano" .
La comunicazione con la natura
La comunicazione si cerca nella natura: è la natura che ci tiene in pugno, disponendo delle nostre vite. Alla comunicazione segue la comprensione: rivolgersi alla natura significa ricondursi, all'uomo, cercando di scoprire le regole del ludus che determinano il suo destino.
A questo proposito, Leopardi scrive:
"Come, ahi, come, o natura, il cor ti soffre
di strappar dalle braccia
all'amico l'amico
al fratello il fratello
la prole al genitore
all'amante l'amore: e, l'uno estinto,
l'altro in vita serbar? Come potesti
far necessario in noi
tanto dolor, che sopravviva amando
al mortale il mortal?"
Il tu si cerca nella natura, e Leopardi e Lucrezio hanno la stessa doppia visione di essa, una che si ferma alla superficie, e l'altra che va più a fondo: quando vedono la natura coi soli occhi corporei, nelle sue attrattive esterne, se ne innamorano, ma poi ne scoprono le nefandezze nascoste, e se ne sdegnano.
Il "Canto alla Primavera" di Leopardi richiama e ripete l'inno a "Venus genetrix" del I libro di Lucrezio. In questi passi la natura è personificata, quasi a voler cercare in essa un'entità dal quale ricevere le risposte alle eterne domande.
Quando ne investigano a fondo i segreti paurosi, rivolgono frequenti rimproveri alla natura matrigna: basti pensare alla terribile requisitoria contro di essa nel "Dialogo della Natura e di un Islandese"; anche in Lucrezio sono presenti questi tormenti:
"Il mondo non è stato affatto creato per noi dalla divinità, tanto esso è pieno di difetti" (II e V libro)
"Perché immatura aleggia intorno la morte?" (V libro)
E dell'ultimo pensiero ne abbiamo gli echi in Leopardi, che ebbe un'impressione dolorosissima della morte dei giovani.
Lucrezio: "Quare mors immatura vagatur?" (V libro)
Leopardi: "Mio dolore in veder morire i giovini come a vedere bastonare una vite carica di uva immatura" (da: "Appunti e ricordi" - 1819 - in "Scritti Vari").
Questa è la visione più pessimistica, perché fa capire ai due poeti quanto sia improbabile che l'uomo, dalla natura, riesca a ricavare quelle risposte di cui ha bisogno (e questo per incapacità degli esseri umani, che non sanno comunicare con la natura, che, invece, è disposta a parlare con noi).
D'altronde, quando Leopardi arresta lo sguardo alle "amene sembianze", si appaga del rapimento estetico della natura: nella lettera del 6 Marzo 1820 a Pietro Giordani racconta come, affacciatosi a contemplare una serena notte stellata, domanda perdono alla natura, gridando e piangendo.
In un passo del "Tramonto della luna", Leopardi scrive:
"Voi, collinette e piagge,
caduto lo splendor che all'occidente
in argento va della notte il velo,
orfane ancor gran tempo
non resterete, che dall'altra parte
tosto vedrete il cielo
imbiancar nuovamente, e sorger l'alba:
alla qual poscia, seguitando il sole,
e folgorando intorno
con sue fiamme possenti,
di lucidi torrenti
inonderà con voi gli eterei campi"
A questi versi si può citare Virgilio: "Sol, qui terrarum flammis opera omnia lustras" ("O Sole, che con la tua luce rischiari ogni cosa terrena", Eneide, IV, 607), oppure lo stesso Lucrezio: "Ognuno vede e sa chiaramente come tutto a un tratto il sole, sorto in quel punto, sia solito distendere su tutte le cose l'ammanto della sua luce" (II libro, vv.147-149).
Quindi, la natura conosce i segreti tanto ricercati: ma l'uomo riuscirà a svelarli solo quando avrà trovato un metodo adeguato di comunicazione con la natura.
Lucrezio spera di trovarlo nell'epicureismo: "nil dulcius est bene quam munita tenere| edita doctrina sapientium templa serena" ("niente è più bello che abitare le ben difese fortezze elevate dalla serena filosofia dei saggi", II libro, vv.23-24), ma l'insoddisfazione verso la dottrina epicurea lo spinge al suicidio.
In Leopardi la conclusione, in linea teorica, almeno, è la medesima:
"se la vita è sventura, perché da noi si dura?"
Leopardi amante della morte, dunque, in quanto, paradossalmente, la morte è un modo per conoscere i segreti della vita, essendo morte e vita condizione e ragione l'una dell'altra, nella loro perpetua alternanza.

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