"Se questo è un uomo"

Materie:Scheda libro
Categoria:Italiano

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2.5 (2)
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Data:26.03.2008
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Testo

SE QUESTO È UN UOMO – Primo Levi

Si tratta di un romanzo autobiografico scritto da Primo Levi, che racconta dell’esperienza drammatica e toccante della deportazione degli ebrei italiani ad Auschwitz.
Il libro inizia con la cattura da parte dei nazisti. Dopo un lungo viaggio, Levi arriva in un luogo in cui ad ognuno viene indicata una direzione in base all’età e allo stato di salute inoltre, uomini e donne vengono divisi. Gli uomini selezionati vengono poi caricati su un autocarro che si ferma davanti ad un cancello con scritto sopra “ARBEIT MACHT FREI”. Tutti i passeggeri che si trovavano sul treno che li ha portati lì, soffrono per il freddo e la sete.
Un’ SS ordina a tutti di spogliarsi e di mettere le scarpe in un angolo.
In questo punto del romanzo mi ha colpito la brutalità con cui vengono trattati questi uomini, come se non fossero essere umani ma bestie. Le SS stanno lì a guardare gli uomini che si stanno riparando come possono dal vento gelido mentre sono nudi; vengono poi tutti tosati e mandati alle docce.
In quel momento, Levi si chiede perché li fanno stare lì in piedi e non li fanno nemmeno sedere o bere e scrive “io ho capito che presto sarà finita” (pg. 21).
Entra un uomo che gli spiega dove si trovano e cosa succede: “Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz; questo è un campo di lavoro; tutti i prigionieri lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna” (pg. 21).
Viene loro spiegato che riceveranno scarpe e vestiti (non i loro), che stanno aspettando la doccia e la disinfezione e che ogni giorno verrà distribuita zuppa.
Dopo la doccia vengono portati in una baracca e qui hanno qualche istante per pensare a tutto ciò che è successo così velocemente.
“Ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. Più giù di così non si può andare, condizione umana più misera non c’è e non è pensabile” (pg. 23).
A ciascuno dei prigionieri viene tatuato un numero che prenderà il posto del loro nome. Da quel momento in poi, giorno dopo giorno, ognuno di loro imparerà a reggere l’enorme fatica del lavoro in situazioni disumane, sopportando la neve e la pioggia, protetti solo da pochi stracci. Capiranno quali strategie e sotterfugi usare per sopravvivere un giorno in più e poter dire ogni sera “sono ancora vivo”.
Nell’ottobre del 1944, Levi trova un’ulteriore áncora di salvezza. Infatti, riesce a superare l’esame di chimica e viene scelto per andare a lavorare nel laboratorio del Lager.
Intanto, i russi si stanno avvicinando e molti prigionieri sperano nell’ormai prossima liberazione.
Poi, finalmente, molti mesi dopo, avviene la tanto attesa e sofferta liberazione e questa esperienza finirà, per Levi e per tutti i prigionieri che si sono salvati, fisicamente ma non nei loro ricordi.

COMMENTO PERSONALE

Tutto il libro è scioccante, soprattutto sapendo, leggendolo, che tutto ciò che è stato raccontato è realmente successo.
Ma vi sono alcuni passaggi che rimarranno impressi nella mia mente.
Uno di questi è a pagina 17 e racconta di un episodio successo all’inizio della drammatica esperienza della deportazione: quando uomini e donne vengono divisi, ci sono molti che salutano i loro familiari (mogli o figli) sapendo che probabilmente quella sarà l’ultima volta che li rivedranno e che potranno abbracciarli e dire loro quanto li amano; un uomo però “indugiò un istante di troppo a salutare la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra”. Questo fatto fa capire che ciò che è successo è solo una minima parte di ciò che accadrà dopo, così come le SS uccidono anche Emilia, una bambina di tre anni, solo perché figlia di ebrei.
Come possono delle persone uccidere a sangue freddo tante persone senza avere alcun rimorso? Cosa pensano in quel momento e cosa c’è nelle loro menti che gli permette di fare una cosa del genere a volte, addirittura, sorridendo? L’unica risposta che sono riuscita a darmi è che quelli siano solo gli ordini che sono stati loro imposti.
Durante tutta l’esperienza si racconta di prigionieri ridotti al minimo indispensabile per sopravvivere e ciò ci giunge anche da molti filmati e foto di cui spesso si parla.
Secondo me, è umanamente impossibile riuscire a guardare ogni giorno migliaia di persone che muoiono e che a malapena si tengono in piedi, senza fare niente e, anzi, contribuendo alla loro condizione di miseria.
A quei prigionieri è stato tolto tutto ciò che apparteneva loro: i vestiti, le scarpe, i capelli e persino il nome; li hanno separati dai loro cari senza dar loro il tempo di salutarli e di capire cosa gli stesse succedendo, dov’erano e cosa gli avrebbero fatto ancora.
Nel secondo capitolo, ricorre più volte l’espressione “sul fondo”, che è anche il titolo e che rappresenta la metafora del campo di annientamento, in cui viene annullata la dignità umana. Levi dice “siamo arrivati al fondo, più giù di così non si può andare”.
A pg. 25 e durante il romanzo, si incontrano versi della “Divina Commedia”: “Qui non ha luogo il Santo Volto, qui si nuota altrimenti che nel Serchio!”. Con queste parole si rivolgono i diavoli di Malebolgie all’anima dannata di un lucchese appena giunta all’Inferno, a sottolineare con ironica perfidia la differenza fra la vita terrena e la vita nell’Inferno. Anche nel Lager tutto è stravolto, non hanno più alcun valore le regole del vivere civile: i prigionieri vengono trattati con disprezzo e sono continuamente umiliati.
Altri riferimenti alla “Divina Commedia” che si incontrano durante l’esposizione dei fatti si spiegano in quanto il periodo trascorso nel Lager viene visto come viaggio nell’oltretomba, in un mondo dal quale si crede di non poter più uscire.
Un ulteriore cenno è rappresentato dalla scritta “ARBEIT MACHT FREI” (il lavoro rende liberi) sul cancello di Auschwitz, come la scritta che si trova sulla porta dell’Inferno. L’autocarro che trasporta i prigionieri è assimilato alla barca che traghetta le anime dannate al di là del fiume Acheronte.
Le pene dei prigionieri ricordano quelle dei dannati: “spingo vagoni, mi fiacco alla pioggia, tremò il vento”, così come gli avari spingono i massi, i golosi sono oppressi dalla pioggia eterna e i lussuriosi sono tormentati dalla bufera infernale.
Tutto il romanzo sembra una rappresentazione dell’Inferno in cui uomini malati vagano strisciando come vermi in mezzo a cadaveri e sterco; gelati, nudi e affamati non sembrano più persone ma larve.
Levi dice poi “Se potessi racchiudere in un’immagine tutto il male del nostro tempo, sceglierei questa immagine, che mi è familiare: un uomo scarno, dalla fronte china e dalle spalle curve, sul cui volto e nei cui occhi non si possa leggere traccia di pensiero” (pg. 82). Gli uomini sono quindi ridotti allo stato di bestie e devono solo lavorare e sopravvivere e non hanno tempo di fermarsi a pensare, nemmeno quando vanno a dormire, perché sono troppo stanchi.
“La nostra saggezza era il non cercar di capire, non rappresentarsi il futuro, non tormentarsi sul come e sul quando tutto sarebbe finito: non porre e non porsi domande” (pg. 104).
Nonostante tutti sentissero le forze venir meno giorno dopo giorno, cercavano di non disperare nella speranza che tutto ciò prima o poi sarebbe finito. A volte, però, c’era chi pensava che se tutta la sofferenza e la fatica non fossero finite presto, avrebbero avuto una scelta: andare a toccare il reticolato elettrico che delimita il Lager.
La testimonianza di Levi è perciò un altro documento che rappresenta la drammaticità dell’esperienza che rimarrà anche nella mente di coloro che non hanno vissuto tutto questo ma che hanno capito quanto fosse tragico e disumano ciò che è accaduto.

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