Analisi de "L'Infinito" di Giacomo Leopardi

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Testo

Bozzola Angelo
ANALISI de “L’infinito” di Giacomo Leopardi

Questo idillio fu composto nel 1819: all’epoca Leopardi era appena ventunenne, ma la sua poesia già si mostrava capace di raggiungere una notevole profondità: “L’infinito”, infatti, insieme ad “A Silvia” del 1828 (altro grande idillio leopardiano, maturato in un clima interiore differente), è sicuramente uno dei componimenti più suggestivi della produzione del poeta.
Da un punto di vista metrico, come tutti i componimenti ad esso affini, consta di 15 endecasillabi sciolti.
Dal punto di vista del contenuto, il componimento, seppur di limitata estensione, sviluppa invece tematiche complesse, ed è opportuno procedere ad una parafrasi dello stesso prima di addentrarsi nell’analisi.
PARAFRASI: “Sempre mi fu caro questo colle solitario e questa siepe, che impediscono per larga parte la vista dell’orizzonte più lontano. Ma riflettendo entro me stesso, mi immagino sterminati spazi al di là di quella (siepe), e sovraumani silenzi e profondissima quiete, tali per cui, manca poco che il mio cuore non si smarrisca. E non appena odo il vento sussurrare tra queste piante, mi viene da comparare quell’infinito silenzio a questo suo fruscio: quindi immagino l’eterno, le stagioni passate, e la presente, con il suo suono. Così il pensiero mio si perde in questa immensità ed è dolce smarrirsi in questo mare.”
In questa lirica Leopardi espone le sua riflessioni interiori prendendo spunto dalla visione del paesaggio che si staglia dinanzi a lui, o meglio sarebbe dire dalla “non visione” di detto paesaggio.
Infatti, come si nota già ai versi 1 e 2, la vista è parzialmente ostacolata da un colle (secondo la critica, il monte Tabor, nei pressi di Recanati, anche se, a mio avviso, tentare di contestualizzare ogni dettaglio è un’operazione che sminuisce l’importanza della poesia) e dalla siepe che cinge la proprietà paterna.
Si genera quindi, in aderenza a quanto verrà poi canonizzato nelle pagine dello “Zibaldone” a proposito delle teorie della visione e del suono (luglio 1820), una situazione vaga e indefinita, e, proprio per questo, altamente poetica.
Non riuscendo gli occhi del poeta ad osservare il paesaggio, subentrano infatti quelli dell’immaginazione, che si figura, al di là della siepe e del colle, spazi infiniti, silenzi assoluti e un quiete totale. Si nota in questi versi, tra l’altro, sempre riferendoci alle suddette pagine dello Zibaldone, un richiamo a Virgilio, al IV libro dell’Eneide (dove descrive gli effetti del canto di Circe che giunge di notte da un luogo lontano e indefinito, che risulta quindi più poetico e suggestivo).
Il cuore del poeta, tuttavia, risulta quasi spaventato al cospetto di un tale panorama interiore, come si può notare al v.7; tuttavia il fruscio del vento, subito successivo, assume una funzione molto importante.
Esso richiama Leopardi alla realtà, ma lo mette anche in contatto con le infinite stagioni passate nella storia: secondo Guido Baldi e Silvia Giusso, quindi, il poeta, entrerebbe in contatto con la Vita, nel suo continuo pulsare periodico nel tempo all’infinito; si può quindi comprendere, secondo me, il profondo significato del titolo di questa lirica.
Nella parte conclusiva, infine, si ripropone in maniera parallela rispetto ai vv.7 e 8 la tematica dello smarrimento, che questa volta non trova più ostacoli, né provoca spavento, ma è, come spiega il poeta, una sensazione “dolce”.
Il componimento, nel complesso, quindi, descrive aspetti diversi di una stessa esperienza, che, però, non sono a mio avviso né in contrasto, né poco coesi testualmente.
Analizzando infatti la lirica da un punto di vista strutturale, si può notare come essa sia “divisa” in quattro sequenze. Nella prima (vv.1-3) Leopardi descrive il panorama che si staglia dinanzi ai suoi occhi (è quindi uno scenario reale); nella seconda (vv.4-8) gli effetti provocati in lui da questa imperfetta visione (è dunque uno scenario “fantastico”); nella terza (vv.8-11) torna alla realtà grazie al richiamo del vento (ancora uno scenario reale); ed infine nella quarta entra in contatto con l’Infinito (quindi, una seconda sequenza interiore e fantastica).
Questa alternanza tra aspetti reali e aspetti emotivi non deve, a mio avviso, far credere che l’esperienza non sia unitaria; infatti bisogna tenere conto di due importanti dettagli.
Il primo, molto importante, è posto in apertura: l’avverbio “sempre”, infatti” è emblematico, in quanto non suggerisce l’idea di un evento occasionale, ma di un’esperienza che è stata ripetuta più volte dal poeta, e che ogni uomo può, in teoria, provare.
Il secondo aspetto rilevante, secondo me, è la struttura del verso 7: esso risulta diviso in due emistichi, che congiungono in maniera estremamente rapida, ma, al contempo coesa, due aspetti apparentemente inconciliabili dell’esperienza: la fuga dal reale e il successivo ritorno.
Tuttavia la presenza della congiunzione “e” non suggerisce un’idea di contrasto, ma, al contrario, di fluidità. Inoltre la sinalefe tra i due emistichi (la vocale finale di “spaura” si fonde infatti con la “E” successiva) sottolinea ancora di più questa unitarietà.
Dal punto di vista stilistico, il componimento appare molto equilibrato e studiato.
Si nota, innanzi tutto, l’onnipresenza della congiunzione “e”, soprattutto nelle due sequenze “fantastiche”: essa è importante in quanto, da una parte, suggerisce un’idea di unitarietà nella lirica; mentre dall’altra rende l’idea dell’estrema fulmineità del contatto con l’Infinito.
A rendere l’idea di continuità metrica, sono molto efficaci anche gli enjambements, ben sei su 15 versi (vv.2,4,5,8,9,13).
Non mancano, a mio avviso, anche aspetti che differenziano le due fasi dell’esperienza leopardiana: oltre al fatto che la congiunzione “e” risulta usata con maggior frequenza nelle sequenze non reali, si può notare una scelta di aggettivi differente a seconda delle occasioni.
Infatti, in particolare nella seconda sequenza (vv.4-8) essi sono composti da 4 o 5 sillabe (“interminati…sovrumani...profondissima”), mentre, nelle sequenze reali, essi risultano più brevi e meno arditi (“caro…ermo…ultimo..eterno”).
Tuttavia l’esperienza di contatto con l’Infinito non deve, però, suggerire un’idea di contraddittorietà intrinseca: non operano in questa direzione né le differenze lessicali sopra citate, né i sottili giochi di ossimori sparsi nella lirica (ad es. ai vv.10-11 “eterno…morte…presente” e al v.15 “naufragar…dolce”). Infatti, in un’esperienza di questo tipo, le facoltà intellettive del poeta (ma, in generale, dell’uomo che entra in contatto con l’Infinito), capaci di cogliere un’eventuale contraddittorietà, vengono meno al cospetto di un tale spettacolo interiore.
Da un punto di vista storico, è opportuno chiarire come sia cambiata l’interpretazione di questa poesia, e quanto poco fosse compreso Leopardi dai suoi contemporanei e dai critici anche successivi. Non mancarono infatti studiosi che interpretarono la lirica in chiave mistica (ad es. De Sanctis): il contatto con l’Infinito veniva interpretato come una scoperta di Dio. Non si può dire a priori se questa interpretazione sia errata; può essere possibile (come alcuni critici hanno effettivamente dimostrato) che nell’intimo dell’animo di Leopardi vi fosse spazio per un nucleo di autentica fede religiosa, magari insoddisfatta, ma, come hanno osservato Baldi e Giusso, si tratterebbe di un aspetto profondo e remoto della coscienza del poeta, che, in altri testi si esprime su posizioni nettamente materialistiche e meccanicistiche (si pensi alla fase del “Pessimismo cosmico”, al suo atteggiamento nelle “Operette morali”). La stessa esperienza, come osservano i due critici, in base alla descrizione che ne fa di essa il poeta, non prende il via da spunti religiosi: si tratta di un’”ascesa” che parte da sensazioni visive e uditive, difficilmente conciliabili con un’interpretazione mistica.
Infine, da un punto di vista della storia della letteratura italiana e straniera, si può notare come il poeta marchigiano, largamente sottovalutato dai suoi contemporanei (ad es. Manzoni, ma anche buona parte dei classicisti e soprattutto dei romantici), abbia, secondo me, profondamente influenzato la letteratura successiva.
Le modalità con cui Leopardi entra in contatto con l’Infinito, partendo da semplici spunti isolati e giungendo a comprendere la natura infinita e complessa del reale, richiamano, a mio avviso, seppur con le dovute distinzioni storiche e culturali, l’atteggiamento di molti decadenti.
Anche Baudelaire e Verlaine scorgevano, a partire da simboli e corrispondenze, una trama profonda e irrazionale che dominava il reale; anche Pascoli scorgeva, tramite gli occhi del “Fanciullino”, un nuovo modo di interpretare la realtà e di entrare in contatto con essa; anche D’Annunzio (poeta lontanissimo da Leopardi per innumerevoli aspetti e atteggiamenti nei confronti del mondo in cui viveva), tramite gli occhi del “Superuomo” (nella sua produzione più autentica, ad es. ne “La pioggia nel pineto” o “La sera fiesolana”) scorgeva una nuova prospettiva per decodificare le complesse informazioni che la Natura offriva all’uomo e per penetrarne l’infinita e mutevole essenza.
Forse proprio il carattere chiuso e isolato del Leopardi uomo e intellettuale, lontano dai sommovimenti storico-politici che fermentavano in quegli anni, gli fornì, invece, una posizione privilegiata per osservare la realtà e la cultura del mondo che lo circondavano.

Esempio



  


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