Candido

Materie:Scheda libro
Categoria:Generale

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Testo

Recensione di Candido di Voltaire

Il 1° novembre 1755 Lisbona venne interamente distrutta da un rovinoso terremoto. Un’inutile strage di vite umane di tali dimensioni fece sentire il proprio peso anche all’interno degli ambienti illuministi del tempo, mettendo ovviamente in crisi l’ottimismo filosofico e ponendo pesanti e annose questioni. Voltaire scrisse lo stesso anno un “Poema” del disastro di Lisbona, esprimendo appunto questa crisi in tono decisamente accorato e solo quattro anni dopo dalla tematica dell’ottimismo e dalla sua messa in discussione nacque “Candido”, in cui ironicamente, ma con ferocia, viene demolita la teoria Leibniziana che afferma realizzato nell’universo il migliore dei mondi possibili.
“Candido” è infatti uno dei famosi racconti filosofici della maturità di Voltaire, con i quali l’autore attacca le teorie dei suoi contemporanei e diffonde, con spirito sottile, il suo pensiero sulle vicende umane, sulla gioia e sul dolore, sul problema del bene e del male.
La storia di Candido è la storia di un innocente e sprovveduto giovane (e delle sue disgrazie) che il suo venerato maestro, il filosofo Pangloss, ha iniziato alla filosofia di Leibniz.
La causa prima delle sue avventure è l’amore per la madamigella Cunegonda, figlia del castellano del maniero di Thundertem-Tronekh in cui egli stesso è cresciuto: scoperto un bacio, il primo, tra i due, il padre scaccia il giovane dal castello “a gran calci nel sedere”.
Da allora il ragazzo vaga per il mondo travolto da un’interminabile serie di disgrazie più o meno terribili che gli danno l’opportunità di fare singolari incontri e di ascoltare racconti di inenarrabili sfortune.
L’esperienza quindi, s’incarica di disingannarlo sulla teoria di Pangloss, mosicandogli come nel mondo tutta vada per traverso e come tutti gli uomini siano infelici o, in alternativa, profondamente annoiati.
Il primo incontro dell’interminabile viaggio del protagonista è la guerra: arruolatosi, rischia di essere giustiziato per la sua fede innocente nella sua libertà umana, fede che gli fa violare la disciplina. Evaso poi in Olanda, per miracolo non muore di fame tra i misericordiosi cristiani per ignoranza dei dogmi, ma è fortunatamente soccorso da un Anabattista. Ritrova in seguito ridotto in misere condizioni, Pangloss che però viene subito beneficato dal buon Anabattista. I tre si recano a Lisbona per affari dove dopo il naufragio della nave che li trasportava, sopravvivono anche a un terremoto e all’Inquisizione. Candido ritrova poi Cunegonda, prigioniera di un Giudeo e del grande Inquisitore, la libera e fugge con lei e la sua vecchia serva nel nuovo mondo, a Buenos Aires tuttavia i due innamorati sono costretti a separarsi nuovamente, poiché il ragazzo deve fuggire i famigli dell’Inquisitore. Egli giunge, dopo varie traversie, al mitico paese di El Dorado, dove la fantastica abbondanza di oro e pietre preziose ha cancellato ogni cupidigia, rendendo gli abitanti uomini giusti. Candido tuttavia, non resiste alla lontananza di Cunegonda e lascia dopo poco El Dorado, assieme al servo locambo. Dopo diverse disavventure in Francia, dove incontra un nuovo amico, il filosofo pessimista Martino, giunge a Venezia, con la speranza di trovarsi Cunegonda, ma invece di incontrare l’amata, attratto dalla sua fama, si reca a visitare il senatore Pococurante che, apparentemente felice perché ricco e privo di preoccupazioni, si rivela annoiato da tutti i suoi beni e schiavo di uno spirito critico che gli impedisce di gustare le gioie della vita. La vicenda di Candido è ormai prossima alla fine: a Costantinopoli finalmente ritrova Cunegonda, ormai diventa brutta e noiosa, e in compagnia del fedele locambo, del petulante Pangloss e del sempre più pessimista Martino rischierebbe di morire di noia se non arrivasse a questa conclusione, espressa da Martino, che risulterà la sua salvezza: “lavoriamo senza pensare: è l’unico modo per rendere sopportabile la vita”. Quindi, nonostante Candido abbia aspettato fino alla fine della propria esistenza per disilludersi definitivamente dell’ingannevole teoria di Pangloss, pone fine alla storia con questa sentenza: “ma noi bisogna che lavoriamo il nostro orto”. Un pensiero rassegnato all’infelicità umana come condizione tristemente ineluttabile che bisogna saper accettare senza porsi inutili domande senza risposte. L’unico rimedio, l’unica “medicina” efficace per alleviare il dolore delle inevitabili sfortune della vita umana risulta essere il lavoro che “ci salva da tre mali grandissimi: noia, vizio e bisogno”. Voltaire con “Candido” segna quindi il definitivo distacco, dopo un progressivo allontanamento iniziato con “Zadig”, dall’ottimismo filosofico dei primi anni, delineando un mondo sottoposto alle leggi della malvagità e del dolore, in cui quell’intelligenza regolatrice ritenuta necessaria dal filosofo per garantire l’ordine cosmico, non sembra governare le vite e le vicende umane che trovano la loro ragione di essere soltanto negli equilibri chimici e fisici del mondo. La teoria di un ordine provvidenziale che presiede all’accadere del mondo umano è totalmente sconvolta, e lascia spazio a più amore e dure considerazioni provate dall’esperienza. Quest’ultima è infatti la grande protagonista del racconto, è lei a stimolare il discorso filosofico, ponendo interrogativi, sciogliendone altri, distruggendo certezze, insinuando dubbi e ridicolizzando in fine, l’ottuso dogmatismo di Panglon con la dimostrazione della relatività del tutto. L’esperienza fu certamente grande maestra per Voltaire, che durante la propria vita passò da rigidi collegi gestiti a circoli intellettuali libertini, scettici e serenamente epicurei, dalla prigionia presto la Bastiglia all’esilio in Inghilterra, dalla corte vera di Federico di Prussia, ad una sua “personale” corte a Fernaj, sua dimora preferita. E chissà se fu mai sulla sua bocca l’esclamazione di Candido in viaggio per Venezia: “Ma che razza di mondo è mai questo?”.

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