L'influenza di Marcel Duchamp nell'Arte Contemporanea

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Categoria:Storia Dell'arte

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Testo

Marcel Duchamp
Nato a Blainville presso Rouen nel 1887, Duchamp comincia a dipingere giovanissimo, nel 1902, ma fino al 1912 la sua arte può essere scambiata con quella di un qualsiasi altro artista: prima Impressionista, poi Fauve. Fratello dello scultore Duchamp-Villon e del pittore J. Villon, partecipa con loro all’avventura della Section d’Or Cubista. Nel 1912 dipinge Nu descendent un escalier (Nudo che scende le scale), inaugurando così la sua svolta innovativa con la rappresentazione del movimento; la Mariée (La sposa) chiude la produzione cubista del giovane. Tuttavia il disegno della Sposa figura già tra i personaggi del suo Grande Vetro, l’opera che Duchamp inizierà a progettare all’inizio del 1913 e che lascerà “definitivamente incompiuta”.
Nello stesso anno Duchamp realizza anche il suo primo “ready-made” (letteralmente già fatto, già esistente); si tratta di un ingranaggio inutile composto da una ruota di bicicletta appoggiata sopra uno sgabello. La ruota non fa muovere lo sgabello, ma gira sopra di esso a vuoto; in questo caso l’azione dell’artista consiste nel considerare l’oggetto come opera.
Quando nel 1915 si reca a New York per la prima volta, diventa popolare presso ristretto numero di amici ed estimatori; è proprio qui che insieme a Picabia pone le basi di quello che sarebbe poi stato il futuro Dada. Stringe un’importante amicizia con Man Ray ed inizia a giocare a scacchi in maniera professionale.
Inoltre, sempre a New York, Duchamp comincia a realizzare il progetto per la sua grande opera il Grande Vetro il cui titolo originale è La marine mise à nu par ses célibataires, meme (la sposa messa a nudo dai suoi scapoli, anche).
E’ un’opera di cui è praticamente impossibile parlare, le sono stati dedicati interi volumi e lo stesso autore le ha dedicato tanti anni della sua vita e infiniti appunti; osserveremo quindi solo i tre punti che ci paiono più importanti:
1. la struttura dell’opera e la tecnica impiegata;
2. le parti che la compongono e i loro collegamenti;
3. il titolo e il significato in relazione alle altre opere di Duchamp.
Dal punto di vista strutturale il Grande Vetro è costituito da una parte inferiore, in cui troviamo gli scapoli associati al mondo terreno, e una superiore, occupata da un certo numero di presenze o personaggi tra i quali c’è anche la figurazione della sposa.
Tutta l’opera si costruisce nella tensione tra la parte alta a quella bassa; il fatto interessante è che al contrario di un quadro tradizionale l’opera di Duchamp è realizzata in vetro e viene per questo attraversata dallo sguardo dello spettatore come una finestra. La parte inferiore è la più complessa: vi sono rappresentati alcuni macchinari incongruamente combinati tra lori, in prospettiva, realizzati incollando sul vetro fili di piombo, fogli di piombo o alluminio sagomati e parzialmente dipinti ad olio in modo da simulare delle presenze non pittoriche.
Giungiamo ora al titolo; apparentemente sembra non avere senso, ma ci pone davanti ad una sorta di scena rituale: la Sposa è messa a nudo dai suoi Scapoli.
Capiamo che il rito, la scena alla quale assistiamo è la rappresentazione di una tensione desiderante, non di un evento reale.
Se dovessimo fornire una descrizione abbreviata dell’opera potremmo dire che gli Scapoli (rappresentati da nove stampi industriali di forma vagamente umana, che ricordano delle livree, dunque dei vuoti involucri), attraverso un utilizzo assolutamente fantastico degli altri macchinari, macinano il lori desiderio per la Sposa, che sale poi verso l’alto e deve superare tutta una serie complessa di fili prima di giungere a Lei.
Il funzionamento della sposa è nello stesso tempo meccanico, fisiologico, ironico e immaginario; la forma che Duchamp rappresenta nella parte alta è solo apparenza; la sposa è dunque “la copia di una copia dell’Idea”. Gli scapoli non possono dunque fare altro che desiderare quello che non avranno mai: la loro vita si consumerà nella tensione ideale per qualcosa che non potranno mai raggiungere.
Numerosissime sono le interpretazioni dell’opera capitale di Duchamp e moltissimi sono i critici che si sono misurati con questo testo ermetico che sembra non avere un’appagante soluzione; forse, come dice lo stesso autore, non c’è soluzione perché non c’è problema.
Per Duchamp la provocazione dadaista non sta tanto nel giocare con le forme degli oggetti (com’era invece per Arp), quanto piuttosto, con le loro funzioni. Già dal 1913 l’artista aveva cominciato a sperimentare il cosiddetto ready-made che letteralmente significa “prefabbricato”, “pronto all’uso”. Si tratta di impiegare in campo artistico oggetti del quotidiano alla cui vista e al cui uso siamo abituati. Il significato profondo della provocazione sta proprio nel riprodurli come oggetti d’arte spiazzando e stravolgendo le nostre aspettative.
Quando nel 1917 Duchamp espose, con lo pseudonimo inventato di R. Mutt, la sua fontana, sembrò che si fosse toccato il fondo: la critica insorse e le polemiche si arroventarono. La fontana non era altro che un orinatoio rovesciato, di quelli che solitamente si trovano nei bagni pubblici.
L’ironica beffa, resa ancora più provocatoria dalla firma dell’autore e dalla data, apposte in basso a sinistra, fu chiarita dallo stesso artista che parlando di sé con il distacco della terza persona, scrisse agli organizzatori della mostra che rifiutarono di esporre l’oggetto: ”L’orinatoio del signor Mutt non è immorale, non più di quanto lo sia una vasca da bagno…Non ha importanza se il signor Mutt abbia fatto o meno la fontana con le sue mani. Egli l’ ha scelta. Egli ha preso un articolo usuale della vita, e lo ha collocato in modo tale che il suo significato utilitario è scomparso sotto il nuovo titolo e punto di vista e ha creato un nuovo modo di pensare quest’oggetto.”
Quest’ultima riflessione è importante per capire il senso dell’arte di Duchamp. Arte non è più fare (dunque mostrare una bravura e una competenza anche tecniche), ma scegliere (cioè operare a livello di puro intelletto). Chiunque può quindi diventare artista e tutto può diventare arte.
L’originale della fontana è andato perso perché, nel coso di un trasloco, i facchini lo scambiarono per quello che era e lo buttarono via. Duchamp non poteva aspettarsi un esito migliore.
L’oggeto-orinatoio che, tolto dal suo contesto, diventava fontana (e quindi arte), durate il trasloco torna ad essere un oggetto e dunque come tale trattato e distrutto.
L’arte con la A maiuscola, quella prodotta dalla stessa società che era stata capace di produrre la guerra, era veramente e definitivamente morta.
Ciò è ancor meglio comprensibile in L.H.O.O.Q., un ready-made rettificato (cioè sul quale l’artista ha apportato qualche piccola modifica) realizzato nel 1919.
Si tratta di una riproduzione della Monna Lisa di Leonardo alla quale Duchamp ha aggiunto baffi e pizzetto.
In questo caso la provocazione è doppia, in quanto dissacra uno dei miti artistici più consolidati, quello della Monna Lisa appunto. Le lettere maiuscole che costituiscono il titolo L.H.O.O.Q., poi, se sillabate secondo la pronuncia francese, danno origine alla frase volgare (Elle e chaud au cul, letteralmente: ella ha caldo al sedere) e gratuita, cioè assolutamente estranea al cotesto.
In questo modo Duchamp non vuole negare l’arte di Leonardo ma, a suo modo, onorarla. Egli mette, infatti, in ridicolo gli estimatori superficiali e ignoranti, attaccati alle apparenze e alle convenzioni. Poiché tutti dicono da sempre che la Monna Lisa è straordinariamente bella lo diciamo anche noi, per conformarci acriticamente al volere del gusto dei più.
L’arte figurativa dadaista si caratterizza ben presto come ricerca di forme astratte e come definizione essenziale dell’immagine. I rilievi e i collages sono esperimenti di un’arte creativa quale il dadaismo voleva, un’arte soggetta alle leggi dell’imprevisto e del caso: per esempio pezzi di carta disposti sul piano e incollati come il caso suggeriva. Arp è sicuramente il protagonista di tutte le più importanti attività dadaiste, egli, insieme alla sua compagna Sophie Tauber, sperimenta molte tecniche, ricami, tappezzerie, nuovi rilievi policromi, disegni astratti e xilografie a macchina.
Precursore di vari movimenti artistici tra cui la Body-Art nel 1921 Duchamp si fa scattare dall’amico Man Ray una serie di fotografie in cui impersona, travestito, un misterioso personaggio femminile: Rrose Sélavy.Questo personaggio, che figura anche in un’altra opera come etichetta di una boccetta di profumo (Eau de Violette ovvero acqua di violetta invece che toeletta) e il cui nome promette una sorta di Vie en rose (la traduzione apparente del nome è “Rosa è la vita”), nasconde in realtà un principio più serio: con la consueta tecnica duchampiana dei giochi verbali “Rrose c’est la vie” diventa infatti “Eros è la vita”. L’immagine è però quella di un ermafrodito, sia uomo che donna, completo in se stesso: soluzione alchemica della realtà o altra soluzione impossibile.
Nel 1927 Duchamp si era fatto costruire dal suo falegname una porta, per il suo appartamento parigino, che aveva questa particolarità: poteva aprire o chiudere contemporaneamente due vani le cui aperture erano poste quasi ad angolo retto; la porta, percorrendo un arco di cerchio di circa 45°, poteva chiudere uno dei due vani lasciando l’altro sempre aperto o viceversa; una delle due stanze rimane quindi sempre aperta. Anche in questo caso l’artista ci pone non tanto di fronte ad una soluzione, ma di fronte ad un’alea irrisolvibile.
Nel 1938, nell’allestimento di una mostra surrealista, Duchamp sospende 1200 scacchi di carbone sopra un braciere acceso: anche in questo caso sembra voler alludere ad un desiderio che arde, il cui “carburante” è tuttavia fuori portata per il braciere stesso. E’ questo uno dei primi casi di “performance” tecnica pio ripresa e utilizzata dai movimenti Happening; Duchamp si può quindi definire un artista poliespressivo dotato di una grande creatività ed inventiva che lo portano ad essere il precursore dei maggiori movimenti artistici del ‘900.
Abbiamo già citato la Body-Atr e gli Happenigs ma ecco che dopo il ritorno definitivo negli Stati Uniti negli anni Quaranta Duchamp inizia a progettare il suo secondo grande lavoro: Etant donnés: 1° la chute d’eau, 2° le gaz d’éclairage (Dati: 1° la caduta dell’acqua, 2° il gas d’illuminazione, 1946/66) in cui anticipa le tecniche poi utilizzate nell’iperrealismoe nell’arte cinetica.
L’artista ottiene che il Museo di Filadelfia (che già possedeva il Grande Vetro) costruisse appositamente un vano per ospitare la sua ultima creazione che venne poi spostata al museo subito dopo la morte dell’artista (1968) insieme ad una imponente mole di appunti che riguardavano l’allestimento definitivo.
Etant donnés è un’opera radicalmente diversa da Mariée, a prima vista quasi opposta. Corposa e concreta quanto l’altra è astratta ed evanescente, si rivela però, dopo un primo esame, straordinariamente simile al Grande Vetro.
Se la Sposa, nella prima opera, si presentava come “la copia della copia di un’’Idea”, qui è il corpo di una donna che esibisce il proprio sesso aperto. Sdraiata su un mucchio d rami secchi, una lampada accesa in mano (le gaz d’éclairage), sembra attendere un amante. Duchamp, anticipando di molti anni gli scultori Iperrealisti, usa un materiale che suggerisce quasi tattilmente l’aspetto della pelle umana, benché la scultura non sia propriamente un saggio di realismo analitico, ma piuttosto di illusionismo. Tuttavia i rami sono veri, lo spettatore osserva il corpo da uno squarcio di muro di veri mattoni e sullo sfondo paesaggistico si trova una cascatella in movimento (un effetto cinetico) che suggerisce realisticamente la caduta dell’acqua.
Qui, dunque, il desiderio degli Scapoli sale sotto forma di gaz d’éclairage, mentre il linguaggio della Sposa scende sulla terra sotto forma di chute d’eau.
Octavio Paz suggerisce che la Sposa sia qui presentata come Diana al bagno doveva apparire ad Atteone: una magnifica vergine la cui vendetta non si fa attendere troppo; del resto la colpa di Atteone consiste nel fatto di aver visto (o spiato) la dea nuda, questo è esattamente quello che sta facendo lo spettatore che osserva l’opera dal buco di una porta come un voyeur. Del resto la posizione de voyeur mette automaticamente lo spettatore nell’impossibilità di soddisfare il desiderio.
Oltre le due opere maggiori che abbiamo qui descritto, non dobbiamo dimenticare di citare la terza, e forse capitale, delle opere dell’artista francese, la propria autostoricizzazione. Quando Duchamp lascia definitivamente la Francia per gli Stati Uniti (a causa della seconda Guerra Mondiale) porta con sé la famosa Boite en valise (scatola in valigia, 1942) che contiene riproduzioni miniaturizzate delle sue opere che egli stesso ritiene essere tra le più importanti della propria produzione. E’ forse il primo artista conscio dell’importanza di una ristrutturazione critica del suo lavoro e di una necessità di lettura globale della propria o
Il movimento Dada
Tra le fiamme del primo conflitto mondiale la Svizzera, neutrale, rimane un’isola felice, ed è dunque naturale che proprio qui si rifugino, da ogni parte d’Europa, intellettuali ed artisti che, se fossero rimasti nei rispettivi paesi, sarebbero stati inevitabilmente inviati al fronte.
E’ quindi in questo paese che nel febbraio del 1916 alcuni eccentrici intellettuali aprono nel centro di Zurigo il Cabaret Voltaire. Il promotore della singolare iniziativa è il poeta e letterato tedesco Hugo Ball (1886-1927), a lui si uniscono ben presto altri esuli tra i quali il poeta Tristan Tzara (1886-1963) e il pittore e scultore Hans Arp.
L’età media del gruppo era intorno ai trent’anni questi artisti erano accomunati dalla voglia di negare qualsiasi valore al passato che, essendo stato capace di creare i presupposti della prima Guerra Mondiale, diventava automaticamente e totalmente negativo.
Nasce così il Dada, un movimento che è un non senso per definizione a partire dal nome che appunto non significa nulla e che è stato inventato aprendo a caso un vocabolario tedesco-francese: in russo significa due volte si, in tedesco due volte questo, in italiano e in francese costituisce una delle prime parole che i bambini pronunciano e con la quale essi indicano tutto.
Dunque Dada è tutto e nulla. Dada è gioco ed è paradosso. Dada è libertà di essere dada o di non esserlo. Dada è arte e negazione dell’arte.
Arp ci fornisce un’ironica testimonianza di come il movimento vide la luce, mostrando fin dall’inizio quello che sarà il motivo conduttore di tutta l’esperienza dada, cioè il gusto per il paradosso e il gioco dei non sensi.
“Dichiaro che Trstan Tzara trovò la parola Dada l’otto febbraio 1916 alle sei di sera. Ero presente con i miei dodici figli quando Tzara pronunciò per la prima volta questa parola, che destò in noi un legittimo entusiasmo. Ciò accadeva al Café de Terrasse di Zurigo, mentre portavo una brioche alla narice destra.”
In una pagina meno ironica Arp ricorda: “Mentre i cannoni tuonavano in lontananza, noi dipingevamo, recitavamo, componevamo versi e cantavamo con tutta l’anima. Eravamo alla ricerca di un’arte elementare capace di salvare l’umanità dalla follia dell’epoca”.
Questa è l’ambiziosa scommessa dei Dada: riscattare l’umanità dalla follia che l’ ha portata alla guerra. E per far ciò occorre azzerare tutte le ideologie e tutti i valori; ci vuole un’arte nuova, elementare, capace di ridare agli uomini la forza di essere di nuovo uomini e non folli assassini.
Ecco dunque che il Dada esplode al Cabaret Voltaire nei modi più strampalati e anticonformisti: canzonette ironiche, poesie urlate contemporaneamente in tedesco, francese e inglese, surrealistici balli mascherati e performance artistiche nelle quali il pubblico è chiamato ad interagire.
Ma Dada non è neanche un gruppo; è un modo di essere e di sentire, piuttosto, il modo più lirico per dire no alla follia camuffata da ragioni di stato e da interessi economici. Un no che è rifiuto totale del passato attraverso il rifugio nella follia innocua del nonsenso e dell’ironia.
Nel 1918 Tzara scrive il Manifesto Dada che, sulla falsa riga di quello marinettiano del Futurismo, fornisce alcune direttrici ideologiche ed estetiche di riferimento. L’opera d’arte non deve più rappresentare la bellezza che è morta e non deve essere né gaia né triste né oscura, da cui discende che la critica è inutile, non può esistere che soggettivamente e senza alcun carattere di universalità.
Dada, per sua stessa definizione, non è un movimento ma una tendenza. E come tale si brucia nel giro di pochi anni, muore intorno al 1922-23. Ma è una morte che passa inosservata, senza tragedie e senza clamori.
Il movimento è stati importante per aver proposto sperimentazioni in materia di tecniche artistiche; tra queste vanno ricordati i ready-made, il collage astratto, il collage ambientale, il fotomontaggio e altre soluzioni come i rayogrammi.
Molti e significativi sono gli artisti che si impegnano in tale ricerca, è il caso per a sempio di Picabia, inesauribile animatore dell’avanguardia, impegnato su diversi fronti (astrattismo, dadaismo, surrealismo) alla ricerca di libere identificazioni dell’immagine con schemi meccanici, con figure ironiche, con disegni di oggetti realistici.
La sperimentazione fotografica di Man Ray completa il clima di inquietudine formale delle ricerche dadaiste: la fotografia senza macchina fotografica, ottenuta collocando oggetti sulla carta fotografica e illuminandoli da una certa posizione, apre nuovi modi di vedere e la luce diventa una magica fonte di creazioni imprevedibili, chiamate, in onore del loro creatore, rayogrammi.
A Berlino Hausmann elabora, invece, la significativa tecnica del fotomontaggio, usando il materiale fotografico per dare una nuova unità ad elementi razionalmente in opposizione.
Negli anni Cinquanta Arturo Schwarz non solo ripropose la figura di Duchamp (ufficialmente egli aveva cessato la sua attività di artista nel 1923), ma lo spinse ad integrare il corpus delle sue opere ricostruendo i perduti ready-made.
Grazie alla dedizione di Schwarz, Duchamp e Man Ray conobbero nei loro ultimi anni di vita una ritrovata popolarità che correva parallela all’emergere di correnti che si gloriavano di possedere una genealogia Dada: dalla Pop Art a Fluxus, Dal Neodada fino alle Neoavanguardie, si invocò spesso la figura di Duchamp.
Il Neodada negli Stati Uniti
Verso la metà degli anni Cinquanta vi fu una reazione di tipo completamente diverso dalla pittura informale. Essa fu annunciata già nel 1953 quando un quadro di Larry Rivers (Gorge Washington attraversa il Delaware) fu esposto; esso era una sorta di parodia del celebre quadro storico di Leutze, realizzato attraverso pennellate disordinate e le tipiche sgocciolature dell’“Action Painting”.
Questo quadro è oggi considerato soprattutto come un’anticipazione della Pop Art, ma all’epoca il suo valore stava appunto nel voler resuscitare un emblema figurativo assolutamente improponibile attraverso una sorta di superamento dell’Informale.
Il passaggio al Neodada vero e proprio avverrà definitivamente solo con l’apparire delle opere di Robert Rauschenberg (1925) e Jasper Johns (1930).
Benché si tratti di due artisti abbastanza diversi tra loro, i loro nomi rimangono ormai strettamente collegati, eventualmente associati a quelli di Jim Dine (1930) e Allan Kaprow (1927), come iniziatori del Neodada americano.
L’approccio di Rauschenberg al problema è forse il più naturale ed insieme il più provocatorio. L’artista americano non abbandona infatti la tessitura di pennella te gocciolate dell’Informale, ma si potrebbe dire che le trasporta in un contesto diverso (ad esempio su materiali diversi dalla tela tradizionale) oppure la combina con elementi estranei alla pittura.
Certamente, se pure vi è stata l’influenza di Burri sulle scelte materiche, bisogna riconoscere la radicalità dello spostamento operato da quest’ultimo: come nel caso di The Bed (1955), opera in cui l’artista monta sullo chassis del quadro non una tela, ma un letto (coperta, lenzuola, cuscino) dopo averle dipinte. L’effetto è a prima vista gradevolissimo, in quanto Rauschenberg non imita gli oggetti, ma li imbratta di colore dando luogo ad una sorta di vero e proprio monstrum, salvato dal doppio senso (molto dadaista) che si stabilisce tra dipinto inteso come quadro, e dipinto inteso come oggetto dipinto, cioè pitturato.
In realtà il gesto più Dada di Rauschenberg fu, nel 1953, quello di cancellare un disegno di de Kooning,che rappresentò una sorta di analogo dei baffi alla Gioconda di Duchamp.
Ma la formula di lavoro tipica di Rauschenberg, che curiosamente proveniva da esperienze monocromatiche, resta quella di reagire un quadro apparentemente informale, con prelievi assunti dall’esterno (foto, ritagli, oggetti veri e propri). Anche in questo caso la prima reazione dello spettatore non è tanto quella di entrare in questo flusso di immagini capaci di originare, con la qualità del loro incontro, una sorta di fantastico sogno, come aveva ben compreso il musicista John Cage. Ma piuttosto quella di notare l’incongruità di certi particolari che si distaccano dalla pittura; oggetti tridimensionali, un pollo impagliato, una lampada.
Queste opere vengono chiamate Combine paintings (dove combine, in inglese, sta appunto per “combinare” insieme), e costituiscono una sorta di interessante soglia fra la rappresentazione, intesa come atto convenzionale, e la realtà.
Questo tipo di pittura aveva, da una parte l’effetto di de-direzionare (secondo l’idea di Cage) la mente dello spettatore, attraverso l’uso di materiali inattesi; dall’altra quello di porlo in una zona liminare. L’effetto finale è quello di stimolare una riflessione sull’arte da una parte; ma anche di allargare i propri confini percettivi, includendo una serie più vasta di suggestioni, rispetto a quelle cui si era abituati.
Jasper Jhons lavora su una dimensione assai più pulita e diretta, nel 1954, lo stesso anno in cui Rauschenberg inizia con i suoi Combine Paintings, Jhons dipinge le prime bandiere: sono tele che rappresentano la bandiera americana, a tutto campo, piatta, come se fosse incollata sul supporto. E’ un’immagine semplice, elementare, quotidiana, una sorta di parallelo pittorico dell’esercitazione di un bambino. Per rendere pienamente questa sensazione Jhons da una consistenza materia al fondo, usando l’encausto, spesso dipingendo su carta di giornale incollata alla tela, che traspare appena sotto il colore.
Il gesto è gravido di conseguenze, in quanto da una parte costituisce una critica radicale all’informale, dall’altra pone le premesse per quella rivalutazione delle icone quotidiane operata dalla Pop Art.
Probabilmente i vero significato dei bersagli di Jhons è da cercare in quel senso di spersonalizzazione dell’oggetto che l’artista persegue attraverso la mediazione delle teorie di Jhon Cage, il quale, a sua volta, media certi atteggiamenti di Duchamp.
Tuttava l’aspetto più interessante dei bersagli è costituito da fatto che essi si pongono davanti allo spettatore quasi come oggetti. Probabilmente per questo l’artista li associa, i alcuni casi, con frammenti di calchi del proprio volto, posti in delle caselle di legno. Anche in seguiti calchi in cera di parti del proprio volto continueranno ad essere associati a motivi astratti anche nella produzione recente del pittore. Questi calchi, come del resto i dipinti, non hanno però alcuna pretesa illusionistica, piuttosto si presentano come reperti, o esempi di una dimostrazione.
Sembra che per l’artista, l’antologia sui poeti e pittori dadaisti pubblicata nel 1951 da Robert Motherwell abbia costituito una sorta di livre de chèvet: Duchamp è presente nell’opera di Jhons come una sorta di analogo lontano. E’ Johns a proporre una sorta di risposta autenticamente americana al ready-made dell’artista francese, con le sue lattine di birra “Ballatine Ale”: tuttavia quest’opera è costituita non da due lattine vere, ma dai loro calchi, poi fusi in bronzo e colorati ad olio.
Anche qui Jhons sembra causare una sorta di annientamento nello spettatore, conscio di trovarsi non tanto di fronte ad una lattina di birra, ma ad una sua riproduzione. Il lavoro sembra, nello stesso tempo, troppo o troppo poco. Ma proprio questo porre l’accento sulla presenza dell’oggetto artistico, attraverso l’uso di una materia sapientemente amministrata, rappresenta forse il risultato più moderno e duraturo di Johns.
E’ anche da sottolineare come sia Rauschemberg che Johns abbiano in qualche modo sperimentato lo sconfinamento in altre arti, fornendo scenografie e costumi a una compagnia di balletto moderno con cui collaborava, per il lato musicale, anche John Cage. Alcuni autori pongono l’accento sul fatto che il clima da cui sarebbe scaturito l’happening era in parte dovuto all’incontro fra gli artisti figurativi e gli ambienti in cui si praticava danza moderna o teatro sperimentale. Proprio il musicista Cage viene del resto indicato come antesignano dell’happening per aver dato vita, al Black Mountain College, ad una manifestazione mista cui collaborarono artisti di varie discipline.
E’ soprattutto al nome di Allan Kaprow che si associa lo sviluppo dell’happening come una forma di espressione autonoma, in cui il tempo fluidi della Action Painting viene frazionato in una serie di gesti reali, o di sensazioni suggerite dalla presenza di oggetti e situazioni disparate.
Kaprow ha sviluppato la sua intuizione secondo coordinate assai originali, egli afferma che l’happening deve essere concepito come una forma di arte “figurativa”, nel senso che si esprime attraverso “immagini” (di eventi, oggetti o luoghi predisposti appositamente). La traccia temporale degli eventi è prefissata, ma lascia un margine di improvvisazione agli esecutori (ed anche al pubblico, che viene inglobato nell’azione) a differenza di un testi teatrale. Di simile allo spettacolo teatrale restano solo il tempo e il luogo stabiliti in anticipo.
Poco dopo l’esordio di Johns e Rauschenberg, attorno al 1959, anche Jim Dine comparve sulla scena newyorkese come autore di happenings e pittore.
Da questo momento, per molti artisti l’happening diventerà una sorta di seconda freccia al proprio arco. Di fatti proprio in queste manifestazioni si trova il legame che congiunge la generazione New Dada e quella Pop, che inizialmente erano spesso confuse per una certa somiglianza di tattiche espressive.
Il green suit (1959) di Dine, un abito completo di camicia e cravatta (finte) giacca (vera, macchiata di colore) e pantaloni (ridotti a striscioline), può ricordare the bed di Rauschenberg. Ma presto l’originalità del pittore si rivela in tele monocrome, dipinte a corpo, esposte in combinazione con oggetti.
Di fronte a questa opere lo sguardo è costretto a piegarsi ad una sorta di prospettiva strabica che porta, da un lato verso la pittura, dall’altro verso il ready-made. Molti hanno notato come la presentazione di alcuni oggetti (una pala, un taglierino) appesi da Dine di fronte a tele monocrome, rimandi al tipo di ostensione di alcuni ready-mades duchampiana.
L’oggetto vero in questo modo è come inserito nell’illusione della pittura. Del resto questo palleggiamento tra oggetti veri e pittura è continuato fino ad oggi nell’opera dell’artista, sia pure con un abbandono più compiaciuto ad aspetti “figurativi” e di mestiere, soprattutto dalla fine degli anni Settanta.
Ancora nel contesto Neodada si potrebbero riaccostare gli scultori Louise Nevelson, John Chamberlain e Edward Kienholz. Benché essi siano assai diversi tra loro, le oro opere derivano, fondamentalmente da montaggi, o assemblaggi di materiali trovati:legni, resti di falegnameria e objets truoves nel caso dalla Nevelson; rottami di automobili nel caso di Chamberlain; oggetti di ogni genere, compresi mobili, vestiti manichini nel caso di Kienholz.
Nella sua fase più tipica, la Nevelson sistema oggetti, parti di mobili e modanature in legno, all’interno di sorte di scaffalature dello stesso materiale, dipinto in bianco o nero, come in un ideale magazzino della memoria.
Chamberlain assembla parti di automobili in montaggi che possono ricordare delle piccole conflagrazioni, con un occhio di riguardo per la scelte di timbri di colore delle delle carrozzerie.
Quanto a Edward Kienholz, anche se il suo nome è stato accostato da molti alla Pop Art, le sue sculture (che sono piuttosto installazioni ambientali) appartengono ad un filone di critica grottesca alla società. Nel suo “gusto dell’orrido” Barbara Rose vede un feroce moralismo che spazia dagli aspetti “meno gradevoli del Surrealismo” a quelli “allucinanti del Realismo Magico”.

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