Eugenio Montale

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Testo

EUGENIO MONTALI
SULLO SFONDO DELL’ASCESA FASCISTA
IL “MALE DI VIVERE”
IL MALE DI VIVERE ALL’ALBA DEL ‘900
Il periodo compreso tra l’ultimo decennio dell’800 e gli anni precedenti la prima guerra mondiale, è caratterizzato da una violenta reazione al Positivismo: questo aveva celebrato la fede nella scienza, nel progresso sociale, nella pacifica collaborazione fra i popoli, ma la realtà, fatta di guerre, imperialismi, lotte di classe, era ben diversa da quanto si era sperato. Tale situazione determina nuovi atteggiamenti spirituali: subentra la disillusione, l’angoscia, la sensazione del vuoto e del nulla; in arte si reagisce con la rottura dei moduli naturalistici.
Distrutti i vecchi schemi della cultura positivistica, immerso in un mondo sfiduciato nelle prospettive della scienza e della vita politica e sociale, posto di fronte all’ascesa vertiginosa della borghesia capitalistica che impone un modello di società tutto basato sulla logica del capitale e del profitto come unici valori, l’uomo di cultura del primo ‘900 vive una profonda crisi d’identità, avverte chiaramente la fine di un’epoca e l’avvento della nuova e prende coscienza della perdita del suo tradizionale ruolo sociale che era quello di “vate”. Egli generalmente, al contrario di quanto avveniva nel secolo precedente, proviene dal ceto medio borghese, una classe sociale che vede compiere il suo declassamento schiacciata com’è tra la forza indiscussa della grande borghesia finanziario-industriale e le emergenti forze del proletariato. Emarginata da questi due colossali protagonisti, la piccola e media borghesia, e con essa l’intellettuale, si sente frustrata, indebolita, disorientata ed incapace di farsi classe egemone come aspira, si vede ridotta a classe subalterna e strumentale. Nasce da ciò una situazione di disagio, di noia esistenziale, di malcontento, di provocazione.
Lo scrittore avverte con angoscia che sta per compiersi la frattura definitiva, iniziata nell’Ottocento, tra io e mondo, tra artista e realtà e si sente “spersonalizzato”, “disumanizzato”.
La risposta degli uomini di cultura alla profonda crisi esistenziale, morale e culturale che investe la coscienza dell’uomo agli albori del Novecento e alla crisi che travolge l’intellettuale tradizionale, approda a soluzioni diverse e spesso contraddittorie. Questa nuova situazione culturale e le profonde lacerazioni spirituali sfoceranno presto in quelli che saranno i due eventi storici più importanti e cruenti della storia umana: il primo ed il secondo conflitto mondiale. L’avvento, lo sviluppo e la caduta del fascismo di metà secolo, ne sono il simbolo.
Alcuni scrittori si impegnano in una inquieta e tormentosa analisi della “malattia” dell’uomo moderno nella civiltà industriale e borghese, che essi condannano in maniera corrosiva e impietosa. Nelle loro opere questi scrittori parlano di “malattia”, di “eroe in tensione”, di “inettitudine”, di “universo labirintico”; e ancora di “uomo senza qualità”, di “uomo spersonato nel male del tempo”, di “male di vivere”. Escono dalle loro opere personaggi incapaci di agire, di darsi una consistenza, una tesi a smontare la storia dei loro fallimenti e della loro coscienza frantumata. Tali personaggi lottano invano contro i pregiudizi e la morale borghese, contro la città che massifica l’uomo; essi individuano chiaramente i meccanismi alienanti e ripetitivi dell’inferno tecnologico che riduce l’uomo a semplice manovella, rovesciando così i miti imperialistici della macchina in “malattia industriale”. Ma questi personaggi non riescono a configurare pienamente un “uomo nuovo” veramente alternativo; la loro protesta tende a risolversi in se stessa, in una dolente quanto amara impotenza.
Altri intellettuali, i Futuristi, tendono a risolvere la crisi storica e dell’intellettuale, che pure essi avvertono, in uno sfrenato attivismo, in un’esaltazione incondizionata della civiltà industriale, in una celebrazione della religione della macchina e della velocità. Essi, quindi, come risposta-reazione alla profonda crisi esistenziale, sia morale che culturale, che li travolse agli albori del ’900, tesero a liquidare un certo vecchiume culturale, a credere nella positività della rivoluzione industriale e ad esaltare incondizionatamente questa, la macchina, la velocità e la guerra, sentita come azzeramento totale per una nuova ricostruzione, poiché dopo la necessaria distruzione, si profetizzava un nuovo mondo guidato da una generazione giovane, forte, vigorosa. Ma non c’è nei Futuristi italiani una sufficiente coscienza critica della nuova realtà; di conseguenza, se essi pur liquidano un certo vecchiume culturale, finiscono per bruciare una carica di rottura e di rivolta alleandosi alla spregiudicata borghesia industriale con i loro miti tecnicizzati, i loro feticci metallici, la loro “modernolatria”. Gli intellettuali futuristi altro non sono che la versione tecnologizzata del “superuomo” dannunziano ed esaltano la macchina, la guerra, le folle da dominare. Tutti tesi ad emergere, a darsi un ruolo egemone di guida culturale della borghesia, diventano invece produttori, con maggiore o minore originalità, di un’ideologia funzionale ma subalterna alla grande borghesia nella sua fase imperialistica, inevitabilmente destinati, quindi, ad essere assorbiti nell’esperienza fascista.
Altri intellettuali e letterati, ossia i Crepuscolari, avvertono, anche se in sordina, la crisi del secolo romantico di fronte ad un mondo sempre più movimentato, a un’Europa sempre più aperta, e cercano di risolvere la crisi fuggendo dalla città, in un impossibile ritorno alla provincia, alla semplicità, all’innocenza ingenua degli affetti sani della campagna o alle “buone cose di pessimo gusto” del tempo passato. Sarà, però, un tentativo tutto programmato e spesso intellettualmente voluto, a cui gli stessi Crepuscolari, in ultima istanza, non crederanno.
La coscienza del disagio esistenziale, del “male di vivere” che travaglia l’uomo contemporaneo è presente in gran parte della poesia e della narrativa dei primi del ‘900.
IL LINGUAGGIO ERMETICO
L’Ermetismo appare l’esperienza poetica più importante del nostro primo ‘900; essa ha apportato modifiche e innovazioni sostanziali sia sul piano del linguaggio e dello stile che su quello dei contenuti.
Innanzitutto il termine “ermetismo” deriva da Ermete (o Mercurio), dio delle scienze occulte e misteriose, e fu usato per la prima volta, in senso dispregiativo, dal critico Francesco Flora, il quale in uno scritto del 1936 intitolato “La poesia ermetica”, definisce la nuova poesia del ‘900 appunto come “ermetica”, ovvero chiusa, oscura, misteriosa e di difficile interpretazione e codificazione.
Nella storia della nostra letteratura il pubblico di lettori è diventato sempre più vario da un punto di vista sociale e culturale (composto non più di soli dotti ma anche di gente comune) e ha spostato il suo interesse sempre più verso la prosa anziché verso la poesia, anche perché non sempre era in grado di comprendere a fondo l’elaborazione formale da questa sottintesa.
Soprattutto nella società moderna, il poeta è sempre stato visto come un individuo solitario, distaccato dalla realtà, simbolo di una certa emarginazione e di un certo rifiuto o disprezzo nei confronti di un pubblico vasto. Questo è quanto accade grosso modo alla nostra poesia del primo ‘900, in un periodo storico difficile e tormentato dalle esperienze negative della guerra mondiale e del fascismo. Anzi, proprio durante il ventennio fascista, una poesia chiusa e “in codice” come quella ermetica, permise ad alcuni intellettuali di esprimere in modi indiretti, e destinati quindi a pochi lettori, la propria polemica o la propria indifferenza nei confronti del regime. Così poterono evitare di compromettersi con il potere politico e con il fascismo e di chiudersi nel proprio mondo a meditare sull’esistenza e sul destino dell’uomo.
Ad ogni modo, l’Ermetismo ci offre una poesia “blindata" in pochi e oscuri messaggi; essa diventa la voce di un individuo solitario ed assoluto, chiuso in se stesso anziché aperto alle novità del suo tempo, come le guerre o il regime fascista. Questi eventi non vengono analizzati in chiave critica (non vengono, cioè, né esaltati né criticati dagli ermetici), ma solo descritti in base alla reazione del poeta ad essi (reazione di sgomento, di paura, di solitudine, di estraneità o indifferenza). Non esiste, cioè, altra realtà al di fuori di quella del loro animo. Il poeta ermetico non vive la realtà come qualcosa da raccontare oggettivamente nella sua opera, ma anzi come qualcosa entro cui proiettare la sua interiorità. Difatti la poesia ermetica è stata spesso accusata di egocentrismo, di esaltare i problemi individuali e di trascurare quelli reali dell’umanità, di essere estranea alla vita del proprio tempo anziché partecipare con l’azione e l’impegno al regime fascista vigente, ma questa non è un’accusa ben fondata, se si guarda bene.
Certo la poesia ermetica sorvola sugli avvenimenti della cronaca quotidiana, ma non ignora i problemi più vasti e universali, come quelli riguardanti il destino e l’esistenza dell’uomo: forse questo chiudersi in se stessi costituiva per gli ermetici di quegli anni l’unica difesa contro il regime e la sua politica rumorosa e dispotica.
La poesia ermetica è piuttosto lo scavo interiore di un uomo che si guarda dentro mentre vagabonda solitario nella civiltà moderna nella quale si sente spaesato e disorientato. Egli avverte la propria vita e, in generale, la vita umana come dolore, come male; cerca disperatamente un rapporto di armonia e di solidarietà col mondo esterno, ma poi lo scopre arido e vuoto; va alla ricerca di una certezza che illumini finalmente la propria esistenza ma alla fine la trova soltanto nella propria poesia, che diventa così un urlo di disperazione.
Inoltre la poesia ermetica è quasi sempre una poesia autobiografica, incentrata su qualche aspetto dell’esistenza del poeta stesso, sui suoi sentimenti, sulle sue sensazioni ed emozioni, sulle sue esperienze di vita, sui suoi dolori; non è una poesia astratta, ma è la poesia dell’uomo, della sua esistenza concreta e della sua disperata resistenza alla distruzione della storia. Tale autobiografismo ci suggerisce quanto stretto sia per la poesia ermetica il rapporto tra vita e letteratura.
Molti poeti precedenti avevano parlato di sé nella propria opera; per es. D’Annunzio aveva descritto nelle sue poesie e nei suoi romanzi le proprie esperienze di vita, quali le proprie relazioni amorose, i propri viaggi o la propria eroica partecipazione alla guerra: la funzione della poesia era per lui quella di esibire la vita del poeta come una vita spettacolare, eroica, fatta di consensi e di successi.
Al contrario, gli ermetici intesero la poesia come scavo sottile nella propria interiorità, senza esibire nulla al pubblico, ma soltanto esprimendo in modo riservato le proprie sensazioni.
Chiuse e riservate, essenziali e concise furono le forme con le quali i poeti ermetici espressero i propri sentimenti in poesia. Essi con i loro versi non raccontano, non spiegano, ma fissano sulla pagina dei frammenti di verità a cui sono pervenuti in momenti di profonda ispirazione, senza l’aiuto del ragionamento e della logica. Visto che le esperienze negative delle guerre e del regime fascista li avevano condannati a una forte solitudine, a loro non interessava affatto essere chiari e precisi nella loro poesia, tanto nessuno mai avrebbe potuto veramente capire cosa volessero realmente esprimere.
I componimenti degli ermetici ruppero drasticamente con tutti in canoni e con tutte le regole della poesia precedente; non rispettarono più schemi tradizionalmente imposti come la rima, le strofe, il metro, la punteggiatura o il numero di versi; molto spesso il loro testo poetico è scarno, breve, essenziale, fatto di pochissimi versi e pochissime parole, quanto bastava ad esprimere lo stato d’animo del momento.
Non si avvertì più il bisogno di un vero e proprio discorso per fare poesia, ma bastarono poche parole nelle quali, però, si concentrarono straordinariamente tutte le sensazioni provate.
Anche se isolata dal discorso, la poesia ermetica conservava la sua forza evocativa, piegava molte più cose di quelle che avrebbe espresso un discorso lungo, elaborato sintatticamente e complesso grammaticalmente.
La parola è nuda, spoglia di ogni significato comune, e acquista valore solo se rapportata alle emozioni che in quel momento sta vivendo il poeta. La poesia non ha alcun bisogno di essere decorata o abbellita da forme raffinate ed eleganti (questo accadde, invece, alla poesia di D’Annunzio, una poesia di esasperato estetismo).
Anche il componimento poetico nel suo insieme risulta essenziale, ridotto all’osso e di breve respiro, concentrando in poche righe tutto il suo messaggio.
Ciò che colpisce della poesia ermetica è l’assenza quasi totale di punteggiatura, le parole sono sparse qua e là senza essere legate da punti e virgole; esse non hanno bisogno di essere congiunte le une alle altre, ma sono sufficienti a se stesse per esprimere i propri significati.
Per questo la poesia ermetica è solitamente definita come “pura”, perché condensa in un minimo di strumenti espressivi un massimo di significati. Essa non ha bisogno del linguaggio logico comune per esternare al pubblico il proprio messaggio, ma in una sola parola, in un solo verso è capace di condensare le verità più profonde sull’uomo e sulle cose. Persino gli spazi bianchi, i vuoti lasciati tra una parola e l’altra, si caricano di significati forti esprimendo il senso di vuoto avvertito dal poeta o il suo bisogno di silenziosa concentrazione.
Al contrario, la poesia precedente specie quella ottocentesca e romantica, esprimeva i propri messaggi in strutture ampie, retoriche ed oratorie, con le quali persuadere il pubblico e rispettava fedelmente quelle misure imposte (la rima in posizione obbligata, il sonetto, l’ode) che la poesia ermetica abolirà del tutto per una più libera espressione dei sentimenti del poeta. Tra gli strumenti espressivi che caratterizzarono la poesia ermetica, ricordiamo soprattutto il simbolo e l’analogia. Per quanto riguarda il simbolo, è importante ricordare che molti poeti ermetici furono particolarmente influenzati da un movimento poetico europeo chiamato “simbolismo” affermatosi soprattutto in Francia. Proprio dai simbolisti gli ermetici derivarono l’uso del simbolo, ovvero quel procedimento per il quale ci si serve di un oggetto qualsiasi per rappresentare qualcos’altro. Non sempre è facile nella poesia ermetica decifrare il simbolo, cioè tradurre il simbolo in ciò che l’autore vuole realmente rappresentare attraverso di esso: molto spesso le associazioni sono del tutto personali e arbitrarie, e dunque di difficile interpretazione e codificazione per il lettore.
L’analogia, invece, è quella tecnica espressiva che accostava fra loro immagini e situazioni diverse e senz’alcun apparente legame, per stabilire dei rapporti originali, ma anche in questo caso l’accostamento è di difficile comprensione all’interno del testo: non è con la ragione o con la logica, ma con l’istinto e la sensibilità che si trova la chiave interpretativa delle associazioni analogiche.
Provando adesso a tracciare le tappe principali dello sviluppo della poesia ermetica, diremo che questa si diffuse in Italia in circa tre fasi:
ANNI 1911-22: si diffusero le prime tendenze della poesia ermetica (testo breve, rottura con la tradizione) e la tendenza di questi poeti a una certa essenzialità fu detta Frammentismo
ANNI 1923-33: emersero le grandi personalità liriche della poesia di primo ‘900 (tra cui Ungaretti e Montale), punti di riferimento per tutta la generazione successiva di poeti con il loro uso di simboli, analogie e con la loro poesia “pura”.
ANNI 1933-44: anche la poetica dell’Ermetismo fu codificata in canoni e schemi prestabiliti e da applicare; nacque dunque una vera e propria scuola di poeti ermetici.
La “poesia pura” è una corrente che ebbe il suo periodo di maggior fioritura negli anni tra le due guerre.
Gli elementi principali del rinnovamento messo in atto dai nuovi lirici si possono così riassumere:
L’essenzialità dei vocaboli e della lingua;
L’analogia, cioè la metafora abbreviata per sopprimere il “come”;
Il carattere evocativo che attinge dalla sfera dell’interiorità sensazioni e sentimenti inespressi e misteriosi;
Il frammento, cioè la preferenza per i testi brevi, quasi schegge di un disegno poetico più vasto;
L’atteggiamento introspettivo, che prevale sull’impegno;
La protesta morale, evidentissima in Ungaretti e Montale.

EUGENIO MONTALE
Montale è una delle massime voci della poesia mondiale di questo secolo, uomo coerentemente antifascista, insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1975 “per aver interpretato con grande sensibilità artistica valori umani nel segno di una visione della vita senza illusioni”. La sua lunghissima carriera di poeta, scrittore, critico letterario e giornalista è da anni oggetto di attenti studi che hanno prodotto una sterminata bibliografia; ciò perché egli ha saputo dare un'originalissima interpretazione alle inquietudini dell'uomo contemporaneo, ispirandosi ai maestri del Simbolismo e del Decadentismo, ma forse ancor più a Leopardi, e rendendo al contempo estremamente attuali le loro innovazioni. La sua influenza sui poeti italiani successivi è stata immensa e capillare.
PROFILO BIOGRAFICO
Nato a Genova nel 1896, destinato da genitori borghesi a fare il ragioniere nella ditta del padre, decide di diventare cantante operistico e per diversi anni prende lezioni di canto: una grande musicalità, un grande interesse per i suoni e per gli strumenti musicali restano poi una costante della sua opera. Nella sua vita piena di avvenimenti, un’importanza grande quanto quella della lettura hanno i rapporti con uomini di cultura, che egli stringe negli ambienti più diversi: durante il servizio militare (prestato nel corso della prima guerra mondiale) conosce alcuni poeti ed intellettuali, che in seguito diverranno oppositori del fascismo, come fu sempre lo stesso Montale. E’ proprio uno di questi intellettuali antifascisti, Piero Gobetti, che pubblica, nel 1925, la prima raccolta poetica di Montale, Ossi di seppia, assai legata alla terra in cui il poeta aveva passato gli anni dell’infanzia, la Liguria arida e rocciosa delle Cinque Terre, paesaggisticamente rievocata.
Intanto Montale, che ha firmato nel 1925 il Manifesto degli intellettuali antifascisti, allarga il suo giro di amicizie: conosce tra gli altri lo scrittore triestino Italo Svevo e il poeta Umberto Saba. Dopo alcuni anni di collaborazione a diverse riviste, Montale ormai trentenne si trasferisce a Firenze, dove lavora prima come redattore della Casa Editrice Bemporad e poi come direttore della Biblioteca del Gabinetto Vieusseux , una prestigiosa istituzione fiorentina. In questi anni Firenze è il vero centro culturale d’Italia e Montale conosce e frequenta molti scrittori, musicisti e pittori dell’epoca.
Con l‘avvicinarsi della seconda guerra mondiale e precisamente nel 1938, Montale, che rifiuterà sempre la tessera del partito Fascista, perde il proprio lavoro.
Da qualche anno il poeta ha conosciuto e poi ha iniziato a convivere con Drusilla Tanzi, la cui figura ritornerà in molte sue poesie con l’affettuoso soprannome di Mosca. Questi sono anche gli anni in cui Montale lavora molto, anche per necessità economiche, a tradurre poeti, soprattutto inglesi.
Nel 1939 Montale pubblica la sua seconda raccolta poetica Le Occasioni, che ha grande successo: essa esprime la difficoltà e le angosce di anni davvero bui, ma insieme parla d’amore e di salvezza.
Durante la guerra Montale partecipa al Comitato di Liberazione Nazionale (una sorta di governo provvisorio democratico dopo la liberazione dell’Italia dai nazisti) e si iscrive al Partito d’Azione. Subito dopo la guerra comincia a collaborare con il Corriere della Sera, da cui viene infine assunto in modo stabile: nel 1948 perciò si trasferisce a Milano, dove passerà gli anni della maturità e della vecchiaia.
Nel 1956 viene pubblicata da Mondadori, la terza grande raccolta poetica di Montale, La bufera e altro (in cui vengono riprese anche le liriche di Finisterre): una raccolta difficile, complessa, incentrata sulla crisi che minaccia le “presenze amate e familiari”, ma anche sulla possibilità di salvezza che scaturisce da figure di donne angeliche e insieme reali (Clizia, La Volpe, La stessa Mosca).
Negli anni Sessanta la fama di Montale è grandissima non solo in Italia, ma anche all’estero: le sue opere sono tradotte nei paesi europei, compresi quelli dell’Est, come Ungheria e Bulgaria, e negli Stati Uniti. Sarebbe stata una stagione felice per Montale che, nominato senatore a vita e privo di preoccupazioni economiche, avrebbe potuto dedicarsi alle attività preferite: purtroppo, però, nel 1963 muore Mosca, che il poeta non finirà mai di rimpiangere.
Lo sguardo critico, ma insieme partecipe, sull’uomo e sul mondo non si è certo affievolito. E intatta resta la capacità di fare ironia sugli altri e su sé stesso, sulla falsa notizia della sua morte apparsa su molti giornali, sulla sua stessa esistenza.
“Quando il mio nome apparve in quasi tutti i giornali/una gazzetta francese avanzò l’ipotesi/che non fossi mai esistito”: questi i primi versi di una poesia del 1980, scritti a pochi mesi dalla morte, avvenuta a Milano il 12 settembre 1981.
LA POETICA
La Liguria dell'infanzia e della giovinezza, offre alla sua prima poesia il costitutivo teatro di un paesaggio intenso di grandi luci estive e di inquieti orizzonti marini. Pienamente immerso nel paesaggio ligure, e in gran parte "all'aria aperta" e accompagnato dal "delirio del mare", segnato ma non sopraffatto da un intimo rovello filosofico, il suo libro iniziale, “Ossi di seppia”, è già un capolavoro, un vero e proprio manifesto poetico che sin dal titolo sottolinea l’essenzialità povera e scabra: uno dei libri-chiave del Novecento letterario.
Il titolo di questa prima raccolta poetica montaliana richiama emblematicamente, nella scelta di questo relitto del mare e delle spiagge che è l’osso di seppia (un guscio vuoto), cose inaridite, prosciugate, senza vita; il che è già un modo per suggerire una filosofia di vita.
Il senso angoscioso di una chiusura e costrizione esistenziale (il muro, appunto, che compare in diversi testi, la "rete che ci stringe", la "ferrea catena della necessità", la "catena che ci lega", la "giostra d'ore troppo uguali" della ripetizione banale) domina l'immaginario del primo libro. Vi si oppone la ricerca di sperati spiragli di libertà e di vita autentica: la "maglia rotta" nella rete, "l'anello che non tiene", la "lima che sega" la catena (in limine), l'inaspettato prodigio che salva (il "miracolo laico"), di cui è portatrice l'immagine femminile, che assumerà nei due libri seguenti la fondamentale funzione di una moderna e laica Beatrice. La poesia, in questa cupa e pessimistica visione del mondo, non può indicare la strada per uscire dalla crudele morsa del mondo, poiché è venuto meno il suo potere conoscitivo ed interpretativo del reale, a causa della perdita, da parte del soggetto, della fiducia nella possibilità di una corrispondenza logica ed analogica, tra io e mondo, può solo offrire “qualche storta sillaba e secca come un ramo”, può solo rappresentare questa condizione negativa, rinvenendola negli oggetti attraverso il correlativo oggettivo. La poesia è ancora il risultato della consapevolezza della negatività, di questo non essere dell’uomo. Negli “Ossi di seppia” tale negatività è riscontrabile nel medesimo titolo della raccolta: gli ossi rappresentano il correlativo oggettivo della condizione dell’uomo, ridotto appunto a rifiuto, ad inutile rottame dell’esistenza, espulso, esiliato dalla vita, quella reale, autentica, vera, rappresentata dal mare. La tematica del detrito comporta un sentimento di scacco e di fallimento esistenziale e sociale, ma non esclude totalmente un riscatto, un appiglio, una salvezza.Ma dove trovare questo appiglio, dove rintracciare una qualche piccola possibilità di salvezza? Paradossalmente proprio nella condizione di rifiuto, proprio nella diversità che tale condizione determina la leggerezza. Solo grazie a questa l’osso potrà galleggiare sulle onde e confondersi con la natura, con l’armonia cosmica e diventare quasi parte di questa, perché in fondo è questo il tormento dell’uomo, non poter essere in armonia con il cosmo, non poter aderire completamente alla natura.
La leggerezza è anche, da un punto di vista pratico, la possibilità di vivere in un piccolo mondo infantile, protetto ma fragile, che consenta un minimo di libertà adolescenziale, quella negata all’uomo che vive nel momento della decisione e dell’inserimento nella vita sociale.
Ma restare nel mondo degli incanti adolescenziali significa rifiutare le responsabilità di una vita adulta, significa allontanarsi da quella che è la vita reale, significa essere vili.
Con la fine dell’infanzia l’uomo deve dire addio al grembo protettivo, in cui l’adesione al ritmo cosmico era spontanea e naturale. Il distacco da quell’età mitica, avviene con il “minuto violento” della consapevolezza che distrugge ogni illusione. Quell’età perduta è possibile riviverla soltanto nella dimensione della memoria. Quella montaliana è però una memoria difficile, fatta di ricordi fulminei destinati subito a svanire, ad allontanarsi, a diventare di un altro; è una memoria che cigola per un ingranaggio, per un meccanismo non funzionante e non controllabile. Nonostante questo, il ricordo è spesso un talismano che, per pochi istanti, può introdurre l’uomo nel miracolo della salvezza; un miracolo, però, avvertito, creduto, ma non reale e presto dimenticato.
Ogni possibilità di salvezza, di miracolo, di prodigio, è affidata ad una memoria fragile ed involontaria (a differenza di quella leopardiana), che difficilmente riuscirà ad assolvere la propria funzione, ad una memoria inadeguata ed arbitraria: è lei che decide chi deve apparire in ricordo e chi no, è lei che poi deforma il passato, lo fa vecchio.
E’ questa, dunque, una memoria che ha come sua parte fondante l’oblio e che da questo è regolata e resa crudele, poiché non solo impone ciò che è indesiderato, ma sottrae anche il ricordo desiderato. Questa crudeltà è propria di una memoria quale è presente negli “Ossi di seppia”, grigia, stanca, scialba, dilavata e terribile. Nella seconda edizione di Ossi di seppia compare un testo-chiave, Arsenio, in cui il poeta condensa gli elementi che caratterizzano il "personaggio che dice io" in questo primo libro. Arsenio, che in parte rappresenta lo stesso Montale (non certo per caso in rima con Eugenio), reincarna il tipico eroe negativo, o antieroe, romantico o decadente, del quale proprio in quegli anni Montale scopriva e proclamava, primo forse tra gli italiani, la grandezza. Arsenio è incapace di vivere.
Montale è stato definito il “poeta della disperazione” perché, chiuso in un freddo e insensibile dolore, proietta il suo “male di vivere” sul mondo circostante, dando quasi origine ad una sofferenza che non è solo umana, ma addirittura cosmica e universale. La sua visione pessimistica dell’esistenza, specie nella consapevolezza della negatività di ogni mitologia o ideologia, che però non significa isolamento e rifiuto di vivere, lo spinge verso l’impegno a oggettivare le cose, i paesaggi, i modi di sentire, gli eventi che possono tradurre ogni sua particolare emozione. Per lui la vita è una terra desolata in cui gli uomini, gli oggetti e la stessa natura sono soltanto squallide e nude presenze senza significato. In tal modo il Vivere precipita verso il Nulla. Ciò nonostante, Montale è alla ricerca di un varco, di una smagliatura, da cui poter fuggire per salvarsi. La sua è una negatività che, anche se vanamente, ricerca la positività. Infatti, nella negazione totale si offre una speranza di salvezza, di una grazia riservata a chi saprà fuggire da se stesso e dalla propria chiusura.
La parola di Montale indica con precisione degli oggetti definiti e concreti e stabilisce tra di essi una trama di relazioni complesse cui fa capo lo stesso soggetto poetante il cui fine ultimo è scoprire la direzione e il senso proprio della vita, è una parola quindi molto ricercata. A questo proposito, la poesia di Montale è stata strettamente connessa alla “poetica delle cose”, molto simile a quella Pascoliana.
GLI SCRITTI MONTALIANI (DA OSSI DI SEPPIA)
“I LIMONI”
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall' azzurro:
piú chiaro si ascolta il susurro
dei rami amici nell' aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest' odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed é l' odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s' abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l' anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una veritá
Lo sguardo fruga d' intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinitá
Ma l' illusione manca e ci riporta il tempo
nelle cittá rumorose dove l' azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s' affolta
il tedio dell' inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l' anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d' oro della solaritá.
IL LIVELLO TEMATICO
“I Limoni” sono il manifesto teorico della poesia montaliana che metaforicamente rappresentano la speranza; il significato del testo consiste nel rifiuto della poesia aulica qual è quella adottata dai “poeti laureati”, fatta di nobili presenze e di termini selezionati. Ad essa Montale contrappone una realtà comune, costituita da un paesaggio povero ed scabro, che vive di presenze naturali consuete e concrete. E’ questo il percorso della poesia indicato da Montale, che ( sulla linea proposta da Pascoli) rifiuta l’uso generico e indeterminato della parola, ma se ne serve per indicare con precisione cose e oggetti dalla fisionomia specificata. Al culmine si pone qui l’immagine risolutiva e simbolica dei “limoni”, aspri ma fortemente vivi e colorati. La natura descritta in questi versi è una realtà animata e tangibile: solo in essa, così elementare e brulla è possibile strappare un po’ di pace e di felicità. Nel silenzio le “cose” sembrano abbandonarsi, come se fossero sul punto di rivelare il “segreto” esistenziale della loro elementare presenza, lasciando intravedere “il filo” da cui parte l’incomprensibile disegno della vita. Nell’alterna vicenda delle stagioni, la scoperta “dei gialli dei limoni”, che si intravedono all’interno di un cortile, riporta il calore vitale e la felicità di una rinata illusione.
LIVELLO RITMICO METRICO
Il componimento è composto da quattro strofe di varia lunghezza e versi di varia misura: si passa da versi senari ad altri di misura lunghissima. Non mancano le rime “ciglioni… limoni… passioni… canzoni. Vi sono anche rime interne: laureati… usati… e assonanze in ANT e in AN: piante… acanti.
“NON CHIEDERCI LA PAROLA”
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
si' qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
cio' che non siamo, cio' che non vogliamo.
IL LIVELLO TEMATICO
Questa poesia è anch’essa tratta da “Ossi di Seppia”. Montale in questa poesia chiede ad un ipotetico interlocutore di non chiedere più ai poeti la verità assoluta, in quanto la parola di cui il poeta stesso dispone non è in grado di rivelarla. Quindi le poesie non rappresentano più la realtà, come al contrario i poeti laureati (D’Annunzio) credevano di esprimere.
Il “polveroso prato” propone il tema, sempre caro agli “Ossi di Seppia”, dell’aridità.
Nella seconda strofa l’autore fa riferimento all’uomo conformista, deciso e sicuro, il quale è indifferente a tutto ciò che lo circonda, fregandosene di scoprire la realtà. Al contrario il poeta è sempre alla ricerca della realtà assoluta, ma non riuscirà a trovarla perché non esiste, ma nonostante questo sente sempre la necessità di cercarla.
L’ultima strofa inizia con un imperativo negativo (“non domandarci la formula che mondi possa aprirti”). Con questa affermazione il poeta ribadisce il concetto che neanche i poeti sono in grado di capire la verità, ma nelle ultime due strofe il poeta lascia ai lettori una lieve speranza dicendo: “Possiamo dirti chi non siamo e ciò che non vogliamo”.
LIVELLO RITMICO METRICO
Tre quartine di versi di differente lunghezza, variamente rimati (Es. I Strofa: a b b a – II : a b c a – III Strofa: a b a b). Da notare: a) il duplice imperativo negativo (versi 1 e 9) che è un modulo stilistico che si ripete nelle poesie montaliane di quegli anni a sottolineare un particolare rapporto col mondo; b) la desolata aridità di certe immagini (polveroso prato, scalcinato muro) che sarà una costante nella produzione di Montale: elementi fisici che si caricano di un significato metafisico; c) l’asprezza contorta di certe collocazioni (storta….e secca).
“SPESSO IL MALE DI VIVERE HO INCONTRATO”
1 Spesso il male di vivere ho incontrato:
2 era il rivo strozzato che gorgoglia,
3 era l'incartocciarsi della foglia
4riarsa, era il cavallo stramazzato.
5 Bene non seppi; fuori del prodigio
6 che schiude la divina Indifferenza:
7 era la statua nella sonnolenza
8 del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
IL LIVELLO TEMATICO
Il testo descrive esplicitamente il concetto montaliano del “male di vivere” ed offre un chiaro esempio di correlativo/oggettivo, ossia del rapporto che la parola stabilisce con gli oggetti da essi nominati, cioè dell’oggetto come espressione di uno stato d’animo. Nel primo verso, l’uso della prima persona suggerisce un movimento che va dal personale al concreto, dal soggettivo all’oggettivo. Utilizzando la forma verbale “ho incontrato” il poeta materializza il concetto del “male di vivere”, identificandolo quasi come una persona reale, sottolineando in tal modo la vitalità e la realisticità del contatto con esso. Questo male si identifica direttamente con gli emblemi che lo rappresentano: “il rivo strozzato”, immagine che ritrae l’acqua costretta a fluire attraverso una strettoia , “l’incartocciarsi della foglia riarsa” e il “cavallo stramazzato”, che oramai stanco e corroso dalla fatica si abbandona a se stesso e si lascia cadere a terra.
In opposizione al “male di vivere” che si manifesta negli aspetti più comuni della Natura, non vi può essere per Montale altro “bene” che l’atteggiamento di stoico distacco e di “indifferenza” assunto dalla divinità di fronte alla miseria del mondo. Ai tre emblemi del “male” si oppongono tre correlativi oggettivi di questa specie di “bene”: la statua, la nuvola e il falco.
LIVELLO RITMICO METRICO
Sono due quartine di endecasillabi tranne l’ultimo “un senario doppio”; rime incrociate (ABBA) nella prima quartina; anomale nella seconda quartina (CDDA); l’ultimo verso, di quattordici sillabe, è ipermetro.
LIVELLO RETORICO
Nella poesia si possono evidenziare le seguenti figure retoriche:
II° Verso: Il rivo strozzato = metafora ( il ruscello è paragonato alla vita)
III° Verso: L’incartocciarsi della foglia = metafora
IV° Verso: Il cavallo stramazzato = metafora
VII° Verso: La statua = metafora (l’immobilità e l’insensibilità)
VIII° Verso: La nuvola = metafora (l’inconsistenza e l’imprendibilità)
Il falco = metafora ( lontananza e libertà istintiva)
III/IV Verso …… della foglia/riarsa = enjambement
VII/VIII Verso….nella sonnolenza/del meriggio = enjambement
II – III – IV Verso ….era il rivo….era l’incartocciarsi….era il cavallo = anafora
LA PROIEZIONE MONTALIANA SOTTO IL REGIME FASCISTA
Montale è stato coerentemente antifascista, e certo il fascismo, il nazismo, le vicende d’Europa degli anni trenta, la guerra, sono stati elemento della sua disperazione; e in disarmonia con il mondo egli si è sentito dopo la seconda guerra mondiale, quando è stato anticomunista, antiavanguardista, sprezzante verso la storia politica, sociale, culturale del secondo dopoguerra. Di qui capiamo la sua inadattabilità al mondo d’oggi. Quest’atteggiamento si nota già nella prima raccolta, Ossi di seppia; nella seconda raccolta, Le Occasioni, approfondì motivi e ricerca espressiva in un processo ulteriore verso la stretta fusione di classicismo e simbolismo e nella tendenza ad una poesia metafisica. Al centro restava la visione del mondo incoerente, un ammasso di oggetti estranei all’uomo quando non addirittura ostili, la coscienza della propria solitudine e del proprio destino umano e solo qualche rara occasione che ci permette di vivere. E la poesia, in quegli anni bui quando dittature e guerre soffocavano, diventa l’unico scampo: uno scampo aristocratico, che stacca e isola pochi eletti dalla grigia folla comune. Scoppiata la guerra, nel momento in cui la massima si fa l’angoscia dell’uomo, Montale scrive le liriche Finisterre (1940-’42), che poi raccoglie in La bufera e altro (1956). Qui Montale continua il suo esame di un mondo che avverte sempre più estraneo. Col passare degli anni questo sentimento di distacco dal mondo si fa sempre più acuto. Montale ripugna alla civiltà industriale, vede in essa la morte dell’arte.
L’avvento del nazionalsocialismo in Germania, una volta superata la crisi nei rapporti italo-tedeschi provocata dalla politica annessionistica del nazismo nei confronti dell’Austria, contribuì ad accentuare gli aspetti espansionistici e imperialistici dell’azione internazionale del fascismo. Di qui lo scatenamento della seconda guerra mondiale a causa dei nazisti tedeschi. La guerra del 1939-’45, ebbe caratteristiche politiche e ideologiche diverse dalla prima. La guerra del 1939-’45 è stata una guerra mondiale, invece quella del 1914-’18 è stata una guerra prevalentemente europea. Nessuna guerra vide mai i massacri e i genocidi commessi dalla Germania nazista.
IL FASCISMO
LA NASCITA DEL FASCISMO
Anzitutto occorre dare uno sguardo d’insieme alla situazione politica, sociale ed economica italiana alla fine del primo conflitto mondiale che condusse all’avvento del regime fascista.
Sul piano economico, i problemi italiani che si manifestarono alla fine della prima guerra mondiale, sono dovuti alla necessaria riconversione delle industrie di guerra a industrie di pace. Non meno importante, è il fenomeno della svalutazione della lira, provocata in particolar modo dall’aumento della quantità di moneta cartacea circolante, accompagnata dall’aumento dell’inflazione in quanto. Infatti, per ripagare le spese di guerra e per ripristinare l’equilibrio, lo stato necessitava di finanziamenti: chi ne faceva le spese era il popolo sottoposto a nuove tasse.
Di fronte a un repentino cambiamento della struttura economica e sociale, lo stato liberale non seppe far fronte alle trasformazioni. Possiamo perciò ritenere la crisi economica finanziaria una tra le cause storiche che permisero il sorgere di una dittatura in Italia e affermare, in conclusione, che il bilancio dello stato era in deficit.
Nel mondo civile, al ritorno dal fronte gli ex-combattenti furono profondamente delusi a causa della mancata soluzione dei loro problemi, in quanto, a loro, erano state promesse terre e ricchezze, mai distribuite. Inoltre le difficoltà economiche che scaturirono dalla guerra si riversarono soprattutto sui contadini e sul proletariato. Furono queste due classi sociali a scatenare nel periodo del dopoguerra acute lotte sociali (1919): i contadini occupavano le terre e gli operai, attraverso l’occupazione delle fabbriche, manifestavano il loro malessere e rivendicavano la gestione delle fabbriche. Anche la piccola borghesia rifiutava la sua condizione. La crisi sociale era anche alimentata dalla crescente disoccupazione che colpiva soprattutto i reduci dalla Grande guerra.
La crisi a livello politico è caratterizzata dalla crisi dello stato liberale, il quale non riesce più a guidare il paese e a mediare i conflitti sempre più gravi all’interno delle varie classi sociali. All’interno della situazione politica italiana vi era una lotta tra i partiti di destra (nazionalisti) e tra i partiti di sinistra (socialisti) che si erano opposti all’entrata in guerra dell’Italia..
All’interno dello scenario politico italiano, particolarmente amareggiata era la destra “imperialista”, la quale rivendicava la sovranità anche sulla Dalmazia e Fiume. Proprio a causa di questi due territori non annessi all’Italia, nacque il mito della “vittoria mutilata”. Quest’espressione era stata coniata dal poeta Gabriele D’Annunzio, il quale, il 12 settembre 1919, a capo di un esercito composto da militari ed ex-militari alimentati da un forte sentimento nazionalista, occupò la città di Fiume. Il governo non seppe impedire questo atto di forza, che minava gravemente l’autorità dello stato italiano e la sua credibilità internazionale. Contemporaneamente, all’interno del paese, le forze antidemocratiche esaltavano l’impresa di D’Annunzio, che incontrava crescente favore presso gli ambienti militari. La questione fiumana non fu risolta dal governo Nitti, bisognerà infatti, aspettare che Giolitti, un anno dopo, firmi il trattato di Rapallo con la Iugoslavia, il quale sanciva l’assegnazione dell’Istria all’Italia, della Dalmazia alla Iugoslavia e rendeva Fiume una città libera e indipendente sotto la tutela della società delle nazioni. Tuttavia questo accordo non fu accolto da D’Annunzio e dai nazionalisti, e Giolitti fu costretto a liberare Fiume con la forza. Si avvicina inarrestabile il regime fascista.
La prima origine di questo movimento risaliva al marzo del 1919, quando Benito Mussolini, un ex leader del partito socialista espulso per le sue posizioni interventiste, fondava i fasci a Milano, un movimento che riuniva ex-combattenti, ex-sindacalisti rivoluzionari ed ex-repubblicani.
In base al programma di San Sepolcro, i fasci si presentarono alle elezioni del novembre del 1919 ottenendo 5000 voti e senza conseguire alcun seggio.
Il programma con il quale il movimento fascista si era presentato alle elezioni era composto dai seguenti punti:
➢ Abolizione del senato di nomina regia (i deputati erano eletti dal popolo; i senatori erano scelti dal re);
➢ Giornata lavorativa di otto ore;
➢ Assegnazione di terre non coltivate a cooperative di contadini;
➢ Imposta straordinaria sul capitale;
➢ Sequestro dei beni delle corporazioni religiose;
➢ Scuola laica.
In questo programma si comprendeva l'ispirazione violentemente antisocialista e antioperaia che poi si attuò nell'azione politica.
Dopo l'insuccesso elettorale del 1919 nacque un forte fascismo "agrario" e lo squadrismo. Gli agrari appoggiavano e finanziavano le "squadre d'azione" fasciste che giravano per colpire e ridurre al silenzio i sindacati, le associazioni dei braccianti e le organizzazioni socialiste.
Nel 1921, con le elezioni politiche di Maggio, i liberali scelsero di allearsi con il movimento di Mussolini per riuscire a fronteggiare i due grandi partiti di massa: socialisti e cattolici. A capo del partito liberale c'era Giolitti che in realtà sperava di poter poi riassorbire il fascismo riducendone i poteri. In questo modo però viene, in sostanza, legittimato il Partito fascista. Infatti entrarono nel parlamento ben 35 deputati fascisti tra cui lo stesso Mussolini. I fascisti si presentavano come soluzione contro il "pericolo rosso" per giustificare la loro azione e per accrescere l'area dei consensi. Il governo liberale entra, così, in crisi. Nel giugno del 1921, Giolitti si dimette dalla presidenza del consiglio, ormai immerso in una situazione di crescenti scontri di piazza, illegalità e violenza. Il movimento fascista, ormai forte, si trasformò nel novembre in Partito Nazionale Fascista.
Il re, dopo una breve crisi incaricò Luigi Facta di formare un nuovo governo. Egli, a capo di una coalizione di liberali, popolari mantenne il governo fra molte difficoltà fino all'ottobre del1922.
Poiché né i Socialisti italiani furono in grado di rimanere uniti, né i cattolici e i liberali riuscirono a trovare un punto d'accordo, nel 1922, quando era in atto il congresso di Napoli del partito nazionale fascista, fu organizzata una "marcia su Roma" che costrinse il re e il parlamento ad accogliere le richieste fasciste.
Il presidente del consiglio chiese al re di far intervenire l'esercito, ma il re per paura che l'esercito non obbedisse o che scoppiasse una guerra civile, rifiutò e Facta, del tutto impotente a fronteggiare la situazione, si dimise.
Il 30 ottobre, infine, il re incaricò Mussolini di formare un nuovo governo. Nasceva, così, una coalizione formata da liberali, cattolico-popolari e fascisti.
IL PARTITO FASCISTA
Dall'ottobre del 1922, Mussolini iniziò un'opera di rafforzamento del potere fascista. Nel dicembre venne istituito il Gran Consiglio del fascismo, un organo di dirigenti del partito fascista, con il compito di elaborare le linee generali della politica fascista.
Nel gennaio venne fondata la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nel tentativo di legalizzare lo squadrismo che però, rappresentava sempre una forza armata di parte.
Mussolini mirava ad ottenere l'appoggio della classe dirigente, economica e politica.
Molte furono le riforme apportate dal nuovo governo, ad iniziare da una nuova politica economica che aboliva il monopolio statale delle polizze vita, da una riduzione del carico fiscale sulle imprese ed infine Mussolini decise di salvare l'Ansaldo e il Banco di Roma attraverso il denaro pubblico. Fece attuare una nuova riforma scolastica del ministro Giovanni Gentile che diede all'istruzione una configurazione nuova e coerente con gli ideali del fascismo e che contribuì, prevedendo l'insegnamento della religione nelle scuole elementari, a migliorare i rapporti con la Chiesa cattolica. Nel 1923 i ministri popolari avevano lasciato il governo.
Nel 1923 viene introdotta una nuova legge elettorale, la legge Acerbo che prevedeva un forte premio alla lista che avesse ottenuto la maggioranza relativa dei voti.
Nel 1924, sulle basi del nuovo sistema elettorale, si tennero le nuove elezioni politiche. I Fascisti raccolsero una schiacciante maggioranza.
Ma il deputato Giacomo Matteotti, segretario del partito socialista, venne rapito da una banda di squadristi fascisti, pochi giorni prima aveva denunciato in parlamento i sotterfugi del partito fascista.
Era chiaro a tutti chi era stato e l'unica forma di protesta fu la cosiddetta secessione dell'Aventino, cioè l'uscita dal parlamento di tutte le opposizioni, ad eccezione dei comunisti.
La crisi che seguì fu ben presto superata anche grazie all'inerzia del re di fronte all'illegalità e all'opinione pubblica.
In un discorso in parlamento pronunciato il 3 gennaio del 1925, Mussolini annunciò la svolta autoritaria assumendosi la responsabilità di quanto accaduto.
Da quel momento le opposizioni iniziarono ad essere sistematicamente colpite da provvedimenti di polizia e giudiziari, i maggiori giornali italiani divennero "fascistizzati".
Infine, il regime fascista prese forma di uno stato totalitario.
Da questo momento iniziarono ad essere emanate leggi che miravano a rafforzare i poteri di Mussolini; cioè leggi che proibivano lo sciopero, che imponevano lo scioglimento di tutti i partiti ad eccezione di quello fascista, che istituivano un tribunale speciale per la sicurezza dello stato e che reintroducevano la pena di morte.
Muore definitivamente così lo stato liberale.
IL REGIME
Nel 1929 la Santa Sede e il governo Italiano firmano i Patti Lateranensi. Questi patti furono unicamente un sistema, per Mussolini di potersi presentare come l'artefice di una storica riconciliazione fra lo stato e la chiesa, e, per la Chiesa, invece, rappresentava solo il legittimo riconoscimento della propria autorità sullo Stato ed, inoltre, era una garanzia di tutela della propria indipendenza.
Negli anni '30, dopo lo scoppio della grande crisi economica mondiale, la politica fascista fondò il sistema corporativo, una legge che prevedeva la nascita di 22 corporazioni cioè associazioni rappresentativa sia dei datori di lavoro che dei lavoratori, suddivise per settori produttivi che si proponeva di impedire alla radice i conflitti di lavoro e di promuovere il massimo livello di produzione. In realtà il corporativismo si tradusse in vantaggio per la classe imprenditoriale.
Nel 1927 si realizza la rivalutazione della lira attraverso la "quota novanta" (ossia il valore di cambio di 90 lire per una sterlina). Ovviamente tutto questo si accompagnò ad una riduzione dei salari dei lavoratori. Negli anni '30 cresce, inoltre, l'intervento statale nell'economia.
Per ovviare al problema economico che causava la disoccupazione, viene attuata una politica di lavori pubblici (strade, ferrovie, edilizia….) e di bonifica di terreni agricoli malsani ed incolti. Con l'impiego di ingenti risorse finanziarie pubbliche, buona parte della disoccupazione poté essere assorbita e migliaia di ettari di coltura vennero messi a cultura.
Le conseguenze della grave crisi economica che nel 1929 aveva colpito tutto il mondo, furono risolte dal fascismo con la nascita di alcuni istituti statali: nel 1931 fu creato L'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), con il compito di sostituire le banche in crisi nel sostegno alle industrie in difficoltà finanziarie, nel 1933 nacque l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con il compito di salvare le industrie malate.
Oltre che istituti economici, nacquero anche istituti di previdenza sociale come l'Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale (INAIL), l'Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI).
Mussolini fece tutto questo per arrivare ad avere un sempre maggiore livello di consenso pubblico che esplose, nel 1935, con la conquista dell'Etiopia e la proclamazione dell'Impero.
Nonostante le sanzioni economiche disposte dalla società delle nazioni, la politica estera di Mussolini ebbe successo e ciò contribuì alla nascita di una politica dell'autarchia (autosufficienza economica)
Nel 1936 l'Italia interviene a fianco dei nazisti tedeschi nella guerra civile Spagnola, in appoggio ai franchisti contro la repubblica. Si posero così le basi per un'alleanza fra Mussolini ed Hitler che, nell'arco di pochi anni avrebbe portato i due paesi alla guerra Mondiale.
Una conseguenza tragica di quest'alleanza fu, nel 1938, l'emanazione di leggi razziali antisemite che, in sostanza proclamavano l'esistenza di una "pura razza Italiana" d'origine ariana e gli ebrei furono privati, in quanto "razza inferiore", di tutti i fondamentali diritti civili e politici e costretti all'esilio o all'emigrazione.
IL FASCISMO DURANTE LA GUERRA
Quando nel settembre del 1939 scoppiò la guerra, Mussolini dichiarò la non belligeranza che, pochi mesi dopo, fu rotta poiché il 10 Giugno 1940, l'Italia entrò in guerra con la dichiarazione di guerra alla Francia e all'Inghilterra.
Data la debolezza economica e militare, l'Italia poteva solo condurre una guerra di appoggio alla Germania, infatti, più volte i nazisti dovettero intervenire in soccorso all'esercito italiano.
I disastri della guerra mettono in crisi il regime fascista per cui cresce il dissenso operaio e imprenditoriale, in particolar modo, il movimento perde il consenso popolare, della borghesia e dei ceti medi; nel marzo del 1943 vi furono i primi grandi scioperi operai nelle fabbriche del Nord a cominciare da Torino con la FIAT.
Gli alleati anglo-americani sbarcano in Sicilia nell'estate del 1943 e incominciarono la graduale occupazione della penisola da sud verso nord.
Il gran Consiglio del fascismo destituisce Mussolini (almeno per levarsi le maggiori responsabilità) convocato poi dal re e arrestato, fu subito, nominato il nuovo capo del governo: il maresciallo Pietro Badoglio.
Il nuovo governo Badoglio continua la guerra a fianco dei tedeschi, solo nel settembre firma l'armistizio di Cassibile accettando la resa senza condizioni alle truppe alleate.
Il re ed il governo scappano protetti dagli anglo-americani, Mussolini viene salvato dai Tedeschi e, dalla Germania, guida un nuovo stato fascista - chiamata anche repubblica di Salò controllando solo l'Italia settentrionale che era ancora in mano ai tedeschi.
Nasce il movimento partigiano, cioè la Resistenza che combatte sulla linea Gotica. La direzione politica della Resistenza era stata assunta dai rappresentanti dei sei partiti antifascisti: comunista, socialista, democristiano, (l'erede del partito popolare), liberale, d'azione (nuovo partito di sinistra, ma non marxista) e la democrazia del lavoro (una nuova formazione). Questi partiti avevano costituito il Comitato per la Liberazione Nazionale (CLN) per guidare la resistenza antifascista e condurre il paese verso la democrazia.
Nell'aprile del 1944, il governo Badoglio e CNL si alleano con la "Svolta di Salerno" e si apre così una nuova strada per l'unità nazionale.
Nel giugno Roma veniva liberata dagli alleati, Vittorio Emanuele III abdica, Badoglio si dimise.
Le difficoltà non erano finite perché lungo la linea Gotica i tedeschi erano irremovibili, ma, il 25 Aprile del 1945 l'ordine di insurrezione del CNL portò tutte le città ad essere occupate dai Partigiani. I tedeschi si arresero o si ritirarono mentre l'esercito di Salò era ormai dissolto. Mussolini venne arrestato e fucilato dai partigiani mentre tentava di fuggire in Svizzera.
Finiva così la guerra in Italia ed era imminente la fine anche in tutta l'Europa.
L’ANTIFASCISMO: LA RESISTENZA ITALIANA
Troppe erano le violenze che gli Europei sottomessi dovettero subire dalla Germania: presto si era sviluppato ovunque un’opposizione attiva che prese il nome di Resistenza.
La Resistenza fu innanzitutto una lotta nazionale contro l’invasore straniero tedesco, ma fu anche una lotta civile ed una lotta sociale. I centri ed i movimenti più famosi della Resistenza europea furono in Polonia, Russia, Grecia ed in Francia. Naturalmente la Resistenza Italiana emerse più tardi, dato che ancora Italia e Germania erano alleate e visto che ancora l’Italia era un paese aggressore e non occupato. Solo dal momento in cui subirà l’occupazione tedesca, si manifesterà un vero e proprio movimento di opposizione.
La Resistenza italiana fu un fenomeno complesso, al cui interno convissero e si intrecciarono tre tipi di conflitto:
Una guerra patriottica, condotta per la liberazione del paese dai Tedeschi;
Una guerra civile, che oppose partigiani e fascisti della Repubblica di Salò;
Una guerra di classe.
Vi era nel movimento partigiano una grande eterogeneità di provenienza sociale e di appartenenza politica: borghesi, contadini, operai, intellettuali, militari, studenti.
Il primo grande episodio di Resistenza italiana si ebbe a Napoli, una città che aveva subìto pesantemente le conseguenze della guerra (bombardamenti, fame, miseria): i cittadini insorsero contro i Tedeschi tra il 27 e il 30 settembre del 1943. Dopo accaniti combattimenti strada per strada, in cui il popolo napoletano diede prova di grande eroismo, gli occupanti furono costretti a ritirarsi. Nell’Italia occupata dai Tedeschi si costituirono, subito dopo l’8 settembre, i primi nuclei partigiani, formati da soldati che si rifugiavano in montagna per sfuggire alla deportazione in Germania, da giovani che non volevano arruolarsi nella milizia fascista, da militanti dei partiti antifascisti. Le più forti formazioni partigiane erano le “Garibaldi”, controllate dai comunisti, che agivano in collegamento con i reparti di “Giustizia e Libertà” (Partito d’Azione) e “Matteotti” (socialisti). Altre formazioni minori raccoglievano monarchici, liberali e “democristiani” che rappresentavano la continuità con il vecchio Partito popolare di Don Sturzo. Le forti differenze ideologiche che caratterizzavano le formazioni partigiane (comunisti e socialisti, in particolare, vedevano nella Resistenza la prima fase di una lotta che avrebbe dovuto portare a una profonda rivoluzione sociale nella futura Italia liberata) non impedirono tuttavia che prevalesse una sostanziale unità nella lotta contro il nazi-fascismo. Già nel 1944 l’azione delle forze partigiane fu posta sotto il comando unificato del Corpo Volontari della Libertà (CVL), diretto dal generale Raffaele Cadorna. Dalle loro basi sulle montagne i partigiani scatenarono operazioni di guerriglia, sabotaggi, attentati e anche battaglie in campo aperto; agivano nelle città occupate e nelle campagne con azioni rapide ed efficaci. La loro lotta, che durò quasi due anni (dal settembre del 1943 all’aprile del 1945) e costò più di 70.000 morti, assunse subito un duplice carattere: di guerra contro il nemico e di guerra civile, contro il nemico fascista. I risultati furono importanti, sia sul piano militare sia su quello morale. I nazi-fascisti furono tenuti costantemente sulla difensiva e si sentirono presto isolati, mentre il popolo italiano, che era stato coinvolto in una guerra odiosa, complice di un alleato feroce, poteva ora riscattarsi agli occhi del mondo. Alle azioni dei partigiani, i nazisti e i fascisti risposero con crudeli rappresaglie sulla popolazione civile: i nomi delle Fosse Ardeatine, vicino a Roma, dove furono massacrati 335 ostaggi, o di Marzabotto, vicino a Bologna, dove i nazisti in fuga massacrarono 2.000 persone inermi, ricordano solo due tra i tanti episodi della violenza nazi-fascista. Superarono il durissimo inverno 1944-1945 senza deporre le armi, la Resistenza italiana diede un contributo determinante alla liberazione del Nord Italia nella primavera del 1945. L’insurrezione nazionale dilagò il 25 e il 26 aprile del 1945. Mentre gli alleati invadevano la valle del Po, i partigiani lanciarono un attacco congiunto contro le forze nemiche: i Tedeschi fuggirono, la Repubblica sociale si sfasciò. Mussolini fu catturato dai partigiani mentre, travestito da soldato tedesco, cercava rifugio in Svizzera. Venne fucilato il 28 aprile.
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Esempio



  


  1. Gianni Maranzana

    Sto cercando gli appunti, o la relazione, la tesi su Eugenio Montale in "La Bufera e altro". Sostengo una tesi all'Università.

  2. sandrina

    una tesina sull'ermetismo