Giacomo Leopardi

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Testo

Italiano: Giacomo Leopardi
Il mio progetto di un’abitazione privata e’ stato fatto nella zona di Recanati dove e’ nato, appunto il poeta Giacomo Leopardi.
Letteratura:
Giacomo Leopardi
Leopardi rappresenta il punto più alto della lirica italiana dell’800 e insieme il più consapevole rifiuto dei miti e delle illusioni della società borghese.
La sua personalità non è esclusivamente rivolta verso la contemplazione, ossia egli non si esaurisce nell’introspezione tutta solitaria e distaccata della storia, come uno spettatore alla finestra, incapace di partecipare alla vita, e vivo solo nella liberazione della poesia.
Al contrario, invece, la poesia leopardiana nasce proprio dalla collaborazione e dall’attrito della forte personalità del poeta, dalla sua fortissima coscienza morale, e dalla tensione intellettuale e pragmatica. A definire la natura del rapporto di Leopardi con il suo tempo influirono in modo determinante la sua condizione e la sua dolorosa esperienza di vita.
Vivere a Recanati non era come vivere a Milano, ma se questo significava essere tagliato fuori dal centro principale del dibattito culturale, per l’altro permetteva al poeta di spaziare oltre i limiti di quel dibattito, per aprirsi ad una visione più vasta, più vicina all’esperienza europea, e affrontare i temi universali della condizione umana: il rapporto uomo-natura, il problema della felicità, il dolore, la noia, temi che Leopardi scopre e sperimenta in se stesso e nelle proprie vicende di vita ma che non rimangano mai confinati in un orizzonte personalistico.
Per conoscere Leopardi è necessario conoscere l’ambiente sociale e familiare in cui il giovane crebbe.
L’ambiente di casa era bigotto e senza cordialità, i rapporti fra i genitori e i figli irti di diffidenza: il padre, di ingegno mediocre e soffocato da pregiudizi, la madre, devota alla fortuna della casa e al bene dei familiari, si adoperava con rapporti autoritari ed arcigni che creavano un atmosfera di severità e freddezza. A Recanati, d’altra parte, come in tutte le provincie dell’Italia centro-meridionale agli inizi dell’800, i fermenti innovatori della civiltà moderna, borghese e romantica, giungono con grande ritardo, mentre sopravvivono i riti di una società feudale, di una letteratura accademica.
Si vive a Recanati come fuori dal mondo: il cammino del progresso sembra essersi fermato e i rapporti fra i ceti sociali sono fermi alle norme di gerarchie medievali, ed è qui, in questo ambiente isolato delle correnti più vive del progresso intellettuale e civile , che vive Giacomo fanciullo con la sua precoce intelligenza e la sua indole sensibile.
Dai preti precettori attinge i primi rudimenti di una cultura umanistica, filosofica, acquistando una conoscenza raffinata del latino e del greco, in quei sette anni di “studio matto e disperatissimo”.
Tutta la produzione dell’adolescenza rientra nel quadro di un’educazione tipicamente settecentesca.
Tra il 1815 e 1816 si attua quella che si chiamerà la sua conversione letteraria, il passaggio dall’erudizione al “bello”, la scoperta della poesia e l’abbandono della filologia.
D’allora in poi comincerà ad amare Omero, Dante, tutti i classici e a detestare la letteratura settecentesca di cui prima era studioso. Importante è la “conversione filosofica”: il passaggio dal “bello al vero”, dalla poesia d’immaginazione alla poesia sentimentale. La preparano la lettura dell’Ortis e del Werther, l’amicizia con Pietro Giordani, e soprattutto la consapevolezza della sua infelicità che si matura in un travaglio di pensieri solitari.
La crisi interiore raggiunge il suo vertice nel 1819 in un fallito un tentativo di fuga, in cui meditò il suicidio sognando di annegare nelle acque della fontana del giardino. Il giovane ha infatti l’incontro con la “noia” che non solo l’opprime ma lo affanna, per cui è così spaventato dalla vanità di tutte le cose e della condizione degli uomini. Solo nel novembre del 1822 ottiene di lasciare Recanati per Roma dove vi rimane fino alla primavera del 1823. È una delusione rovinosa, il Leopardi avverte dentro di sé la malattia del secolo ossia l’incapacità di adattarsi alla realtà concreta.
Egli aveva creduto che al di là della sua prigione vi fosse un mondo nel quale incontrare quei valori che egli sognava e che non trovava nella stretta cerchia della società paesana. Roma gli appare come una grande Recanati, quindi l’intero Stato pontificio e più ancora l’intera società della Restaurazione.
Questa amara delusione stimolò il suo pensiero che giungerà a conclusione per lui definitiva sul valore dell’esistenza e sulla condizione umana.
Poi il ritorno a Recanati dove rimane fino al 1825 e compone la maggior parte delle operette morali che costituiscono il suo sforzo più elevato di elaborazione filosofica.
Abbandona di nuovo Recanati per soggiornare a Milano, a Bologna, a Firenze e a Pisa, allacciando rapporti con diversi intellettuali e mantenendo conoscenze epistolari con vecchi amici.
Dopo il 1830 vive a Firenze, poi a Roma e infine a Napoli in cui accetta un offerta dell’amico Antonio Ranieri.
A Napoli vive l’ultimo periodo della sua vita e qui lo raggiunge la morte il 14 giugno 1837 tanto spesso invocata.

IL PENSIERO LEOPARDIANO
Inclinazione al pessimismo
L’uomo aspira alla felicità, nella quale dovrebbe identificarsi l’esistenza
Tale desiderio tende ad un piacere eterno e infinito e quindi inattingibile, l’esistenza diventa infelicità
L’uomo s’illude di essere nato per il piacere, si accorge invece che la vita è un procedere inesorabile verso l’infelicità e il dolore TEORIA DEL PIACERE
Unico momento di piacere può essere quello in cui ci si libera da un affanno, perché la cessazione di qualsiasi dolore è piacere per se medesimo
La verità per l’uomo è irraggiungibile e l’universo è un mistero impenetrabile di cui non si conosce né il principio né la fine
La realtà è pura natura strettamente legata alla materia, la quale è soggetta ad un continuo e meccanico moto
Le anime nobili sono la più infelici e l’uomo è il più infelice di tutte le creature, perché è cosciente del suo destino di dolore e di morte; perciò quando per lui la vita non è dolore, è noia
Qual è la causa dell’'infelicità dell’uomo?
1° Natura , madre benigna creò l’uomo
L’uomo volle uscire dallo stato naturale e usò la ragione per indagare e scoprire la verità , che la vita cioè è dolore e che gli uomini vivendo soffrono
La storia dell’uomo è la progressiva scoperta della infelicità , da cui il rimpianto delle antiche età
Il destino dell’uomo è nell’opposizione tra la natura , benigna verso gli uomini a cui vuole celare la verità e la regione , che va inesorabile verso l’orrido vero e distrugge i fantasmi della bella età PESSIMISMO STORICO
2° Natura ha creato con l’uomo un insaziabile desiderio di felicità allora la natura appare come perfida matrigna , che illude l’uomo avvolgendolo nelle illusioni perché più cocente sia la sua delusione al momento della scoperta della verità
Nessuna epoca può essere considerata felice tutto è male ciò che la natura crea l’infelicità non è quindi una condizione esclusivamente umana , ma investe tutte le creature PESSIMISMO COSMICO
Leopardi è legato al freddo meccanicismo illuministico
Morte =liberatrice degli affanni terreni
Il pensiero leopardiano
La prima educazione letteraria di Leopardi è arcadica, ma l’incontro coi romantici inizia e accompagna il maturarsi di una nuova concezione dell’arte che conduce Leopardi ad accettare i fondamentali presupposti della scuola moderna e culmina nell’affermazione di una poetica originale esplicitamente romantica sebbene in senso assai diverso a quello dominante presso i romantici dell’alta Italia.
Vera poesia è per Leopardi solo quella d’immaginazione, quella armonica, mentre la sentimentale è solo una filosofia, ed è questa per il poeta la poesia proprio, del suo secolo. Il suo problema è non di respingere l’esigenza della poetica romantica, bensì di determinarla alla tendenza del suo personale modo di sentire. Dal 1815 in poi Leopardi svolge una tesi secondo cui la poesia fa tutt’uno con l’infinito e la rimembranza. Le idee vaghe, le sensazioni indeterminate, sono per se stesse poetiche e perciò ogni poesia si risolve in un ritorno ad un mondo di remote e sognanti fantasie, nella rievocazione di un tempo e di una spazio perduti e inafferrabili.
La poesia risponde al suo fine quanto più si allontana dalla pura narrazione dei fatti nella loro verità, quanto più si accosta alle condizioni della musica ed esprime la vita del sentimento nella sua immediatezza. Tale fervida attività intellettuale trova di organizzarsi in un vero e proprio sistema che si è soliti chiamare Zibaldone.
Punto di partenza è quella chiusura in sé ed estraniazione dal mondo circostante, da cui nasce la noia, ossia uno stato di vuoto interiore, di inerzia della sensibilità.
Questa noia è provocata da ragioni non individuali, ma sociali e storiche, cioè dal conflitto fra natura e ragione.
La Natura ci crea felici perché ci dà una capacità di vita quanto mai energica e viva, la civiltà però distrugge questo stato felice, uccide le illusioni, spegne gli ardori. Come si vede per Leopardi, in questi anni la propria infelicità è un fatto sociale e storico, prodotto della corruzione della società a causa di un corso storico distorto. Di qui questa prima fase del suo pensiero che è stata definita del pessimismo storico che tende la sua speculazione sulle antitesi natura-ragione, bello-vero, immaginazione-sentimento.
Per tutta questa prima fase dell’attività poetica del Leopardi, c’è una ricerca assai varia di modi poetici nei quali esprimere un mondo interiore, ricco ma non ancora decantato. Il poeta scrive canzoni su temi ora attinti dalla cultura classica, come Bruto minore, e l’Ultimo Canto di Saffo, ora da fatti moderni, ora dalla traduzione letteraria come All’Italia. In questa poesia il poeta mostra un patriottismo generico sì, ma che ha pure una sua intimità, perché il lamento sulla decadenza della patria è in Leopardi tutt’uno con il lamento sulla propria giovinezza, e si nutre del tormento di stare a Recanati, quando avrebbe potuto fare tanto per la patria.
I Piccoli Idilli
In questi anni compose insieme alla canzoni delle liriche come L’Infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, etc., pubblicate col nome di Idilli. Il titolo, desunto dal poeta Mosco è adoperato nel senso di “quadretto”.
Prende qui rilievo una materia esclusivamente autobiografica, legata a tempi e luoghi familiari rivissuti nella dimensione della memoria, nella quale continuano a insinuarsi elementi di perplessità nei confronti del mito della Natura benigna. C’è da osservare che ogni spunto paesistico in queste poesie serve solo a suggerire uno stato d’animo sentito nell’istante in cui si impone alla coscienza producendo uno stupore e una indefinibile letizia.
Per converso, gli elementi riflessivi non hanno gravezza, hanno invece, il sapore di una scoperta che fa tutt’uno con il palpito immediato del cuore. La bellezza di questi idilli sta proprio in questo primo accostarsi di Leopardi alla sostanza più pura della sua materia poetica, che ora avverte ed esprime in modi più semplici. Di qui il valore esemplare di questi idilli da cui si svolgerà la grande poesia di Leopardi e la maturazione della sua poetica del sentimento.
Le Operette Morali
Dopo questa prima stagione poetica, con la fine del 1822 se ne sovrappone un’altra di cui le Operette morali sono il massimo risultato, quella in cui il poeta sviluppa e approfondisce, in termini, decisivi il suo pensiero. Il poeta sposta la sua attenzione dal tema della felicità che non si può ottenere, a quello della sofferenza, che, al contrario, non si riesce ad evitare. Alla visione di una infelicità di tipo psicologico subentra una visione di tipo cosmico. Anche se l’individuo potesse raggiungere il piacere, il bilancio della sua esistenza sarebbe comunque negativo per la quantità dei mali reali con cui la Natura, ormai Matrigna, dopo averlo prodotto, tende ad eliminarlo per dar luogo ad altri individui, in una lunga vicenda di produzione e distruzione che non rende felice il singolo. La colpa dell’infelicità non è più della ragione, ma solo della Natura. Figlio di una Natura Matrigna, pertanto, l’uomo non ha che un modo solo di affermare la sua dignità: guardare in faccia la realtà e non pascersi di vane illusioni, riconoscere la propria miseria, e in questo riconoscimento trovare una ragione amara ed eroica di vita. Sul piano della riflessione si segna l’approdo del pessimismo storico al pessimismo cosmico segnato da una sconsolata visione del mondo e da un atteggiamento di ironico distacco.
Paradigmatico il “Dialogo della Natura e di un’Islandese” in cui il poeta narra la tragica avventura di un islandese che nell’interno dell’Africa incontra la Natura, e le chiede conto del dolore dell’uomo, della sua infinita miseria, e del suo destino di morte. A queste accuse la Natura risponde che non ha creato il mondo per l’uomo, e che la vita dell’universo è un ciclo perpetuo di generazione e distruzione, collegate fra loro. La sofferenza quindi è la legge stessa dell’universo, e nessun luogo e nessun essere ne è immune.

I Grandi Idilli
Fra il 1828 e il 1830 nella lirica leopardiana si realizza un massimo di determinatezza e un massimo di universalità: è la stagione dei grandi Idilli: A Silvia, Il Sabato del villaggio, La Quiete dopo la tempesta, Il Passero solitario, etc.
Ritorna qui la poetica che era già in nuce nei piccoli idilli, anzi la materia stessa di quegli idilli giovanili, già allora fissata in maniera provvisoria, trova rigore nuovo ed una consapevolezza ferma e chiara che consente al discorso poetico di spaziare e di articolarsi in forme più larghe e complesse.
La maggior parte di questi idilli nasce nella situazione psicologica del ritorno ad una famiglia ed un paese odiati. Sono ispirati dalla “ricordanza” e dunque da una forte componente autobiografica. Il poeta narra la propria storia scandendola in età, quella inconsapevole dell’infanzia e dell’adolescenza, quando erano ancora possibili le speranze, e la presente, con la disillusa consapevolezza del vero.
Ora, dunque, egli ricorda e sa che le cose che ama sono lontane e morte, che la vita è dolore, che la sua adolescenza è stata pianto e speranze deluse. Al fondo di queste liriche vi è sempre ossessivo un senso della triste vita, una coscienza amara del nulla, che si concreta nella rappresentazione angosciosa dell’uomo che corre verso il nulla e vi precipita e annega come nel “ Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” .
Ma queste verità dolorose sono dette con infinito pudore, e la meditazione triste non si sovrappone alla descrizione o alla reminiscenza, così da distruggerla, ma la completa e sembra nascere come nel “Sabato del villaggio” , dalla serenità di un’ora in cui l’uomo guarda alla gioia altrui con la tristezza grave di chi sa che tanta festa è illusione, ma pure questa illusione altrui rispetta e contempla con umana cordialità.
Con la stessa grave serenità Leopardi contempla il se stesso di un tempo, con quelle speranze, quelle illusioni, e così contemplandolo lo solleva all’altezza del mito, e ne fa il simbolo luminoso di una giovinezza, ideale momento indimenticabile di festa e di gioia.
Ultimo Leopardi
Negli ultimi anni sotto la spinta di tutta la sua vita interiore, ma anche sotto quella di tutte le esperienze vissute dell’Italia e dell’Europa, nasce in Leopardi un nuovo atteggiamento, più vicino al suo titanismo giovanile, ribelle contro la società e la Natura. Di qui la più complessa delle sue liriche, “La Ginestra”, in cui l’umile fiore profumato diventa un mito, il simbolo dell’uomo che ardisce sollevare gli occhi contro il destino nemico, e non si ribella scioccamente alla natura più forte, ma nemmeno le cede, e aspetta pronto a chinare il capo e a lasciarsi travolgere dalla lava infuocata, ma intanto manda un dolcissimo profumo che consola il deserto.
Il libro dei Canti si chiude così con questo messaggio di solidarietà nato dalla coscienza stessa del dolore, in una lirica vasta in cui da una parte si erge il Vesuvio, come simbolo della Natura ostilmente indifferente, dall’altra fiorisce l’umile ginestra simbolo della dignità e della fratellanza umana.

PRODUZIONE LETTERARIA E PENSIERO LEOPARDIANO
L’ALTERNATA ATTIVITA’ CREATIVA
1819-20 IDILLI
1822 CANZONI
1824 OPERETTE MORALI
1821-23 ZIBALDONE
1825-28 LAVORO PRESSO L’EDITORE STELLA
LA FUNZIONE DELLO ZIBALDONE
E’ un “libro parallelo”sul quale registrava quotidianamente il frutto delle sue riflessioni e dei suoi studi
Libro che rappresenta un aspetto fondamentale ed insostituibile di un incessante movimento di pensiero, destinato di volta in volta ad esprimersi nella forma sbrigativa dell’appunto o in quell’elaborata e compiuta delle poesie e della prosa
E’ l’immenso repertorio meditativo da cui estrae le cellule tematiche
L’IDEA DI CLASSICITA’
DISCORSO DI UN ITALIANO INTORNO ALLA POESIA ROMANTICA
Il poeta ha un’immagine idealizzata della classicità , considerata l’età della primavera del genere umano , in cui l’uomo , allo stesso modo degli animali e delle piante , si sentiva parte integrante di un sistema di fenomeni naturali governato dal ciclo delle stagioni e dalle variazioni del clima
Antichi = simbolo di una condizione armoniosa
→ Perdutasi nel momento in cui il legame tra l’uomo e la natura è stato intaccato dalla religione cristiana e dal razionalismo scientista , che hanno rafforzato il senso di superiorità dell’uomo rispetto al resto del creato , inducendo l’uomo a una sciocca superbia
Scomparse le dolci illusione degli antichi si deve sgombrare il campo dalle superbe e vane illusione antropocentriche , come :progresso , potere , ricchezza
L’atteggiamento del poeta rispetto a quest’ultimo aspetto poggia su due premesse :
Collocazione periferica e irrilevante dell’uomo nell’universo
e l’incapacità di prenderne atto
IL MESSAGGIO DELLA GINESTRA
l’uomo deve rendersi consapevole del suo stato di vittima del sistema naturale e liberarsi da tutti gli inganni che nascondono la verità
si potrà così sviluppare una solidarietà tra vittime (uomini) , concentrando le forze contro le avversità a cui l’uomo è esposto
L’AVVERSIONE PER LA PROPRIA EPOCA
Storia= progressivo accumularsi di errori
Odio per la propria epoca → è contro il progressismo idealista di marca liberale e lo spiritualismo cattolico → lotta titanica del singolo incompreso
IL PESSIMISMO STORICO
I° 17-21
Natura= sorgente di energia vitale e di consolanti illusioni , mentre i mali dell’umanità vengono ricondotti ai guasti dovuti al processo di “civilizzazione”
II° 24
Visione meccanicistica dell’universo naturale → ciò conduce al PESSIMISMO COSMICO
Natura = madre maligna → non possiamo imporci a lei in nessun modo
LA TEORIA DEL PIACERE
Insofferente verso l’idealismo e lo spiritualismo , riprende dalle concezione sensiste di matrice illuministica non solo l’idea meccanicistica della natura (vedi sepolcri di Foscolo), ma anche il concetto secondo cui la molla principale dell’attività umana è la ricerca del piacere
Quel desiderio è impossibile da soddisfare , essendo per sua natura infinito
Avrebbe infatti bisogno di un piacere altrettanto infinito
Ma poiché questo non esiste se non nell’immaginazione , la soddisfazione di un desiderio è qc che perviene non al reale , bensì all’immaginario : il piacere dunque , non è che attesa indefinita di un’acquisizione che non avverrà mai
IL PRINCIPIO DI REALTA’
L’insoddisfazione del desiderio nella realtà produce dolore e pena , che possono essere alleviati solo fuggendo dalla realtà stessa , attraverso la fantasia
Piacere è in realtà:
attesa di un irraggiungibile piacere futuro
momentanea cessazione o attenuazione del dolore
LA NOIA
Il dolore e l’attesa del piacere , in quanto poli su cui si concentra ogni moto dell’animo , sono segni di energia vitale
Più temibile è la noia che subentra ad occupare gli spazi vuoti causati dalla momentanea assenza di quelli e che determina uno stato d’indifferenza e senza passione
La vita dell’uomo oscilla fra il desiderio sempre deluso del piacere , il dolore che ne consegue , e la noia (vedi schopenhauer)
La noia proprio perché Leopardi è diverso e vale più degli altri , capisce e conosce più degli altri , è più positiva del dolore : è un sentimento nobile e sublime che non tutti possono provare (titanismo)
Dal 1823 la teoria del piacere assume punte più radicali
→ PRIVAZIONE O DEPRESSIONE DI UN SENTIMENTO
IL PIACERE E LA MEMORIA
(vedi alla luna) il ricordo di una condizione trascorsa è di per se piacevole , anche se la condizione ricordata è dolorosa
memoria produce uno stato d’animo contemplativo e malinconico , fatto di sensazioni indefinite e vaghe , che provoca nell’animo una forza particolare di diletto
il diletto e max quanto più lontano è il ricordo → memorie più piacevoli sono quelle dell’infanzia
LA FINE DI OGNI ILLUSIONE
Ciò che è offerto dalla memoria è una pura consolazione → si mantengono noia e dolore
UNA VERITA’ NEGATIVA
Il vero si identifica con la morte e con i “ciechi destini dell’universo” , con tutto quanto resta incompreso
La verità è negativa in quanto funziona da deterrente nei confronti di qualsiasi fallace valore positivo proposto dall’istinto umano di sopravvivenza
IL MITO NEGATIVO E LA POESIA
La verità è mandata da Giove sulla terra , dove le è riconosciuta perpetua stanza e signoria sugli uomini
La forza poetica della produzione deriva dalla presenza di un mito negativo , che proietta su un piano assoluto le contraddittorie manifestazione dell’esistenza
A esso va anche ricondotta la fermezza stoica con cui il poeta rifiutò sempre ogni facile consolazione , ogni pietoso inganno che potesse distoglierlo , sia pure per un attimo , dalla contemplazione del tragico destino dell’uomo .

STORIA: L’UNITA’ D’ITALIA
In Italia, la conseguenza più appariscente della nuova restaurazione successiva al 1848 fu una notevole accentazione dell’influenza austriaca: soltanto il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie potevano considerarsi immuni.
Mentre lo Stato napoletano era ripiombato in un ciclone di esasperata reazione assolutistica che bloccò ogni possibilità di progresso politico e sociale, creando una situazione di totale stagnazione economica, nel Regno sabaudo lo Statuto del 1848 non fu abolito e la lenta modernizzazione economica e politica di alleanza della monarchia con la borghesia moderata, già iniziata negli ultimi anni di Regno da Carlo Alberto, ripresero alla conclusione della guerra sotto il suo successore Vittorio Emanuele II.
Conclusa la pace con l’Austria, il governo piemontese guidato da Massimo D’Azzeglio, poté riprendere una politica di tante riforme interne, di cui furono un segno sia le leggi proposte dal Ministro Siccardi, nel 1850, che limitavano i privilegi ecclesiastici e restituivano allo Stato molte funzioni e prerogative assegnate alla Chiesa, sia le iniziative tendenti a favorire lo sviluppo economico, specie nel settore dell’agricoltura. Tuttavia la strada delle riforme subì una accelerazione vigorosa si affacciò al governo il Conte Camillo Benso di Cavour .
Attento studioso dei problemi economici e fautore delle teorie liberate, Cavour fu anche osservatore delle necessità di una politica e di una legislazione che garantisse le essenziali libertà civili dei cittadini. Alienato su posizioni moderate e contrario ad ogni tipo di rivoluzione, Cavour riteneva che soltanto attraverso un graduale rinnovamento delle strutture politiche , sociali ed economiche si potesse realizzare un effettivo progresso civile e insieme si potesse portare il Regno di Sardegna ad inserirsi nei circuiti economici internazionali e nell’area dello sviluppo capitalistico.
Chiamato da D’Azzeglio, nel 1850, a partecipare al governo come ministro dell’Agricoltura, Commercio e Marina, nel 1852 riuscì ad arrivare alla presidenza del Consiglio, scavalcando D’Azzeglio. Grazie ad un accordo tra lo schieramento parlamentare di centro-sinistra e quello moderato di centro-destra, che è passato alla storia col nome di Connubio, Cavour riuscì a governare con sicurezza per circa 9 anni, realizzando un ampio programma che si muoveva su tre linee: sviluppo economico dello Stato sabaudo, potenziamento dell’apparato militare, rafforzamento della sua posizione diplomatica e dei suoi rapporti con le potenze europee, in vista dell’obiettivo strategico di un espansione territoriale ai danni dell’Austria.
Anche il clima politico e la vita culturali del Regno si arricchirono grazie alla libertà di stampa, di parola che lo Statuto garantiva, ma anche grazie alla forte presenza nel paese di esuli liberali provenienti da tutt’Italia.Le persecuzioni poliziesche attuate negli stati italiani portarono numerosi patrioti a rifuggiarsi nel Regno di Sardegna, che si mostrò assai aperto e disponibile ad accoglierli.
Queste presenze funsero da stimolo per la classe dirigente piemontese all’impegno per l’indipendenza degli altri Stati della penisola, in una prospettiva di unità nazionale che andava definendosi anche in seno alla correnti liberali moderate.
Sul versante della politica estera, l’intensa azione diplomatica di Cavour si indirizzò ad inserire il Regno di Sardegna nella rete dei rapporti internazionali e a trovare adeguate alleanze per riprendere la guerra con l’Austria. In questa direzione, particolarmente incisiva risultò da parte di Cavour l’azione di denuncia, all’opinione pubblica europea, della grave situazione degli Stati italiani oppressi dalla presenza austriaca, e dal pericolo che ciò favorisse la propaganda rivoluzionaria e un ritorno all’azione dei movimenti democratici.
La guerra di Crimea del 1855, a cui anche il Regno di Sardegna partecipò, fu un’utile occasione che Cavour seppe sfruttare, utilizzando la successiva conferenza di Parigi come pubblica tribuna per ribadire queste denuncie che trovavano ascolto presso i liberali di tutti i paesi e suscitarono l’interesse di Luigi Napoleone, diventato imperatore di Francia nel 1852 col nome di Napoleone III, che cominciava a intravedere un’occasione favorevole per estendere l’influenza francese sulla penisola italiana. Appariva a questo punto realizzabile un’alleanza franco-piemontese in funzione antiaustriaca e una soluzione diplomatica e militare del problema italiano.
Paradossalmente fu proprio il gesto isolato di un mazziniano, che voleva vendicare l’intervento contro la Repubblica romana, ed affrettare i tempi dell’alleanza franco-piemontese. Nel gennaio del 1858 il repubblicano Felici Orsini attentò alla vita dell’imperatore lanciando tre bombe contro la sua carrozza, ma fallì l’obiettivo provocando molti morti tra la folla che assisteva al passaggio del corteo imperiale.
Il suo gesto gettò discredito sul movimento mazziniano e diede spunto a Cavour per ribadire l’urgenza di una soluzione del problema italiano. L’alleanza fu sancita in un incontro segreto a Plombieres nel luglio 1858, in cui Cavour e Napoleone III si accordarono per un intervento militare contro l’Austria prefiggendo una divisione dell’Italia in tre Stati: un Regno dell’Alta Italia comprendente, oltre al Piemonte, il Lombardo-Veneto e L’Emilia Romagna, sotto la casa sabauda; un Regno dell’Italia centrale, formato dalla Toscana e dalla provincie pontificie; un Regno Meridionale, concidente con quello delle Due Sicilie liberato dalla dinastia borbonica.
Al papa che avrebbe conservato la sovranità su Roma e dintorni, sarebbe stata offerta la presidenza della futura Confederazione italiana. Dietro questo progetto si calcavano due diversi disegni: quello di Napoleone III che mirava a porre l’Italia sotto suo controllo, mettendo un proprio parente sul trono dell’Italia centrale e appoggiando per il Regno Meridionale la candidatura di un figlio di Gioacchino Murat; e quello di Cavour che contava sulle forze d’attrazione del Piemonte nei confronti degli altri Stati italiani.
Tuttavia se il progetto politico di Cavour poteva soddisfare le aspirazioni piemontesi, non rispondeva certo alle speranze dei liberali e dei democratici mazziniani, che rifiutavano l’ipotesi di un nuovo smembramento dell’Italia e soprattutto l’imposizione di una nuova egemonia francese sulla penisola.
Agli occhi di Mazzini si trattava di un vero e proprio tradimento delle aspettative liberali, mentre lo statista piemontese vedeva l’alleanza con la Francia come un primo passo verso soluzioni del problema nazionale.
L’azione di Cavour si rivelò efficace: l’Austria reagì agli accordi di Plombieres e ai movimenti di truppe piemontesi predisposte ai confini con la Lombardia, intimando la cessazione di ogni provocazione militare: al rifiuto del governo piemontese all’Austria non restò dichiarare guerra il 16 aprile 1859. Le operazioni belliche ebbero breve corso ma furono assai cruente: in due successive battaglie, a Magenta e a Solferino e a San Martino, le truppe franco-piemontesi, rinforzate da un contingente di volontari guidati da Garibaldi, i cosiddetti “Cacciatori delle Alpi” , ebbero ragione dell’esercito austriaco. Il disegno di Cavour sembrava quindi realizzarsi ma a quel punto due elementi nuovi convinsero Napoleone III a interrompere le operazioni militari per giungere ad un compromesso con l’Austria: il pericolo di un intervento della Prussia e il radicale mutamento in atto nelle regioni dell’Italia centrale. Infatti in Toscana nei Ducati e in gran parte territori pontifici sino all’Umbria e alle Marche, le popolazioni erano insorte costituendo governi provvisori orientati ad un’unione politica con il Regno sabaudo. Era chiaro che il movimento liberale godeva di larghe adesioni in queste regioni e che difficilmente Napoleone III sarebbe riuscito a realizzare l’originario piano concertato con Cavour. Questi favoriva, d’altra parte, tutto il movimento appoggiando i governi provvisori che si andavano formando.
L’armistizio dell’11 luglio a Villafranca, firmato da Napoleone III senza avvertire Cavour, non fermò questo processo: i governi liberali si rifiutarono di deporre il potere e cominciarono a prepararsi ricadendo le richieste di annessione al Regno di Sardegna. Di fronte a questa decisione di intere popolazioni di proseguire nel processo di unificazione nazionale, Cavour riuscì a convincere Napoleone III a dare il suo assenso a un’operazione che prevedeva l’annessione alla corona sabauda oltre che della Lombardia, anche della Toscana, dell’Emilia Romagna e dei Ducati e la cessione di Nizza e Savoia alla Francia. L’11 e il 12 marzo del 1860 le popolazioni dell’Italia centrale votarono la loro volontà di unione al Regno di Sardegna.
Si costituiva così, intorno corona dei Savoia, un ampio Regno dell’Italia centro-settentrionale, da cui era escluso il Veneto, che rimaneva all’Austria e l’Umbria e le Marche che restavano sotto il governo pontificio.
Si compie così un importante passo in direzione dell’unificazione dell’intera penisola: ma se Vittorio Emanuele poteva ritenersi soddisfatto degli acquisti realizzati, in tutta l’Italia il movimento liberale aspirava al compimento del processo unitario. Le pressioni in questa direzione erano fortissime, in particolare nel Regno delle Due Sicilie, dove andava facendosi sempre più difficile il rapporto tra le popolazioni e il governo.

La spedizione dei mille e la costituzione del Regno D’Italia
A Napoli, il trono dei Borbone vacillava sempre più e andava aumentando l’ostilità nei suoi confronti sia tra le file della borghesia liberale, sia tra le popolazioni contadine. Nell’aprile del 1860, un’insurrezione a Palermo diede inizio ad un esteso movimento di guerriglia nelle campagne. La notizia di questi episodi si diffusero in tutt’Italia rilanciando le speranze dei democratici e una possibile rivoluzione popolare nel Mezzogiorno. Garibaldi che si era distinto nelle battaglie con l’Austria, fu esortato a organizzare una spedizione di liberazione della Sicilia. Egli accettò di affrontare l’impresa e con circa 1000 uomini partì da Genova il 6 maggio sbarcando a Marsala qualche giorno dopo. Gruppi sempre più folti di cittadini accorsero a ingrossare le truppe di Garibaldi che, dopo una prima vittoria a Calatafini, riuscì a conquistare Palermo, per poi stancare la resistenza dell’esercito borbonico a Milazzo, costringendolo ad abbandonare la Sicilia. L’obiettivo di Garibaldi era quello di liberare la Sicilia e il Mezzogiorno dai Borbone e per realizzarlo aveva bisogno dell’appoggio di tutte le forze sociali, anche di quella dei possidenti. Per questo si preoccupò di controllare i focolai di rivolta contadina, anche a costo di usare la forza come avvenne a Bronte dove i contadini occuparono con violenza le terre.
L’immediato invio di Garibaldi comandati da Nino Bixio, segnò il ristabilimento dell’ordine attraverso la coalizione di numerosi contadini.
Mentre nell’isola si formava un governo civile provvisorio sotto la guida di Francesco Crispi e si tentava di mettere in moto un processo di riforma sociale, nell’Italia settentrionale un’organizzazione con a capo Agostino Bertoni raccoglieva uomini da inviare in Sicilia. Col loro apporto Garibaldi mosse all’attacco delle truppe borboniche e le sconfisse a Milazzo.
Fino a tutta l’estate del 1860, l’iniziativa restò nelle mani di Garibaldi che riuscì a sbarcare in Calabria e poi a fare il suo ingresso trionfale a Napoli.
Napoli liberata rischiava di trasformarsi in un quartiere generale dei democratici, in quanto vi accorsero patrioti di tutt’Italia, era tra loro Mazzini deciso a proseguire la lotta per liberare Roma e organizzare elezioni per l’assemblea costituente. Non restava per il governo piemontese altra scelta se non quella di prevenire l’iniziativa garibaldina con un intervento militare.
In settembre le truppe regie varcarono i confini dello Stato della Chiesa, invasero l’Umbria e le Marche e sconfissero l’esercito pontificio nella battaglia di Castelfidardo. Ai primi di ottobre, mentre Garibaldi batteva i borbonici nella battaglia di Volturno, l’esercito sabaudo iniziò la marcia verso il Mezzogiorno.
Pochi giorno dopo il Parlamento piemontese approvò una legge proposta da Cavour, che autorizzava il Governo a decretare l’annessione di altre regioni italiane allo Stato sabaudo, purché le popolazioni interessate esprimessero la loro volontà mediante plebisciti. L’iniziativa tornava così nelle mani di Cavour e dei moderati. A questa iniziativa Garibaldi non poteva opporsi, tanto più che la situazione nel Mezzogiorno non poteva dirsi tranquilla, e tutto questo non faceva che rafforzare il partito delle annessione incondizionata, che aveva tra i suoi fautori molti garibaldini.
A Garibaldi non restò che attendere l’arrivo dei piemontesi, a Teano, presso Caserta, il 25 ottobre per cedere loro ogni responsabilità nel governo delle provincie liberate.
Tra ottobre e novembre una serie di plebisciti sancivano l’annessione dell’Italia Meridionale, della Sicilia, delle Marche e dell’Umbria, mentre Roma e il Lazio rimanevano sotto il dominio del papa.
Il 17 marzo 1861 il primo Parlamento nazionale riunito a Torino proclamava la nascita del Regno D’Italia.
La politica moderata cavuriana risultava vincente su tutta la linea. Anche nel Mezzogiorno il processo unitario si era compiuto sotto la direzione delle forze monarchiche e moderate, secondo la strategia espressa nella formula Italia e Vittorio Emanuele. L’ipotesi democratica della formazione di uno Stato unitario costruito dal basso era tramontata, ma tramontate erano anche le speranze del mondo contadino meridionale di veder risolti, con la fuga dei Borbone i grandi squilibri sociali ed economici che l’affliggevano.
Saranno propri questi nodi irrisolti, il malessere che ne deriverà all’interno del mondo contadino e le scelte non sempre felici del nuovo Stato italiano a creare i presupposti per una serie di gravi problemi, su cui si dovranno misurare i governi nei decenni successivi.

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  1. ciro formisano

    parafrasi il sabato del villaggio di giacomo leopardi