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GIACOMO LEOPARDI
L’infanzia e la prima formazione (1798-1808)
Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798. È il primo figlio del conte Monaldo e della marchesa Adelaide Antici. Le sprovvedute speculazioni finanziarie di Monaldo hanno condotto la famiglia al limite del fallimento, così che dal 1803 la gestione del patrimonio passa nelle mani della moglie. Solida e arcigna, Adelaide riuscirà a restaurare condizioni economiche dignitose a prezzo di umilianti sacrifici imposti al marito e ai figli. La durezza distante della madre inciderà profondamente su Giacomo. Un anno dopo Giacomo, nasce il secondogenito, Carlo, e, nel 1800, Paolina. Degli altri sette fratelli nati in seguito sarebbe sopravvissuto solamente l’ultimo, Pierfrancesco.
La formazione culturale dei tre fratelli maggiori è affidata a precettori casalinghi, secondo l’uso nobiliare del tempo. Si tratta di ecclesiastici, che condividono il gretto classicismo di Monaldo e soddisfano le esigenze religiose della bigotta Adelaide. Già a dieci anni Giacomo è in grado di scrivere composizioni in latino, oltre che in italiano, nonché piccole trattazioni filosofiche. Queste prime prove vengono lette in pubbliche riunioni presso il palazzo Leopardi, dove Monaldo si compiace di tenere in vita una qualche attività culturale. Più importante dell’insegnamento dei precettori è però, fin dall’infanzia, il rapporto diretto di Giacomo con la ricchissima biblioteca paterna (circa quindicimila volumi). Oltre che un gran numero di testi di erudizione e di cultura classica e religiosa, questa conserva una buona rappresentanza di testi letterari, italiani e stranieri, anche recenti, nonché molti dei principali autori dell’Illuminismo francese. Benché attestato su solide posizioni reazionarie, Monaldo si compiace di esibire una cultura e una biblioteca aperte alle tendenze più attuali.
I «sette anni di studio matto e disperatissimo» (1809-1816)
Tra il 1809 e il 1816 si svolgono quei «sette anni di studio matto e disperatissimo» (sono parole di Leopardi), che consentiranno alla cultura di Giacomo una vastità e una sicurezza straordinarie, a prezzo però di irreparabili danni alla struttura fisica. Dedicandosi giorno e notte allo studio e alla scrittura, Giacomo si impossessa delle lingue classiche e di un’erudizione solidissima, non escluso l’ambito scientifico. Nascono le prime prove poetiche, due tragedie e altri testi creativi, nonché numerose esercitazioni nel campo dell’erudizione, della filosofia, della morale, della logica. Giacomo si fa la mano traducendo incessantemente i classici: Omero, Esiodo, gli alessandrini, Orazio, Virgilio. Del 1813 è una Storia dell’astronomia; del 1815 il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, nel quale il distacco illuministico si sposa alla sensibilità verso l’ingenuità delle culture primitive. L’impegno più continuo è dedicato però alla filologia, per la quale Giacomo si mostra assai dotato.
La caduta di Murat, che pone fine anche per Recanati alla parentesi napoleonica e rivoluzionaria, gli suggerisce l’Orazione agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno (1815). Le posizioni reazionarie dell’ambiente famigliare sono piegate in direzione antitirannica, secondo un orientamento che rivela già il modo originale di vivere la propria formazione.
La «conversione letteraria» (1816)
Intorno al 1816 si colloca quella che lo stesso Leopardi definì «conversione letteraria»: all’amore per l’erudizione si sostituisce cioè una più accesa consapevolezza dei valori artistici. In realtà entra in crisi l’intero equilibrio esistenziale del giovane Giacomo, che inizia a percepire la ristrettezza culturale e l’insufficienza affettiva dell’asfittico ambiente famigliare e recanatese. I tentativi poetici acquistano un significato più intenso, e nascono i primi risultati di rilievo: l’idillio Le rimembranze e la cantica L’appressamento alla morte (un frammento della quale sarà accolto nei Canti).
Il 1817 è un anno per più versi decisivo nella giovinezza leopardiana. Nel febbraio prende il via la corrispondenza con Pietro Giordani, che gli risponderà incoraggiandolo con generosità; nell’estate fissa le prime osservazioni in quel complesso diario del pensiero che formerà lo Zibaldone; nel dicembre si innamora per la prima volta: oggetto dell’amore è la cugina Gertrude Cassi Lazzari, ospite presso i Leopardi. Dall’esperienza sentimentale nascono un’elegia (che verrà accolta nei Canti con il titolo Il primo amore) e il cosiddetto Diario del primo amore.
L’amicizia con Giordani e la comprensione ricevuta dall’illustre corrispondente rafforzano il desiderio di affermazione individuale già fortissimo in Giacomo e favoriscono la rottura con le posizioni cattoliche e reazionarie della famiglia e del padre: la formazione illuministica e classicistica di Leopardi inizia a organizzarsi in un sistema teorico originale e coerente. Ne nascono, nel 1818, il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica (con cui prende posizione sulla polemica tra classicisti e romantici) e le prime due canzoni civili (All’Italia e Sopra il monumento di Dante), che vengono pubblicate a Roma.
Incoraggiato da una visita di Giordani a Recanati per conoscerlo, Giacomo tenta la fuga dalla prigionia famigliare (luglio 1819); scoperto dal padre alla vigilia della partenza, rinuncia, cadendo in un abbattimento ancora più profondo. Anche le condizioni fisiche non sono buone: una malattia agli occhi gli rende a lungo impossibile ogni applicazione, lasciandogli postumi che lo renderanno sofferente per il resto della vita.
La «conversione filosofica» e il soggiorno romano (1819-1823)
Tra il 1819 e il 1822 Leopardi vive dunque a Recanati in tensione continua con la famiglia, che vorrebbe avviarlo alla carriera ecclesiastica. Allo Zibaldone affida un gran numero di riflessioni, che segnano la sua cosiddetta «conversione filosofica», e cioè l’adesione ad una concezione materialistica e atea. La ricerca poetica si svolge lungo due filoni principali: la poesia sentimentale degli idilli (compone fra l’altro L’infinito, La sera del dì di festa e Alla luna) e la poesia impegnata delle grandi canzoni civili (fra le quali Ad Angelo Mai, Bruto minore e Ultimo canto di Saffo).
Finalmente, nel novembre del 1822 Giacomo può lasciare Recanati recandosi a Roma, ospite degli zii Antici. È una nuova delusione: i monumenti della latinità lo lasciano indifferente, la città gli spiace, i letterati gli appaiono presi solo da una meschina e provinciale passione per l’erudizione e l’"antiquaria". Ogni tentativo di ottenere un impiego fallisce, e non pochi ostacoli Giacomo incontra nelle ricerche filologiche, colpito da gelosie e invidie.
Nel maggio del 1823, dopo sei mesi, fa dunque ritorno a Recanati. Qui si getta di nuovo nell’elaborazione filosofica e nella scrittura. La messa a punto di un pensiero rigorosamente materialistico e disincantato lo porta su posizioni di combattivo pessimismo. Alla poesia dà provvisoriamente l’addio con la canzone Alla sua donna, e, nel 1824, si getta nella composizione delle Operette morali, originali prose e dialoghi filosofici, nei quali Leopardi critica con pungente ironia l’ideologia ottimistica del suo tempo e rappresenta la propria sconsolata visione della condizione umana.
Tra Milano, Bologna e Firenze (1825-1828)
Nel luglio del 1825 Leopardi lascia di nuovo Recanati, diretto a Milano. Qui l’editore Stella lo impegna in alcuni progetti editoriali (soprattutto edizioni di classici). Ne nasceranno, in particolare, un commento al Canzoniere petrarchesco (1826), nonché due antologie della letteratura italiana (una Crestomazia italiana della prosa e una della poesia, uscite nel 1827 e nel 1828). Ogni tentativo di trovare un’occupazione stabile però fallisce, o per ostacoli oggettivi (come opposizioni politiche) o per rifiuti da parte dell’interessato (che rinuncia a possibili benefici ecclesiastici nonché a incarichi di insegnamento presso università straniere). Con l’assegno dello Stella e con l’aiuto di lezioni private, vive tra Milano e Bologna. A Milano visita il vecchio Monti: a Bologna frequenta Giordani e si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi. Al conte bolognese Carlo Pepoli dedica un’Epistola che interrompe eccezionalmente il silenzio poetico di questi anni.
Intanto alcune Operette escono sulla «Nuova Antologia», la rivista dei moderati fiorentini ruotanti attorno a Pietro Vieusseux; ma Leopardi declina l’invito a collaborare. Frequenta però il salotto Vieusseux a partire dall’estate del 1826, quando si stabilisce a Firenze dopo aver trascorso l’inverno a Recanati, in cerca di un clima più mite di quello di Bologna o di Milano. A Firenze incontra più volte Manzoni e conosce Capponi, Niccolini, Montani, Tommaseo, Poerio, Colletta. Dall’ambiente fiorentino cattolico-moderato lo separano però tanto le posizioni ideologiche quanto le posizioni artistiche (Leopardi è su posizioni antiromantiche).
Nel giugno del 1827 vengono pubblicate a Milano dall’editore Stella le Operette morali. Nello stesso momento si conclude la stampa della prima edizione dei Promessi sposi, che Leopardi legge, riportandone un’impressione positiva.
Sul finire del 1827, avvicinandosi l’inverno, Leopardi si trasferisce a Pisa, città che lo incanta per il clima, per l’aspetto ridente, per l’accoglienza generosa. Questo momento rasserenato favorisce il ritorno alla scrittura poetica: nell’aprile del 1828 scrive Il risorgimento e A Silvia, aprendo la stagione del ciclo pisano-recanatese (la terminologia tradizionale definisce questi testi, con espressione fuorviante, "grandi idilli").
L’ultimo soggiorno a Recanati (1828-1830)
Dopo un breve ritorno a Firenze per l’estate, nel novembre 1828 Leopardi è costretto a ripiegare su Recanati, mancandogli ormai l’assegno dello Stella e dunque la possibilità di mantenersi.
A Recanati Leopardi resta fino all’aprile del 1830, sedici mesi di insopportabile depressione, ma anche di alacre attività progettuale e creativa. In particolare nella seconda metà della permanenza a casa, Leopardi compone altri quattro grandi canti (Le ricordanze, La quiete dopo la tempesta, Il sabato del villaggio e il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia). Spera di vincere con le Operette morali i mille scudi del premio bandito dall’Accademia della Crusca; ma gli è preferita la Storia d’Italia di Carlo Botta. Gli amici toscani mettono allora a sua disposizione una somma sufficiente a vivere a Firenze per un anno, e Pietro Colletta gliela offre garbatamente. Leopardi accetta e nell’aprile del 1830 lascia Recanati. Non vi tornerà più.
Tra Firenze e Roma (1830-1832)
Nel maggio 1830 è a Firenze, dove ritrova i vecchi conoscenti e stringe amicizia con il filologo svizzero Luigi De Sinner, cui affida i propri scritti filologici. Incontra per la seconda volta Stendhal. Si consolida intanto la sua amicizia con il giovane scrittore napoletano Antonio Ranieri, e nel novembre va a vivere con lui. Intanto ha conosciuto l’affascinante Fanny Targioni Tozzetti (1805-1885), della quale si innamora. Per lei scrive (tra il 1832 e il 1835) alcune canzoni che segnano uno dei momenti più originali e alti della sua nuova produzione poetica (Il pensiero dominante, Amore e Morte, A se stesso, Aspasia, che formano il cosiddetto "ciclo di Aspasia", dal soprannome assegnato alla destinataria).
Nel 1831 esce a Firenze la prima edizione dei Canti, dedicata Agli amici suoi di Toscana. Passa poi, tra il 1831 e l’anno seguente, alcuni mesi con Ranieri a Roma. Nel 1832, di nuovo a Firenze, scrive gli ultimi due dialoghi delle Operette e, nel dicembre, consegna l’ultimo appunto allo Zibaldone, che conta ormai quasi cinquemila pagine.
A Napoli: l’ultimo periodo della vita di Leopardi (1833-1837)
Nell’ottobre 1833 Leopardi e Ranieri si trasferiscono infine a Napoli. Le condizioni di salute di Leopardi peggiorano progressivamente; ma il suo desiderio di intervenire nella vita culturale contemporanea è più forte che mai: il contatto con l’ambiente fiorentino e poi con quello napoletano, dove prevale una tendenza spiritualistica, acuisce la sua ostilità verso ogni forma dell’ideologia borghese. In particolare severa è la sua critica al mito del progresso e alla fiducia nella scienza e nella tecnica. Sulla vita sociale si concentrano i Pensieri, dettati a Ranieri tra il 1831 e il 1835. Ai moti liberali del 1820-21 e del 1831 è dedicata la spietata analisi allegorica dei Paralipomeni della Batracomiomachia, il poemetto in ottave composto a partire dal 1831.Contro la fiducia nel progresso si scaglia l’ironica Palinodia al marchese Gino Capponi (1835). Contro gli spiritualisti napoletani è diretta la satira di I nuovi credenti (1835).
Il progetto di un’edizione completa delle opere in cinque volumi presso l’editore Starita di Napoli fallisce per l’intervento della censura, che sequestra i primi due volumi usciti (fra cui, nel 1835, la seconda edizione, ampliata, dei Canti). L’ipotesi di un’edizione parigina a cura del De Sinner naufraga anch’essa; così che l’edizione delle opere approvate dall’autore uscirà postuma solamente nel 1845, a Firenze, per cura di Ranieri.
Tra il 1836 e il 1837 Leopardi, Ranieri e la sorella di questi, Paolina, vivono fra Torre del Greco e Torre Annunziata, ai piedi del Vesuvio, anche per sfuggire all’epidemia di colera che si è intanto abbattuta su Napoli. Leopardi compone in questo periodo gli ultimi due canti (Il tramonto della luna e La ginestra o il fiore del deserto).
Tornato a Napoli nel febbraio, si aggrava ancora e infine muore, mentre infuria il colera, il 14 giugno 1837.
La poetica: dalla poesia sentimentale alla poesia-pensiero
Il primo pronunciamento pubblico di Leopardi in fatto di poetica è il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica. Leopardi lo inviò, ventenne, nel marzo 1818 all’editore milanese Stella quale risposta a un articolo di Ludovico di Breme stampato sullo «Spettatore». Lo scritto leopardiano non venne pubblicato, così come non lo erano state, due anni prima, due sue lettere di argomento affine alla «Biblioteca italiana», sulla quale si stava svolgendo quella polemica tra classicisti e romantici che occupa il biennio 1816-1818, soprattutto a Milano.
Il rifiuto del Romanticismo nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica riguarda innanzitutto il rapporto tra poesia e sensi. I romantici, denuncia Leopardi, vogliono portare la poesia «dal visibile all’invisibile e dalle cose alle idee, e trasmutarla di materiale e fantastica e corporale che era, in metafisica e ragionevole e spirituale». I romantici recidono cioè il legame tra poesia e natura; ma esso è l’unica ragion d’essere della poesia. In tal modo essi prendono atto del distacco della civiltà dalla natura e della contrapposizione tra ragione e natura, ma rinnegano il fondamento e la funzione della poesia, che consistono appunto nel mantenimento di un legame forte con la natura a dispetto della ragione e della civiltà.
Leopardi propone invece una poesia capace di servirsi innanzitutto dei sensi per provocare sul lettore un effetto forte; e rivendica così la propria formazione sensistica. L’origine di ogni emozione artistica è nel rapporto con la natura, più facile e diretto per gli antichi e difficile e artificioso per i moderni. La poesia ha anzi la funzione di ristabilire sul piano dell’immaginazione quel rapporto primitivo e diretto (sentimentale) con la natura che la civiltà e la ragione vanno distruggendo sul piano dell’intelletto: «il poeta non inganna l’intelletto, ma solamente la immaginazione degli uomini». Non essendo ai moderni più possibile quel rapporto fantastico e immaginativo con la natura che agli antichi era ancora aperto, l’unica strada che resta ai moderni per ristabilire un contatto con la natura è lo studio degli scrittori antichi e l’imitazione dei loro procedimenti.
Il classicismo leopardiano si fonda innanzitutto su questa condanna del presente. La modernità è segnata dal distacco dalla natura, dal prevalere della riflessione e della ragione sull’immaginazione e sulle illusioni. La poesia deve garantire il bisogno antropologico di illudersi, di immaginare, di fantasticare, di sentire con forza primitiva il rapporto con la natura e con l’esistenza. Il classicismo leopardiano ha dunque una ragione e uno scopo ben diversi da quelli degli altri classicisti italiani. Non a caso, ben presto Leopardi prenderà le distanze da Monti, caposcuola indiscusso del classicismo, e perfino da Parini, pure profondamente ammirato: il loro classicismo gli apparirà troppo segnato dalla civiltà, troppo perfetto e levigato, troppo artefatto, e dunque poco naturale e spontaneo.
Come per i romantici, che pure attacca, la poesia deve avere per Leopardi una funzione sociale. Ma ben diversa è la prospettiva secondo cui tale funzione deve esercitarsi. Per i romantici italiani si tratta di superare il distacco tra mondo della letteratura e mondo della prassi, di investire cioè anche la letteratura del generale bisogno di rinnovamento che attraversa le strutture della società, o, anche, di mettere la letteratura al servizio di una prospettiva complessiva di cambiamento, facendone uno strumento di progetto, di trasformazione e, al limite, di propaganda. La realizzazione di questo programma implica il coinvolgimento del pubblico, che deve essere conquistato per mezzo di nuovi mezzi espressivi (quelle «spuntonate romantiche» denunciate da Leopardi). Per Leopardi la prospettiva sociale ha invece un significato più profondo. Non si tratta di favorire un modello di cambiamento, né di venire incontro ai nuovi bisogni della società moderna. Al contrario, si tratta di tenere desti dei modi di sentire caratteristici dell’uomo e ben sviluppati nel mondo antico (l’immaginazione, i valori nobili, le virtù), che rischiano invece di atrofizzarsi nel mondo moderno.
Dell’Illuminismo, dunque, Leopardi recupera e potenzia la componente sensistica. Da Vico invece riprende la corrispondenza tra prospettiva storico-individuale e dimensione artistica, cioè tra fasi dell’evoluzione civile dei popoli e della maturazione personale degli individui, da una parte, e modi di essere della letteratura e dell’arte, dall’altra: la massima affermazione della poesia corrisponde al potere dell’immaginazione nell’infanzia di ciascuno e dell’umanità. Presso gli antichi questa affermazione si è realizzata con la più alta riuscita artistica, dato che la maturità degli individui non li privava del tutto dell’immaginazione, e consegnava loro una efficacissima facoltà di rappresentarla nell’arte. Nella modernità, il fanciullo sperimenta questa facoltà di sentire poetico, quasi rivivendo brevemente una condizione antica; ma poi la maturità lo allontana inesorabilmente da tale condizione. Ai poeti compete di rievocare, attraverso la memoria, questa fase, corrispondente a un’esperienza individuale e a una forma antica di civiltà.
Come la fedeltà al razionalismo settecentesco contrappone naturalmente Leopardi al prevalente spiritualismo cattolico del Romanticismo italiano, così la sua sfiducia nel progresso e nel senso della storia (cioè il suo radicale antistoricismo) lo allontana dal progressismo moderato e spesso provvidenzialistico dei romantici italiani e dalla loro fiducia nella storia.
Il classicismo leopardiano non ha nulla di tradizionalista e di riduttivo; e d’altra parte la distanza dai romantici italiani non esclude significativi punti d’incontro con la cultura del grande Romanticismo europeo, da Hölderlin a Heine, da Coleridge ad August von Schlegel. Si ritrovano infatti anche in Leopardi alcuni importanti aspetti dell’immaginario romantico, quale la scissione io-mondo e la tensione tra uomo e natura (e tra natura e civiltà) ed inoltre i temi dell’angoscia, del dolore, dell’infinito, del mistero, uniti all’atteggiamento agonistico e al motivo del "canto" lirico. Leopardi resta tuttavia irriducibile al Romanticismo per l’ideologia materialista, per il rifiuto dell’irrazionalismo in tutte le sue forme, per la poetica originalmente classicistica.
La funzione sociale riconosciuta da Leopardi alla poesia si esprime a seconda delle concrete condizioni storiche e individuali: l’esaltazione della virtù civile e del patriottismo (valori antichi e "primitivi") è applicata alle necessità di riscatto nazionale fin dalla canzone All’Italia (del 1818, come il Discorso); l’esperienza esistenziale diviene l’oggetto cui si dedicano, già a partire dal 1819, gli «idilli» (Infinito in testa). Quello leopardiano è dunque fin dall’origine, e già a livello teorico, tutt’altro che un classicismo libresco e letterario, fondandosi al contrario su un bisogno di concretezza e su un’istanza polemica verso il presente.
Il bisogno di concretezza riguarda anche la poesia: essa deve corrispondere all’aspirazione umana al piacere servendosi di specifiche tecniche. Data la presenza innata dell’immaginazione nell’uomo e data la tendenza costitutiva dell’immaginazione alla indeterminatezza, la poesia deve perseguire una espressività a sua volta indeterminata. Ecco allora la ricerca leopardiana di vocaboli capaci di aprire prospettive polisemiche; ed ecco la riflessione sulla specificità della lingua poetica, concepita in opposizione alla lingua della ragione, cioè della filosofia.
L’immaginazione si esercita soprattutto nella direzione della memoria e in quella del desiderio. Perciò la poesia deve essere in grado, al tempo stesso, di utilizzare la prospettiva del ricordo e di dare voce alla tensione verso il piacere, costituendone già una forma di soddisfacimento. È nella prospettiva di questa seconda esigenza che Leopardi attribuisce alla poesia il compito di accrescere la vitalità, provocando sensazioni gagliarde e appassionate.
L’evoluzione del pensiero filosofico di Leopardi segna anche i modi della sua poetica, a partire dai suoi termini portanti: natura, civiltà, illusioni, ragione. A partire soprattutto dal 1823, la crisi del "sistema della natura e delle illusioni" determina un nuovo orientamento di fondo: la caratterizzazione negativa della natura e la riconsiderazione problematica della civiltà implicano il venir meno della fiducia nella poesia e nelle sue capacità di ridare voce alle grandi illusioni positive della natura primitiva. Ne consegue il rifiuto, almeno provvisorio, della poesia e l’adesione a una letteratura tutta volta alla distruzione delle illusioni, cioè, in qualche modo, tutta antipoetica. La prosa delle Operette morali prende il posto degli idilli; nell’unico testo poetico tra il 1824 e il 1827, l’Epistola al conte Carlo Pepoli (1826), si trova l’esaltazione del vero contro le illusioni.
La rinascita della poesia a partire dal 1828 non rinuncia ad alcuni dei termini-chiave della poetica giovanile: la prospettiva della memoria dà anzi in questa fase i suoi risultati più alti (da A Silvia a Le ricordanze); e la ricerca del vago e dell’indefinito non cessa di costituire una specificità della scrittura poetica leopardiana. Viene però meno la contrapposizione tra poesia e filosofia, e la concretezza dell’esperienza è coinvolta anche nelle sue esigenze ragionative e nel suo bisogno di significato: la rappresentazione delle illusioni e il giudizio filosofico su di esse e sul loro destino storico-individuale non possono più andare disgiunti. Resiste perciò, e fino alle prove ultime (alle canzoni sepolcrali, al ciclo di Aspasia e a La ginestra), la grande messa in scena della memoria, delle passioni, dei desideri personali e collettivi; ma accompagnata a un continuo controcanto riflessivo, a una esigenza di pensiero. Illusioni e critica delle illusioni convivono ormai in una poetica che fonde poesia e filosofia, riconoscimento del bisogno di armonia e di bellezza e denuncia dei caratteri mistificati e illusori delle sue incarnazioni storiche. In tali condizioni, però, muta il compito sociale della poesia: essa non deve più restaurare la forza delle illusioni, ma stabilire il vero e comunicarlo agli uomini. La condanna che la filosofia moderna ha inflitto alla poesia, emarginandone l’immaginazione, diviene la sua ragione di forza: la poesia moderna sarà filosofica.
Riassunto "il giardino sofferente" giacomo leopardi.