Un decennio decisivo (1849-1859)

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Testo

Un decennio decisivo
(1849- 1859)

Dopo i moti del '48 ritornarono a governare i vecchi sovrani con il proposito di soffocare le aspirazioni alla libertà e all'indipendenza manifestate dai sudditi. Ferdinando II di Borbone, dopo aver sciolto il Parlamento e arrestato i patrioti, nei primi mesi del 49 aveva abolito la Costituzione del 1848 e dato inizio a processi politici e condanne ai danni di coloro che avevano promosso il moto costituzionale e chiesto la guerra contro l'Austria. In Toscana il granduca Leopoldo II aveva sospeso la costituzione e abbandonato l'indirizzo liberale seguito fino al 1848, dando inizio a processi e arresti.
Nello stato pontificio Pio IX si fece aiutare nell'opera di repressione da una commissione di tre cardinali, i quali finirono per provocare malcontento e furono sostituiti.

La reazione assunse caratteri d'estrema violenza nel Lombardo- Veneto. Qui l'Austria era ritornata, abbandonandosi ad una politica di terrore. I mazziniani si ritenevano gi unici abilitati a continuare la lotta per la libertà. Il mazzinianesimo tornò ad avere in quegli anni un certo seguito, grazie ad un'attenta e accorta propaganda. L'Austria fu così costretta a ricorrere a provvedimenti più rigidi. La serie degli insuccessi mazziniani sfociò nel 1857 nel drammatico tentativo di Carlo Pisacane.
Da Mazzini trasse comunque origine nel 1853 a Ginevra il PARTITO D'AZIONE, destinato a diffondersi nel Lombardo Veneto e in Sicilia. Questo partito accolse aderenti d'ispirazione repubblicana e decisi a un diretto intervento a carattere popolare per la soluzione dei problemi politici italiani.

Il solo stato che riuscì ad evitare la reazione fu il Regno di Sardegna dove, dopo la duplice sconfitta del 1848 e del 1849, le classi conservatrici che predominavano a corte cercarono con ogni di ridare vita all'antica politica reazionaria, facendo leva sul re VITTORIO EMANUELE II. Nonostante le proteste dei reazionari e i clamori dei democratici, egli affrontò la situazione, chiamando a ricoprire la carica di presidente del Consiglio MASSIMO D'AZEGLIO, noto liberale moderato e convinto sostenitore del regime costituzionale.

Il primo compito di D'Azeglio fu la conclusione della pace con l'Austria, firmata a Milano il 6 agosto 1849: il Piemonte s'impegnava a pagare una forte indennità di guerra. Quando il governo presentò il trattato al Parlamento questo si rifiutò di approvarlo. Il re sciolse l'assemblea e indisse nuove elezioni, rivolgendo al Paese un proclama dal CASTELLO DI MONCALIERI. Il risoluto gesto ottenne l'effetto desiderato: il corpo elettorale inviò alla Camera una maggioranza d'elementi moderati, con l'appoggio dei quali il re potè essere approvato.
Conclusa la pace, il ministro D'Azeglio si pose sulla via delle riforme, cercando di risolvere molti problemi di politica interna. Primo fra essi quello costituito dai molti privilegi ecclesiastici. Un obiettivo non facile per un Piemonte tradizionalista e cattolico. L'impresa riuscì: le leggi decretavano l'abolizione del foro ecclesiastico e del diritto di asilo, restrizioni all'acquisto di beni ecclesiastici da parte delle corporazioni religiose, la riduzione agli effetti civili delle festività religiose.
Nell'ottobre dello stesso anno si verificò l'ingresso nel ministero di D'Azeglio di CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR. Prima come ministro dell'agricoltura e poi delle finanze, il Cavour assunse una posizione di primo piano ottenendo brillanti successi e oscurando il D'Azeglio. Quando strinse un patto di alleanza con URBANO RATTAZZI la sua presenza in un governo come quello di D'Azeglio non fu più possibile e si dimise. Di lì a poco il re affidava al Cavour l'incarico di formare un nuovo ministero.

Cominciava così il 4 novembre 1852 il ministero Cavour, appoggiato dal Rattazzi e dal partito di centro con lui formato.
In politica interna mirò a fare del Piemonte uno Stato costituzionale moderno, nel quale la libertà fosse la premessa di ogni iniziativa. A livello economico dette vita ad iniziative sulla base di un piano programmatico ispirato al liberalismo economico più moderno. Cavour concepì lo Stato come fattore essenziale di progresso al fianco del cittadino: a suo avviso, compito preciso dello stato era favorire lo sviluppo del Paese mediante l'attuazione di tutta una serie di condizioni, senza le quali lo spirito d'iniziativa del privato non può esercitarsi pienamente e a vantaggio dell'intera società. Convinto che i progressi economici sono estremamente importanti per l'equilibrata vita politica di un Paese, egli si dedicò ad un radicale rinnovamento dell'economia piemontese.
L'agricoltura venne valorizzata e modernizzata. L'industria vene rinnovata e irrobustita attraverso la creazione di nuove fabbriche e il potenziamento delle vecchie. Il commercio subì un forte aumento, fondato sul libero scambio interno ed esterno e agevolato da una serie di trattati con la Francia, il Belgio e l'Olanda. Cavour provvide a rinnovare il sistema fiscale, basato sulle imposte indirette e dirette, che colpivano i grossi redditi. Egli si dedicò ad un preciso potenziamento delle banche, curando l'istituzione della banca nazionale, che concedeva prestiti a bassi interessi. Durante il governo fu ampliata la rete ferroviaria, stradale, allo snellimento della burocrazia e al riordinamento di esercito e marina. La nuova borghesia industriale e commerciale si sostituì alle classi conservatrici al vertice dello Stato.

Si creò in questo periodo un clima di reciproca tensione fra Chiesa e Stato e un diffuso anticlericalismo. Fin dal 1848 il governo piemontese aveva deciso l'attuazione di un programma di laicizzazione della vita politica, sfociato nel 1850 nelle leggi Siccardi. Nel 1855, su proposta di Rattazzi e con l'appoggio di Cavour, venne varata una legge, detta dei conventi, sulla soppressione degli ordini religiosi contemplativi. Cavour riconosceva alla chiesa valori morali, forza civilizzatrice e utilità sociale. Ecco perché tenne anche in tale campo un giusto mezzo fra la reazione episcopale e l'intransigenza giacobina: cosa che lo portò a formulare la teoria della libera chiesa in libero stato. In base ad essa lo statista tendeva a collocare la vita della chiesa e la sua competenza su un piano puramente religioso sottomettendola per il resto alla piena giurisdizione del diritto comune per tutto ciò che riguarda il suo aspetto sociale. Cavour era fermamente contrario alla politica dei conc
ordati.

Cavour si spinge verso un'audace politica estera. Egli avvertì la possibilità di allargare in senso nazionale la propria politica, imponendo in primo luogo il problema italiano all'attenzione europea. Fra le vicende internazionali che favorirono la sua politica ci fu il ritorno di un Bonaparte (affrettatosi a dare al suo governo un indirizzo conservatore per conquistarsi l'appoggio della borghesia e con l'intento di legare a sé i cattolici) alla guida della Francia. Il 2 dicembre 1851, con l'aiuto dell'esercito, il Bonaparte occupò il Parlamento e giunse al suo scioglimento con un vero e proprio colpo di stato. Attraverso due plebisciti ottenne di rivestire la carica di presidente con i pieni poteri per dieci anni. Era chiaro che la Francia borghese, pur di sradicare il pericolo socialista, era ormai disposta a correre il rischio di una dittatura. Il Bonaparte fece approvare il 20 novembre 1852 attraverso un plebiscito la restaurazione dell'impero. Questo gli permise il 2 dicembre di
farsi proclamare imperatore dei francesi con il titolo di Napoleone III. Aveva così origine il SECONDO IMPERO. Napoleone III riuscì a regolamentare a proprio piacimento la vita politica francese fino al 1860 , aiutandosi tra l'altro con una rigida censura esercitata sulla stampa e con pesanti azioni intimidatorie nei riguardi dell'elettorato: il che non impedì la sopravvivenza di un'opposizione più o meno nascosta e silenziosa.

Napoleone III tra il 1852 e il 1859 riusciva a consolidare la propria posizione in senso decisamente autoritario. A favorire tale consolidamento contribuirono alcuni fattori: primo tra essi la favorevole congiuntura economica con conseguenti investimenti di eccezionale consistente in ogni settore produttivo.
Divenne notevole lo sviluppo industriale, favorito sia dall'introduzione di un liberalismo economico, sia da un vantaggioso trattato commerciale con l'Inghilterra. Non meno notevole fu l'interessamento di Napoleone III per la questione sociale. chi più di tutti potè beneficiare della situazione fu la grande e media borghesia capitalistica e finanziaria.
In politica estera l'impero non poteva esimersi dalla ricerca del granduer militare, che continuava a costituire un motivo di ideale collegamento con l'epoca napoleonica, il cui ricordo aveva contribuito in modo determinante alla rinascita del bonapartismo. Il nuovo sovrano volle apparire come l'opposto dei regimi reazionari che facevano capo alla Austria e come un deciso e convinto difensore del liberalismo e della nazionalità. Il naturale alleato del regno di Sardegna non poteva dunque essere altri che Napoleone III, sognatore di un ordine nuovo in funzione antiasburgica in Europa e in particolare in Italia.

L'altra grande potenza europea a cui Cavour aveva pensato di poter agganciare le sorti del Piemonte era l'Inghilterra. Purtroppo un tale piano non era facilmente realizzabile a causa dell'antica rivalità franco- britannica. un fatto nuovo doveva però profondamente mutare la situazione e riavvicinare le due potenze rivali: l'improvviso riaccendersi della questione d'Oriente. Nel 1853 infatti la Russia aveva dichiarato guerra all'impero ottomano. A loro volta Francia e Inghilterra si affrettarono a scendere in campo al fianco dell'impero ottomano, inviando truppe nella penisola di Crimea. La situazione si mise male per Francia e Inghilterra, che si rivolsero all'Austria, perché intervenisse al loro fianco, ma il governo di Vienna preferì rimanere neutrale con il pretesto che il Piemonte potesse approfittare della favorevole circostanza per invadere la Lombardia.
Gli alleati allora interpellarono il governo sardo e Cavour si impegnò ad inviare un contingente di uomini, chiedendo di entrare nell'alleanza da pari a pari. Gli Anglo- francesi dovettero cedere. Cavour diede prova di un'estrema abilità politica e riuscì alla fine a vincere anche le resistenze parlamentari, cosicché il corpo di spedizione posto agli ordini del generale Alfonso La Marmora potè partire nell'aprile del '55 per la Crimea. La Russia fu sconfitta. Si giunse così nella primavera del '56 a Parigi al congresso della pace, al quale il Piemonte aveva ormai il diritto di partecipare. Cavour riuscì a ottenere che una seduta speciale discutesse il problema italiano e attirasse così l'attenzione dei congressisti sul pessimo governo di certi stati. Né Francia né Inghilterra si mostrarono disposte ad assumere impegni precisi, ma Cavour aveva vinto ugualmente: quanto accaduto a Parigi trasformava infatti la questione italiana in un problema di carattere internazionale e segnava la fi
ne dell'isolamento del Piemonte.

L'idea monarchica andò sempre più diffondendosi e affermandosi, finché il successo parigino del Cavour provocò l'adesione ad essa di tre uomini di grande valore: Giorgio Pallavicino, uno dei prigionieri dello Spielberg, Giuseppe La Farina, illustre scrittore e patriota siciliano, e Daniele Manin, uno dei più noti esponenti del partito mazziniano. Sorse così nell'agosto dell'anno 1857 con il motto aperti " Italia e Vittorio Emanuele" la Società Nazionale. Il Cavour, a sua volta, pur restando fuori dall'associazione, per non insospettire la Francia, ebbe frequenti contatti con i capi e ne finanziò direttamente l'opera, convinto di poter così infliggere un duro colpo al partito mazziniano. Il Mazzini si dette a organizzare nuove cospirazioni e rivolte, tutte destinate al fallimento. particolarmente infelice fu l'esito dell'impresa tentata da Carlo Pisacane, un ex ufficiale dell'esercito napoletano di tendenze socialmente avanzate.
il 25 giugno 1857 Pisacane si era imbarcato a Genova su un piroscafo postale in partenza per Tunisi. Durante il viaggio si era impadronito della nave, obbligando il capitano a fermarsi sull'isola di Ponza, sede di un penitenziario politico del regno di Napoli. Dopo aver liberato alcune centinaia di detenuti, i membri della spedizione mossero insieme alla volta di Sapri, ove avrebbe dovuto essere in atto una rivolta popolare contro i Borboni. La popolazione locale non si era mossa. Essa riservò un'ostile accoglienza al gruppo nella convinzione che si trattasse di briganti, favorendone l'annientamento da parte delle truppe borboniche. All'insuccesso di Pisacane e dei suoi generosi compagni seguì quello dei moti insurrezionali di Genova e Livorno. I negativi risultati della spedizione contribuirono a richiamare l'attenzione della opinione pubblica italiana ed europea sull'Italia meridionale e a porre in evidenza nello stesso tempo quanto fosse illusoria la convinzione di coloro che int
endano risolvere il problema italiano seguendo la via dell'azione democratico- popolare. Di qui la diffusione di un vivo senso di sfiducia e di crisi tra i seguaci del mazzinianesimo e del partito d'azione.

Il 14 gennaio 1858 Felice Orsini, un mazziniano di origine romagnola, lanciava a Parigi tre bombe contro la carrozza in cui sedevano Napoleone III e sua moglie. L'atto Orsini produsse uno stato di grave tensione fra il governo imperiale e il governo sardo. Cavour ebbe buon gioco nel dimostrare a Napoleone e al mondo intero che i seguaci del Mazzini e della rivoluzione popolare potevano essere sconfitti soltanto risolvendo la questione italiana. In tal modo l'attentato di Orsini non solo non danneggiò in modo irreparabile i rapporti franco- piemontesi, ma finì anzi per giovare alla politica di Cavour e per favorire la futura alleanza.
Il 21 luglio 1858 Napoleone III e Cavour si incontrarono a Plombières e gettarono le basi di un'alleanza militare contro l'Austria.
Il trattato ufficiale stabilita:
1. la Francia sarebbe intervenuta al fianco del Piemonte solo se l'Austria lo avesse aggredito.
2. si sarebbero formati in Italia quattro stati riuniti in una sola confederazione posta sotto la presidenza onoraria del papa, ma dominata sostanzialmente dal Piemonte.
3. in compenso dell'aiuto prestato dalla Francia il Piemonte avrebbe ceduto a Napoleone III il ducato di Savoia e la contea di Nizza.
Un simile trattato mirava unicamente a eliminare il predominio austriaco dalla penisola e non all'unificazione dell'Italia.

Dalla seconda guerra d'indipendenza alla spedizione dei Mille

Dopo l'incontro di Plombières l'impegno del Cavour fu uno solo: indurre l'Austria a dichiarare guerra al Piemonte.
Appena il rientrato a Torino egli cominciò a mobilitare l'esercito. Intanto emetteva un prestito pubblico che fu subito sottoscritto da numerosi cittadini, lieti di poter offrire il proprio denaro per la causa nazionale. Nello stesso tempo egli assegnava a Garibaldi il compito di organizzare un corpo di volontari, i cacciatori delle alpi, e di provocare gli austriaci con esercitazioni militari sulla linea di confine.
A sconvolgere i piani cavouriani intervenne ad un certo momento l'Inghilterra che, preoccupata di un eventuale aumento del prestigio e della potenza di Napoleone III, pensò di interporsi tra Francia e Austria, proponendo una conferenza internazionale al fine di risolvere pacificamente la questione. Cavour ebbe allora il timore che si arrivasse a decisioni contrarie alla sua politica: alla fine però l'Austria, stanca delle continue provocazioni, mandò a Torino un ultimatum, intimando al Piemonte di disarmare entro tre giorni sotto pena di un'immediata invasione. L'ultimatum naturalmente fu respinto e la guerra divenne inevitabile. Era il 23 aprile 1859.

All'inizio delle ostilità gli austriaci miravano a sorprendere l'esercito piemontese prima dell'arrivo del contingente francese, ma il generale austriaco Ferency Gyulai, successore di Radetsky, non fu in condizione di attuare il proprio piano, essendo rimasto bloccato nella zona di Vercelli e di Novara dall'allagamento delle risaie provocato dall'avversario. Egli solo il 20 maggio potè affrontare a Montebello l'esercito avversario. La vittoria arrise ai piemontesi, che il 4 giugno insieme francesi ottenevano un decisivo successo a Magenta.
Sotto la spinta dell'entusiasmo per i successi franco- piemontesi, le popolazioni di Firenze, Parma, Modena, Bologna e Ferrara erano insorte, cacciando il granduca, i duchi, e i legali pontifici, e avevano eletto governi provvisori, diretti da commissari subito inviati da Vittorio Emanuele II in attesa che le votazioni popolari decidessero l'annessione al regno di Sardegna.
Intanto l'esercito austriaco si era ricomposto e aveva deciso di ritentare l'offensiva. Lo scontro con le truppe franco- piemontesi ebbe inizio il 24 giugno tra Solferino e San Martino. La lotta fu durissima, ma alla fine gli austriaci furono di nuovo costretti a cedere e a ritirarsi.

Improvvisamente giunse la notizia che Napoleone III aveva firmato l'11 luglio a Villafranca un armistizio con l'Austria, che comportava l'immediata cessazione delle ostilità. Cavour, da parte sua, accusando l'imperatore di aver tradito i patti convenuti, il 13 luglio dopo un tempestosissimo colloquio con il sovrano si dimise. Il re comunque accettò l'armistizio e affidò al generale Alfonso La Marmora la direzione del nuovo governo.
L'Austria, se pur costretta a cedere la Lombardia al Piemonte, restava sempre padrona del Veneto.

Il 21 gennaio del 1860 Vittorio Emanuele II richiamava il Cavour al governo invitandolo a risolvere con la sua abilità l'intricata situazione. Era, infatti, rimasto aperto il problema di Nizza e Savoia, in quanto, non avendo Napoleone III mantenuto le promesse fatte prima della guerra, si riteneva ingiustificata qualsiasi cessione territoriale prevista dagli accordi. Dopo lunghe trattative Cavour seppe giungere ad un accomodamento: il Piemonte accettava di cedere alla Francia Nizza e Savoia, mentre Napoleone s'impegna a riconoscere i risultati di una votazione nell'Emilia e nella Toscana che avesse accolto l'unione di queste due regioni al regno di Sardegna. Si ebbe così il plebiscito del 12 marzo 1860 e il risultato fu favorevole all'annessione. Il 2 aprile i nuovi deputati erano accolti in Torino dal parlamento subalpino, che da quel giorno risultò formato dai rappresentanti di 6 regioni: Piemonte, Liguria, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana e Sardegna.
Avevano così un solenne riconoscimento due nuovi importanti principi: quello di non intervento e quello dell'autodecisione dei popoli.

Nell'isola serpeggiava una tendenza separatista, sfruttata dai patrioti che mantenevano viva l'agitazione e rivolgevano appelli a Garibaldi. Egli aveva più volte affermato di voler risolvere con un'azione insurrezionale e per libera forza del popolo il problema dell'unità d'Italia. Nella primavera del 1860 i vari comitati rivoluzionari siciliani passarono all'azione. Primo a muoversi fu quello di Palermo, che il 4 aprile organizzò il "moto della Gancia" dal nome di un convento dove si erano chiusi alcuni popolani guidati dallo stagnino Francesco Riso. Gli insorti tentarono una disperata resistenza in attesa che giungessero gli aiuti dalle campagne: da esso però non venne alcun rinforzo cosicché il moto palermitano potè essere soffocato nel sangue.
A Genova Francesco Crispi sollecitava l'azione di Garibaldi, il quale, il 30 aprile 1860, decise di intervenire.

Nella notte fra il 5 e il 6, la maggior parte dei volontari era raccolta nei pressi dello scoglio di Quarto, alcuni sotto Nino Bixio si impadronivano di due navi della società Rubattino, il Piemonte e il Lombardo, che poche ore dopo salparono per la Sicilia.
Correva voce che il re avesse avuto rapporti segreti con Garibaldi alla vigilia della spedizione e che gli avesse promesso tutto il suo appoggio. Dal canto suo, Cavour si era dapprima mostrato contrario all'impresa, in quanto temeva che la liberazione della Sicilia da parte di Garibaldi e quindi per iniziativa del Partito d'Azione contribuisse a diffondere in tutto il Paese progetti rivoluzionari. Egli inoltre non poteva calcolare i rischi che il nuovo progetto comportava a livello internazionale, né poteva correre il pericolo di apparire complice dei rivoluzionari mazziniani. In un secondo momento si era però adattato all'iniziativa: se la spedizione non fosse riuscita il governo piemontese avrebbe potuto dichiarare di non esserne responsabile; se Garibaldi avesse vinto, avrebbe potuto intervenire militarmente e allontanare i garibaldini con il pretesto di evitare all'Italia i pericoli di una soluzione rivoluzionaria.
Il 6 maggio 1860, mille volontari si dirigevano verso la Sicilia. Mille uomini erano pochi, ma era stato lo stesso Garibaldi a non volerne di più, convinto che qualora il popolo meridionale non si fosse sollevato e unito a loro, anche una spedizione dieci volte più numerosa sarebbe stata insufficiente per conquistare un regno difeso da un esercito di 124.000 uomini e una flotta di 120 navi.
Giusto il 7 maggio a Talamone, Garibaldi sbarcò alcuni volontari per far credere che l'impresa fosse diretta verso Roma. Dopo essersi fatto consegnare munizioni e fucili, riprese il mare e, sfuggendo alla flotta borbonica, l'11 maggio giunse a Marsala, dove potè compiere le operazioni di sbarco con una certa tranquillità grazie ad alcune navi inglesi da carico, la cui presenza in quel porto impedì ai borbonici di aprire efficacemente il fuoco. Tre giorni dopo da Salemi lanciava un proclama alla popolazione, dichiarando di assumere la dittatura in nome di Vittorio Emanuele.
La prima vittoria sui Borbonici fu ottenuta a Calatafimi. Garibaldi allora marciò su Palermo e la conquistò. Garibaldi, una volta insediato un governo provvisorio nell'isola con a capo Francesco Crispi, aveva varato una serie di provvedimenti a carattere chiaramente popolare. Garibaldi non aveva nessun'intenzione di suscitare o tollerare movimenti di popolo tesi a sovvertire i diritti di proprietà. Ferma e decisa fu la sua azione repressiva contro i movimenti democratici- radicali al punto che non esitò a stroncarli con la forza, come avvenne il 4 agosto a Bronte ad opera di Nino Bixio in occasione dell'occupazione popolare delle terre della ducea di Nelson: un episodio drammatico che fece perdere ai garibaldini le simpatie dei ceti cittadini senza con questo riuscire a tranquillizzare i proprietari.
A Napoli Francesco II si decideva a concedere la Costituzione e a creare un nuovo governo. Il tardivo provvedimento contribuì ad indebolire sempre più la sua posizione, costringendo a venire a patti con un Parlamento e con un governo entrambi liberali. Le grandi potenze non erano disposte ad intervenire in difesa del regno meridionale, tranne l'Inghilterra che vedeva in un'Italia unita e forte la concreta possibilità di costruire ai danni della Francia un elemento d'equilibrio nell'ambito del Mediterraneo.
A Milazzo il 20 luglio Garibaldi ottenne la vittoria che gli aprì la via del continente.

Garibaldi si preparò a passare in Calabria con il segreto appoggio di Vittorio Emanuele. Il 18 agosto Garibaldi riuscì a superare lo stretto di impadronirsi di Reggio. Di qui iniziò una rapidissima marcia verso Napoli, dove entrava accolto trionfalmente il 7 settembre, mentre Francesco II si allontanava dalla città rifugiandosi nella fortezza di Gaeta.
Cavour avvertì la necessità di intervenire. Egli si rendeva conto che era divenuto indispensabile ottenere un successo militare delle truppe regolari da contrapporre a quelli, ormai numerosi, conseguiti dai reparti garibaldini: in questo senso era addirittura in gioco il prestigio e della monarchia agli occhi delle popolazioni meridionali.
Per raggiungere dal nord il territorio napoletano bisognava passare attraverso le Marche e l'Umbria, entrambe dominio pontificio. Ai generali Enrico Cialdini e Manfredo Fanti venne dato l'ordine di invadere le Marche e l'Umbria, mentre Pio IX intimava alle sue truppe di contrastare l'avanzata dell'esercito invasore. La battaglia decisiva fu combattuta il 18 settembre nei pressi di Castelfidardo e la sorte fu favorevole ai Piemontesi, che il 29 potevano occupare la città di Ancona e raggiungere in breve tempo la frontiera napoletana. Il I° ottobre 1860 Garibaldi ingaggiò battaglia prima che arrivassero i Piemontesi. La lotta infuriò per due giorni, ma alla fine i borbonici sconfitti furono costretti a ripiegare. Il 26 ottobre a Taverna Catena, presso Teano, Vittorio Emanuele II s'incontrò con Garibaldi. I piemontesi respinsero la proposta di accogliere i volontari nell'esercito regolare con il grado raggiunto nel corso della vittoriosa campagna. Garibaldi acconsentì ad entrare il 7 no
vembre in Napoli insieme al re e a presentargli i risultati del plebiscito svoltosi alcuni giorni prima, in base al quale era approvata l'annessione del regno delle Due Sicilie all'Italia di Vittorio Emanuele. Ugualmente schiacciante era stata la votazione dell'annessione nell'Umbria e nelle Marche.
Due giorni dopo Garibaldi deponeva la dittatura e veniva fatto imbarcare su un bastimento inglese diretto nell'isola di Caprera. Nel dicembre del 1860 la fortezza di Gaeta resisteva ancora: il 13 febbraio del 1861 era costretta a cessare ogni resistenza preceduta dalla resa di Capua. Con la fuga di Francesco II a Roma aveva fine dopo 120 anni il predominio borbonico nell'Italia meridionale.

Agli inizi del 1861 il Piemonte ormai controllava un territorio vastissimo. Alla fine di gennaio del 1861 il re sciolse il vecchio Parlamento subalpino, invitando tutte le nuove provincie ad eleggere i propri deputati. Il 18 febbraio del 1861 si riuniva a Torino il primo Parlamento italiano. Come suo primo atto l'assemblea approvò la legge in base alla quale Vittorio Emanuele assumeva per sé e per i suoi successori il titolo di RE D'ITALIA PER GRAZIA DI DIO E VOLONTA' DELLA NAZIONE. Egli fu indicato come II per continuità col regno sabaudo. Occorreva risolvere il problema di Roma e Venezia. Il Cavour morì il 6 giugno 1861.

I problemi dell'Italia unita

Le difficoltà maggiori derivavano dal fatto che la costituzione dello Stato unitario era stata opera di una parte piuttosto limitata della classe borghese: la borghesia liberale. Gli strati popolari erano rimasti estranei alle lotte per l'unità. Il nuovo stato era quindi espressione non di tutto un popolo, ma di una piccola parte di esso.

Vi era un profondo distacco fra le diverse parti del Paese, specie fra Settentrione e Meridione. Per affrontare questa situazione, una parte dello schieramento politico sosteneva la necessità di edificare uno stato su base regionale, creando un largo decentramento delle funzioni amministrative e di governo. Prevalse la tendenza contraria, nacque uno Stato estremamente accentrato sul modello della Francia napoleonica. L'Italia imboccò la via del centralismo burocratico e autoritario e si trovò divisa secondo il modello subalpino in Provincie, amministrate da prefetti di nomina regia in rappresentanza del potere centrale, e in Comuni retti da un sindaco, anch'esso di nomina regia, e da un Consiglio Comunale a base elettiva estremamente ristretta.

Nel campo dei lavori pubblici era tutto da fare. Mentre nell'Italia settentrionale era stato realizzato abbastanza, il Meridione era in condizioni spaventose, a causa anche delle scarsissime vie di comunicazione.
Un altro problema era quello dell'istruzione pubblica. Bisognava organizzare scuole e portare l'insegnamento elementare fra una popolazione che per il 78% era costituita da analfabeti. Per rimediare a questa situazione nel 1860 fu estesa a tutto il regno la LEGGE CASATI (promulgata nel novembre 1859 dal ministro Gabrio Casati, per il Piemonte e la Lombardia). Essa stabiliva l'istruzione obbligatoria e gratuita per i primi due anni.
L'agricoltura nell'Italia centro- meridionale era arretrata a causa della scarsità degli investimenti produttivi e del disinteresse dei proprietari per l'introduzione di nuovi sistemi di coltivazione. Nell'Italia settentrionale era diffusa la piccola e media azienda agricola, mentre in Toscana l'agricoltura era progredita e risultava diffuso l'istituto della mezzadria. Il più grosso problema sociale era costituito dall'elevazione morale e materiale della massa dei contadini, quasi tutti costretti a vivere in condizioni di grande miseria e ignoranza, e quindi insensibili ai problemi politici dello Stato italiano.
L'industrializzazione procedeva a rilento per la limitata disponibilità di capitali offerti dalle banche, per la scarsezza di mezzi e di vie di comunicazione, per la quasi totale assenza di ferro e carbone nel sottosuolo, per la mancanza di manodopera specializzata e per le difficoltà d'importate dall'estero costosi macchinari.
Inoltri l'eliminazione delle barriere doganali interne risultava un grande svantaggio per le industrie del sud, che si trovarono costrette a resistere alla libera concorrenza dei prodotti realizzati e posti sul mercato dalle imprese del nord.
Anche dal punto di vista sanitario le cose lasciavano a desiderare. La miseria era causa di malattie quali la pellagra, il colare, la malaria e il tifo. Le abitazioni erano malsane e insufficienti alla popolazione. La condizione finanziaria era disastrosa per le gravi spese delle guerre e dell'unificazione. Dal 1861 al 1880 l'Italia registrava una stasi demografica, i cui effetti si unirono a quelli altrettanto negativi della stagnazione della vita urbana.

Occorreva riorganizzare un nuovo esercito, ma la polemica sulla possibilità di immettere nell'esercito regio i volontari garibaldini era ancora viva. Il servizio militare obbligatorio suscitava un gran malcontento, poiché la partenza di una giovane recluta recava spesso un danno alla famiglia. A complicare la situazione contribuiva il fatto che le varie regioni avevano pesi, misure, leggi e monete diversi, oltre che usi e costumi spesso contrastanti tra loro. Un problema era anche quello della lingua.

L'espressione più grave di questo diffuso malessere fu il brigantaggio, che, dopo il 1860, assunse proporzioni così preoccupanti da dare vita a una vera e propria guerra civile fra le forze governative e le masse di contadini poveri.
Al centro delle rivendicazioni contadine era la questione delle terre demaniali, gravate da usi civici. La borghesia s'impadronì di queste terre, abolì gli usi civici e diede un colpo mortale al sostentamento dei contadini poveri.
Dal punto di vista politico, ad alimentare a distanza il brigantaggio contro un governo che si presentava ancor più rapace e lontano di quello precedente erano i Borboni e i nobili rimasti ad essi fedeli, allo scopo evidente di rendere più difficile l'assestamento del nuovo Stato.
Alla realizzazione dei piani borbonici collaborava anche lo Stato pontificio svolgendo un'attività di propaganda.
Per ciò che concerne le motivazioni sociali, possiamo ricordare l'estrema miseria che dominava in particolare la vita nelle campagne. La sofferenza dei contadini sfociava spesso in rivolte e guerriglie. L'entità di queste indusse il primo Parlamento italiano a nominare una commissione d'inchiesta presieduta da Giuseppe Massari, che presentò la sua relazione conclusiva il 4 maggio 1863, affermando che alla base di tutto c'era la miseria.

Complicati erano i rapporti internazionali. In Europa era diffusa la convinzione che la vita dell'Italia unita sarebbe durata poco. Vi erano due problemi di fondo: l'occupazione di Roma e di Venezia.

Gli uomini che dovevano risolvere questi problemi avevano avuto un ruolo di primo piano nell'unificazione dell'Italia ed erano divisi in due gruppi, che presero il nome di DESTRA o di SINISTRA dal settore occupato in Parlamento.
Gli uomini della Destra erano moderati, espressione della cultura borghese e delle classi più elevate, seguaci del Cavour. Tra loro si distinguevano: Quintino Sella, Alfonso La Marmora, Bettino Ricasoli, Luigi Carlo Farini, Marco Minghetti, Massimo D'Azeglio.
Gli uomini della Sinistra, progressisti, espressione della cultura democratica, provenivano dalle file dei Mazziniani e dei Garibaldini. Essi si trovavano raggruppati nel Partito d'Azione. Appartenevano a questo gruppo: Francesco Domenico Guerrazzi, Francesco Crispi, i fratelli Cairoli e Garibaldi.
Urbano Rattazzi pur simpatizzando la sinistra, imitava il Cavour.
Entrambe gli schieramenti erano profondamente condizionati dal sistema elettorale in vigore: il governo poggiava su basi rigidamente censitarie.
La classe politica del nuovo regno d'Italia risultò costituita dall'aristocrazia e dall'alta borghesia terriera e industriale. Di qui una gravosa legislazione per le classi meno abbienti.

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