riassunto del sesto canto del purgatorio dantesco

Materie:Riassunto
Categoria:Letteratura
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Data:15.06.2006
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Testo

SESTO CANTO DEL PURGATORIO DANTESCO
“Ahi serva Italia, di dolore ostello, non donna di provincia, ma bordello!”
E’ il sesto canto del Purgatorio dantesco, dedicato, secondo lo schema della “Divina Commedia”, alla trattazione dell’argomento politico.
L’invettiva è condotta dall’autore, che si presenta quasi nelle vesti di profeta biblico, su più fronti; destinatari del messaggio sono infatti: l’Italia, la Chiesa, l’Impero e in ultima Firenze, secondo un climax ascendete che culmina proprio nella città toscana, centro di corruzione e degradazione.
La denuncia, che si apre in contrasto con l’abbraccio affettuoso tra Bordello e Virgilio, si rivolge in primo luogo all’Italia, trasformata da “bel giardino” dell’Impero in “serva” delle piccole e grandi tirannidi,in una “fiera indomita e selvaggia” abbandonata dall’imperatore, garante della pace e dell’ordine, e lasciata in balia delle lotte tra comuni nemici e gli stessi concittadini.
La polemica prosegue investendo, con toni sempre più severi, le due massime istituzioni: Chiesa e Impero.
Da un lato gli ecclesiastici anziché “dare a Cesare ciò che è di Cesare”, aderendo all’insegnamento evangelico, cercarono di sostituirsi all’autorità imperiale e così facendo trasgredirono il disegno divino, basato sulla collaborazione delle due autorità supreme, cui una dovrebbe legittimare l’altra.
Dall’alto l’imperatore Alberto, sulla scia del padre Rodolfo, troppo impegnato a conseguire i propri interessi personali, dimentica la funzione universale del sovrano, lasciando la “sella vota”, e Roma, centro dell’Impero, “vedova e sola”. Le città si popolano di villani che si impongono come nuovi “Marcel” da contrapporsi a Cesare, in un clima di violenza e disordine.
Infine l’invettiva colpisce, accendendo i toni aspri dell’ironia e del sarcasmo, Firenze, sintesi del disordine e delle magagne.
I suoi cittadini vengono ironicamente elogiati per il loro ipocrita uso formale e soprattutto verbale della parola “giustizia”, “sobbarcandosi”, in realtà, per puri vantaggi personali, e i provvedimenti fiorentini, “che a mezzo a novembre non giugne quel che d’ottobre fili” vengono ridicolizzati dietro l’apparente elogio e il confronto con le leggi di Atene e Sparta. Il tutto culmina con la dolorosa immagine finale, quella della sofferente povera malata e dell’illusione di poter trovare sollievo al dolore, sollievo raggiungibile soltanto attraverso l’intervento riformatore di Dio, volto a punire l’uomo per la sua scelleratezza e a ristabilire l’ordine sconvolto.
ANNA AMORICO IV E

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