Cesare: "De Bello Civili" - II Libro

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Testo

Libro II De bello civili
1 Mentre in Spagna avvengono questi fatti, il legato Caio Trebonio, che era stato lasciato ad assediare Marsiglia, incomincia a fare condurre da due parti verso la città un terrapieno e fare portare davanti ad essa vinee e torri. Una parte era vicina al porto e ai cantieri navali, l'altra alla porta per dove si entra provenendo dalla Gallia e dalla Spagna, presso quel tratto di mare che tocca la foce del Rodano. Infatti Marsiglia è bagnata dal mare quasi da tre lati della città; il quarto è quello che offre accesso dalla parte di terra. Anche la parte di questo spazio che si estende fino alla rocca della città, protetta dalla natura del luogo e da una valle profondissima, necessita di un lungo e difficile assedio. Per condurre a termine questi lavori C. Trebonio fa venire da tutta la provincia un gran numero di giumenti e di uomini; dà ordine che siano portati vimini e legname. Radunato ciò, fa costruire un terrapieno alto ottanta piedi.
2 Ma tante erano in città, da molto tempo, le attrezzature belliche di ogni tipo e tanto grande la moltitudine delle baliste che nessuna vinea, per quanto coperta di vimini, poteva sostenere la loro violenza. Infatti travi di dodici piedi, munite di punte di ferro e scagliate da enormi balestre, si configgevano in terra dopo avere trapassato quattro ordini di graticci. E così, congiungendo insieme travi dello spessore di un piede, si costruivano gallerie, attraverso le quali si passava di mano in mano il materiale per il terrapieno. Procedeva innanzi una testuggine di sessanta piedi per spianare il terreno, costruita anch'essa di aste di legno molto resistente e ricoperta di tutto ciò che poteva proteggere da pietre e proiettili incendiari. Ma l'imponenza dei lavori, l'altezza del muro e delle torri, la moltitudine delle macchine da guerra rallentavano tutto l'andamento dell'assedio. Venivano anche fatte numerose incursioni fuori della città da parte degli Albici e si cercava di appiccare il fuoco al terrapieno e alle torri; i nostri soldati con facilità respingevano tali tentativi e inoltre, infliggendo loro gravi perdite, ricacciavano in città gli incursori.
3 Frattanto L. Nasidio, mandato da Pompeo in aiuto a L. Domizio e ai Marsigliesi con una flotta di sedici navi, di cui poche corazzate, attraversato lo stretto giunge con le navi a Messina, senza che Curione se ne accorga o se lo aspetti; per l'improvviso terrore i capi e i senatori fuggono dalla città ed egli porta via dai cantieri navali una nave nemica. Aggiuntala alle altre sue, fa rotta verso Marsiglia e, di nascosto mandata avanti una piccola nave, avvisa Domizio e i Marsigliesi del suo arrivo e li esorta vivamente a combattere di nuovo contro la flotta di Bruto, essendo venute in aiuto le sue forze.
4 I Marsigliesi, dopo la precedente sconfitta, avevano riparato le vecchie navi, tratte fuori dagli arsenali nello stesso numero di quelle perdute, e le avevano armate con grande cura (disponevano di un buon numero di rematori e di comandanti); vi avevano aggiunto battelli da pesca che avevano coperto per protezione, perché i rematori fossero al sicuro dal getto dei proiettili; riempirono tutte queste imbarcazioni di saettatori e di macchine da guerra. Allestita in tal modo la flotta, incitati dalle preghiere e dal pianto di tutti, vecchi, madri e fanciulle, a venire in aiuto alla città in un momento di estremo pericolo, s'imbarcano con non meno coraggio e fiducia che nella precedente battaglia. Infatti per una normale debolezza della natura umana avviene che in presenza di situazioni insolite e sconosciute si abbia maggiore fiducia [e più fortemente si tema]; allora accadde così; infatti l'arrivo di L. Nasidio aveva riempito la città di grande speranza e di ardore. Approfittando di un vento favorevole escono dal porto e giungono a Tauroento, che è una piazzaforte dei Marsigliesi, presso Nasidio e qui dispongono le navi in ordine di battaglia e di nuovo si rinsaldano nella volontà di combattere e discutono i piani di battaglia. L'ala destra è assegnata ai Marsigliesi, quella sinistra a Nasidio.
5 Verso il medesimo luogo si dirige Bruto, dopo avere incrementato il numero delle navi. Infatti a quelle costruite ad Arles per ordine di Cesare aveva aggiunto le sei navi prese ai Marsigliesi. E così esorta i suoi a disprezzare da vinti quei nemici che avevano debellato quando erano intatti nelle forze e, pieno di buona speranza e di coraggio, muove contro di loro. Era facile dall'accampamento di Trebonio e da tutte le alture vedere dentro la città tutta la gioventù che era ivi rimasta e tutti gli anziani con i figli e le mogli nei luoghi pubblici, nei posti di guardia e sulle mura tendere le mani al cielo o andare nei templi degli dèi immortali e, prostrati davanti alle statue, chiedere loro la vittoria. E fra tutti non vi era nessuno che non pensasse che il destino di tutti loro dipendeva dall'esito di quella giornata. E infatti i giovani di nobile nascita e i più ragguardevoli cittadini di ogni età, chiamati nominatamente e pregati di imbarcarsi, erano saliti sulle navi; sapevano bene che, se accadeva qualche disgrazia, non rimaneva loro nulla da tentare; se invece risultavano vincitori, confidavano nella salvezza della città grazie alle loro forze o ad aiuti esterni.
6 Attaccata battaglia, niente offuscò il valore dei Marsigliesi. Ma, memori delle esortazioni che avevano ricevuto poco prima dai loro, combattevano con tanto coraggio da sembrare di non potere avere in futuro nessun'altra occasione per ripetere il tentativo, pensando che coloro che perdevano la vita in battaglia precedevano di poco la sorte degli altri cittadini che, una volta presa la città, avrebbero dovuto patire il medesimo destino di guerra. E, poiché le nostri navi si erano a poco a poco allontanate le une dalle altre, si presentava ai comandanti nemici l'occasione per mostrare la loro abilità e l'agilità delle navi. E se talora i nostri, cogliendo il momento opportuno, avevano abbordato una nave con ganci di ferro, i nemici da ogni parte venivano in soccorso di chi si trovava in difficoltà. E invero gli Albici, che si erano ad essi uniti, erano non inferiori nel combattimento corpo a corpo e non molto lontani dal valore dei nostri. Nel medesimo tempo la grande violenza dei dardi lanciati a distanza dalle navi più piccole arrecava molte ferite ai nostri che venivano colpiti all'improvviso, senza aspettarselo e mentre erano impegnati nel combattimento. Due triremi, vista la nave di D. Bruto, che con facilità poteva essere riconosciuta dall'insegna, l'avevano attaccata da due parti. Ma Bruto, previsto l'attacco, forzò la velocità della nave sì da precederle, pur se di poco. Quelle, lanciate a piena velocità, si scontrarono tra di loro così violentemente da risentire entrambe in modo grave dello scontro; anzi una, spezzatosi il rostro, si sfasciò completamente. Alla vista di ciò, le navi della flotta di Bruto più prossime attaccano quelle navi in difficoltà e in poco tempo le affondano entrambe.
7 Ma le navi di Nasidio non furono di alcuna utilità e ben presto si allontanarono dal combattimento; infatti né la vista della patria né l'esortazione dei parenti li spingeva a fare fronte all'estremo pericolo della vita. Perciò nessuna di quelle navi fu perduta; cinque navi della flotta marsigliese furono affondate, quattro prese, una fuggì con le navi di Nasidio, che si diressero tutte verso la Spagna Citeriore. Ma una delle navi rimaste fu mandata a Marsiglia per portare questa notizia e, quando già si avvicinava alla città, tutta la cittadinanza si precipitò per sapere e, avuta la notizia, cadde in un così grande dolore che la città sembrava essere stata conquistata dal nemico proprio in quel momento. Tuttavia i Marsigliesi nondimeno cominciarono a completare gli ultimi preparativi per la difesa della città.
8 I legionari, che erano impegnati nei lavori d'assedio sul lato destro, capirono dalle continue sortite dei nemici che poteva essere loro di grande aiuto, se avessero costruito lì da un lato sotto le mura una torre a guisa di castello e di riparo. In un primo momento ne costruirono una piccola e poco elevata contro gli attacchi improvvisi. In essa si rifugiavano; da essa, se erano incalzati da un assalto più violento, si difendevano; da essa si lanciavano a respingere e inseguire il nemico. Questa torre era larga in ogni lato trenta piedi; lo spessore delle pareti era di cinque piedi. In seguito invero, poiché in ogni cosa l'esperienza è maestra, quando vi si aggiunge l'intelligenza dell'uomo, si capì che poteva essere di grande utilità estenderla in altezza. In questo modo fu fatto.
9 Quando l'altezza della torre giunse al primo piano, incastrarono le travi del tavolato nelle pareti così che le estremità delle tavole venissero protette dalla muratura esterna, affinché nulla sporgesse a cui il nemico potesse appiccare il fuoco. Sopra questa travatura, per quanto lo permetteva il riparo del pluteo e delle gallerie, continuarono la costruzione con mattoni e sopra questo muro, non lontano dalle estremità delle pareti, appoggiarono di traverso due travi su cui poggiare quella travatura che doveva essere di tetto alla torre. E sopra quelle travi posero perpendicolarmente dei travicelli che unirono con assi. Fecero questi travicelli un po' più lunghi e sporgenti della parte esterna delle pareti in modo che fosse possibile appendervi stuoie per difendersi dai proiettili e respingerli, mentre sotto quel tavolato continuavano ad essere costruite le pareti. Coprirono la parte superiore dell'impalcatura con mattoni e fango perché il fuoco nemico non potesse essere di danno e sopra vi gettarono imbottiture affinché i proiettili scagliati con le macchine non rompessero la travatura o i sassi scagliati dalle catapulte non sconnettessero i muri. Poi con funi d'ancora fecero tre stuoie lunghe come le pareti della torre e larghe quattro piedi e, lasciandole pendere intorno alla torre, le legarono alle travi che sporgevano, dalle tre parti che davano sul nemico; questo era il solo genere di copertura esperimentato in altre circostanze che non poteva essere trapassato né da dardo né da proiettile. Quando invero quella parte della torre che era stata terminata fu coperta e protetta da ogni tiro dei nemici, portarono via i plutei per usarli in altro lavoro. A partire dal primo piano dell'impalcatura cominciarono a sollevare e a innalzare con leve il tetto della torre che faceva parte a sé. Quando lo avevano innalzato tanto quanto lo permetteva l'altezza delle stuoie, nascosti e protetti dentro queste coperture, costruivano le mura con i mattoni e di nuovo con un'operazione di leve creavano lo spazio per continuare l'edificazione. Quando pareva il momento di costruire un altro piano, come prima collocavano travi protette dalle estremità dei muri e a partire da quella travatura di nuovo sollevavano il tetto e le stuoie. Così con sicurezza e senza alcun danno o pericolo costruirono sei piani e, dove parve opportuno, lasciarono nella costruzione alcune feritoie per il lancio dei proiettili.
10 Quando furono sicuri che da quella torre potevano difendere le opere d'assedio tutt'intorno, cominciarono a costruire una galleria coperta lunga sessanta piedi con travi di due piedi, che potesse condurre dalla torre di mattoni alla torre e al muro dei nemici. Questa la forma della galleria: dapprima sono poste sul terreno due travi di uguale lunghezza distanti tra di loro quattro piedi e su di esse vengono conficcate colonnette alte cinque piedi. Congiungono tra di loro queste colonnette con cavalletti con lieve inclinazione, dove collocare le travi che dovevano coprire la galleria. Sopra collocano travi di due piedi e le assicurano con lamine e chiodi di ferro. All'estremità del tetto e delle travi fissano asticelle quadrate larghe quattro dita per tenere fermi i mattoni collocati sulla galleria. Così con il tetto a punta costruito in successione, a mano a mano che le travi sono collocate sui cavalletti, la galleria viene coperta di mattoni e di fango per essere protetta dal fuoco lanciato dalle mura. Strisce di cuoio vengono stese sui mattoni perché acqua eventualmente incanalata e immessa non potesse sconnettere i mattoni. Il cuoio poi viene coperto di materassi per non venire distrutto a sua volta dal fuoco e dalle pietre. Questa opera è condotta a termine fino alla torre tutta al riparo delle vinee e subitamente, senza che i nemici se l'aspettassero, con una tecnica navale, sottoponendo dei rulli, l'avvicinano alla torre nemica, fino a congiungerla alla costruzione.
11 Atterriti da questo pericolo, subito gli assediati spingono con delle leve macigni quanto più grossi possibile e, fattili precipitare dal muro, li fanno cadere sulla galleria. La solidità del materiale sostiene il colpo e tutto ciò che cade scivola lungo gli spioventi del tetto. Vedendo ciò, i nemici cambiano piano; incendiano barili pieni di pece e resina e li gettano dal muro sulla galleria. I barili, rotolando, precipitano; caduti a terra ai fianchi, vengono allontanati dalla galleria con forche e pertiche. Frattanto sotto la galleria i soldati con leve scalzano alla base della torre dei nemici le pietre che ne costituivano le fondamenta. La galleria viene difesa dai nostri con frecce e proiettili scagliati dalla torre di mattoni; i nemici si allontanano dalle mura e dalle torri; non è più concessa la possibilità di difendere il muro. Rimosse molte pietre dalla torre vicina alla galleria, all'improvviso una parte di quella torre crolla, la rimanente parte a sua volta stava per cadere, quando i nemici, atterriti per l'eventuale saccheggio della città, inermi si precipitano tutti quanti fuori dalla porta con le sacre bende, tendendo supplichevolmente le mani ai luogotenenti e all'esercito.
12 Presentatasi questa insolita situazione, ogni operazione di guerra viene sospesa e i soldati desistono dal combattimento, mossi dal desiderio di ascoltare e sapere. I nemici, giunti al cospetto dei luogotenenti e dell'esercito, si gettano tutti ai loro piedi; scongiurano di aspettare l'arrivo di Cesare. Essi, dicono, vedono la loro città presa; le opere d'assedio completate, la torre abbattuta e perciò rinunciano alla difesa. Dicono inoltre che, se essi, quando giungerà Cesare, non eseguiranno i suoi ordini, non ci sarà nessun motivo per indugiare nel distruggerla subito, a un suo cenno. Spiegano che, se la torre cadrà del tutto, non si potrà impedire ai soldati, desiderosi di preda, di irrompere nella città, distruggendola. Queste e molte altre simili considerazioni vengono esposte da uomini colti quali erano, con pianti e tono tale da suscitare grande pietà.
13 Commossi da questi pianti e preghiere i luogotenenti ritirano i soldati dalle opere d'assedio, desistono dall'attacco; lasciano posti di guardia innanzi ai lavori. Raggiunta per un sentimento di compassione una sorta di tregua, si attende l'arrivo di Cesare. Dalle mura i nostri non scagliano nessun dardo; come se la guerra fosse finita, tutti attenuano l'attenzione nella sorveglianza. Cesare infatti aveva per iscritto vivamente raccomandato a Trebonio di non permettere l'espugnazione a forza della città affinché i soldati, troppo scossi e dall'odioso tradimento e dal disprezzo verso di loro e dalla continua fatica, non massacrassero tutti gli adulti; e ciò essi minacciavano di fare. E a stento furono allora trattenuti dal fare irruzione nella città e mal volentieri sopportarono quel divieto poiché pareva che il non avere preso la città dipendesse da Trebonio.
14 Ma i nemici, in mala fede, cercano un momento favorevole per un subdolo inganno e, lasciato passare qualche giorno, mentre i nostri se ne stanno rilassati e tranquilli, a mezzogiorno, all'improvviso, quando alcuni si sono allontanati, altri sui posti stessi dei lavori si sono concessi un riposo dalla lunga fatica e tutte le armi sono state messe via e coperte, irrompono fuori dalle porte, e danno fuoco ai lavori di assedio approfittando di un vento forte e favorevole. Il vento propagò il fuoco così velocemente che in un momento trincea, gallerie, testuggine, torre, macchine da guerra furono in fiamme e tutto ciò fu distrutto prima che si potesse capire in che modo l'incendio era avvenuto. I nostri, scossi dall'improvvisa sciagura, afferrano le armi che possono, altri si lanciano fuori dal campo. Assaltano i nemici, ma le frecce e i proiettili scagliati dalle mura impediscono di inseguire i fuggitivi. Quelli si ritirano ai piedi del muro e qui, senza ostacolo, incendiano la galleria e la torre di mattoni. Così il lavoro di molti mesi in un attimo va in rovina per la perfidia dei nemici e la violenza della tempesta. Il giorno dopo i Marsigliesi fecero il medesimo tentativo. Favoriti dalla medesima tempesta con maggiore temerarietà fecero una sortita e attaccarono presso l'altra torre e l'altra trincea e appiccarono molti incendi. Ma i nostri, come nei giorni precedenti avevano allentato tutta l'attenzione, così messi in guardia dal fatto dell'ultimo giorno, avevano preparato tutto per la difesa. E così, dopo avere ucciso molti nemici, ricacciarono in città i rimanenti senza che questi avessero portato a termine il loro piano.
15 Trebonio cominciò a organizzare la ricostruzione di ciò che era stato distrutto con un entusiasmo dei soldati molto maggiore. Infatti quando videro che con la distruzione delle opere belliche tante loro fatiche erano andate perdute, provando profondo dolore poiché, violata la tregua con l'inganno, erano stati scherniti nel loro valore, dal momento che non rimaneva materiale per costruire di nuovo una trincea giacché, per lungo e per largo nel territorio di Marsiglia, tutti gli alberi erano stati tagliati e portati via, decisero di costruire un terrapieno di nuovo tipo, mai visto prima, con due mura di mattoni di sei piedi di spessore, uniti da un tavolato, quasi della stessa larghezza di quello che era stato costruito con il legname trasportato. Laddove l'intervallo tra i muri o la debolezza del legname sembrano richiederlo, si interpongono dei pilastri, si pongono di traverso travi che possano essere di sostegno e si copre di graticci tutta la travatura, i graticci vengono cosparsi di fango. Al riparo i soldati, protetti a destra e sinistra dal muro e di fronte da una protezione di tavole, portano senza pericolo qualunque materiale serva per la costruzione. Il lavoro viene condotto velocemente; la perdita di un lavoro costato lungo tempo viene in poco tempo sanata dalla velocità e dal valore dei soldati. Vengono lasciate nel muro, là dove pareva opportuno, delle porte per potere fare delle sortite.
16 I nemici si accorsero che con un duro lavoro in pochi giorni erano state ricostruite quelle opere che essi speravano non potessero essere rifatte se non in un lungo tempo, sicché non vi era per loro occasione di inganno o sortita e non rimaneva alcun punto attraverso cui arrecare danno ai soldati con le armi o ai lavori con il fuoco. Parimenti comprendono che tutta quanta la città, dalla parte di terra, poteva essere accerchiata dal muro e dalle torri, sicché non sarebbe stato loro possibile resistere a piè fermo sulle loro stesse fortificazioni: il nostro esercito infatti sembrava quasi costruire le mura del terrapieno appoggiate alle mura della città così che i proiettili potevano essere scagliati a mano, mentre per il poco spazio non potevano usare le loro macchine da guerra, in cui avevano posto grande speranza. Quando comprendono che sul muro e sulle torri il combattimento può essere condotto nelle stesse condizioni e che essi non possono eguagliare i nostri in valore, ricorrono alle medesime condizioni di resa della volta precedente.
17 Nella Spagna Ulteriore Marco Varrone, in un primo tempo, venuto a conoscenza degli avvenimenti verificatisi in Italia e diffidando del successo di Pompeo parlava di Cesare molto favorevolmente: diceva di essere impegnato con Pompeo, che lo aveva nominato luogotenente e di essere quindi costretto a mantenersi fedele. Ciò nonostante non meno stretto era il suo rapporto di amicizia con Cesare ed egli non ignorava quale è il dovere di un luogotenente con un incarico di fiducia; sapeva quali erano le sue forze e quale la disposizione d'animo verso Cesare in tutta la provincia. Riprendeva queste argomentazioni in tutti i suoi discorsi, senza propendere verso alcun partito. Ma quando in seguito seppe che Cesare si tratteneva presso Marsiglia, che le truppe di Petreio si erano congiunte con l'esercito di Afranio, che si erano radunate grandi forze ausiliarie, nella speranza e nell'attesa di molte altre, che tutta la provincia citeriore era dalla loro parte, e quando poi venne a sapere ciò che era capitato a Ilerda per mancanza di vettovaglie, notizie queste inviategli per iscritto da Afranio che le aveva gonfiate ed esagerate, anch'egli cominciò a muoversi dove muoveva la Fortuna.
18 In tutta la provincia fece reclutamenti; completate due legioni, aggiunse a esse circa trenta coorti di milizie ausiliarie. Raccolse una grande quantità di frumento da inviare ai Marsigliesi e parimenti ad Afranio e Petreio. Ordinò ai Gaditani di costruire dieci navi da guerra, inoltre ne fece costruire molte altre a Ispali. Fece portare dal tempio di Ercole nella città di Gades tutto il denaro e tutti gli oggetti preziosi; mandò colà di presidio dalla provincia sei coorti e mise a capo della città di Gades Gaio Gallonio, cavaliere romano amico di Domizio, che qui era giunto mandato da Domizio come procuratore in una questione di eredità; fece radunare tutte le armi pubbliche e private nella casa di Gallonio. Egli stesso pronunciò parole dure contro Cesare. Spesso dal palco affermò che Cesare aveva subito sconfitte, che un gran numero di suoi soldati erano passati dalla parte di Afranio; e che egli era venuto a sapere ciò da messaggeri sicuri, da fonti sicure. Costrinse i cittadini romani della sua provincia, atterriti da queste notizie, a promettere, per la pubblica amministrazione, diciotto milioni di sesterzi, ventimila libbre d'argento e centoventi moggi di grano. Imponeva oneri più pesanti alle città che credeva essere amiche di Cesare e vi mandava presidi e autorizzava processi contro i privati che avevano pronunciato parole o discorsi contro lo stato e confiscava i loro beni. Costringeva tutta la provincia a giurare fedeltà a lui e a Pompeo. Venuto a sapere di ciò che era avvenuto nella Spagna Citeriore, si preparava alla guerra. Il suo piano di guerra era il seguente: recarsi con due legioni a Gades, concentrare là le navi e tutto il frumento; aveva saputo infatti che l'intera provincia era favorevole a Cesare. Una volta raccolti nell'isola frumento e navi, riteneva non difficile tirare in lungo la guerra. Cesare, sebbene richiamato in Italia da molte questioni urgenti, aveva tuttavia stabilito di non lasciare in Spagna nessun focolaio di guerra, poiché sapeva che nella provincia citeriore grandi erano i benefizi di Pompeo e molti erano i suoi clienti.
19 Pertanto mandate nella Spagna Ulteriore due legioni con Quinto Cassio, tribuno della plebe, egli stesso con seicento cavalieri avanza a marce forzate e si fa precedere da un editto, fissando il giorno in cui voleva che i magistrati e i capi di tutte le città gli si presentassero a Cordova. Dopo la promulgazione di questo editto in tutta la provincia non vi fu città che non mandasse a Cordova, alla data stabilita, una rappresentanza del senato, non vi fu cittadino romano di una certa importanza che non vi giungesse nel giorno fissato. Contemporaneamente la stessa colonia di Cordova, di propria iniziativa, chiuse le porte a Varrone, dispose sulle torri e sulle mura sentinelle e corpi di guardia e trattenne presso di sé per la difesa della città le due coorti che erano dette coloniali, giunte colà per caso. Nel medesimo tempo gli abitanti di Carmona, di gran lunga la città più potente di tutta la provincia, di propria iniziativa cacciarono le tre coorti, mandate da Varrone a presidiare la rocca della città, e chiusero le porte.
20 Per questi motivi Varrone si affrettava a giungere quanto prima con le legioni a Gades perché la via di terra e il passaggio di mare non gli venissero bloccati; tanto e così benevolo favore nei confronti di Cesare si poteva constatare nella provincia. Aveva fatto poca strada quando gli viene recapitata una lettera proveniente da Gades per informarlo che, non appena si era avuta conoscenza dell'editto di Cesare, i notabili di Gades si erano accordati con i tribuni delle coorti che erano lì di guarnigione per scacciare dalla città Gallonio e salvaguardare città e isola per Cesare. Presa questa decisione, intimarono a Gallonio di lasciare Gades spontaneamente finché gli era concesso di farlo senza pericolo; ma se egli non l'avesse fatto, avrebbero preso le opportune decisioni. Spinto da questo timore Gallonio lasciò Gades. Venuta a conoscenza di ciò, una delle due legioni che erano dette provinciali, disertò dal campo di Varrone, in sua presenza e sotto i suoi occhi, e ritornò a Ispali e, senza arrecare danno, sostò nel foro e sotto i portici. E i cittadini romani di quella colonia approvarono a tal punto quel gesto che ciascuno accolse ospitalmente e con gran piacere presso di sé i legionari. Varrone, atterrito da questi fatti, cambiò direzione di marcia e mandò a dire che sarebbe andato a Italica, ma dai suoi fu informato che gli erano state chiuse le porte. Allora invero, preclusa ogni strada, manda a dire a Cesare di essere pronto a consegnare la legione a chi egli ordinava. Cesare gli manda Sesto Cesare e gli ordina di consegnarla a lui. Consegnata la legione, Varrone giunge a Cordova presso Cesare; dopo avere reso lealmente i conti della pubblica amministrazione, gli consegna il denaro che aveva con sé e gli mostra quanto frumento e navi possedeva e dove erano.
21 Convocata in Cordova un'assemblea, Cesare porge a tutti un ringraziamento distinto per singole categorie: ai cittadini romani, poiché si erano impegnati a tenere la città in loro potere, agli Spagnoli, poiché avevano scacciato la guarnigione, agli abitanti di Gades, poiché avevano annientato gli sforzi dei nemici e avevano riacquistato la libertà; ai tribuni dei soldati e ai centurioni, che erano giunti colà per la difesa, poiché avevano appoggiato col loro valore le decisioni di quella gente. Condona il denaro che i cittadini romani avevano promesso a Varrone per l'erario; restituisce i beni a coloro ai quali erano stati confiscati, come era venuto a sapere, per avere parlato troppo liberamente. Ad alcune popolazioni consegna premi da destinare alla cosa pubblica e a privati e colma gli animi delle altre popolazioni di speranza per il futuro; fermatosi due giorni a Cordova, si dirige a Gades; ordina che siano riportati nel tempio il denaro e gli oggetti preziosi che dal tempio di Ercole erano stati portati in casa privata. Mette a capo della provincia Quinto Cassio; gli assegna quattro legioni. Egli stesso con quelle navi che M. Varrone aveva fatto costruire e con quelle che, per comando di Varrone, gli abitanti di Gades avevano costruito, giunge in pochi giorni a Tarragona. Qui legazioni di quasi tutta la provincia citeriore attendevano il suo arrivo. Con lo stesso criterio attribuiti onori e ricompense, privatamente e pubblicamente, ad alcune città, parte da Tarragona e giunge, via terra, a Narbona e di qui a Marsiglia. Qui viene a sapere che era stata promulgata una legge per la nomina di un dittatore e che egli stesso era stato eletto dittatore dal pretore Marco Lepido.
22 I Marsigliesi, sfiniti da ogni genere di mali, ridotti all'estrema penuria di viveri, sconfitti due volte in battaglie navali, sconfitti in frequenti sortite, travagliati anche da una grave pestilenza dovuta al lungo assedio e al cambiamento in peggio del vitto (tutti infatti si nutrivano di panìco raffermo e di orzo guasto che avevano raccolto da tempo per una situazione del genere e portato nei magazzini pubblici), diroccata una torre, crollata gran parte delle mura, perduta ogni speranza di aiuto da parte di province o di eserciti, che avevano saputo essere caduti in potere di Cesare, decidono di arrendersi lealmente. Ma, pochi giorni prima, L. Domizio, venuto a conoscenza dell'intenzione dei Marsigliesi, allestite tre navi, due delle quali aveva assegnato a suoi familiari, mentre egli stesso era salito sulla terza, partì approfittando del tempo burrascoso. Quando le navi, che per ordine di Bruto facevano quotidiana guardia presso il porto, lo videro, levate le ancore cominciarono a inseguirlo. Delle tre navi solo quella di Domizio accelerò e continuò a fuggire e col favore della burrasca si sottrasse alla vista, mentre le altre due navi, atterrite dall'accorrere delle nostre, si rifugiarono nel porto. Gli abitanti di Marsiglia portano fuori dalla città, come era stato comandato, armi e macchine da guerra, fanno uscire le navi dal porto e dai cantieri, consegnano il denaro dell'erario pubblico. Fatto ciò, Cesare, risparmiando quei cittadini più per la fama e l'antica origine che per i meriti della città nei suoi riguardi, lascia qui due legioni di presidio, manda tutte le altre in Italia; egli stesso parte alla volta di Roma.
23 Nel medesimo tempo C. Curione, partito dalla Sicilia per l'Africa e tenendo in poco conto sin da principio le milizie di P. Azzio, trasportava due legioni delle quattro che aveva ricevuto da Cesare e cinquecento cavalieri; dopo due giorni e tre notti di navigazione approda in un luogo detto Anquillaria, distante ventiduemila passi da Clupea, che durante l'estate offre un discreto ancoraggio ed è chiuso da due alti promontori. L. Cesare figlio, che aspettava il suo arrivo presso Clupea con le dieci navi da guerra, che, tratte in secco a Utica dopo la guerra con i pirati, P. Azzio aveva fatto riparare per questa guerra, temendo per il numero delle navi di Curione era rientrato dall'alto mare e, spinta verso la riva più vicina una trireme protetta, abbandonandola poi sul lido, era fuggito verso Adrumeto per via di terra. C. Considio Longo difendeva questa città con il presidio di una legione. Le altre navi di Cesare, dopo la sua fuga, si rifugiarono ad Adrumeto. Il questore Marcio Rufo, seguitolo con dodici navi che Curione aveva fatto venire dalla Sicilia come scorta alle navi da carico, quando vide sul lido la nave abbandonata, la trasse in mare a rimorchio; egli stesso con la flotta ritorna da C. Curione.
24 Curione manda avanti a Utica Marcio con le navi; egli stesso con l'esercito vi si dirige e, dopo un percorso di due giorni, giunge presso il fiume Bagrada. Qui lascia con le legioni il luogotenente C. Caninio Rebilo; egli va avanti con la cavalleria a esplorare il campo Cornelio, poiché quella località era giudicata molto adatta per l'accampamento. Si tratta infatti di un colle ripido a picco sul mare, erto e scosceso da entrambe le parti, ma tuttavia con un pendio un po' più dolce dalla parte rivolta verso Utica. In linea retta dista da Utica poco più di mille passi. Ma su questa via vi è una fonte, dove il mare per ampio tratto si insinua e in quel punto si forma un vasto ristagno d'acqua. Per evitarlo, si giunge in città con un giro di sei miglia.
25 Esplorata questa località, Curione vede il campo di Varo addossato al muro della città presso la porta che è detta Belica, assai protetto dalla natura del luogo, da una parte dalla stessa città di Utica, dall'altra dal teatro che si trova davanti alla città, essendo l'accesso all'accampamento difficile e stretto poiché le fondamenta del teatro sono immense. Contemporaneamente s'accorge che molte merci, che per timore di un repentino tumulto sono condotte dalla campagna nella città, vengono portate da ogni parte e che le vie sono stipate. Manda qui la cavalleria per fare preda e saccheggio; contemporaneamente per proteggere quel convoglio Varo manda dalla città seicento cavalieri numidi e quattromila fanti che il re Giuba pochi giorni prima aveva inviato in aiuto a Utica. Costui aveva con Pompeo rapporti di amicizia per l'ospitalità a lui data dal padre e un sentimento di rancore verso Curione, poiché quando questi era tribuno della plebe aveva promulgato una legge con la quale aveva proposto di confiscare il regno di Giuba. I cavalieri si scontrano e invero i Numidi non poterono reggere il primo assalto dei nostri, ma, dopo che ne rimasero uccisi circa centoventi, gli altri si rifugiarono nel campo presso la città. Frattanto all'arrivo delle navi da guerra Curione ordina che sia comunicato alle navi da carico, che stavano davanti a Utica in numero di circa duecento, che egli avrebbe considerato nemici coloro i quali non avessero immediatamente indirizzato le navi verso il campo Cornelio. Fatta questa intimazione, levate in un istante le ancore, tutte le navi lasciano Utica e si recano dove è stato comandato. Tale azione procurò all'esercito abbondanza di ogni cosa.
26 Compiuto ciò, Curione si ritira nell'accampamento presso Bagrada e per acclamazione dell'intero esercito viene salutato comandante supremo; il giorno seguente conduce l'esercito a Utica e pone il campo presso la città. Quando non erano ancora compiuti i lavori dell'accampamento, i cavalieri dagli avamposti annunciano l'arrivo a Utica di grandi rinforzi di cavalleria e fanteria mandati da Giuba; contemporaneamente si vedeva una grande nube di polvere e in un attimo era in vista l'avanguardia. Curione, scosso da questo fatto inatteso, manda avanti la cavalleria per sostenere il primo impeto e fermare l'avanzata del nemico; egli stesso, distolte in breve tempo le legioni dai lavori di costruzione del campo, le schiera in ordine di battaglia. I cavalieri attaccano battaglia e, prima che le legioni possano spiegarsi completamente e prendere posizione, tutti i rinforzi del re, impediti dai bagagli e senza ordine, poiché avevano fatto il cammino scompostamente perché senza timore, sono messi in fuga. La cavalleria rimane quasi del tutto incolume, poiché si ritira velocemente lungo il litorale nella città, ma viene ucciso un gran numero di fanti.
27 La notte successiva due centurioni marsi con ventidue soldati delle loro compagnie fuggono dal campo di Curione presso Azzio Varo. Costoro, sia che gli riferissero realmente la loro opinione sia che lo compiacessero dicendo cose gradite (e infatti crediamo volentieri a ciò che vogliamo e speriamo che gli altri provino ciò che noi stessi proviamo), lo assicurano che l'animo di tutto quanto l'esercito è contrario a Curione e che è sopra tutto necessario che gli eserciti si incontrino e abbiano possibilità di parola. Spinto da questo parere Varo, la mattina dopo, porta fuori dal campo le legioni. La medesima cosa fa Curione ed entrambi schierano le truppe in una valle non grande che tra loro si frapponeva.
28 Nell'esercito di Varo vi era Sesto Quintilio Varo che, come si è detto sopra, era stato a Corfinio. Costui, lasciato in libertà da Cesare, era venuto in Africa, là dove Curione aveva condotto quelle legioni che Cesare in tempi precedenti aveva ricevuto provenienti da Corfinio, sicché, ad eccezione di pochi centurioni sostituiti, centurie e manipoli erano rimasti gli stessi. Quintilio, colta questa occasione per parlare, incominciò a girare intorno alla schiera di Curione e a scongiurare i soldati di non dimenticare il giuramento fatto a Domizio e a lui quando era questore, e a non portare le armi contro quelli che avevano avuto la medesima Fortuna e, durante l'assedio, avevano sofferto i medesimi mali, e a non combattere in favore di quelli dai quali venivano con disprezzo chiamati disertori. A queste aggiunse poche altre parole per suscitare speranza di premi che dovevano aspettarsi dalla sua liberalità, se avessero seguito lui ed Azzio. Nonostante questo discorso, da parte dell'esercito di Curione non vi fu alcun tipo di reazione e così entrambi i comandanti riconducono nel campo le proprie truppe.
29 Ma nel campo di Curione un grande timore assalì tutti gli animi; in breve tempo esso viene accresciuto dai diversi discorsi dei soldati. Infatti ognuno metteva in piedi delle congetture e a ciò che aveva sentito dire da un altro aggiungeva qualcosa del proprio timore. Quando una diceria, pure essendo frutto di uno solo, si propaga a più persone, e uno la trasmette a un altro, le fonti di essa sembrano essere diverse. †Era una guerra civile, un genere di uomini che è lecito agiscano liberamente e seguano il loro volere, queste le legioni che poco prima erano state nel campo avverso ... infatti anche la consuetudine con la quale venivano concessi aveva mutato il beneficio di Cesare ... anche i municipi erano uniti a partiti diversi ... e infatti non da Marsi e Peligni venivano come coloro che nella notte precedente nelle tende e alcuni commilitoni ... discorsi dei soldati, cose troppo gravi, dubbiose più dubbiosamente venivano accolte†. Infatti alcune cose venivano inventate da coloro che volevano apparire i più informati.
30 In conseguenza di ciò riunitosi il consiglio, si incomincia a deliberare sulla situazione generale. Alcuni erano del parere che in ogni modo si dovesse fare uno sforzo e assalire l'accampamento di Varo, poiché giudicavano che l'ozio era dannoso più di ogni altra cosa in considerazione della disposizione d'animo dei soldati; dicevano poi che era meglio tentare valorosamente in battaglia la sorte della guerra piuttosto che patire l'estremo supplizio, abbandonati e traditi dai propri soldati. Vi era chi proponeva di ritirarsi verso la mezzanotte al campo Cornelio affinché il maggior lasso di tempo intercorso contribuisse a sanare l'animo dei soldati; se poi qualcosa di più grave fosse accaduto, grazie alla grande moltitudine di navi con più sicurezza e facilità avrebbero trovato rifugio in Sicilia.
31 Curione disapprova entrambi i pareri e diceva che quanto una proposta mancava di coraggio, tanto l'altra ne presentava in eccesso: gli uni contavano su di una fuga vergognosissima, gli altri pensavano di dovere combattere anche in una posizione sfavorevole. "Con che fiducia", disse, "confidiamo di potere espugnare un campo oltremodo protetto per natura del luogo e per lavori di fortificazione? O invero che vantaggio avremo se rinunciamo all'assalto del campo dopo avere ricevuto gravi perdite? Come se non fosse il buon esito delle azioni a conciliare ai capi la benevolenza dei soldati e la sconfitta gli odi! E il cambiamento poi del campo che cosa comporta, se non una turpe fuga, la perdita di ogni speranza e il malumore dei soldati? E infatti non è conveniente che i buoni soldati sospettino che si ha poca fiducia in loro né che i cattivi siano consci di essere temuti, poiché la nostra paura agli uni aumenta la sfrenatezza, agli altri riduce l'ardore. Che se anche", continuò, "giudicassimo certo ciò che si dice sul malanimo dell'esercito, cosa che io invero confido essere del tutto falsa o sicuramente meno grave di quello che si pensa, non è meglio dissimularla e tenerla nascosta piuttosto che confermarla col nostro operato? Non è forse vero che, come le ferite di un corpo, così le debolezze di un esercito vanno tenute nascoste per non accrescere nei nemici la speranza? E inoltre aggiungono che si parta a mezzanotte, perché, come io credo, coloro che tentano di tradire possano farlo con maggiore facilità. E infatti azioni di tal fatta sono tenute a freno o dalla vergogna o dal timore, di cui la notte è sopra tutto nemica. Per tali motivi non ho tanta audacia da pensare che si debba, ancorché senza speranza, attaccare l'accampamento, né tanto timore da perdermi d'animo; penso che prima si debba esaminare ogni possibilità e confido di potere ben presto prendere insieme a voi una decisione sul da farsi".
32 Sciolto il consiglio di guerra, Curione convoca l'assemblea dei soldati. Ricorda quale ardore è stato riscontrato in loro presso Corfinio da Cesare, che, col loro aiuto ed esempio, ha occupato gran parte d'Italia. "Tutti i municipi, uno dopo l'altro", dice, "hanno seguito voi e la vostra condotta e, non senza ragione, Cesare su voi espresse giudizi molto favorevoli, i suoi nemici invece molto severi. Pompeo infatti, pure senza essere stato vinto in alcuna battaglia, traendo un infausto auspicio dal vostro comportamento ha lasciato l'Italia; Cesare ha affidato alla vostra lealtà me, a lui molto caro, la provincia di Sicilia e l'Africa, senza le quali Roma e l'Italia non possono essere difese. Ora vi sono coloro che vi esortano a ribellarvi a noi. Che cosa infatti vi è di più desiderabile per loro che contemporaneamente sopraffare noi e legare voi con la complicità di una azione scellerata? O nella loro ira che cosa di peggio possono augurare per voi se non questo, che inganniate quelli che riconoscono di esservi in tutto debitori e vi diate nelle mani di chi pensa di essere perduto per causa vostra? E poi non avete udito le imprese di Cesare in Spagna? Due eserciti messi in fuga; due generali vinti; due province sottomesse; questo è ciò che è stato fatto in quaranta giorni, dal momento in cui Cesare è giunto al cospetto degli avversari. Forse che coloro che non sono stati in grado di opporre resistenza quando avevano le forze intatte, ora che sono in rovina potrebbero resistere? Voi poi, che avete seguito Cesare quando la vittoria era incerta, ora che ormai la sorte della guerra è decisa, quando dovreste ricevere il premio dei vostri servizi seguirete il vinto? Infatti essi dicono di essere stati abbandonati e traditi da voi e rammentano il primo giuramento. Invero avete voi abbandonato L. Domizio o L. Domizio voi? Non è forse vero che egli vi ha abbandonato quando voi eravate pronti a subire l'estrema sorte? Non è forse vero che di nascosto a voi ha cercato di salvarsi fuggendo? Non è forse vero che, traditi da lui, siete stati salvati dalla clemenza di Cesare? Come avrebbe potuto tenervi legati dal giuramento colui che, gettati i fasci e deposto il comando, era egli stesso caduto, privato cittadino e prigioniero, in potere altrui? Ecco un nuovo tipo di obbligo: disprezzare quel giuramento dal quale siete vincolati e rispettare quello che è stato sciolto per la capitolazione del comandante e per la perdita dei diritti civili. Ma, credo, voi siete contenti di Cesare, malcontenti di me. Io non ho intenzione di parlare dei miei meriti nei vostri confronti, che fino a ora sono minori di quanto io voglia e voi vi aspettiate, ma tuttavia i soldati sono soliti chiedere il premio della loro fatica sempre dopo l'esito della guerra e neppure voi dubitate quale esso sarà. Perché invero dovrei passare sotto silenzio il mio zelo nell'adempiere i doveri o la mia Fortuna, considerando a che punto finora sono giunte le cose? Vi rincresce forse che io abbia trasportato l'esercito sano e salvo, senza avere perso neppure una nave? Che, appena arrivato, abbia sconfitto al primo assalto la flotta dei nemici? Che due volte in due giorni sia risultato vittorioso in battaglie equestri? Che abbia stanato dal porto e dal golfo duecento navi da carico nemiche e abbia ridotto i nemici a non potersi rifornire di viveri né per via terra né con le navi? Ripudiata questa Fortuna e questi comandanti, seguirete voi l'ignominia di Corfinio, la fuga d'Italia, la resa della Spagna, presagi della guerra d'Africa? Quanto a me, volevo essere chiamato soldato di Cesare, voi mi avete dato il titolo di comandante supremo. Se vi pentite di ciò, rinuncio per voi al beneficio, restituite a me il mio nome affinché non paia che mi abbiate dato quell'onore per oltraggiarmi.
33 I soldati, scossi da questo discorso, di continuo lo interrompevano mentre parlava: appariva evidente che essi sopportavano con grande dolore il sospetto di tradimento; invero mentre egli si allontana dall'assemblea tutti quanti lo esortano a essere coraggioso e a non esitare ad attaccare battaglia in qualsiasi luogo e a mettere alla prova la loro fedeltà e valore. In seguito a ciò, mutata l'opinione e la volontà di tutti e con il consenso generale, Curione stabilisce di affidare l'esito alla battaglia, presentandosene appena l'opportunità; e il giorno seguente fa uscire le truppe dal campo e le colloca in ordine di combattimento nel medesimo luogo dove si era fermato nei giorni precedenti. Neppure Azzio Varo esita a condurre fuori le truppe per non lasciarsi sfuggire l'occasione che gli capitava sia di provocare i soldati nemici sia di combattere in posizione favorevole.
34 Vi era fra i due eserciti, come si è detto sopra, una valle, non molto grande, ma era difficile e ripida la via per salirvi. L'uno e l'altro dei comandanti aspettava per attaccare battaglia in posizione più favorevole, nel caso le milizie nemiche avessero deciso di attraversarla ... Frattanto dal lato sinistro di P. Azzio si vedeva tutta la cavalleria e, mescolati ad essa, numerosi armati alla leggera scendere nella valle. Contro di essi Curione lancia la cavalleria e due coorti di Marrucini; la cavalleria nemica non resse il loro primo impeto, ma, a briglia sciolta, trovò rifugio presso i suoi; i fanti armati alla leggera, abbandonati da coloro con i quali si erano lanciati all'assalto, venivano circondati e uccisi dai nostri. Tutto l'esercito di Varo, rivolto da questa parte, vedeva la fuga e l'annientamento dei suoi. Allora Rebilo, luogotenente di Cesare, che Curione aveva condotto con sé dalla Sicilia, poiché sapeva essere grande esperto di arte militare, disse: "Curione, vedi il nemico atterrito; perché indugi ad approfittare dell'occasione?". Ed egli, dopo avere detto ai soldati solo questo, di tenere a mente ciò che il giorno prima gli avevano promesso, ordina di seguirlo e si slancia davanti a tutti. La valle era così impervia che i primi non riuscivano facilmente a salire senza il sostegno dei compagni. Ma i soldati di Azzio, cui la fuga e la strage dei loro aveva colmato l'animo di terrore, non pensavano affatto a resistere e si vedevano già ormai tutti quanti circondati dalla cavalleria. E così, prima che si potesse tirare una freccia o che i nostri avanzassero oltre, tutta la schiera di Varo volse le spalle e cercò rifugio nel campo.
35 Durante questa fuga un Peligno, di nome Fabio, che aveva uno dei gradi più bassi dell'esercito di Curione, raggiunta la prima fila dei fuggitivi, andava in cerca di Varo chiamandolo per nome ad alta voce sì da sembrare essere uno dei suoi soldati e volerlo avvertire e parlargli. Quando Varo, dopo essere stato più volte chiamato, lo vide, si fermò, e chiese chi fosse e che cosa volesse, quello tirò un colpo di spada al fianco e mancò poco che uccidesse Varo; egli, alzato lo scudo per difendersi dall'attacco, evitò questo pericolo. Fabio circondato dai soldati che erano più vicini viene ucciso. Le porte dell'accampamento vengono ostruite da una moltitudine disordinata di fuggitivi e viene impedito il passaggio; muoiono più soldati in quel luogo senza ricevere ferita che in battaglia o durante la fuga e non mancò molto che venissero scacciati dal campo; alcuni uomini, senza interrompere la corsa, si diressero verso la città. Ma l'accesso era allora impedito per un verso dalla natura del luogo e dalle fortificazioni e per l'altro dal fatto che i soldati di Curione, usciti per combattere, mancavano di quei mezzi necessari per espugnare il campo. E così Curione riconduce l'esercito nell'accampamento con tutti i suoi soldati incolumi, eccetto Fabio; mentre fra i nemici ne furono uccisi circa seicento e feriti mille. Alla partenza di Curione tutti costoro e molti altri, che si fingevano feriti, lasciano l'accampamento e si rifugiano, per la paura, nella città. Varo, accortosi di ciò, visto il terrore dell'esercito, lasciati nel campo un trombettiere e poche tende per ingannare il nemico, verso mezzanotte, in silenzio, riconduce l'esercito in città.
36 Il giorno successivo Curione intraprende l'assedio di Utica e il suo accerchiamento con un vallo. Vi era nella città una moltitudine non avvezza alla guerra, per il lungo periodo di pace; gli Uticensi grazie ad alcuni benefici ricevuti da Cesare gli erano molto favorevoli; la colonia di cittadini romani era formata da varie classi; grande era il terrore che avevano prodotto le battaglie precedenti. E così già tutti parlavano apertamente di resa e trattavano con P. Azzio perché con la sua ostinazione non volesse mettere in pericolo la sorte di tutti. Durante queste trattative, giunsero ambasciatori mandati dal re Giuba per annunciare che egli era vicino con grandi truppe e per esortarli a custodire e difendere la città. Questa notizia confortò il loro animo sconvolto.
37 La medesima notizia veniva annunciata a Curione, ma per un certo tempo non ci poté credere tanto grande era la fiducia che aveva nella sua fortuna. E già da messaggeri e da lettere venivano riferiti in Africa i successi di Cesare in Spagna. Esaltato da queste notizie pensava che il re non avrebbe tentato nulla contro di lui. Ma quando venne a sapere da fonti certe che le truppe di Giuba distavano da Utica meno di venticinque miglia, lasciate le opere di fortificazione, si rifugiò nel Campo Cornelio. Cominciò ad ammassare qui frumento, a fortificare il campo, a radunare legname e inviò subito in Sicilia l'ordine di mandargli due legioni e il resto della cavalleria. L'accampamento era adattissimo a condurre la guerra ad oltranza per la natura del luogo e il modo in cui era fortificato, per la vicinanza del mare, per l'abbondanza di acqua e di sale, di cui una grande quantità era stata portata colà dalle vicine saline. Il legname non poteva mancare per la quantità di alberi, non poteva mancare il frumento di cui erano pieni i campi. E così, col consenso di tutti i suoi, Curione si apprestava ad aspettare le rimanenti truppe e a trascinare in lungo la guerra.
38 Definito ciò e approvati questi piani, Curione viene a sapere da alcuni disertori della città che Giuba, richiamato da una guerra con un popolo vicino e da controversie con gli abitanti di Leptis, si era fermato nel suo regno e che il suo prefetto Saburra, che era stato mandato con poche truppe, era vicino a Utica. Credendo sconsideratamente a queste fonti, muta piano e stabilisce di risolvere la questione con il combattimento. Molto contribuiscono a questa decisione la giovinezza, il grande coraggio, i successi del passato, la speranza di condurre a buon fine l'impresa. Mosso da ciò, sul fare della notte manda tutta la cavalleria verso l'accampamento dei nemici nei pressi del fiume Bagrada; di tale campo era capo Saburra, di cui prima si era detto; ma il re con tutte le milizie gli teneva dietro e si era fermato a una distanza di sei miglia da Saburra. I cavalieri, inviati da Curione, compiono di notte il cammino e assaltano i nemici che, impreparati, non se lo aspettavano. I Numidi, secondo un'abitudine dei barbari, si erano sdraiati qua e là senza alcun ordine. Assalitili mentre erano immersi nel sonno e sparpagliati, ne uccidono un gran numero; molti fuggono in preda al terrore. Compiuta questa azione i cavalieri fanno ritorno da Curione e gli conducono i prigionieri.
39 Curione con tutte le milizie prima del giorno era uscito dal campo lasciandovi di guardia cinque coorti. Avanzato per sei miglia, incontra i cavalieri e viene a conoscenza della loro azione; chiede ai prigionieri chi è a capo del campo di Bagrada; rispondono Saburra. Per la fretta di terminare il viaggio tralascia di chiedere altre informazioni e, volgendosi alle schiere più vicine, dice: "Vedete, o soldati, che le parole dei prigionieri collimano con quelle dei disertori? Il re è lontano, poche sono le milizie inviate e queste non hanno potuto tenere testa a pochi cavalieri. Dunque affrettatevi verso la preda, verso la gloria, in modo che io possa già cominciare a pensare ai vostri premi e a dimostrarvi la mia riconoscenza". L'impresa che i cavalieri avevano compiuta, per se stessa, era veramente grande, sopra tutto se il loro esiguo numero veniva paragonato a una moltitudine così grande di nemici. Tuttavia tale azione era ricordata dagli stessi con troppa esagerazione, così come gli uomini di solito volentieri parlano dei propri meriti. Inoltre venivano messe in bella mostra molte spoglie, venivano esibiti uomini e cavalieri prigionieri sicché ogni indugio sembrava essere un ritardo per la vittoria. E così alla speranza di Curione si aggiungeva l'ardore dei soldati. Ordina ai cavalieri di seguirlo e accelera la marcia per potere assalire i nemici atterriti quanto mai per la fuga. Ma i cavalieri, sfiniti per la marcia di tutta la notte, non potevano stargli dietro e si fermavano gli uni qui gli altri là. Neppure ciò diminuiva la speranza di Curione.
40 Giuba, informato da Saburra dello scontro notturno, gli manda in aiuto duemila cavalieri spagnoli e galli che era solito tenere con sé a guardia della propria persona, e quella parte di fanti in cui aveva più fiducia. Egli stesso con le rimanenti milizie e sessanta elefanti tiene dietro con passo più lento. Saburra, sospettando che si avvicinasse lo stesso Curione poiché era stata mandata avanti la cavalleria, schiera fanti e cavalieri e ordina loro di indietreggiare a poco a poco e ritirarsi fingendo paura; egli, quando fosse necessario, avrebbe dato il segnale di combattimento, ordinando ciò che avesse compreso che la situazione richiedeva. Curione fa scendere le milizie dalle alture alla pianura; infatti nel suo animo, poiché egli credeva che i nemici fossero in fuga, l'impressione dell'attuale circostanza si aggiungeva alla precedente speranza.
41 Quando si fu allontanato alquanto da queste alture, poiché l'esercito, dopo avere percorso sedici miglia, era ormai sfinito dalla stanchezza, si fermò. Saburra dà il segnale ai suoi, schiera l'esercito in ordine di battaglia e incomincia ad aggirarsi fra le schiere, esortandole; ma impiega la fanteria solo in seconda linea tanto per fare impressione col numero, lanciando invece all'attacco la cavalleria. Curione non viene meno al suo dovere ed esorta i suoi a riporre nel valore ogni speranza. Né ai soldati, sebbene stanchi, né ai cavalieri, sebbene pochi e sfiniti dalla fatica, difettavano zelo e valore per combattere; ma i cavalieri erano in tutto duecento, poiché gli altri si erano fermati durante la marcia. Costoro, ovunque andavano all'attacco, costringevano il nemico a retrocedere, ma non erano in grado di inseguire i fuggitivi troppo oltre né di incitare i cavalli a maggiore foga. Ma la cavalleria nemica incomincia a circondare la nostra schiera da entrambi i lati e ad assalirla alle spalle. Ogni qual volta delle coorti avanzavano all'attacco staccandosi dallo schieramento, i Numidi freschi di forze velocemente sfuggivano all'assalto dei nostri e le circondavano e le tagliavano fuori mentre tentavano di rientrare di nuovo nei loro ranghi. Così non appariva sicuro né mantenere la posizione e conservare lo schieramento né avanzare all'attacco e tentare la sorte. Le milizie nemiche aumentavano di continuo per gli aiuti inviati dal re; ai nostri venivano meno le forze per la stanchezza e quelli che erano stati feriti non erano in grado né di uscire dalla schiera né di rifugiarsi in un luogo sicuro, poiché tutto l'esercito era stretto in una morsa, circondato dalla cavalleria nemica. Costoro, disperando della propria salvezza, come sono soliti fare gli uomini in fin di vita, o commiseravano la propria morte o raccomandavano i propri familiari se mai la Fortuna avesse potuto salvare qualcuno di essi dal quel pericolo. Ovunque non vi era altro che paura e pianto.
42 Curione, quando capisce che non si dà ascolto né alle sue esortazioni né alle sue preghiere, essendo tutti attanagliati dal terrore, pensando che, vista la situazione disastrosa, vi era una sola via di salvezza, ordina a tutti di occupare i colli vicini e di portarvi le insegne. Ma questi vengono occupati dalla cavalleria inviata da Saburra. Allora invero i nostri giungono alla massima disperazione e una parte di essi in fuga viene uccisa dalla cavalleria, una parte s'accascia a terra pure senza ferite. Gneo Domizio, comandante della cavalleria, schierandosi con pochi uomini attorno a Curione, lo esorta a cercare salvezza nella fuga e a tornare nel campo, e gli promette di non abbandonarlo. Ma Curione dichiara che mai, dopo avere perduto l'esercito che Cesare gli aveva affidato con fiducia, sarebbe tornato al suo cospetto e così, mentre combatte, viene ucciso. Pochissimi cavalieri si salvano dalla battaglia; ma quelli che, come si è detto, si erano fermati alla retroguardia per ristorare i cavalli, resisi conto da lontano della fuga dell'esercito intero, incolumi ritornano al campo. I fanti, dal primo all'ultimo, vengono tutti uccisi.
43 Conosciuti tali fatti, il questore Marco Rufo, lasciato da Curione nel campo, esorta i suoi a non perdersi d'animo. Quelli lo pregano e lo scongiurano di riportarli in Sicilia con le navi. Lo promette e ordina ai comandanti delle navi di tenere, sul fare della sera, tutte le lance ancorate presso il lido. Ma il terrore di tutti fu così grande che gli uni dicevano che le truppe di Giuba erano vicine, gli altri che Varo era addosso con le legioni e già scorgevano la polvere di quelli che sopraggiungevano, mentre non accadeva proprio nulla di tutto ciò, altri ancora supponevano che la flotta nemica in breve tempo sarebbe giunta al volo. E così, poiché erano tutti sconvolti, ognuno pensava a se stesso. Coloro che erano sulle navi da guerra acceleravano la partenza. La loro fuga istigava i comandanti delle navi da carico; solo poche barchette si radunavano per eseguire il loro compito, come era stato ordinato. E sul lido affollato tanta era la gara a chi, in tale moltitudine, per primo riuscisse a imbarcarsi, che alcune imbarcazioni affondavano per il peso della gente, altre tardavano ad avvicinarsi, temendo la stessa fine.
44 Per questi motivi accadde che solo pochi soldati e padri di famiglia, che erano influenti per autorità o suscitavano commiserazione o erano in grado di raggiungere a nuoto le navi, furono imbarcati e giunsero sani e salvi in Sicilia. Le altre truppe, inviati di notte a Varo dei centurioni in qualità di ambasciatori, si consegnarono a lui. Il giorno dopo Giuba, vedendo dinanzi alla città le coorti di questi soldati, dichiarò pubblicamente che erano sua preda di guerra e ordinò che una gran parte di loro venisse uccisa; pochi soldati, da lui scelti, furono mandati nel suo regno, sebbene Varo lamentasse, senza però osare opporsi, che egli offendeva la sua lealtà. Lo stesso re, entrato a cavallo in città, seguito da parecchi senatori, fra i quali Servio Sulpicio e Licinio Damasippo, in pochi giorni stabilì e ordinò che cosa voleva si facesse in Utica. E dopo pochi giorni ritornò con tutte le milizie nel suo regno.

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