Sviluppo, squilibri, lotte sociali: l'Italia fra 800 e 900

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Sviluppo, squilibri, lotte sociali: l’italia fra 800 e 900
LO SVILUPPO INDUSTRIALE NEI SETTORI TRADIZIONALI DELLA NOSTRA ECONOMIA
Rimanevano fondamentali, nel nostro sistema industriale, il settore tessile e il settore agricolo alimentare, che fornivano da soli circa il 60% della ricchezza netta prodotta dall’industria italiana. Soprattutto il settore tessile, tradizionalmente il più sviluppato in Italia registrò una crescita costante nella produzione della seta e del cotone, grazie anche alla forte protezione garantita dalla tariffa doganale: esso, all’inizio del nuovo secolo, copriva circa un terzo dell’esportazioni italiane. Nel settore alimentare, va segnalato il grande sviluppo dell’industria saccarifera.
IL POTENZIAMENTO DELL’INDUSTRIA SIDERURGICA E LE SUE CONSEGUENZE
L’aspetto più importante del decollo economico, tuttavia, è lo sviluppo di nuovi settori di base, in primo luogo l’industria siderurgica che si ristrutturò e rinnovò tecnologicamente, mettendosi così in condizione di produrre laminati di acciaio a ciclo integrale. Oltre alla già citata acciaieria Terni, un altro grande complesso siderurgico sorse a Bagnoli, presso Napoli. Anche in questo settore, decisivo fu il ruolo della protezione doganale, rafforzato dagli accordi stretti fra i nostri gruppi siderurgici e i trust stranieri per impedire che questi ultimi vendessero in Italia rotaie sotto costo: in tal modo, la produzione nazionale di rotaie passò tra il 1901 e il 1903, dal 30 al 70% del fabbisogno. Più in generale, la produzione di ghisa passò tra il 1895 e il 1913, da 9000 a 426000 tonnellate, quella di acciaio da 50000 a 933000 mila tonnellate.
La formazione di un’industria siderurgica nazionale ebbe importanza cruciale nell’industrializzazione italiana, benché questo settore producesse ancora con costi troppo elevati per reggere la concorrenza straniera e avesse quindi necessità di essere sostenuto dallo stato, sia con la tariffa doganale sia con le commesse militari, navali e ferroviarie. Altrettanta importanza, in un paese povero di risorse energetiche come l’Italia, ebbe lo sviluppo dell’industria idroelettrica.
La produzione di energia elettrica passò da 100 milioni Kwh nel 1900 ai 4000 milioni nel 1914, grazie a cospicui investimenti nella costruzione di grandi centrali idroelettriche e nella distribuzione dell’energia. L’85 % dell’energia prodotta era destinato all’uso industriale.
L’ottimismo di chi riteneva che il “carbone bianco” avrebbe rapidamente sostituito quello “nero”, consentendo all’Italia di sviluppare una grande industria di base, si rivelò per il momento eccessivo: le importazioni di carbone, infatti, non diminuirono ma anzi salirono da 4 a 10 milioni di tonnellate fra il 1896 e il 1913, gravando pesantemente sulla nostra bilancia commerciale.
LA VITALITA’ DELL’INDUSTRIA MECCANICA
Grande vitalità nonostante la bassa protezione doganale, dimostrò inoltre l’industria meccanica, che si sviluppò tra il 1896 e il 1910 al ritmo del 10% annuo, pari a un raddoppio della produzione nazionale in meno di otto anni: mezzi di trasporto, macchinari pesanti, macchine utensili di precisione, machina da cucire e le nuove macchine da scrivere furono i prodotti sui quali principalmente si reggeva la nuova industria meccanica italiana. Iniziò a svilupparsi anche un settore destinato a grande fortuna nel nostro paese, quello dell’automobile: in questo campo non esistevano ancora grandi imprese internazionali consolidate e ciò favorì l’iniziativa di intraprendenti imprenditori come Giovanni Agnelli che nel 1899 fondò la FIAT, la Fabbrica Italiana Automobili Torino.

LE CONDIZIONI DELLO SVILUPPO: RISANAMENTO FINANZIARIO
L’Italia riuscì a inserirsi positivamente nella ripresa dell’economia internazionale, uscita intorno al 1895 dalla fase depressiva iniziata oltre vent’anni prima.
Grande importanza ebbe poi il riordino del sistema finanziario attuato negli anni 1893-94 per iniziativa del ministro delle finanze Sidney Sonnino. Inaugurando una severa politica fiscale, basata sull’aumento del prelievo indiretto, e contenendo le spese, il governo riuscì a sanare il bilancio dello stato.
RIORDINO DEL SISTEMA BANCARIO
Incisivi cambiamenti furono contemporaneamente introdotti nel sistema bancario, il cui dissesto aveva causato gravi turbamenti anche nella vita politica: nel 1893 fu creata la Banca d’Italia, cioè la banca centrale incaricata di regolare l’emissione di moneta e il sistema finanziario e creditizio; nacquero inoltre nuovi istituti di credito sul modello della banca mista, come la Banca commerciale italiana e il Credito italiano. Ricordiamo che “la banca mista” deve il suo nome al fatto che svolge una duplice funzione: raccoglie il risparmio dei cittadini e lo investe finanziando società commerciali e industriali, talora fondate dalla banca stessa. Furono questi istituti di credito che assicurarono gli ingenti capitali necessari a finanziare investimenti costosi, prelevandoli in buona misura nel circuito finanziario svizzero e tedesco.
Non bisogna poi trascurare altri due fattori: le entrate del turismo e le rimesse degli emigranti, cioè i risparmi inviati in patria dai lavoratori italiani che emigravano, nel primo decennio del Novecento, al ritmo di mezzo milione l’anno. Le rimesse furono uno dei fattori che permisero all’Italia di equilibrare la bilancia dei pagamenti in una fase in cui erano necessarie ingenti importazioni di materie prime per sostenere lo sviluppo dell’industrializzazione.
UNO SVILUPPO DUALISTICO
Tra il 1886 e il 1911 il reddito nazionale italiano aumentò del 50%, indice di una decisa crescita economica. Questo sviluppo presentava al suo interno gravi contraddizioni e squilibri fra i diversi settori economici e le diverse aree del paese, con la compresenza di elementi di modernizzazione e di arretratezza.
Il più grave di tali squilibri era quello territoriale, con l’accrescersi di quel dualismo economico fra Nord e Sud.
Anche per l’agricoltura italiana la fase a cavallo dei due secoli fu caratterizzata dalla crescita seppure inferiore a quella dell’industria. Giocarono a favore di tale ripresa la fine della crisi agraria, consentita dall’allineamento dei prezzi agricoli europei e americani, e la costante tendenza al rialzo dei prezzi.
LA QUESTIONE MERIDIONALE
Anche nel settore agricolo gli squilibri territoriali vennero accentuandosi. Già al momento dell’Unità l’economia meridionale era sensibilmente in ritardo rispetto a quella settentrionale, ma questa distanza aumentò ulteriormente nei cinquant’anni successivi. L’Italia si sviluppava “a forbice”: a fronte della crescita del Nord, e particolarmente del cosiddetto “triangolo industriale”, già da tempo inserito nel circuito dell’economia europea, diveniva sempre più grave l’arretratezza delle regioni meridionali.
Il meridione d’Italia venne abbandonato alla sua arretratezza, a causa di scelte economiche che privilegiavano lo sviluppo del settentrione e per opera di un sistema politico che si reggeva in buona parte sul consenso dei ceti più conservatori del Mezzogiorno, in primo luogo i grandi proprietari terrieri. La questione meridionale divenne così in questi anni uno dei grandi nodi irrisolti nella vita italiana.
LA QUESTIONE SOCIALE
Un altro teme venne a occupare il centro della vita politica nazionale: la questione sociale, cioè il problema delle condizioni di vita delle masse contadine e operaie che anche in Italia, con lo sviluppo industriale, entravano con forza sulla scena politica.
Il problema fondamentale per larghi strati della popolazione italiana continuava a essere quello della sopravvivenza. Tra il 1870 e il 1915 oltre cinque milioni di italiani emigrarono nel continente americano. Mentre sino alla fine dell’Ottocento si emigrava soprattutto dalle regioni settentrionali verso l’America latina, a partire dal nuovo secolo si avviarono migrazioni massicce dal meridione d’Italia verso gli Stati Uniti, in conseguenza del peggioramento delle condizioni di vita in queste regioni.
Il problema sociale riguardava innanzitutto il mondo contadino, dato il carattere prevalentemente agricolo dell’economia italiana.
Le condizioni di vita nelle campagne italiane dopo l’Unità rimasero a lungo pessime, come venne puntualmente rilevato dalle inchieste parlamentari del periodo: fatiscenti le abitazioni, inadeguato il regime alimentare, altissima la mortalità dovuta al tifo, colera, vaiolo, malaria e pellagra.
LA NASCITA DEL MOVIMENTO CONTADINO
Le reazioni del mondo contadino a questa condizione di grave disagio furono differenziate, così come sempre più eterogeneo diveniva il volto del paesaggio agrario italiano per effetto delle trasformazioni economiche. Nel meridione, l’effetto congiunto della crisi agraria e della sovrappopolazione fu quello di aumentare lo sfruttamento e la precarietà dei lavoratori. A questi lavoratori non restava che la via delle periodiche rivolte o quella dell’emigrazione, temporanea e interregionale o definitiva.
Nelle campagne padane dove si ebbe lo sviluppo di un’agricoltura capitalista, si formò un proletariato agricolo bracciantile che maturò rapidamente una forte solidarietà e coscienza sindacale. Qui, a partire dagli anno ’80, si registrò un grande sviluppo del movimento organizzato contadino, con associazioni, leghe, ricorso sistematico allo sciopero.
Obiettivi delle agitazioni, che divennero particolarmente intense alla fine del secolo, erano l’aumento della paga, il controllo del collocamento e l’imponibile manodopera. Nel 1901 nacque la Federterra, una vasta e ramificata organizzazione contadina di ispirazione socialista.
CLASSE OPERAIA E SINDACALIZZAZIONE
Contemporaneamente, veniva formandosi anche in Italia un proletariato industriale sempre più esteso. Le condizioni di lavoro e di vita di questo proletariato industriale erano simili a quelle che, cinquant’anni più indietro, avevano conosciuto gli operai nei paesi di prima industrializzazione. Salari bassissimi; nessuna garanzia del posto di lavoro e del salario; multe, trattenute, punizioni, regolamenti di fabbrica vessatori; larga diffusione del lavoro minorile; controlli minuziosi e asfissianti non solo sul lavoro, ma anche sulla vita privata dell’operaio: tutte condizioni che derivano da una cultura imprenditoriale autoritaria o, nel migliore dei casi, paternalistica, che non ammetteva alcuna autonomia dell’operaio, e da un mercato del lavoro sbilanciato a favore dei padroni, data l’abbondanza di forza-lavoro disponibile.

IL MOVIMENTO OPERAIO TRA ANARCHISMO E SOCIALISMO
La nascita nel 1892, a Genova, del Partito dei lavoratori, che due anni più tardi prese definitivamente il nome di Partito socialista italiano, fu un evento di grande importanza non solo per il movimento operaio, ma per l’intera vita politica e sociale italiana. Con esso, infatti, si costituiva in Italia il primo partito moderno di massa e il movimento dei lavoratori entrava a pieno titolo nella lotta politica e parlamentare. Nei decenni successivi all’Unità il movimento operaio italiano aveva visto prevalere la componente mazziniana, ostile alla lotta di classe, e soprattutto l’anarchismo, che rifiutava la partecipazione alla vita politica dello stato e propugnava cospirazioni e sommosse rivoluzionarie. L’anarchismo fu a lungo dominante nell’Emilia Romagna e nel Meridione, raccogliendo aderenti soprattutto nelle campagne, presso i lavoranti a domicilio e nei ceti più poveri delle città. La sua influenza venne progressivamente declinando man mano che il socialismo di ispirazione marxista si affermava presso la classe operaia e una parte della borghesia intellettuale. Lo stesso Andrea Costa, leader del movimento anarchico romagnolo, se ne distaccò nel 1879 e nel 1882 venne eletto in parlamento, nell’estrema sinistra.
GLI OBIETTIVI DEL PARTITO SOCIALISTA ITALIANO
Nel frattempo, con lo sviluppo del proletariato industriale settentrionale, nascevano diversi gruppi di orientamento socialista, che si opponevano agli anarchici propugnando metodi legali di lotta sindacale e politica. Fu da questo insieme di esperienze e di organizzazioni che nacque il partito socialista, in cui ebbe un ruolo sin dall’inizio determinante l’avvocato milanese Filippo Turati, assertore di un socialismo di orientamento riformista. Nel clima autoritario e repressivo dell’ultimo decennio del secolo, il nuovo partito seppe affermarsi solidamente, contribuendo anche, alla salvaguardia delle libertà democratiche. Esso, però, si radicò soprattutto presso la classe operaia e il bracciantato agricolo settentrionale: scarse furono invece la sua presa e la sua incidenza nelle campagne meridionali.

Esempio



  


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