Storia d'Italia dalle origini al 1864

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Testo

L’Italia storia dalle origini al 1861ni agli a
Genti italiche
Le informazioni sulle genti abitanti la penisola in epoca preromana, sono in taluni casi incomplete e soggette a revisione continua. Popolazioni di ceppo indoeuropeo trasferitesi in Italia dall'Europa Orientale e Centrale in varie ondate migratorie (veneti, umbro-sabelli, latini, ecc.), si sovrapposero ad etnie pre-indouropee già presenti nell'attuale territorio italiano, o assorbendole, oppure stabilendo una forma di convivenza pacifica con esse.
Presumibilmente queste migrazioni ebbero inizio in età del bronzo medio (e cioè attorno alla metà del II millennio a.c.), e si protrassero fino al IV secolo a.c. con la discesa dei Celti nella pianura padana. Fra i popoli di età preromana meritano una particolare menzione gli Etruschi che, a partire dall'VIII secolo a.c., iniziarono a sviluppare una civiltà raffinata ed evoluta che influenzò enormemente Roma e il mondo latino. Le origini di questo popolo non indoeuropeo stabilitosi sul versante tirrenico dell'Italia Centrale sono incerte.
Secondo alcune fonti, la loro provenienza andrebbe ricercata in Asia Minore, secondo altre, avrebbero costituito una etnia autoctona.Certo è che già attorno alla metà del VI secolo riuscirono a creare una forte ed evoluta federazione di città-stato che andava dalla Pianura Padana alla Campania e che comprendeva anche Roma e il suo territorio. In Italia settentrionale accanto ai Celti (comunemente chiamati Galli), troviamo i Liguri (originariamente non indoeuropei poi fusisi con i Celti) stanziati in Liguria e parte del Piemonte mentre nell'Italia nord-orientale vivevano i veneti (paleoveneti) di probabile origine illirica o, secondo alcune fonti, provenienti dall'Asia Minore.
Nell'Italia più propriamente peninsulare accanto agli Etruschi, cui abbiamo già fatto accenno, convivevano tutta una serie di popoli,in massima parte di origine indoeuropea fra cui: Umbri in Umbria, Latini, Sabini, Falisci, Volsci ed Equi nel Lazio; Piceni nelle Marche ed in Abruzzo Settentrionale, Sanniti nell'Abruzzo Meridionale, Molise e Campania, Apuli, Messapi e Iapigi in Puglia, Lucani e Bruzii nell'estremo Sud, Siculi, Elimi e Sicani in Sicilia. La Sardegna era abitata, fin dal II millennio a.c. da gruppi etnici provenienti, forse, dalla penisola iberica o dall'Africa.
Alcune di queste popolazioni, stanziate nell'Italia meridionale e nelle isole, si troveranno a convivere, dall'VIII fino al III secolo a.c., con le colonie Greche e Fenicie (Puniche) successivamente assorbite dallo stato romano.
Nell'area laziale, invece, un posto a se stante meritano i Latini protagonisti, assieme ai Sabini della primitiva espansione dell'Urbe e forgiatori, insieme agli Etruschi e ai popoli italici più progrediti (Umbri, Falisci ecc.) della futura civiltà romana.
Tra l'VIII ed il VII secolo a.C., coloni provenienti dalla Grecia cominciarono a stabilirsi sulle coste del sud Italia e della Sicilia. Le prime componenti stabilitesi in Italia furono quella ioniche e quelle peloponnesiache: gli Eubei e i Rodii fondarono Kymai, Rhegion, Parthenope, Naxos e Zankle , i Corinzi Syraka, i Megaresi Leontinoi, gli Spartani Taras, mentre i coloni provenienti dall'Acaia fondarono Sybaris e Kroton.
I contrasti fra le colonie greche e gli indigeni furono frequenti, ma i Greci cercarono di instaurare rapporti pacifici con le popolazioni locali, favorendo in molti casi un lento assorbimento delle stesse. La ricchezza e lo splendore delle colonie furono tali da far identificare l'Italia meridionale dagli storici romani con l'appellativo di Magna Grecia. A partire dal III secolo a.C. le colonie cominciarono a declinare nel loro splendore, a causa dell'ascesa di Roma.
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Roma
Roma non ebbe una fondazione precisa. La data del 753 a.C., che non si basa su alcun documento, fu fissata nel I sec a.C. La città ebbe probabilmente origine da poche capanne abitate da pastori, che col tempo si raggrupparono in un villaggio sul colle Palatino, non lontano dal Tevere. Quando Roma diventò la città più forte e ricca del suo tempo, si pretese che le sue origini fossero nobiliari: di qui il ricorso ai miti/leggende (Romolo figlio di Marte, dio della guerra, la madre, Silvia, sacerdotessa della dea Vesta, discendente dell'eroe troiano, Enea, scampato alla distruzione della sua città, poi approdato sulle rive del Lazio).
Durante la fase monarchica, i re di Roma -secondo la tradizione semileggendaria- sarebbero stati sette: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. Ad essi la tradizione attribuisce l'organizzazione dello Stato e dell'esercito, del culto religioso, la fondazione del porto di Ostia, la costruzione di ponti, acquedotti ecc. Al tempo della monarchia, il re veniva eletto dal Senato (autorevole consiglio di anziani). Il re governava ed esercitava il potere politico, giudiziario, militare e religioso. La religione era politeistica e naturalistica (divinità dei campi, dei boschi, delle greggi).
Il nome Tarquinio sta ad indicare che per un certo periodo Roma fu dominata da genti di origine etrusca. Ma non vi fu nessuna integrazione o fusione di popoli. Gli Etruschi rimasero a casa loro e i Latini continuarono a parlare latino e a essere la componente principale del crogiuolo etnico che abitava la loro città. I re etruschi insegnarono parecchie cose ai Romani, i quali le appresero di buon animo soprattutto perché non sapevano a chi ricorrere per avere suggerimenti su come organizzarsi; gli insegnarono soprattutto un po' di etichetta, per esempio il fascio littorio, la toga pretesta, la sella curule, la cerimonia del trionfo nonché tutta la disciplina augurale e i giuochi gladiatori, ma non poterono insegnargli quello che i loro sudditi conoscevano meglio e cioè come si doveva comandare. I patrizi, cioè i ricchi e i potenti non tardarono molto ad accorgersi di questa carenza e, dopo averli tollerati per un po' di tempo decisero di sbarazzarsene soprattutto perché i prìncipi etruschi avevano immaginato di poter fare a meno dei loro consigli e del loro sostegno appoggiandosi alla gente minuta della città, agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai braccianti cioè a quella componente sociale che si sarebbe chiamata plebe. Del resto non avevano più bisogno di un monarca. Il loro re era diventata un'idea, quella della repubblica, un ente astratto al di sopra di ogni cittadino, di cui loro si sentivano di interpretare puntualmente le esigenze, le necessità, il destino.
Perciò cacciarono l'intruso e concordarono che, a turno, avrebbero svolto loro la funzione di re; due per volta, e per un solo anno, affinché potessero controllarsi a vicenda e affinché il loro potere fosse molto limitato nel tempo. Così i patrizi fecero di Roma una repubblica. Del resto era giusto che decidessero la forma costituzionale della loro città. Perché Roma era davvero la loro città; non l'avevano inventata in un giorno tracciando un solco simbolico, ma strutturata poco alla volta in una lunga gestazione che aveva messo alla prova la loro capacità di governo e la loro maturità politica.
schiavi (all'origine prigionieri di guerra, di proprietà dei padroni cui venivano assegnati; si chiamavano liberti se affrancati).
I plebei, pur essendo costretti a partecipare alle guerre, con grave danno per i loro campi e per l'attività artigiana, non avevano il diritto di partecipare alla spartizione dei territori occupati. Sicché, ad ogni guerra il divario tra patrizi e plebei invece di diminuire, aumentava: il rischio maggiore era che, indebitandosi, i plebei finissero tra le fila degli schiavi.
La pretesa parificazione dei diritti con i patrizi, portò i plebei a condurre dure lotte sociali, civili e politiche. Alla fine i patrizi furono costretti a riconoscere due magistrati (tribuni della plebe) come rappresentanti dei plebei in senato. Essi potevano opporre il loro veto alle leggi ritenute anti-plebee.
Ma la più grande conquista dei plebei furono le Leggi delle XII tavole (incise nel 450 a.C. su tavole di bronzo ed esposte nel Foro, la piazza più importante della città). Esse segnano il passaggio dal diritto orale a quello scritto: affermano il principio dell'uguaglianza davanti alla legge e la sovranità del popolo. Tuttavia, solo dopo circa un secolo e mezzo fu riconosciuto ai plebei il diritto di accedere a tutte le cariche pubbliche.
La concessione dei diritti ai plebei portò le classi e i ceti più agiati a scatenare diverse guerre di conquista contro i popoli vicini, per “recuperare”, per così dire, i privilegi perduti. Dopo la vittoria su Veio, su Latini e Volsci, i Romani erano arrivati quasi agli attuali confini del Lazio. La conquista di Veio avvenne nel 396 a.C., all'incirca tre secoli dopo la fondazione della città.
Fra il III e il II sec. a.C. i romani contadini e guerrieri, com'erano sempre stati, cominciarono ad interessarsi anche di commercio e di navigazione, soprattutto perché, conquistando le città etrusche e greche, erano venuti a contatto con civiltà che per molti aspetti erano superiori alla loro.
Cessato il pericolo etrusco, altre minacce alla libertà di Roma vennero dai popoli vicini: primi fra tutti i Latini. La guerra contro questo popolo fu il primo grande successo romano; dopo averli sconfitti, Roma stipulò con i Latini un trattato di alleanza: il Foedus Cassianum. Vennero poi le guerre vittoriose contro i Volsci e gli Equi. Più duro fu lo scontro con gli etruschi di Veio. I Veienti opposero infatti una strenua resistenza contro i romani guidati dal dittatore Furio Camillo, che nel 396 a.C. riuscì a conquistare e distruggere Veio, costringendo così i difensori alla resa. Pochi anni dopo questi eventi, i Galli, popolazione di origini celtiche che da tempo si era stanziata nella valle del Po, iniziarono una discesa lungo la penisola saccheggiando le ricche città etrusche e minacciando Roma stessa. Per i romani, paralizzati dal terrore, non fu possibile organizzare una valida resistenza e la città venne conquistata e saccheggiata. Di questa difficile situazione approfittarono le città latine per ribellarsi. Dopo lunga lotta i Romani riuscirono nuovamente a sottometterle in modo definitivo legandole a se con dei trattati separati contenenti clausole diverse a seconda dei casi, in modo tale che non fosse più possibile che potessero allearsi tra loro contro Roma. Fu questo il primo caso nel quale venne applicato il principio romano del divide et impera, che consisteva nel dividere i nemici per poterli controllare meglio. Dopo aver conquistato l’Italia centrale, Roma iniziò la sua espansione verso il mezzogiorno, ma qui si trovò di fronte un ostacolo imprevisto: i Sanniti. Questo popolo di rudi montanari occupava il territorio compreso tra gli Appennini abruzzese e campano; in inverno erano costretti, a causa della rigidità del clima, a scendere nella pianura campana per trovare pascoli dove nutrire i loro greggi, spostamento questo che spesso causava contrasti con le popolazioni locali che si sentivano minacciate dalla loro presenza. Capua, per difendersi dalle scorrerie dei Sanniti, chiese aiuto a Roma, la quale inviò un esercito in soccorso alla città. Ebbero così inizio le Guerre Sannitiche, che si protrassero per oltre cinquant’anni. In un primo tempo la vittoria arrise ai Sanniti, che sconfissero i Romani alle Forche Caudine nel 321 a.C.. La reazione di Roma a questa umiliazione non tardò e nel 304 a.C. i soldati Romani sconfissero prima i soli Sanniti nella battaglia di Boviano, e in seguito gli eserciti uniti dei Sanniti, degli Etruschi, dei Galli e dei Sabini nella battaglia di Sentino. Dopo essersi impadronita dei territori appartenuti ai Sanniti ed ai Campani, a Roma mancava solo più il possesso della Magna Grecia per essere padrona di tutta l’Italia peninsulare. Il suo prestigio era così grande che, non potendosi più appellare alla madrepatria in piena decadenza politica, le città della Magna Grecia si rivolgevano ai romani per chiedere aiuto contro le incursioni dei popoli vicini. Questi appelli non venivano mai lasciati cadere nel vuoto e Roma inviava il proprio esercito quando richiesto, desiderosa di diventare padrona di tutto il meridione d’Italia. La città di Taranto, preoccupata per questa espansione che minacciava anche la sua indipendenza, chiese l’aiuto di Pirro, il re dell’Epiro. Questi giunse in Italia con un grande esercito comprendente anche alcuni elefanti che seminarono lo scompiglio tra le fila romane. Pirro ottenne subito due vittorie: la prima ad Eraclea e la seconda ad Ascoli Satriano. Tuttavia queste vittorie erano costate all’esercito di Pirro gravissime perdite; egli inviò quindi un ambasciatore a Roma per trattare la pace con il Senato. La risposta dei senatori fu che Roma avrebbe concesso la pace solo quando Pirro si fosse ritirato dall’Italia. Nel frattempo il re si era recato in Sicilia per portare soccorso ad alcune colonie greche in lotta con Cartagine. Ritornato in Italia, nel 275 a.C. si scontrò a Benevento con l’esercito romano e subì una grave sconfitta, in seguito alla quale abbandonò la penisola e tornò in Epiro. Rimasti padroni della situazione, i Romani assediarono Taranto che venne conquistata tre anni più tardi. Davanti all’evidenza tutte le altre città della Magna Grecia si sottomisero alla potenza di Roma accettando la sua supremazia. A questo punto tutta la penisola italica apparteneva ai Romani.
L'interesse per gli scambi commerciali portò Roma al conflitto con Cartagine (città fondata dai Fenici), che allora dominava tutto il Mediterraneo. Le “guerre puniche” (fenicie) durarono un secolo e mezzo. Roma rischiò di essere distrutta dalla memorabile impresa del generale Annibale, che dalla Spagna era giunto in Italia passando le Alpi. Tuttavia, Roma non solo occupò la Spagna e altre colonie cartaginesi, ma, non volendo alcun rivale nel Mediterraneo, rase al suolo la città di Cartagine, trasformandola in provincia romana. Nello stesso anno (146 a.C.), anche la Grecia divenne provincia romana.
Dopo aver consolidato il proprio dominio in Italia, Roma iniziò ad estendersi fuori dall’Italia: con le guerre Illiriche, iniziate nel 229 a.C. e terminate nel 167 a.C. con la vittoria di Roma, l’Albania venne sottomessa e frazionata in tante piccole unità amministrative. Nel 200 a.C.venne conquistata anche la Lusitania, attuale Portogallo, che divenne una nuova provincia dell’Impero che i Romani andavano costituendo in Europa. Nel frattempo, in Macedonia, verso il III secolo a.C.Filippo V mirava ad estendere il potere macedone nell’Egeo. Alleatosi con Antiocco III re di Siria, nel 202 a.C. insieme decisero di occupare l’Egitto e di spartirselo.In quel momento Roma non aveva interesse immediato in Oriente, ma Scipione l’Africano vedeva nell’ Oriente un immenso campo di gloria e quindi, nel 200 a.C. Roma dichiarò guerra a Filippo V, che nel 197 a.C. venne sconfitto in Tessaglia. In seguito a questa sconfitta egli rinunciò a tutte le conquiste fatte fino a quel momento. Successivamente, Roma con l’appoggio delle città greche e di Filippo V, sconfisse anche il re di Siria Antioco III. Perseo V succedete a Filippo V sul trono di Macedonia. Perseo oltre al regno ereditò dal padre i grandi sogni di riscossa. Roma vedeva in ciò un pericolo e mosse guerra a Perseo V, che sconfitto venne catturato, consentendo ai Romani di mettere le mani su di un immenso bottino. Con la battaglia di Pidna, nel 168 a.C. il regno di Macedonia viene definitivamente conquistato. La battaglia di Pidna, oltre a segnare la definitiva scomparsa della monarchia macedone, fu decisiva e importante in quanto segnò l’abbandono della linea diplomatica romana a favore di una più energica politica di annullamento degli sconfitti. La prima fase della espansione fuori dell'Italia si può considerare conclusa nel 133 a.C. quando la caduta di Numanzia sanziona la definitiva acquisizione della Spagna nell'orbita romana e quando il senato trasforma in provincia d'Asia l'antico regno di Pergamo lasciato da Attalo III in eredità ai Romani.
Le idee direttive dell'organizzazione politico-amministrativa delle province:
nessuna uguaglianza di diritti tra romani e popoli assoggettati;
formale rispetto delle tradizioni locali;
diversità di trattamento (divide et impera).
Il ceto nobiliare romano, che traeva i maggiori vantaggi dalla politica espansionistica, disponeva di moltissimo liquido e, poiché identificava il concetto di ricchezza con la massima estensione di proprietà fondiaria, era pronto a comprare tutto ciò che il mercato offriva e magari disposto anche a forzare la volontà del venditore con più o meno lecite pressioni ricattatorie. Per far fruttare queste acquisizioni di terra disponeva infatti di mano d'opera che era meno costosa del libero bracciante e che, appunto, la guerra aveva reso disponibile: gli schiavi. In questo secolo i Romani hanno preso schiavi dovunque hanno combattuto, tra i Celti, gli Iberici, i Punici, i Siriani, i Greci e si sono fatti la fama di latrones gentium, cioè di rapinatori per antonomasia tra tutte le nazioni del mondo e anche di ladroni materiali di popoli, se si pensa al prelievo di schiavi che facevano nei paesi vinti. Sono questi ricchi che, soprattutto nel mezzogiorno della penisola, hanno dato il via alla formazione dei latifondi e sono loro che, grazie ai capitali di cui disponevano, hanno orientato in taluni casi la produzione agricola verso colture differenziate non tradizionali. La convivenza con questi vicini che tendevano sempre a straripare non dev'essere stata molto comoda per i piccoli proprietari, anche perché la legge sui debiti li metteva in un batter d'occhio alla mercé dei creditori. Bastava infatti non rimborsassero in tempo un debito contratto in un'annata cattiva per consentire al creditore di confiscare e di impadronirsi dei loro campi. Nel giro di qualche mese infatti la famiglia di un libero contadino poteva trovarsi nella condizione di non sapere dove andare, dove trovare un ricovero e dove cercare una giornata di lavoro da bracciante. Furono appunto questi relitti della trasformazione latifondistica che impressionarono Tiberio Gracco quando li vide vagare, con moglie e figli, affamati e laceri in cerca di un riparo e di un lavoro. Le loro destinazioni erano soprattutto le baraccopoli delle grandi città, e di Roma in particolare, dove speravano di vivere di espedienti, di beneficenza pubblica, di impieghi di fortuna. I meno intraprendenti si sono ridotti a elemosinare un'occupazione dai padroni più caritatevoli e ad abbassarsi al livello della condizione servile.
Fu così che nacquero nuove lotte sociali tra patrizi e plebei. La lotta sociale tra patrizi e plebei assunse, sul piano politico, la fisionomia di una lotta tra due partiti avversi: democratico (Caio Mario) e aristocratico (Cornelio Silla). Mario si era procurato il favore del popolo per aver immesso nell'esercito anche i cittadini sprovvisti di censo, trasformando l'esercito da cittadino in mercenario. Silla era invece appoggiato dal senato e, dopo aver sconfitto Mario (che non si arrischiò di fare delle riforme “troppo democratiche”), nell'84 a.C. si proclamò dittatore a vita. Il gesto era senza precedenti, poiché la legge romana concedeva il titolo solo in caso di guerra e per non più di sei mesi.
Gli obiettivi principali della riforma costituzionale di Silla o della sua restaurazione, se si vuole chiamarla con questo nome di sapore reazionario, erano due: primo, assicurare il governo della repubblica al senato, cioè alla vecchia aristocrazia oligarchica; secondo, impedire ai proconsoli militari delle province di marciare su Roma per imporre le loro soluzioni personali ai problemi dello Stato.
Silla provvide a prevenire anche quella rappresentata dai governatori provinciali che disponevano di eserciti. Il problema era di evitare che i proconsoli, rimanendo troppo a lungo a contatto con le armate della repubblica, fossero tentati dall'idea di servirsi, a scopi personali, di quelle straordinarie concentrazioni di potere. Del resto Silla conosceva il meccanismo che innescava il patto scellerato dei legionari e del loro generale contro il governo in carica, perché l'aveva praticato in proprio e perché se ne era servito con una spregiudicatezza per la quale sarebbe stato difficile trovare dei precedenti.
Silla, nell’82 a.C. si era appena dimesso dalla sua carica di dittatore e si era ritirato a vita privata per dedicarsi alla sua quinta moglie, Valeria, che cominciarono le manovre intese a smantellare la cittadella eretta in difesa della sua fazione. A cominciare fu Lepido, padre del futuro triumviro, individuo che era quanto di peggio potesse produrre il politicantismo romano. Appena entrato in carica da console, nel 78 a.C., cominciò a cavalcare il malcontento che il ritiro di Silla aveva reso esplicito nei gruppi che più di altri soffrivano le regole imposte dal dittatore e dichiarò che ai tribuni della plebe dovevano essere restituite le loro antiche competenze, che il popolo aveva diritto alle distribuzioni gratuite di grano e di altri generi alimentari e che le terre confiscate e assegnate ai veterani del dittatore dimissionario dovevano essere rese ai loro legittimi proprietari.
Tra le altre rivendicazioni avanzava, per se stesso, anche un immediato secondo consolato. Richiesta arrogante nei confronti di un'oligarchia che solo pochi mesi prima aveva accettato a malincuore da Silla la regola di non reduplicare la magistratura se non a dieci anni di distanza. Questa pretesa fornì un eccellente pretesto per deliberare il senatus consultum ultimum col quale i padri coscritti invitarono il console collega a difendere lo Stato contro il traditore, che fu sconfitto e costretto a sparire dalla circolazione. Il primo colpo significativo alla restaurazione sillana fu dato non da Lepido ma da due generali che avevano combattuto la guerra civile dalla parte di Silla e che si potevano considerare suoi allievi e cuccioli della sua figliata: Pompeo e Crasso.
Superato l'ostacolo formale, Pompeo e Crasso si accordarono per affrontare insieme quello elettorale per il proconsolato in Oriente. Pompeo dichiarò che avere per collega una personalità come Crasso era più gratificante dello stesso consolato.
Impegnato a Roma nel definire la sua nuova Costituzione e nell'opera di epurazione nota col nome di proscrizioni, Silla aveva dato a Pompeo l'incarico di eliminare le sacche di democratici che si erano rifugiati o asserragliati nelle province periferiche.
Nella sua veste di dittatore a vita Silla venne eletto console per la seconda volta nell'80 a.C., ma, sorprendentemente, l'anno successivo decise di abbandonare la politica per rifugiarsi nella propria villa di campagna, con l'intento di accingersi a scrivere le proprie memorie.
Figlio di Pompeo Strabone, il generale che nel 90 aveva concluso la guerra sociale sconfiggendo la Federazione italica, Pompeo Magno ha ereditato da suo padre tanto un esercito personale quanto delle forti ambizioni di carattere politico.
Iniziata la carriera pubblica come alleato di Silla, dopo la morte di quest'ultimo egli si allontana presto dalle sue posizioni, avvicinandosi agli ambienti politici democratici moderati (quelli, per intendersi, ostili all'orientamento rivoluzionario delle fazioni mariane).
Il suo indirizzo politico oscilla infatti tra le posizioni oligarchiche più temperate e quelle dei plebei ricchi, ovvero degli equestri, oscillanti a loro volta - soprattutto, come si è visto, a partire dai Gracchi - tra l'alleanza con la plebe e quella con il Senato. Ed è appunto un tale indirizzo a rendere Pompeo l'uomo più adatto da porre come baluardo contro i movimenti anti-oligarchici (di stampo mariano) che ancora infuriano nell'Impero.
Per tale ragione egli riceve dal Senato (tra il 77 e il 72) un primo incarico ufficiale, il compito cioè di sedare alcune rivolte e disordini in Spagna, a capo dei quali si è posto un certo Sertorio, e che costituiscono un grave motivo di preoccupazione per la classe dirigente romana.
Oltre a tali disordini, vi sono poi altri elementi di instabilità all'interno dell'Impero, essenzialmente. Al termine delle campagne iberiche, Pompeo affronterà infatti prima un guerra contro i pirati illirici (per la quale gli verranno concessi poteri straordinari, come ad esempio la possibilità di esercitare un libero comando militare su tutte le province romane) e successivamente il conflitto, che si trascina peraltro già da alcuni anni, contro Mitridate, re del Ponto.
Entrambe queste guerre inoltre, saranno sostenute con particolare vigore dai ceti equestri e da quelli popolari, interessati a una rapida soluzione dei problemi ad esse sottesi (essendo i loro proventi legati - più o meno direttamente - alle attività commerciali, disturbate tanto dalla pirateria quanto dalle mire espansionistiche di Mitridate).
La nascita del primo Triumvirato (60) è dovuta al rifiuto del Senato di avallare le proposte fatte da Pompeo per un nuovo assetto delle zone orientali (proposte che riguardano essenzialmente la fondazione di tre nuove province: Bitinia, Ponto, Siria), oltre che alla mancata concessione delle terre ai veterani del suo esercito.
Deciso quindi a non agire apertamente contro le istituzioni repubblicane, ma anche a non subire passivamente le decisioni del Senato, Pompeo escogiterà una terza via, chiamata 'Triumvirato', basata su un'alleanza privata con altri due potentissimi esponenti politici di quegli anni, i soli forse che possano competere con lui per influenza e notorietà: ovvero Giulio Cesare e Mario Licino Crasso.
Mentre il primo è un giovane politico emergente di area popolare, imparentato alla lontana con Mario, l'altro è invece un ricchissimo finanziere, un uomo legato agli ambienti romani dei publicani (equestri) di cui è anche uno degli esponenti più in vista e più potenti.
Tralasciando la figura di Crasso, che avrà in realtà un ruolo abbastanza marginale nelle vicende di questi anni, e che morirà durante una campagna militare in Siria presso Carre già nel 53, sono questi a grandi linee gli eventi più significativi tra il 60 e il 56:
· nell'anno del suo consolato, il 59, Giulio Cesare fa approvare i progetti di Pompeo per la modifica dell'assetto orientale;
· promuove due leggi agrarie in favore dei veterani di Pompeo (includendo nelle terre distribuite anche l'agro campano: una zona tradizionalmente del patriziato romano, che nemmeno i Gracchi avevano osato toccare);
· favorisce attraverso vari sgravi fiscali i ceti finanziari più vicini a Crasso;
· assegna infine a se stesso il proconsolato dell'Illirico e della Gallia (Cisalpina e Narbonense), territori su cui costruirà negli anni futuri il suo potere privato.
b) Tra il 58 e il 56 (l'anno in cui viene rinnovato il patto triumvirale), Cesare estende (con il pretesto di difendere e consolidare i confini dei territori già acquisiti) il dominio romano in Gallia a tutta la regione, giungendo perfino a esplorare l'odierna Inghilterra e la Germania. Egli accumula in tal modo un enorme potere personale, data anche la straordinaria ricchezza naturale della zona su cui è ora impegnato.
La potenza di Cesare comincia perciò a far paura tanto a Pompeo quanto al Senato, ciò che finirà col tempo per determinare un loro avvicinamento, a seguito del quale Pompeo si troverà in una condizione molto simile a quella che era stata in precedenza di Silla, a essere cioè il difensore (pur nella propria veste di generale e di uomo di poteri eccezionali) dell'ortodossia romana contro i nuovi venti rivoluzionari e anti-oligarchici.
E' oramai chiaro come il dissidio tra i due potentati, quello di Pompeo e quello di Cesare, non possa negli anni futuri che sfociare in un nuovo conflitto civile. Tuttavia, per il momento, un tale conflitto viene scongiurato attraverso il rinnovo del patto triumvirale, nel 56.
Attraverso tale contratto si decide di ripartire i possedimenti romani in modo equo tra i triumviri: a Pompeo spetta infatti la Spagna (in aggiunta ai domini orientali, su cui ha già esteso le sue influenze); a Cesare spetta per altri cinque anni la Gallia; mentre a Crasso viene assegnata la Siria (regione nella quale morirà nel 53, combattendo contro i Parti).
Tuttavia, mentre Giulio Cesare si trova in Gallia, a Roma il Senato e Pompeo si coalizzano contro di lui, al fine di togliergli il proconsolato della Gallia.
Questi, che nel frattempo è impegnato a sedare la sollevazione di alcune tribù indigene (guidate da un capo gallico, Vercingetorige) su cui riuscirà a trionfare ad Alesia nel 51, tenta contemporaneamente di smorzare la tensione politica col Senato e Pompeo, onde evitare l'inizio di un ennesimo conflitto civile.
Di fronte alla minaccia di venire spodestato dalla propria carica e allontanato dai propri domini, estromesso quindi per sempre dalla vita politica, Cesare è costretto infatti a scegliere la strada del ritorno in Italia. Il dieci gennaio del 49 varca così il Rubicone (il limite estremo del pomerium, cioè l'inizio dei territori italici, e il confine della provincia gallica), per difendere - egli dice - la propria dignità e quella dei tribuni della plebe.
Ha così inizio la terza guerra civile.
Subito dopo la discesa di Cesare in Italia infatti, Pompeo risponde riparando nei territori orientali, laddove sa di avere le influenze politiche e le alleanze più salde, nonché quindi maggiori probabilità di vincere il conflitto.
Tale mossa apparentemente saggia, osteggiata tuttavia da gran parte del Senato (legato tradizionalmente alle regioni occidentali), si rivelerà un errore fatale. Essa darà difatti a Cesare tempo e modo di sistemare le zone occidentali dell'Impero procurandosi la loro fedeltà o comunque la loro neutralità, e d'approntarsi così una discesa sicura verso l'oriente, fattore che gli preparerà la vittoria.
Appena giunto a Roma, Cesare tenta infatti un riavvicinamento col Senato, cercando di giustificare il proprio precedente operato e garantendo la revoca di molti dei passati provvedimenti dei popolari (dei quali Cesare è il principale esponente politico), provvedimenti che decretano tra l'altro la cancellazione sommaria dei debiti: veri e propri 'attentati' contro la proprietà fondiaria.
Nonostante tali disposizioni, i suoi rapporti col Senato rimarranno, anche negli anni futuri, sempre estremamente tesi e difficili (come dimostra anche l'esito della sua vicenda personale). E tuttavia, nell'immediato, egli riesce attraverso esse a diminuire la tensione politica con la nobiltà, ingraziandosi almeno una parte della classe senatoria.
La seconda mossa di Cesare consiste poi nel coprirsi la spalle a Occidente, bloccando i possibili focolai di rivolta in Spagna (un territorio sul quale il suo avversario aveva esteso negli anni precedenti la sua influenza politica). Nel 49 egli guida infatti una campagna che partendo da Marsiglia arriva fino nella Spagna vera e propria, e che si conclude lo stesso anno.
Per conquistare la fiducia delle popolazioni locali egli adopererà, pur nell'azione bellica, molta cautela, limitando il più possibile gli atti di saccheggio e di vandalismo dei propri uomini e moderando le pene inflitte ai vinti.
Infine, nel 48, Cesare raggiunge Pompeo nelle regioni orientali, dove questi lo attende assieme a parte del Senato (quella che, fuggita con lui da Roma, lo ha aiutato a prepararsi ad affrontare la guerra).
Le ostilità si svolgeranno principalmente in Epiro. In una prima battaglia, quella di Durazzo, Cesare uscirà sconfitto, rischiando quasi di perdere la guerra; ma nella seconda e decisiva battaglia di Farsalo, egli riuscirà a piegare definitivamente il nemico e a chiudere lo scontro in proprio favore.
A questo punto egli si trova ad essere in buona sostanza il padrone assoluto dei territori romani, tanto che anche il Senato - seppur controvoglia - si vede costretto a riconoscere la sua autorità.
La vecchia classe dirigente romana, l'aristocrazia che aveva gestito la repubblica per quasi sette secoli, era definitivamente sconfitta. Prima di rassegnarsi ebbe però ancora due sussulti di ribellione. Il primo fu la congiura delle idi di marzo con la quale volle riaffermare il principio a cui si era sempre ispirata: la collegialità del potere e il rifiuto di ogni ipotesi tirannica. Il secondo fu la battaglia di Filippi nella quale gli antichi aristocratici repubblicani, insieme con i loro sostenitori, guidati da Bruto e Cassio, scesero in campo di persona nell'estremo tentativo di recuperare il loro mondo arcaico che l'avvento di gente nuova e di nuove esigenze aveva reso decrepito.
Tentativo disperato e destinato alla sconfitta, che trovò il suo simbolo più appropriato nel suicidio di Bruto, l'ultimo dei repubblicani. Così tramontò la repubblica romana e la sua antica classe dirigente, quella nobiltà che era stata capace di costruire un impero mondiale più grande e più duraturo di quello di Alessandro, ottenendo un successo che nessun'altra élite politica in Europa, per molto tempo a venire, sarebbe mai riuscita ad eguagliare.
Nello stesso anno Pompeo fugge in Egitto, chiedendo asilo e rifugio a Tolomeo XIII, sovrano di tale stato assieme alla sorella Cleopatra, nonchè suo alleato politico (quantomeno fino a prima della sconfitta). Ma, anziché ricevere aiuto e solidarietà, egli viene assassinato a tradimento per ordine dello stesso Tolomeo.
Saputa la cosa Cesare, divenuto oramai 'padrone' anche delle zone orientali, fa destituire Tolomeo dal trono, dimostrando di non gradire un atto tanto scopertamente opportunistico, e celebra la memoria del rivale appena scomparso.
Subito dopo egli si lega a Cleopatra, divenuta sovrana unica dell'Egitto, annettendo all'Impero come zona a protettorato romano anche quest'ultima regione orientale, fino ad allora rimasta indipendente.
Dopo aver annientato tutti i propri nemici sul piano militare, gli rimane però un'ultima (e forse più difficile) impresa: quella di giustificare, alla luce delle tradizioni e della costituzione romane, il proprio pressoché assoluto predominio politico, e ciò sia agli occhi del Senato che del popolo. Egli deve affrontare insomma uno scottante problema, che è stato già dei condottieri-politici (da Mario a Silla a Pompeo) che l'hanno preceduto.
Cesare segnò il tramonto della potenza del senato e l'inizio del trapasso dalla repubblica all'impero (monarchia militare assoluta e divina). Egli aveva in mente un vasto piano di riforme (ad es. concedere alle province la cittadinanza per romanizzare l'impero), ma non poté realizzarle perché morì in una congiura organizzata dai pompeiani (44 a.C.).
Alla morte di Cesare (44), un politico d’orientamento cesariano di nome Marco Antonio, che in quell’anno riveste la carica consolare, cerca – non senza successo – di prendere in mano la situazione di disordine venutasi improvvisamente a creare, colmando il vuoto di potere lasciato dall'anziano generale.
Impugnando il testamento dello stesso Cesare, che egli ha ottenuto dalla moglie di quest’ultimo, Calpurnia, propone ai congiurati (i quali si trovano isolati, privi anche dell’approvazione del Senato) un compromesso estremamente accettabile: la ratifica delle volontà dell’imperatore e la riabilitazione pubblica della sua figura.
Perché accettabile? Perché, essendo i congiurati tutti molto vicini alla propria vittima, le volontà di quest’ultima sono – paradossalmente – ad essi largamente favorevoli.
Sulla base di tale documento si assegnano a Bruto la Macedonia e la Gallia (cisalpina e transalpina), e a Cassio (l’altro grande congiurato) la Siria.
Ma il testamento di Cesare chiama in causa anche un personaggio del tutto nuovo: suo nipote Gneo Ottavio (il futuro Ottaviano) allora diciottenne, il quale vi è designato come figlio adottivo, quindi come erede e successore.
Il giovane Ottavio, che si trova in Oriente per ragioni di studio, tornando a Roma e prendendo il nome di "Gaio Giulio Cesare Ottaviano", dimostra di accettare l’incarico politico che il testamento gli assegna.
Dei due protagonisti della politica dei prossimi anni, la cui rivalità determinerà - attraverso la guerra - la nascita dell’Impero vero e proprio, solo uno è quindi fin dall'inizio un personaggio di pubblico dominio.
Entrambi ‘cesariani’ poi, se l’uno ha il vantaggio di essere un politico già affermato, l’altro ha invece il privilegio di essere l'erede designato di Cesare.
Anche questo secondo scontro per il potere si svolgerà inoltre sullo sfondo della debolezza del Senato, il quale – impotente ad arginare l'ascesa dei due rivali – finirà per porsi sotto l’ala protettrice dell’uno, Ottaviano, contro l’altro.
Con grande acutezza politica, Ottaviano ha infatti pensato da subito a formarsi una vasta e sicura base di consenso politico, presentandosi ai senatori come il paladino delle istituzioni e delle tradizioni romane (conquistando in questo modo per esempio, la fiducia di Cicerone), e al popolo invece come l’erede politico di suo zio, figura da questo venerata al pari di una divinità.
Ma l’appoggio dei ceti popolari e senatori non basta più a governare l’impero: il vero mezzo di dominio è difatti costituito oramai dall’esercito. Ottaviano, che lo sa, se ne crea velocemente uno reclutandone i soldati tra i veterani di Cesare, estremamente preoccupati all’idea di non ricevere dallo Stato le terre che spettano loro per diritto.
Ma anche Antonio sta lavorando per estendere la propria sfera d'influenza politica.
Nel 43 egli tenta infatti di impadronirsi della Gallia cisalpina, regione che egli stesso ha precedentemente assegnato a Bruto. Riuscito nell’impresa, egli verrà tuttavia a propria volta sconfitto presso Modena da Ottaviano, agente peraltro su incarico del Senato.
I due schieramenti si sono quindi ormai definitivamente costituiti: da una parte vi è Cesare Ottaviano, che con l’appoggio e il consenso della nobiltà comanda a Occidente; dall’altra vi è invece Marco Antonio, i cui domini e le cui aree di influenza finiscono inevitabilmente per situarsi a Oriente.
La guerra civile potrebbe forse esplodere già in questi anni, se nell’immediato non ci fossero dei problemi estremamente urgenti, che si possono affrontare e risolvere solamente attraverso una 'collaborazione tra nemici'.
Alla base del secondo Triumvirato – un accordo analogo a quello stipulato nel 59 da Cesare Crasso e Pompeo, anche se contrariamente al primo riconosciuto anche ufficialmente come dittatura collegiale – vi sono due differenti ordini di problemi:
- da una parte vi è il fatto che gli eserciti di Ottaviano, Lepido e Antonio, i tre nuovi Triumviri, stentino a combattersi tra loro (cosa che, pur potendo apparire paradossale, è dovuta a ragioni affettive: tutti e tre infatti sono eserciti cesariani, e come tali si sentono affratellati);
- e dall'altra vi sono delle difficoltà di natura organizzativa, ovvero la necessità di combattere contro nemici comuni la cui presenza ostacola il predominio politico dei triumviri.
Nel 43, l’anno in cui Marco Antonio, Ottaviano e Lepido (quest’ultimo personaggio di secondo piano, in una posizione simile a quella sostenuta da Crasso nel precedente Triumvirato) stringono il loro accordo, sono questi i motivi essenziali di preoccupazione:
- la presenza di Bruto e Cassio, con i rispettivi eserciti, nei Balcani;
- il fenomeno della pirateria mediterranea, guidata da Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno;
- infine, la presenza in Roma di figure politicamente ostili, che costituiscono un elemento di disturbo per l'ascesa politica dei triumviri.
Sia Ottaviano che Marco Antonio debbono affrontare proprio in questi anni - oltre a guerre e difficoltà comuni - anche problemi legati più specificamente ai propri domini e alle proprie aree di influenza.
Se nella zone orientali è sempre vivo il problema dei Parti (il popolo contro il quale Cesare si accingeva a combattere, e contro cui sarebbe dovuto partire da Roma il giorno stesso del suo assassinio); in quelle occidentali Ottaviano si scontra invece col problema costituito dall'assegnazione delle terre ai veterani del suo esercito, un provvedimento che suscita l'opposizione di alcuni influenti personaggi politici romani.
Il problema dei Parti, già costato precedentemente la vita a Licino Crasso nella battaglia di Carre del 53, occuperà Marco Antonio tra il 39 e il 38. L'azione militare di quest'ultimo si concluderà con l'annessione dell'Armenia, una regione-cuscinetto tra le aree ellenistiche e romane e quelle partiche.
Poco dopo aver rinnovato il trattato triumvirale, nel 37, questi inizia inoltre un avvicinamento politico a Cleopatra, la regina d'Egitto.
Il vero e proprio scontro bellico tra le due parti dell'Impero avviene a causa delle richieste politiche fatte dalle regioni orientali a quelle occidentali.
Tali richieste infatti, rivendicanti una maggiore autonomia e un maggior peso politico per l'Oriente, si scontrano con i presupposti stessi della dominazione imperialistica di Roma.
Proprio per questo, sotto la guida di Antonio e di Cleopatra si forma una Confederazione di stati orientali (i quali peraltro accettano pur sempre il legame con l'autorità centrale di Roma), i quali cercano di affermare la propria indipendenza, se non addirittura il proprio predominio, nei confronti delle zone occidentali.
Sarà il tardo Impero - con la propria divisione in due zone indipendenti: una occidentale e l'altra orientale - a vedere effettivamente il trionfo di questa visione politica: una visione che tuttavia, per il momento, costituisce ancora una strada impraticabile. Troppo schiaccianti sono infatti la potenza e la superiorità dell'Occidente e delle sue regioni (più giovani, meglio organizzate e più ricche) rispetto a quelle orientali!
La guerra tra i due eserciti non viene, difatti, praticamente nemmeno combattuta.
Il conflitto si divide essenzialmente in due battaglie: la prima combattuta ad Azio sul mare nel 31, e segnata da una facile vittoria di Ottaviano; l'altra invece, decisiva, combattuta sulla terra ferma presso Alessandria nel 30, e vinta di nuovo da Ottaviano.
Al termine della seconda battaglia Antonio, ormai privo di vie di salvezza, si toglierà la vita, seguito subito dopo da Cleopatra.
In tal modo anche l'Egitto, unica regione asiatica rimasta fino ad allora formalmente indipendente - sebbene già orbitante attorno a Roma - diverrà ufficialmente una provincia romana, mentre, con tale acquisizione, l'Impero giungerà a ricomprendere al suo interno tutte le regioni civilizzate allora conosciute: sia in Europa, sia in Africa, sia in Asia (con l'eccezione delle lontane regioni dell'Impero dei Parti).
Per inquadrare i cambiamenti socio-economici avvenuti nel corso della storia romana - in particolare in riferimento al periodo del passaggio dalla Repubblica all'Impero - dobbiamo tenere conto dell'esistenza di due distinte fasi a livello produttivo e sociale: a) quella 'agricola' e b) quella 'imperialista'.
Nel corso della fase che chiamiamo agricola (e che molto schematicamente possiamo dire giungere fino al termine della seconda guerra punica, nel 202) si ha, all'interno della società romana, un netto predominio dell'aristocrazia terriera.
Al di sotto di questa, si trova la plebe (composta sia da piccoli proprietari che da semplici lavoratori - per la maggior parte giuridicamente liberi - della terra).
Inizia così per Roma una fase del tutto nuova: quella imperialistica.
E per la società romana si aprono nuove prospettive sia di arricchimento che di trasformazione sociale, legate più o meno tutte al predominio militare e politico che essa esercita sui territori sottomessi.
Se il patriziato, attraverso il protettorato di Roma su tali zone, acquisisce nuove terre e nuove ricchezze; la plebe vede invece ampliarsi enormemente gli orizzonti della propria azione: accanto al lavoro agricolo o all'esistenza strettamente urbana, si profilano difatti per lei possibilità quali l'arruolamento nell'esercito (che gradualmente si professionalizza) o il commercio.
Come già è accaduto a Giulio Cesare, anche Ottaviano si trova (una volta divenuto l'uomo più potente di Roma) nell'imbarazzante condizione di dover giustificare la propria posizione di preminenza nello Stato e nell'Impero.
Rispetto a Cesare però, egli gode di un appoggio e di una fiducia molto maggiori da parte delle autorità repubblicane, con le quali ha precedentemente stretto un'alleanza - nata dalla necessità di sostenere una decisa politica anti-orientale - finalizzata alla restaurazione e al consolidamento delle antiche istituzioni patrie contro i venti di rinnovamento che percorrono l'Impero.
Ottaviano tuttavia si trova in una posizione ancora più ambigua rispetto al suo predecessore: se da una parte infatti egli si pone formalmente come il restauratore dell'antica oligarchia senatoria e della tradizione repubblicana, dall'altra e nella sostanza egli inaugura invece una politica radicalmente nuova: una politica che si adatta alla realtà di un Impero divenuto oramai virtualmente universale.
Quest'ultimo si è difatti col tempo trasformato in un'ecumene di popoli e di tradizioni diverse, che trovano in Roma e nell'Italia il proprio centro direttivo, e che comprendono praticamente tutto il mondo civile conosciuto (ad eccezione dei territori partici).
E' appunto in questa mutata situazione che si radicano le ragioni fondamentali della politica esterna e interna di Ottaviano Augusto, politica consistente in:
- azioni militari di mero consolidamento territoriale;
- la rinuncia (o quasi) a qualsiasi velleità espansionistica;
- e l'inaugurazione di un lungo periodo di pace interna (Pax augusta), dopo i molti decenni dominati da guerre civili e da lotte intestine.
Altre innovazioni nell'organizzazione dello Stato dovute a Ottaviano saranno la definitiva trasformazione dell'esercito da mercenario a professionale (cioè stabile), e la nascita del fisco.
Tiberio sale al potere nel 14 d.C., l'anno stesso della morte di Augusto, del quale è stato uno dei migliori e più famosi generali (il primo, forse, dopo Agrippa).
Al momento della sua incoronazione egli è già un uomo maturo, capace quindi di valutare la complessità del ruolo istituzionale che gli viene affidato. Forse anche a questo si deve imputare la politica prudente e (tutto sommato) saggia che seguirà.
Fondamentalmente tale politica sarà una continuazione di quella di Augusto, essendo basata sui seguenti punti:
- il consolidamento dei confini e della pace o sicurezza interna dell'Impero;
- il rispetto formale (e non solo) del Senato e delle tradizioni politiche repubblicane;
- una politica attenta a tutte le diverse identità - sia politiche che culturali - che compongono la stessa compagine romana.
Anche se l'aristocrazia fondiaria non è più l'unica protagonista della vita sociale dell'Impero, essendo oramai inserita in un processo economico molto più ampio che la collega alle città (centri di commercio o di smistamento dei suoi prodotti) e attraverso esse alla realtà globale dell'Impero, tale classe continua a mantenere un ruolo di prestigio sociale incontrastato.
Sul piano militare Tiberio porterà avanti un programma di consolidamento territoriale, sostenendo campagne militari in Germania e Armenia (regione cuscinetto tra Roma e l'Impero partico).
Nel 19 poi si avrà l'annessione della Cappadocia (prima semplice stato vassallo di Roma, situato sul confine occidentale dell'Armenia) ai confini dell'Impero.
Il principato di Caligola sarà estremamente breve: la sua durata infatti sarà di soli quattro anni, dal 37 al 41.
Ciò perchè, come noto, egli cadrà vittima ancora molto giovane di una congiura di palazzo, una congiura guidata dal Senato e messa in atto dal capo stesso dei pretoriani, cioè della guardia imperiale.
Ciò che tuttavia rende importante il suo principato, è il fatto che con esso si inauguri la tradizione dell'assolutismo imperiale, assieme a quella delle follie e dei capricci principeschi, che caratterizzeranno gran parte della successiva storia romana.
Ispirandosi a una visione 'antoniana' dell'Impero, egli tende a parificare politicamente le due zone che lo compongono, smantellando buona parte dei privilegi amministrativi e politici di cui gode l'Occidente nei confronti dell'Oriente, e tentando di instaurare un dominio personale e incontrastato su tutte le regioni imperiali.
Alla morte del giovane Caligola, l'Impero passa a suo zio Claudio.
Costui si distingue per un proprio stile di governo estremamente dimesso, essendo il suo un principato privo o quasi di eventi politici appariscenti. A ciò principalmente è dovuta la bassa stima che i suoi contemporanei tendono a riservargli, oltre che la scarsa risonanza del suo regno presso i posteri.
Eppure, nonostante una tale 'invisibilità', la sua gestione dello stato sarà molto oculata, e perfino astuta.
La politica che egli decide di seguire è fondata essenzialmente sui seguenti assunti:
a) rafforzamento della centralità politica della parte occidentale dell'Impero, oltre che della sua identità culturale e politica;
b) mantenimento di un atteggiamento di rispetto formale nei confronti dell'autorità senatoria (ciò anche attraverso la sua politica culturale, decisamente filo-occidentale);
c) avvicinamento ai ceti possidenti occidentali, attraverso facilitazioni di carattere economico e fiscale.
E' chiaro dunque, già da tali punti come la politica di Claudio si situi su una linea praticamente opposta rispetto a quella del suo predecessore, Caligola.
Altre azioni sostenute da Claudio sono una spedizione in Britannia nel 42 (compimento di quella progettata e mai realizzata da Caligola) e la creazione di alcune nuove province: Tracia, Giudea, Licia e Mauritania.
La politica di Nerone ricorda molto quella di Caligola. Anche lui, come il suo predecessore, si ispira fortemente all'ideale orientalizzante di Alessandro Magno e del dispotismo assoluto. Anche lui tenta di ridimensionare il peso economico e politico delle zone occidentali in favore di quelle orientali. Anche lui basa il suo potere sul consenso delle masse popolari occidentali e su quello delle regioni orientali.
Ultimo elemento di somiglianza, anche Nerone morirà vittima di una congiura, seppure dopo 14 anni di governo.
Nel 54, alla morte di Claudio, sale al potere un ragazzo di 17 anni, figlio di una delle mogli del defunto imperatore: Agrippina. Questi, di nome Nerone, non appartiene neanche alla stirpe dei Claudi, essendo stato adottato da Claudio per ragioni di successione.
Circondato da intellettuali d'orientamento senatorio e nobiliare, come Seneca o Petronio, Nerone seguirà nei primi anni del suo regno una politica piana e senza scosse, coincidente con gli interessi del Senato.
Sarà a partire dal 58 che la sua vera indole inizierà a emergere. In questi anni si consuma infatti la prima rottura col Senato, colpevole di non aver approvato la sua proposta di riforma tributaria.
Tale proposta prevede l'eliminazione delle imposte indirette - ovvero dei dazi doganali -, cioè del protezionismo sui prodotti di produzione occidentale, e in seconda battuta un incremento delle tasse sui ceti più abbienti, al fine di compensare le inevitabili perdite finanziarie.
Come si vede questa proposta, mai approvata, tende a un impoverimento dei privilegi economici dell'Occidente, e contemporaneamente a colpire l'economia dei latifondisti e dei ceti più ricchi occidentali.
Essa è complementare alle larghe spese sostenute da Nerone per spettacoli pubblici e donazioni alla plebe. S'intuisce quindi la matrice populistica del suo governo.
E' ormai la fine: oltre che del Senato e dei nobili occidentali, Nerone ha ormai perduto la fiducia e l'appoggio anche delle province occidentali.
In Gallia scoppiano ribellioni contro il potere di Roma; mentre è dalla Spagna Terraconense e dal capo delle sue truppe, Sulpicio Galba, che inizia la vera congiura anti-neroniana.
Essa coinvolgerà presto anche il Senato romano, costringendo il principe ribelle, oramai isolato, a togliersi la vita.
Dopo un periodo relativamente breve di lotte intestine, tra il 68 e il 69, saranno i Flavi ad affermarsi come nuova dinastia regnante.
Le origini familiari di Tito Flavio Vespasiano, divenuto il nuovo imperatore alla bella età di 69 anni, sono da ricercare all'interno del ceto medio italico. Non quindi figlio di un nobile senatore, ma piuttosto di un esattore imperiale, egli ha seguito la carriera militare ed è divenuto un esponente di punta delle nuove classi dirigenti dell'Impero.
Appartiene insomma, a quei ceti emergenti di estrazione italica e non altolocati, che vanno a comporre i nuovi quadri amministrativi e militari dell'Impero: è dunque un uomo nuovo, espressione dell'organizzazione, che si sta sviluppando e consolidando, della nuova Roma imperiale, divenuta ormai realtà globale.
Come tale egli dedicherà, nel suo principato, un'attenzione particolare alle province, spostando l'interesse dell'Impero dall'Italia verso le sue periferie.
Veniamo ora ai principali eventi politici e militari caratterizzanti il principato di Vespasiano.
Il fatto che Vespasiano provenga dalla regioni orientali dell'Impero (e che sia sostenuto da esse) ingenera il timore in molti di una ripresa della politica ellenistica e filo-orientale dei Caligola e Nerone, e prima di loro di Marco Antonio.
Il nuovo imperatore mostra tuttavia da subito la propria volontà di seguire un indirizzo fondamentalmente filo-occidentale. Lascia difatti a suo figlio Tito, che rimane a oriente, il compito di governare tali regioni secondo dei metodi e una sensibilità ad esse consoni, trasferendosi invece lui nelle regioni occidentali.
Parallelamente peraltro egli aumenta l'influenza a livello politico dei provinciali, estendendo a molti di essi - ad esempio agli Spagnoli - la cittadinanza latina e concedendo loro a volte la stessa cittadinanza romana.
Sul piano espansionistico e militare, fondamentale nel periodo del principato di Vespasiano sarà l'ampliamento dei confini romani in Britannia, attraverso una difficile missione guidata da Agricola (il quale sarà oggetto di uno scritto di Tacito, che ne è anche il cognato).
Vespasiano ha due figli: Tito e Domiziano. Al primo ha affidato la cura delle regioni orientali quando, nel 69, si è trasferito in Occidente per esercitare il proprio ruolo di princeps. Sempre col primo inoltre, ha condiviso la tribunicia potestas, una delle prerogative essenziali della carica del princeps.
E' chiaro quindi come sia Tito - per altro il primogenito - l'erede da lui designato alla successione.
E' difficile tuttavia, data la sua brevità, dare un giudizio equo sul periodo di reggenza di Tito, il quale, salito al potere nel 79, muore dopo solo due anni di governo, appena quarantaduenne.
Altro merito da ascriversi a Tito è l'aver portato avanti (come del resto ha fatto il padre e come farà Domiziano) la guerra in Britannia, e l'essere autore della presa di Gerusalemme nel 70 (quando ancora non è asceso al principato) in veste di generale per ordine del padre.
Vespasiano non aveva mai concesso onori politici rilevanti al suo secondogenito, Domiziano, né aveva mai disposto la sua successione al principato.
Tuttavia, dal momento che comunque quest'ultimo fa parte della dinastia flavia, spetta a lui dopo la morte del fratello, nell’81, la successione. Al momento dell'incoronazione egli ha 30 anni d'età.
Come in precedenza era stato per suo padre, saranno tre i punti attorno a cui ruoterà la sua azione:
1) l'indebolimento dei poteri e delle istituzioni dell'antico Senato e dell'antica nobilitas;
2) il rafforzamento del potere monarchico e del centralismo dello Stato, ovvero la soppressione dei poteri 'altri' rispetto al proprio, rafforzamento quindi degli apparati imperiali e dei nuovi ceti equestri (filo-imperiali);
3) le persecuzioni ai danni dei filosofi (colpevoli di contaminare la cultura occidentale con influenze orientali ed ellenistiche), degli ebrei e dei cristiani, e in generale di tutti gli 'innovatori' sul piano culturale (tra le vittime di tali persecuzioni poi, vi saranno anche elementi della sua famiglia).
La politica anti-senatoria di Domiziano tuttavia, non può non portare alla lunga i suoi amari frutti.
Nel settembre del 96 una congiura di palazzo, alla quale forse partecipa la sua stessa moglie, Domizia (da lui precedentemente ripudiata a causa delle sue simpatie per la nobiltà), porrà fine alla sua vita nella sua stessa camera.
Al posto di Domiziano, i congiurati predispongono la successione di Cocceio Nerva, che da inizio alla dinastia degli Antonini, uomo innocuo per il Senato, date le sue origini nobili e la sua età oramai avanzata.
A conferma della volontà di Nerva di assecondare le forze legate al partito imperiale, possiamo dire che il suo successore - da lui stesso appositamente scelto - è un uomo d'armi la cui carriera è legata essenzialmente all'esercito, e le cui origini inoltre - primo fra tutti gli imperatori romani - non sono né romane né italiche, ma spagnole.
La sua elezione al principato è dunque una chiara riscossa delle forze provinciali, della nobilitas di nuova nomina, degli eserciti e in generale delle forze politico-sociali favorevoli a un orientamento imperialistico e in lotta con quelle tradizionaliste filo-repubblicane.
Traiano passerà alla storia come l'Optimus princeps, ovvero come il migliore imperatore conosciuto da Roma nell'arco di tutta la sua lunga storia.
Le campagne sostenute da Traiano nel corso del suo principato saranno essenzialmente cinque: tra le quali le prima due combattute contro la Dacia.
Mentre la prima campagna (101-102) si concluderà con una sottomissione parziale della Dacia, che - seppure rapidamente 'romanizzata' - non sarà ancora ridotta a provincia romana; la seconda campagna (105-106), che si deve alla ribellione dello stesso re Decebalo, dai romani conservato sul trono al termine del conflitto, si concluderà nel 106 con l'annessione definitiva di tale regione all'Impero.
Una tale annessione inoltre rimpinguerà parecchio le casse dello Stato, essendo la Dacia abbondantemente provvista, tra le altre ricchezze, d'oro (uno dei motivi peraltro alla base di queste guerre!).
Sarà il senatore Elio Adriano, imparentato alla lontana con Traiano, nonchè come questi di origini spagnole, a ereditare il titolo di princeps.
Al momento della morte di Traiano, nel 117, egli si trova in Oriente impegnato in azioni militari, per incarico del suo predecessore.
Solo nell'anno successivo, il 118, Adriano raggiungerà Roma per farsi incoronare ufficialmente dal Senato.
Adottato da Adriano quasi in punto di morte, T. Aurelio Antonino (passato alla storia come il Pio, per l'immagine da lui fornita di se stesso come di un Imperatore interamente dedito al bene dei propri sudditi) ascende al principato nel 138, a quarantadue anni.
Fondamentalmente Antonino non apporta modifiche all'orientamento di Adriano: persegue infatti una politica di pace sia all'interno che all'esterno, e di consolidamento dell'Impero a livello organizzativo.
Essi costituiranno le prime avvisaglie di più ampi movimenti migratori che si verificheranno - come vedremo tra poco - sotto il regno del suo successore, Marco Aurelio, salito al trono nel 161.
Il principato di Marco Aurelio ruota nella sua interezza attorno al problema della sicurezza interna, conoscendo lungo l'arco di tutta la sua durata delle continue invasioni territoriali: prima da parte dei Parti, e successivamente da parte di alcuni popoli germanici (tra cui Quadi, Marcomanni, Jazigi…).
Il suo è dunque (quantomeno nei suoi aspetti più significativi e appariscenti) un periodo di governo essenzialmente militare, anche se ciò non va ascritto all'indole dell'Imperatore (essendo egli al contrario, come tutti sanno, il prototipo stesso dell'Imperatore-filosofo) bensì ad esigenze di carattere difensivo dettate dalle circostanze storiche.
Nel 180, Marco Antonio muore a Vienna, e il principato passa nelle mani di suo figlio Commodo, allora diciannovenne, e che già da anni lo affiancava per altro nella conduzione dell'Impero.
Non si può certo dire - come si evince anche da quest'ultimo punto - che la condotta di governo di Commodo sia responsabile e realistica.
Egli morirà difatti a causa di una congiura perpetrata dagli eserciti provinciali e dal Senato, stanchi di subire la sua condotta priva di regole e gravitante attorno alle sue manie di grandezza.
Una prova evidente dell'accresciuto potere degli eserciti la si ha se si considera la situazione che fa seguito alla morte di Commodo (192), ovvero la lotta per la conquista della carica imperiale.
E' ormai evidente infatti, come gli aspiranti imperatori debbano passare tutti attraverso le 'forche caudine' dell'approvazione e del sostegno dell'esercito (quantomeno di una parte di esso), per potere sostenere una competizione divenuta oramai essenzialmente militare e monetaria.
I pretendenti alla carica suprema sono in questi anni di due tipi: il primo è quello degli italici (Pertinace e Didio Guiliano), ovvero coloro che provengono da regioni che da sempre - per tradizione consolidata - forniscono all'Impero i quadri della classe dirigente.
Essi, per ottenere il titolo augusto, debbono essenzialmente 'comperare' con consistenti donativi la fedeltà dell'esercito dei pretoriani.
Il secondo tipo invece è composto da militari provenienti da regioni più periferiche. Questi ultimi - sostenuti dagli eserciti provinciali, ovvero dalle proprie legioni (ad essi associate da legami di fedeltà, oltre che da interessi politici contingenti) - tentano un'affermazione a livello internazionale. Essi sono: Clodio Albino (comandante delle legioni della Britannia), Pescennio Nigro (comandante delle legioni siriache) e Settimio Severo (comandante delle legioni danubiane, e futuro imperatore).
Questi gli eventi principali della lotta per il potere: nel 192, alla morte di Commodo, è Pertinace ad acquisire il titolo imperiale; solo tre mesi dopo, Didio Giuliano (altro italico) riesce a farlo eliminare dai pretoriani (con la promessa di larghi donativi) e a prenderne il posto; contemporaneamente però si sono creati nelle province anche altri aspiranti imperatori (Albino, Nigro e Settimio) i quali minacciano d'arrivare fino a Roma e prendere di prepotenza il posto di Giuliano.
Sarà Settimio Severo (193) a compiere per primo tale mossa, e a farsi incoronare princeps dal Senato (dopo essersi assicurata la fedeltà dell'esercito del pretorio), iniziando la dinastia dei Severi,
I quattro anni seguenti egli li passerà a lottare contro i propri rivali e i loro sostenitori.
Nel 211 è imperatore Caracalla. E' a una tale esigenza di denaro che molto probabilmente si deve la promulgazione, nel 212, della celebre "constitutio antoniana de civitate", un editto con il quale l'Imperatore concede anche ai sudditi delle province (pur se con alcune eccezioni) la cittadinanza romana. Ma, come già si è accennato sopra, l'Editto del 212 non è soltanto il prodotto di aspirazioni di carattere ideale, bensì anche (e secondo molti prima di tutto) di esigenze finanziarie.
Lo scopo dell'estensione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'Impero, non è infatti solo quello d'ampliarne i diritti, ma anche i doveri - come del resto prova il fatto che esso estenda a tutti i suoi sudditi il dovere di pagare le imposte sulla successione e quelle sulla manomissione (l'atto con cui vengono affrancati gli schiavi).
Un tale diritto di cittadinanza universale, dunque, non comporta vantaggi soltanto per i neo-cittadini, ma anche per lo Stato romano.
Nel 217, Macrino, facendosi incoronare imperatore dagli eserciti senza neanche attendere la conferma del Senato, dimostra subito di confidare totalmente nella solidarietà e nell'appoggio di questi ultimi.
Tuttavia egli non riuscirà a conservarsi nemmeno il loro favore, probabilmente a causa di una pace ingloriosa e onerosa stipulata con il regno dei Parti, un atto non approvato dalle truppe; verrà ucciso perciò da queste ultime dopo solo pochi mesi di governo.
Al suo posto viene allora eletto imperatore Eliogabalo, allora quattordicenne, per iniziativa della nonna Giulia Mesa, la quale sostiene tra le milizie orientali un'ampia campagna in suo favore.
Gli eserciti inoltre lo acclamano imperatore anche per i vincoli di parentela che egli riveste con Settimio e Caracalla, della cui dinastia si pone come continuatore.
L'interesse del suo regno è essenzialmente di carattere culturale e religioso.
Ciò che lo caratterizza infatti è un ambizioso tentativo di rinnovamento dell'Impero sia a livello religioso, sia a livello di classe dirigente. Ma sarà proprio un tale ambizioso progetto a perderlo, risultando inaccettabile agli occhi della classe politica romana. Verrà ucciso infatti - come Caracalla - dai pretoriani nel 222.
Salito al potere ancora molto giovane, all'incirca alla stessa età di suo cugino Elagabalo (che lo ha adottato nel 211), Alessandro governerà comunque molto più a lungo di questi, anche probabilmente grazie alla propria istintiva disposizione a piegarsi ai desideri della classe dirigente romana e occidentale.
I cento anni che vanno dalla fine del regno di Alessandro alla fine di quello di Costantino, segnano la sconfitta definitiva dell'idea di Impero quale era stata concepita da Ottaviano Augusto e dai suoi successori (compresi Traiano e Adriano), idea che già aveva iniziato a vacillare con l'esasperata militarizzazione iniziata sotto la reggenza di Settimio Severo. Tale idea si basava infatti sul presupposto che l'Impero dovesse fondarsi sulla collaborazione tra il princeps (capo supremo) e le varie forze politico-economiche interne (sia su quelle locali - come mostra l'estensione delle cariche a tutti i provinciali - sia, in generale, sui ceti più ricchi e influenti: ovvero i nobili e gli equestri). Ma ora, invece, che le frontiere sono sempre più sovente minacciate da popolazioni barbariche o da altri nemici, che la ricchezza e la produttività interne (per vari ordini di ragioni) conoscono una drastica diminuzione, e che praticamente tutte le energie dello Stato vengono indirizzate - al fine di mantenere integri i confini - al sostentamento e al potenziamento delle milizie, sono queste ultime inevitabilmente a dettare legge anche sul piano istituzionale.
Primo imperatore dopo la morte di Alessandro (236) è Massimino, soldato di umilissime origini proveniente dalla Tracia (si crede addirittura che egli provenisse da una famiglia 'dediticia', di quelle cioè cui pur dopo l'editto di Caracalla del 212 non era stata riconosciuta la cittadinanza romana).
Il fatto che un uomo non nobile, la cui carriera è interamente legata all'esercito (avendo egli con ogni probabilità iniziato dai ranghi più bassi), abbia potuto divenire il capo supremo dell'Impero, la dice lunga su quali siano in esso le nuove tendenze politiche: è oramai chiaro infatti che il potere reale è detenuto sempre di più dai sodati, anziché dai nobili senatori o dai ricchi finanzieri (come, per lo più, è avvenuto fino al tempo di Traiano e Antonio Pio).
Anche il regno di Massimino avrà - come molti tra quelli che l'hanno preceduto e che lo seguiranno - breve durata, giusto il tempo di portare a termine la guerra, proditoriamente interrotta dal suo predecessore, contro i popoli Germanici sul fronte danubiano.
Gli anni del suo principato si distinguono inoltre per alcuni episodi di ribellione interna, segno delle tendenze disgregatrici dell'Impero: nel 238 le province africane (da sempre un "feudo" dei nobili e dei senatori) in rivolta contro la politica fiscale di Massimino, volta in massima parte a compiacere l'esercito, ma per loro estremamente penalizzante, eleggono a nuovo imperatore Gordiano I (cui questi associa il figlio, Gordiano II).
E dopo che questi, dopo soli pochi mesi, viene sconfitto e ucciso da uomini fedeli a Massimino, il Senato a sua volta eleggerà altri due imperatori (due, come i consoli), Pupieno e Balbino, con l'appoggio per altro dell'esercito del pretorio. Sarà quest'ultimo a affrontare e sconfiggere Massimino e a instaurare un nuovo princeps: Gordiano III.
Poco dopo essere stato eletto imperatore con l'approvazione del Senato dall'esercito dei pretoriani (238), il giovanissimo Gordiano III - al quale si affianca come tutore e consigliere il prefetto del pretorio Temesiteo - decide di affrontare l'Impero Neo-persiano (ovvero l'antico Regno dei Parti, ora rinato sotto una nuova dinastia, quella Sasanide) alla cui testa si pone Sapore I.
Nel corso dell'impresa tuttavia, Temesiteo verrà a morte e sarà perciò sostituito da un nuovo prefetto, M. Giunio Filippo (che passerà alla storia come Filippo l'Arabo), il quale tradirà il principe e ne prenderà il posto (244).
Filippo stripulerà una pace con i Persiani, affrettandosi a raggiungere poi i confini settentrionali della Dacia, per combattere i tentativi di invasione dei Carpi.
Anche lui verrà tradito e ucciso (249) da colui che ne diverrà il successore, ovvero da C. Messio Decio, il comandante delle legioni stanziate in Pannonia.
Quello di Decio sarà un regno particolarmente breve (di soli due anni), e tuttavia significativo: si distinguerà infatti per persecuzioni contro i cristiani particolarmente severe e spietate. Le ragioni di tale scelta sono fondamentalmente di due tipi: da una parte vi è l'ormai cronica deficienza di fondi dello Stato; dall'altra, invece, vi è una politica di rafforzamento dell'autorità imperiale attraverso il culto dell'Imperatore, collante fondamentale (almeno nelle intenzioni di Decio) di un Impero che mostra sempre più chiari segni di disfacimento.
La morte di Decio si colloca nell'anno successivo, il 251, e avviene mentre questi combatte contro i Goti in Mesia, a causa del tradimento del comandante in carica delle truppe di quella regione, Treboniano Gallo, suo successore.
Anche questi poi morirà (solo due anni dopo), mentre combatte in quelle zone, per un analogo tradimento da parte del suo luogotenete, Emiliano, il quale resterà in carica però solo per tre mesi, al termine dei quali l'esercito porrà fine al suo mandato.
Nel 253 giunge al potere P. Licio Valeriano, l'uomo a cui Decio aveva affidato la gestione finanziaria dell'Impero (vir consularis), al fine molto probabilmente di potersi occupare più intensamente delle questioni difensive e militari.
Il suo passerà alla storia come il primo principato romano in cui, da implicita, la scelta di dividere l'Impero in due regioni indipendenti è divenuta esplicita.
Appena giunto a Roma difatti, Valeriano affida al figlio Gallieno il titolo di Augusto (in pratica la coreggenza) assieme alla parte occidentale dell'Impero, spingendosi invece lui in oriente, funestato in quegli anni sia dalle invasioni dei Goti in Asia minore, che dagli attacchi del Re neopersiano Sapore nell'estremo est.
Dopo aver sconfitto i Goti, Valeriano inizierà così una guerra contro il regno Persiano, nel corso della quale cadrà prigioniero del re Sapore, trovando la morte lo stesso anno (260), e lasciando così a suo figlio la reggenza di tutto l'Impero.
Negli anni precedenti la cattura di suo padre, Gallieno ha dovuto affrontare e sconfiggere non solo gli Alamanni e i Franchi.
E anche se ufficialmente, dopo la scomparsa di Valeriano, egli rimane il solo reggente della compagine imperiale (tornando così quest'ultima alla situazione precedente la divisione tra Occidente e Oriente) la sua è, in realtà, una supremazia più teorica che reale, dal momento che tanto a ovest quanto a est si sono formati dei regni che dichiarano la propria indipendenza da Roma.
Nelle zone occidentali è nato difatti quello che si autodefinisce il "Regnum Gallicum", alla cui testa si pone un certo Postumo (e la cui esistenza peraltro si prolungherà ben oltre il principato di Gallieno); in quelle orientali invece - dopo la scomparsa del reggente ufficiale - un certo Macriano, ufficiale dell'esercito di Valeriano che si è posto alla giuda delle truppe superstiti, ha preso in mano la situazione.
Entrambe queste manifestazioni di indipendentismo derivano, in massima parte, dalla sensazione di lontananza del potere centrale e dall'esigenza quindi di provvedere con mezzi propri alla difesa. Per arginare le spinte autonomiste delle zone orientali, Gallieno cerca allora l'alleanza di Odenato, un nobile di Palmira, città carovaniera estremamente ricca e potente (punto di snodo per i traffici tra l'Impero e le zone interne dell'Asia) dotata di un forte esercito. Per ottenere l'alleanza di Odenato Gallieno promette a quest'ultimo vari privilegi, ad esempio una specie di sovranità sulle zone orientali (egli verrà così eletto Dux Orientis) e la riscossione di dazi doganali sulle merci in transito nei suoi territori.
Tale compromesso avrà buon esito, ma favorirà anche la nascita (seppure non ufficiale) di una potenza autonoma rispetto al dominio di Roma, la quale finirà per creare all'Impero problemi analoghi a quelli creati da Macriano.
In merito all'amministrazione delle province invece, decide di reclutarne i prefetti militari non più solo tra i senatori (cui tradizionalmente esse erano affidate), ma anche tra i centurioni - in altre parole, anche tra uomini di origini umili che abbiano seguito la carriera militare.
Morirà nel 268 per una congiura militare ordita da alcuni ufficiali illirici (tra cui compaiono i due futuri imperatori: Claudio e Aureliano). Con lui Roma perderà non solo un grande generale, ma anche un grande imperatore.
Dopo la morte di Gallieno (268), sale di nuovo al potere un militare, M. Aurelio Claudio, proveniente dalle zone illiriche.
Questi si impegna da subito nell'arginare le incursioni gotiche nei territori balcanici, in cui tali popoli scorrazzano liberamente, alla ricerca di una sistemazione stabile.
Ma anche i due domini indipendenti, quello gallico e quello palmirense, subiscono in questi anni dei cambiamenti, con la morte di Postumo nel primo e di Odenato nel secondo, e il passaggio dei poteri rispettivamente nelle mani di Pio Tetrico e di Zenobia.
Entrambi questi stati autonomi (per altro perfettamente organizzati, dotati ad esempio di un loro governo, di un loro senato, e anche - a volte - di una propria moneta) costituiscono per l'Impero una vera e propria spina nel fianco, sia dal punto di vista del prestigio che da quello della solidità politica e territoriale. E per tale ragione Aureliano, il successore di Claudio, non tarderà a sbarazzarsene.
Salito al potere nel 270, L. Domizio Aureliano inizia infatti subito un'opera di riorganizzazione dell'Impero, per la quale passerà alla storia come il "Restitutor Orbis" (ovvero come colui che ha ridato al mondo la sua 'giusta forma'). Egli si sposta nelle zone orientali, con l'obiettivo di riconquistare i territori che il neonato Regno palmirense ha sottratto a Roma (tra essi compare anche l'Egitto). Tra 271 e 273, riuscirà a riconquistare tali territori e a sconfiggere la potenza nemica, coronando la riconquista con la distruzione completa della città di Palmira, e acquisendo così il titolo di "Restitutor Orientis".
Tornato in Occidente, Aureliano si cimenta infine nell'ultima grande guerra, quella contro il Regno gallico, sconfiggendo Pio Tetrico e acquisendo un nuovo titolo onorifico, quello di "Restitutor Orbis".
Dopo la sua morte, il potere passerà - prima dell'elezione di Diocleziano - ad altri tre imperatori: M. Claudio Tacito (il quale si dichiara imparentato alla lontana con il più celebre scrittore e storico), M. Aurelio Probo e M. Aurelio Caro.
Tutti fondamentalmente insignificanti, essi si impegneranno, come del resto i loro predecessori, nell'arginare il dilagare dei nemici alle frontiere, sia quelle occidentali che quelle orientali.
I cinquant'anni di anarchia militare hanno dimostrato a tutti come il principale nemico dell'ordine interno e della stabilità politica dell'Impero sia costituito - oramai - dagli eserciti.
Ma per ottenere un tale obiettivo non vi è, allo stato attuale, che una via: quella di frazionare l'autorità somma dell'Imperatore in una pluralità di poteri, capaci (seguendo un fine comune e concertato) di porre in atto un'opera di mantenimento della compagine imperiale, impedendone la divisione in sotto-stati e soprattutto in stati indipendenti.
Nel 284 è imperatore Diocleziano. Una delle prime decisioni prese da Diocleziano è quindi quella di incoronare Augusto un altro condottiero, un certo Massimiano - anch'egli come lui di origini illiriche, nonchè come lui uomo di umili natali - per avere avuto il merito di sedare tali rivolte.
Per tale ragione, nel 290 Massimiano e Diocleziano optano per una soluzione ancora sconosciuta alla storia di Roma, la scelta tetrarchica, dividendo ulteriormente i loro poteri con l'elezione ciascuno di un proprio "vice". Ne risulta così uno Stato retto contemporaneamente da due Augusti (dei quali Diocleziano si pone come quello superiore) e da due Cesari, nelle persone di Galerio (vice di Diocleziano) e di Costanzo Cloro (vice di Massimiano).
Nel 305, allo scadere cioè dei vent'anni del proprio principato, Diocleziano stabilisce (in linea con le decisioni prese all'inizio della Tetrarchia) di abdicare e porre fine alla propria reggenza, convincendo il suo socio Massimiano (seppur con difficoltà) a fare lo stesso.
Nel 305 è appena avvenuta la proclamazione dei due nuovi Augusti (Galerio e Cloro) e dei due nuovi Cesari (rispettivamente, Massimino Daia e Severo).
Nel 306 Costanzo Cloro muore, e lascia così vacante il posto di Augusto occidentale. Di una tale situazione ovviamente approfitta subito suo figlio Costantino, facendosi proclamare Augusto dalle truppe stanziate in Britannia.
Tuttavia Galerio, erede di Diocleziano e quindi capo supremo della Tetrarchia, si oppone a una simile soluzione innalzando alla carica di Augusto Severo (insediato fino ad allora nelle zone sud occidentali come Cesare) ed eleggendo Costantino Cesare occidentale.
Nel 307 scende in campo anche Massenzio, il quale appoggiato dai pretoriani e richiamando inoltre il padre Massimiano nell'agone politico e militare, si appropria della corona di Severo ingaggiando contro questi battaglia e sconfiggendolo.
Dopo la sua cattura e uccisione, Massenzio regna (assieme a Massimino) sulle zone sud occidentali, pur non essendo tale potere né gradito né riconosciuto da Galerio.
L'anno successivo Galerio decide perciò di passare all'attacco e di sfidare Massenzio e Massimiano sul loro stesso terreno. Egli avrà tuttavia la peggio.
Questo indurrà lo stesso Diocleziano (che, soddisfatto del suo esilio dorato nel suo palazzo di Spalato, non rimpiange affatto, a differenza di Massimiano, la vita militare e non ha nessuna intenzione di tornare a governare) a intervenire, eleggendo contro gli usurpatori un nuovo Augusto, tale Licinio, cui viene affidato il compito di combattere Massenzio.
Licinio però rinuncerà da subito a combattere i suoi avversari, accontentandosi di governare su una ristretta zona balcanica.
Ora, tuttavia, anziché quattro, sono cinque i sovrani: Massenzio governa sull'Europa meridionale (di fatto, se non ufficialmente), Costantino su quella settentrionale, Licinio sulle regioni della Pannonia, Galerio sulle restanti zone balcaniche, Daia infine su quelle dell'estremità orientale.
In seguito a dissapori esplosi tra Massenzio e Massimino, quest'ultimo verrà costretto a fuggire dall'Italia e cercherà rifugio presso Costantino, il quale tuttavia lo farà imprigionare e lo costringerà al suicidio (310).
Nel 311 muore anche Galerio; ma, poco prima di lasciare il mondo, egli decide (forse per paura della divina collera) di revocare quegli editti di persecuzione verso i cristiani che lui stesso aveva promulgati nel 303 e che avevano dato inizio a un nuovo periodo di persecuzioni.
Nel 312 finalmente, dopo un lungo periodo di preparazione, Costantino ingaggia battaglia contro Massenzio, sconfiggendolo presso il Ponte Milvio e divenendo in tal modo l'unico imperatore delle zone occidentali - primo passo verso la realizzazione di un progetto più ambizioso: la conquista anche dei territori orientali.
Nel 313 Costantino tenta un avvicinamento politico a Licinio, con il matrimonio di quest'ultimo con sua sorella Costanza, e con la promulgazione comune presso Milano di un editto di tolleranza religiosa, teso essenzialmente a sospendere ogni ostilità da parte dello Stato romano nei confronti delle comunità cristiane (editto che riprende e sviluppa quello, del 311, di Galerio).
Ma questa decisione non è casuale: a partire dalla battaglia del Ponte Milvio infatti, si ha notizia di una conversione di Costantino al Cristianesimo, un evento che - seppure non meramente politico, in quanto riguarda anche la sfera delle convinzioni personali dell'Imperatore - prelude a una nuova alleanza tra lo Stato e la Chiesa cristiana, e avrà per il futuro dell'Impero conseguenze di enorme portata.
Sempre nel 313 Massimino Daia, reagendo a quella che sente - e non a torto - come una rottura degli equilibri politici a proprio sfavore, attacca Licinio.
Sconfitto presso Adrianopoli, egli lascerà così l'Impero nelle mani di due soli reggenti, Licinio e Costantino appunto. Data inoltre l'ambizione di quest'ultimo, è certo che una tale situazione non possa essere considerata definitiva.
Nel 316 si ha così la prima avvisaglia dei futuri conflitti tra i due Augusti. Nel corso di una battaglia Costantino si appropria di parte dei territori balcanici del suo avversario, volgendo in proprio favore la situazione.
Ma sarà sul piano della propaganda religiosa che si giocherà la carta decisiva e finale del conflitto. Costantino difatti accuserà (ingiustamente!) il proprio nemico di portare avanti una politica persecutoria nei confronti della Chiesa cristiana, e si proporrà così come difensore dei cristiani orientali.
La guerra vera e propria poi scoppierà nel 323, concludendosi l'anno seguente. Pretesto di essa, sarà un'intromissione momentanea di Costantino nei territori di Licinio a fini puramente difensivi (egli infatti sta combattendo una guerra contro i Goti).
Nel 324 infine, Licinio subirà la sconfitta definitiva presso Crisopoli, e verrà costretto dal vincitore a ritirarsi a vita privata, per poi essere assassinato l'anno seguente.
In questo modo, Costantino diviene Imperatore unico di Roma e può dare inizio a una nuova fase della sua storia: l'ultima, quella cristiana.
A coronamento della grande trasformazione dell'Impero da lui stesso inaugurata, ma anche della tendenza dei sovrani - in atto oramai da decenni - a disinteressarsi alla capitale storica, Roma [si ricordi, per esempio, che Diocleziano l'ha visitata solo una volta nel corso del suo mandato], Costantino fonderà e inaugurerà tra il 324 e il 331 una nuova città, Costantinopoli, seconda capitale - e a prevalenza cristiana - dell'Impero.
Posta in un punto strategico (laddove cioè sorgeva la vecchia città di Bisanzio, collocata in un punto di snodo tra le zone d'Oriente e quelle d'Occidente), essa diverrà in futuro la capitale dell'Impero Bizantino, il quale sopravviverà per più di mille anni al suo 'gemello' occidentale.
La morte, inaspettata, di Costantino, nel 337, scatena da subito un problema antico, quello della successione.
L'anziano imperatore infatti, per ragioni in parte misteriose, non si è preoccupato di designare alcun successore, lasciando così implicitamente ai figli la possibilità di spartirsi i territori imperiali, secondo una soluzione di potere di tipo 'pluralista' che è stata estranea alle sue scelte politiche.
Dei suoi tre figli, soltanto il più giovane, Costante, rimarrà inizialmente escluso dal titolo di Augusto, andando infatti la parte occidentale a Costatino (II) e quella orientale a Costanzo (II).
La morte improvvisa - e forse violenta - di Costantino, farà tuttavia di Costante l'erede dell'Occidente (340).
Ma tra tutti i personaggi di questi anni, è senza dubbio la figura di Giuliano (detto l'Apostata, a causa della sua scelta di ripudiare quell'indirizzo filo-cristiano che l'Impero ha oramai definitivamente preso) a emergere, sia per l'originalità delle proprie vedute che per la propria abilità militare.
Eletto da Costanzo II Cesare delle Gallie, col compito di tutelarne l'integrità territoriale contro i tentativi di penetrazione dei popoli germanici (Alamanni e Franchi), Giuliano darà subito prova delle proprie capacità militari ottenendo più di un successo, e guadagnandosi così anche la fiducia e l'approvazione delle popolazioni indigene locali.
Gli eventi che porteranno Giuliano a divenire Imperatore unico, passeranno attraverso lo scontro con Costanzo II, avvenuto a causa di una richiesta di quest'ultimo non soddisfatta dal giovane Cesare.
Impegnato sul fronte orientale, difatti, Costanzo richiederà a Giuliano un massiccio invio di truppe, al fine di poter sferrare un nuovo attacco contro la potenza persiana. Al rifiuto di Giuliano - dovuto sia alla propria volontà, temendo egli molto probabilmente di rimanere sguarnito militarmente sul proprio fronte, sia a quella delle sue truppe - l'Imperatore Costanzo reagirà entro breve tempo con una vera e propria dichiarazione di guerra, muovendo poi incontro al suo rivale.
Una battaglia, quella tra i due duci romani, che tuttavia non verrà mai combattuta, a causa della morte di Costanzo nel 360 a soli 34 anni d'età.
Dopo tale evento, dunque, l'Impero passerà nella sua interezza nelle mani di Giuliano, che potrà così finalmente portare avanti a livello globale i suoi progetti di riforma.
Nei due anni del proprio principato infatti (361-363), egli condurrà una politica fondamentalmente anti-cristiana sul piano religioso e tradizionalista su quello economico e politico, che gli frutterà peraltro l'odio della Chiesa e, con esso, il soprannome di Apostata (cioè di rinnegato).
Dopo la morte di Giuliano, avvenuta nel corso di una campagna contro i Parti, è un personaggio della corte, Gioviano, a prenderne il posto; questi governerà per soli tre mesi, facendo però a tempo a concludere una pace con l'Impero partico.
Dopo Gioviano, il potere supremo passerà a Valentiniano (364-375), il quale sceglierà di dividerlo con il fratello Valente (364-375), assegnando a se stesso la parte occidentale e a suo fratello quella orientale (la cui capitale è divenuta oramai Costantinopoli).
Successivamente egli assocerà al titolo imperiale anche il figlio sedicenne Graziano (367-383), dimostrando in tal modo come anche la soluzione diarchica sia oramai superata in favore di un altro tipo di divisione, dettata essenzialmente dalle esigenze del momento.
Alla morte di Valente, rimasta vacante la reggenza in Oriente, Graziano affiderà quest'ultima (379) a un certo Teodosio, un valoroso generale, figlio di un ufficiale che si era a sua volta distinto in Britannia al servizio di Valentiniano.
L'azione di quest'ultimo seguirà essenzialmente le seguenti fasi: in una prima (380) egli riguadagnerà a Roma quelle regioni danubiane che erano andate perdute subito dopo la battaglia di Adrianopoli (arruolando poi un grande numero di elementi barbarici tra i reparti militari di frontiera, e permettendo inoltre a essi di insediarsi stabilmente in alcune regioni definite dell'Impero); in un secondo momento egli si impegnerà in un'opera di radicamento ulteriore della Chiesa all'interno dello stato imperiale (nel 382 per esempio, egli proibirà la pratica dei culti pagani in luoghi pubblici, mentre nel 394 estenderà tale proibizione anche ai luoghi privati); infine tra il 388 e il 394 combatterà e sconfiggerà due usurpatori del trono imperiale.
Teodosio morirà nel 395, essendo stato in realtà Imperatore unico ufficialmente soltanto nel breve periodo che va dal 394 al 395, ma avendo in pratica dato all'Impero un'impronta decisiva per ciò che riguarda i decenni futuri.
Alla sua morte, inoltre, quest'ultimo sarà - per la prima volta - diviso in due parti indipendenti: quella occidentale retta da Onorio e quella orientale retta da Arcadio.
Testi concessi da www.homolaicus.com e www.tuttostoria.net, oltre che originale di Giuseppe Antonelli

Impero romano d’occidente
L'Impero Romano d'Occidente fu la parte occidentale dell'Impero Romano, che ebbe breve vita dal 395 (quando, con la morte di Teodosio I, questi diede la metà occidentale dell'Impero al figlio Onorio e quella orientale all'altro figlio Arcadio) al 476, quando Odoacre depose l'ultimo imperatore Romolo Augusto.
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Impero romano d’oriente
Alla sua morte nel 395 Teodosio I affidò la parte orientale dell’impero a suo figlo Arcadio, imperatore dal 395 al 408.
Con la restituzione nel 476 delle insegne imperiali all'imperatore d'Oriente, Zenone I, da parte del re degli Ostrogoti, Odoacre, che aveva deposto l'ultimo imperatore d'Occidente, Romolo Augustolo, l'Impero d'Oriente fu l'unico a sopravvivere.
Con Giustiniano I, imperatore dal 527 al 565, si assiste all'ultimo tentativo di riconquistare le regioni occidentali, per ristabilire l'unità dell'Impero Romano (renovatio imperii). Tale tentativo fu coronato da un parziale, anche se effimero, successo. Sotto il comando dei generali Belisario e Narsete, i Bizantini riuscirono a riconquistare le provincie dell'Africa Settentrionale (530), parte della Spagna e, al termine della sanguinosissima guerra greco-gotica (535-557) combattuta contro gli Ostrogoti, l'intera Italia. L'Impero raggiunse in questo periodo la sua massima espansione territoriale. Giustiniano aggiornò l'antico codice legale Romano nel nuovo Corpus iuris civilis, anche se è da notare che queste nuove leggi erano ancora in massima parte scritte in latino, un linguaggio che stava diventando desueto e poco compreso al di fuori dell'ambito giuridico e della corte (all'epoca ancora bilingue). Si ritiene che anche alcuni redattori del nuovo codice avessero una conoscenza superficiale del latino.
Nel 568, i Longobardi di Alboino conquistarono la maggior parte dell'Italia del Nord. Inoltre l'inaspettata apparizione degli appena convertiti ed uniti arabi musulmani colse Eraclio, imperatore dal 610 al 641, di sorpresa, e le province meridionali vennero invase. Mesopotamia, Siria ed Egitto vennero permanentemente incorporate nel Califfato musulmano a partire dal VII secolo.
Ciò che l'Impero perse in territorio, lo guadagnò in uniformità. Eraclio ellenizzò completamente l'Impero rendendo il greco la lingua ufficiale, e prendendo il titolo di Basileus ("Re") invece del vecchio termine romano Augustus.
L'Impero raggiunse il suo apice sotto gli imperatori macedoni, tra la fine del IX e l'inizio dell'XI secolo. Durante questi anni l'Impero resistette alla pressione della Chiesa Romana per rimuovere il Patriarca Fozio e guadagnò il controllo del Mare Adriatico, parte dell'Italia e molti dei territori in mano ai Bulgari. Questi vennero completamente sconfitti da Basilio II nel 1014. L'Impero si guadagnò anche un nuovo alleato (ma talvolta anche un nemico) nel nuovo stato russo di Kiev, dal quale l'Impero ricevette un importante forza mercenaria, la Guardia Variaga.
Federico Barbarossa tentò di conquistare l'Impero durante la Terza Crociata, ma fu la Quarta che ebbe gli effetti più devastanti sull'Impero. Anche se l'intento della crociata era di conquistare l'Egitto, sotto l'influenza dei Veneziani, la crociata espugnò Costantinopoli (sotto il comando del marchese del Monferrato) nel 1204. Come risultato venne fondato un regno feudale di breve durata, l'Impero Latino (vedi Battaglia di Adrianopoli), e il potere bizantino venne indebolito permanentemente.
Dall'Impero Latino scaturirono tre stati bizantini - Impero di Nicea, Epiro e Trebisonda. Il primo, controllato dalla dinastia dei Paleologi, riuscì a reclamare Costantinopoli nel 1261 e sconfisse l'Epiro, rivitalizzando l'Impero ma dando troppa attenzione all'Europa quando le province asiatiche erano la preoccupazione principale.
L’Impero si appellò all’occidente in cerca di aiuto, però i diversi stati europei misero come condizione la riunificazione della Chiesa Cattolica e di quella Ortodossa. L’unità delle Chiese fu considerata, e occasionalmente imposta legalmente, eppure i Cristiani Ortodossi non accettarono il Cattolicesimo romano. Alcuni combattenti occidentali arrivarono in aiuto di Bisanzio, ma molti preferirono lasciar l’Impero soccombere, e non fecero niente quando gli Ottomani conquistarono i territori rimanenti.
Costantinopoli fu in principio risparmiata grazie alle sue possenti difese, però, con l’avvento dei cannoni, le mura (che furono impenetrabili tranne durante la Quarta Crociata per oltre 1000 anni) ora non offrivano più una protezione adeguata di fronte ai turchi. La caduta di Costantinopoli alla fine arrivò dopo un assedio di due mesi, comandato da Maometto II Martedì 29 maggio 1453. L’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI Paleologo, fu visto per l’ultima volta quando entrava in un combattimento contro i giannizzeri ottomani, che avanzavano pericolosamente. Maometto II conquistò anche Mistra nel 1460 e Trebisonda l’anno dopo ponendo alla fine lo stato greco.
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La dominazione germanica
Nel 476 lo sciro Odoacre, che comandava un’armata di mercenari eruli depose l’ultimo imperatore d’Occidente e decise di non nominarne un altro, come avevano fatto i suoi predecessori con gli ultimi nove imperatori romani. Regnò come ‘’rex gentium’’ – una formula del tutto nuova – teoricamente alle dipendenze di Zenone, sovrano d’Oriente. Governò per diciassette anni, servendosi del personale amministrativo romano, e lasciando libertà di culto ai cristiani. Combatté i Vandali che occupavano la Sicilia, nonché altre tribù germaniche che tentavano irruzioni in Italia.
Ma nel 489 Zenone volle far sloggiare gli Ostrogoti dalla zona del Danubio e li inviò in Italia, dove, dopo cinque anni di guerra, il re goto Teodorico riuscì ad uccidere Odoacre. Così dopo il dominio degli Eruli fu la volta dei Goti. Anche Teodorico, che aveva vissuto a lungo a Bisanzio, regnò servendosi del personale romano, ma alla fine della sua vita lanciò una persecuzione nei confronti dei cristiani uccidendo anche Severino Boezio. Regnò per più di trent’anni lasciando un solido Stato a suo figlio Atalarico (526-534).
Nel 535 il nuovo e ambizioso sovrano bizantino Giustiniano (527-565) prese di mira la penisola nel suo tentativo di ricomporre l’unità dell’impero romano. Da lì iniziò la lunga guerra gotica, che per oltre quindici anni infuriò in Italia, devastando quanto non era stato ancora distrutto dalle invasioni barbariche. Roma dopo quattro assedi consecutivi era ridotta a poche migliaia di abitanti e per di più, dopo tre secoli, fece la sua ricomparsa la peste. La situazione era davvero drammatica, ma divenne tragica quando una nuova invasione di un popolo germanico toccò l’Italia intera.
I goti erano ormai annientati, ma i bizantini non riuscirono a fermare l’avanzata di una nuova tribù germanica, che in pochi anni scorazzò per tutto il nord Italia, conquistando anche la Toscana e buona parte del centro-sud. I Longobardi erano di religione ariana, non riconobbero l’autorità imperiale, saccheggiavano tutto quello che potevano e rendevano schiavi i vinti. I primi due re, Alboino (? -572) e Clefi (572-574) furono presto assassinati. Poi si ebbero dieci anni di anarchia, in quanto i duchi si facevano guerra fra loro. La penisola era però irrimediabilente frazionata in tre zone di influenza: longobarda, romana e bizantina.
Ne approffitò il papa che nel frattempo si era alleato coi Franchi, che avevano capito che solo dal papa poteva venire la legittimazione delle loro conqusite. Ma i longobardi respinsero i tentativi franchi e con i nuovi re Agilulfo (590-616) e Rotari (636-652) conquistarono ai bizantini l’Emilia, la Liguria e il Veneto interno. In breve dovettero cercare anch’essi una forma di dominio più organizzata, espressa dalla formulazioni delle prime leggi scritte e dalla creazione dei gastaldi, funzionari regi con compiti di giustizia e supervisione. Ciononostante il primo tentativo di convertirli al cattolicesimo da parte di Gregorio Magno (590-604) non ebbe successo. Ma anche grazie all’intermediazione della regina Teodolinda nel 603 la conversione fu cosa fatta.
Il re longobardo Liutprando (713-744) fece nuove conquiste. Il suo successore Astolfo (749-756) eliminò i bizantini da Ravenna e si accinse ad unificare l'Italia conquistando il Lazio. Ma il papa Stefano II (752-757) chiamò di nuovo il re dei franchi Pipino in suo soccorso. Questi sconfisse Astolfo e donò le terre di Ravenna (l'esarcato) al papa, che iniziò a far circolare la falsa notizia che lo Stato della Chiesa era suo possesso grazie alla Donazione di Costantino. Poi si ripeté la stessa situazione di prima: il nuovo re longobardo Desiderio (756-774) riconquistò Ravenna e il papa Adriano I (772-795) chiamò in soccorso il nuovo re francese Carlo - destinato a grandi successi - che sconfisse pesantemente Desiderio ponendo fine alla dinastia longobarda.
Nel 774 Carlo, re dei Franchi, vinse i Longobardi grazie all'uso della cavalleria pesante. Assunse il titolo di re dei Longobardi, annettendo al suo dominio tutti i ducati longobardi, escluso quello di Benevento. I gastaldi vennero sostituiti con dei conti, ma in buona parte il personale amministrativo rimase lo stesso. Carlo importò anche il sistema del feudalesimo, le sue grandi ville agricole e l'esigenza di rendere i contadini dei servi della gleba, non più liberi di pagare le tasse, ma costretti a pesanti corvées e legati alla terra ereditariamente.
Nell'800 il papa Leone III (795-816) era accusato dai suoi nemici di essersi insediato sul soglio pontificio illegalmente. Ancora una volta a risolvere la situazione fu Carlo che giunse a Roma e - come giudice supremo - lo dichiarò innocente. Ormai la sua autorità era enorme. A natale il papa lo incoronò imperatore in nome di Dio. Era il primo imperatore d'Occidente dal 476. Nel 812 Michele I di Bisanzio riconobbe il titolo di Carlo, in cambio della neonata Venezia, dell'Istria e della Dalmazia.
Dopo vari intrighi di corte e col papa, Carlo Magno, lasciò il regno ai suoi tre figli, che si fecero guerra accanitamente per arrivare al trattato di Verdun (843). Lotario I ricevette l'Italia e il titolo di imperatore (poco più che onorifico), Carlo il Calvo la Francia e Ludovico la Germania. L'Italia - cui era associato anche il titolo imperiale - passò successivamente a Ludovico II il Germanico (839-875) e a Carlo il Grosso (875-887). Nell'877 Carlo il Calvo emanò il capitolare di Quierzy, col quale si sanciva per legge quella che ormai era diventata una consuetudine: i conti, i duchi, i marchesi avevano il possesso del feudo e potevano trasmetterlo ereditariamente.
Il titolo imperiale era ormai squalificato ma i signori feudali italiani ci tenevano in modo particolare e se lo contesero per ottant'anni (887-962).
Infine la corona imperiale passò alla casa degli Ottoni che aveva unificato la monarchia in Germania. L'impero di Carlomagno sembrava finalmente restaurato, anche se comprendeva solo Germania e Italia del nord. Ma Ottone II (973-983) e Ottone III (983-1002) morirono in giovane età e non poterono ulteriormente sviluppare l'Impero.
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La repubblica di Genova
Dal 1099 e fino al 1399, anno di proclamazione del primo Doge, Simone Boccanegra, la Repubblica di Genova fu retta da Consoli, Podestà, Capitani del Popolo.
Nel XVI sec. si forma un sistema di governo oligarchico. Andrea Doria riuscì a mettere d'accordo le 250 famiglie più potenti della Repubblica. Queste famiglie eleggevano il Maggior Consiglio, il quale, ogni due anni, sceglieva i due Dogi che rappresentavano la Repubblica.
Almeno fin dal secolo XV i Savoia hanno progettato di impadronirsi della Repubblica di Genova per ampliare il loro dominio e per dare ai loro territori uno sbocco al mare. Per ottenere ciò hanno combattuto, congiurato, armeggiato contro la Repubblica di Genova con la violenza e con l'inganno. Il 1797 fu l'anno in cui, a causa del ciclone napoleonico, la Repubblica di Genova abbandonò l'antico ordinamento ubriacata dal vento giacobino e costretta dalla forza di Napoleone. E fu quella la prima volta nella lunghissima storia della Repubblica di Genova che parte del popolo genovese si ribellò al suo legittimo governo. A determinare questo cambiamento, una delle pagine più drammatiche della storia della Superba, concorsero fattori esterni e fattori interni espressione, gli uni e gli altri, delle condizioni politiche, economiche e sociali dell'Europa nell'ultimo scorcio del Settecento. I fattori esterni furono, tra gli altri, la presa di coscienza della borghesia, conseguenza delle ideologie diffuse dalla Rivoluzione francese dell'89, i nuovi equilibri di potere e le nuove correnti di traffici commerciali stabilitesi a seguito dell'urto tra la democrazia francese e gli Stati autoritari del vecchio continente. La Repubblica di Genova, con poche risorse territoriali e una declinante potenza economica, si trovò compressa tra la Francia (principale partner nei commerci nell'Alto Tirreno) e gli Stati continentali interessati a contrastare l'espansione sovversiva della Grande Nazione. Tra i fattori interni che spinsero i liguri a cercare cambiamenti istituzionali va collocato in primo piano il movimento dei cosidetti "nobili poveri". A Genova, per poter aspirare a posti di governo, era necessario "un certo censo", vale a dire una data disponibilità di denaro, il che spingeva le famiglie nobili a concentrare tutte le ricchezze nelle mani del primogenito. Questa norma faceva dei figli cadetti dei diseredati, riducendoli, in qualche caso, in condizioni economiche molto modeste. Di pari passo era decaduto il ruolo del Maggior Consiglio, assemblea di cui questi patrizi (ben 400) facevano parte. Il potere era andato così interamente ai duecento membri del Minor Consiglio, formato da ricchi eredi delle grandi casate che lo gestivano con criteri privatistici, attenti unicamente a tener buono il popolo, convinti com'erano che i restanti genovesi, anche se poveri, mai si sarebbero schierati contro il governo. A dare il segnale di inizio di quella che fu chiamata la Rivoluzione di Genova fu, la mattina del 22 maggio 1797. Mentre i nobili si rifugiavano nei loro palazzi e le botteghe chiudevano i battenti, gli insorti presidiarono le Porte delle Mura, saccheggiarono i depositi di armi, liberarono i detenuti della Malapaga e i galeotti. Il Doge Giacomo Maria Brignole e i pochi senatori che erano riusciti ad arrivare a Palazzo stavano per accettare quando, sobillati da qualche patrizio, da Portoria, l'inquieto quartiere di Balilla, mosse una folla di popolani che gridando "viva il nostro Principe", "viva Maria" penetrò nella pubblica armeria asportandone 14 mila fucili. Questi uomini, coraggiosi e decisi, cominciarono a dare la caccia ai giacobini e ai francesi: le strade della città divennero in breve un campo di battaglia. Due giorni durarono gli scontri con morti e feriti. Lo stesso Filippo Doria cadde colpito a morte sugli scalini di Ponte Reale. Lo stesso Bonaparte, tra il 5 e il 6 giugno, con l'aiuto di Faipoult, stese il testo di una Convenzione che prese il nome di "Convenzione di Mombello", con cui si sanciva la fine della Repubblica di Genova, oligarchica e aristocratica, e la nascita della Repubblica Ligure democratica. Al testo dell'accordo, che fu poi approvato a Genova il 9 giugno, Bonaparte unì una lista di 22 persone designate a formare il nuovo governo, tra cui figuravano alcuni nobili, compreso il marchese Giacomo Maria Brignole. Questo governo, detto provvisorio fu insediato il 13 giugno con a capo lo stesso Giacomo Brignole che, in tal modo, cambiava soltanto carica: da Doge diventava Presidente. La Repubblica Ligure si trascinò in una travagliata esistenza sino al 1805, quando la Liguria entrò a far parte dell'Impero Napoleonico.
Il Congresso di Vienna decreta d'imperio l'annessione della secolare Repubblica di Genova al Regno di Sardegna dei Savoia, nonostante l'opposizione del legittimo e sovrano Governo Genovese. Tale annessione, arbitraria e illegittima, non fu mai sancita da alcun plebiscito.
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Italia merdionale
La nascita del Regno di Sicilia è da ricondurre ad una vicenda che vide coinvolti, nel 1130, Papa Innocenzo II e il suo Antipapa Anacleto II, entrambi successori di Onorio II, nonché Ruggero II d'Altavilla, Conte di Sicilia, Duca di Calabria e Puglia fin dal 1128 per mano dello stesso Onorio II.
Nella notte tra il 13 e 14 febbraio 1130 moriva Papa Onorio II (Lamberto Scannabecchi) e, immediatamente, all'interno del Collegio Cardinalizio, si riaccese la lotta per la successione tra le stesse due fazioni che già si erano scontrate, pochi anni prima (1124), in occasione dell'elezione dello Scannabecchi. I sedici porporati facenti capo alla famiglia dei Frangipane, guidati dal Cardinal Aimerico, elessero Papa il Cardinal Gregorio Papareschi che assunse il nome di Innocenzo II. Gli altri quattordici porporati, facenti capo alla famiglia dei Pierleoni, elessero Papa il Cardinal Pietro Pierleoni che assunse il nome di Anacleto II. Poco tempo dopo il Pierleoni riuscì a far convergere su di sé il gradimento anche di alcuni cardinali che avevano eletto il Papareschi, raccogliendo in tal modo la maggioranza dei voti del Collegio e accreditandosi, di conseguenza, come legittimo Pontefice.
Poiché Innocenzo II non intendeva rinunciare alla tiara, si aprì uno vero e proprio scisma all'interno della Chiesa di Roma che finì per coinvolgere soprattutto elementi non ecclesistici, ovvero alcuni grandi Stati d'Europa, come l'Inghilterra, la Francia e la Germania che, unitamente a gran parte dell'Italia, appoggiavano Innocenzo II. Papa Anacleto II, bersagliato anche per le sue origini ebraiche e completamente isolato chiese l'appoggio dei Normanni del Duca Ruggero II, al quale offrì, in cambio, la corona regia.
Il Duca non si lasciò sfuggire l'occasione e concluse, nel settembre 1130, una vera e propria alleanza militare con il Papa, a seguito della quale questi emise una Bolla che consacrava il Conte di Sicilia, nonché Duca di Calabria e di Puglia, Rex Siciliae. Dopo di che, nella notte di Natale del medesimo anno, riprendendo un cerimoniale già visto nel lontano anno 800 in occasione dell'incoronazione di Carlomagno, fu incoronato a Palermo come Ruggero I, Re di Sicilia, Puglia e Calabria.
Il Regno di Sicilia nasceva, quindi, nella notte di Natale del 1130 per mano di un Antipapa, Anacleto II e veniva affidato nelle mani del figlio di colui che aveva liberato la Sicilia dalla dominazione araba, (Ruggero I d'Altavilla) , a sua volta figlio di Tancredi d'Altavilla. Il Regno di Sicilia nasceva all'insegna della dinastia normanna degli Altavilla e comprendeva non soltanto l'isola cosiddetta di Trinacria, ma anche le terre di Calabria e Puglia.
Innocenzo II, però, ritenendosi legittimo Pontefice, promulgò la scomunica nei confronti di Anacleto II e dichiarò nulli tutti i suoi Atti. In una serie di Concilii successivi, Reims (1131), Piacenza (1132), Pisa (1135) fu riconosciuto come tale da Inghilterra, Spagna, Francia, Lombardia, Milano, Germania. Ebbe anche a incoronare Imperatore, il 4 giugno del 1133 in San Giovanni in Laterano, Lotario di Supplinburger.
Ormai Anacleto II poteva contare soltanto sull'appoggio della città di Roma, dell'Italia meridionale e dei Normanni di Re Ruggero I. Il 25 gennaio del 1138, moriva l'Antipapa Anacleto II. La famiglia dei Pierleoni elesse un nuovo Antipapa nella persona del Cardinal Gregorio, con il nome di Vittore IV, ma la immediata rinuncia di questi, soprattutto dietro sollecitazione di Bernardo di Chiaravalle, diede il via libera alla piena legittimazione di Innocenzo II, che ebbe il riconoscimento, nel maggio 1138, anche da parte dei Cardinali fedeli alla famiglia dei Pierleoni. Aveva termine, così, lo scisma all'interno della Chiesa di Roma.
Nei primi mesi del 1139 ebbe luogo il Concilio Lateranense che confermò l'illegittimità di Anacleto II e la nullità di tutti i suoi Atti. Il Concilio ebbe a ribadire, ancora, la scomunica nei confronti dell'Antipapa e di Ruggero. Dopo di che il Pontefice stesso, alla testa di un forte esercito si mosse contro Ruggero. Ma le superiori doti militari del normanno lo portarono addirittura a prendere in ostaggio, presso Montecassino, Papa Innocenzo, il quale, preso atto di non poter reggere il confronto con il nemico, dovette confermargli la corona regia. Il giorno 27 del mese di Luglio del 1139, nei pressi di Mignano fu redatto il privilegio mediante il quale si confermava l' elevatio in regem, unitamente all'annessione del territorio di Capua.
Il territorio costituente il Regno di Sicilia comprendeva, ora, non soltanto l'isola omonima, la Calabria e la Puglia, ma tutta l'Italia meridionale peninsulare fino a Gaeta.
Il Regno di Sicilia fu governato dai Normanni dal 1130 al 1195 e, successivamente, dagli Svevi fino al 1266, allorquando Carlo d'Angiò, fratello del Re di Francia Luigi IX, chiamato in Italia da Papa Clemente IV, sconfisse Manfredi, ultimo Re svevo, nella battaglia di Benevento e se ne impossessò. La conquista divenne definitiva due anni dopo quando Carlo d'Angiò sconfisse, nella battaglia di Tagliacozzo, il non ancora diciottenne Corradino di Svevia, ultimo degli Hohenstaufen e pretendente al trono del Regno di Sicilia, quale discendente diretto di Federico II.
Il 1268 vide, quindi, la scomparsa degli Svevi dalla scena politica europea e l'affermazione della dinastia angioina nel meridione d'Italia, nella persona di Carlo d'Angiò, primo Re di Sicilia.
Il Regno di Napoli nacque de facto sul finire del XIII secolo quando, in seguito alla rivolta dei Vespri Siciliani del 1282, ebbe inizio una lunga guerra, detta appunto "Guerra del Vespro", a conclusione della quale il Regno di Sicilia fu diviso in due parti, l'una - Regno di Siclia - sotto il controllo degli Aragonesi, l'altra - Regno di Napoli - sotto il controllo degli Angioini.
La Guerra del Vespro era nata come movimento di ribellione dei siciliani nei confronti del regime vessatorio instaurato da Carlo I d'Angiò; ribellione che indusse gli isolani ad offrire la corona del Regno a Pietro III, Re d'Aragona, consorte di Costanza, figlia di Re Manfredi di Svevia.
Pietro III, che aveva intrapreso da tempo una decisa politica espansionistica nell'area mediterranea, fu ben felice dell'offerta e immediatamente inviò nell'isola una poderosa flotta carica di uomini e mezzi per avviare la conquista dei nuovi territori. Pietro III riuscì, rapidamente, a strappare l'isola a Carlo I ed a farne, nello stesso anno 1282, un possedimento aragonese. La Sicilia cessava, quindi, di essere un Regno autonomo.
Pur di riconquistare l'isola, Carlo I fece, immediatamente, ricorso alle armi. Con lui si schierarono il papato e la Francia. Sull'altro fronte, accanto agli aragonesi, si unirono invece Pisa, Genova, l'Imperatore d'Oriente, le città ghibelline del Nord Italia e Rodolfo I d'Asburgo, Imperatore S.R.I..
Ebbe inizio, così, un sanguinoso conflitto tra le due dinastie che si sarebbe concluso soltanto molti anni dopo e la conclusione del quale non sarebbe stata vista da nessuno dei due monarchi che l'avevano avviata.
Nel 1285, infatti, morirono entrambi i sovrani mentre il conflitto era in pieno svolgimento e ben lungi dalla conclusione.
Per parte aragonese, Alfonso e Giacomo, figli di Pietro III, si divisero il Regno. Il primo ebbe la corona d'Aragona e Valencia ed ascese al trono con il nome di Alfonso III. Il secondo ricevette la corona di Sicilia ed ascese al trono con il nome di Giacomo II. La Sicilia tornava, in tal modo, ad essere un Regno autonomo.
Per parte angioina, invece, si dové registrare che Carlo II, erede al trono, era ancora prigioniero degli Aragonesi in Sicilia, per cui la direzione della guerra tra le due dinastie, per conto degli Angioini, passò nelle mani del papato, fino al 1288, anno della liberazione di Carlo, il quale fu incoronato Re da Papa Niccolò IV, l'anno seguente, nella città di Rieti.
Con la liberazione di Carlo II, il conflitto riprese immediatamente, ma le operazioni belliche si trascinavano stancamente senza approdare ad alcun risultato di rilievo.
Nel 1291 moriva Alfonso III, senza lasciare discendenti legittimi, per cui Giacomo II fu chiamato a succedere al fratello sul trono d'Aragona, lasciando il governo della Sicilia nelle mani dell'altro fratello Federico, confermando, di fatto, l'autonomia della Sicilia dall'Aragona.
L'impegno di Carlo II per la riconquista della Sicilia fu coronato da successo allorquando questi concluse un accordo con Giacomo II ad Anagni il 20 giugno 1295, con la determinante mediazione di Papa Bonifacio VIII. A seguito di tale accordo, Giacomo II rinunciava ai propri diritti sulla Sicilia a favore della Chiesa, che, tramite il Papa, li riassegnava a Carlo II. In cambio di tale rinuncia, riceveva l'investitura del Regno di Sardegna e della Corsica.
I Siciliani, però, venuti a conoscenza dell'accordo che, di fatto, trasferiva il dominio sull'isola nuovamente nelle mani dei Francesi, si ribellarono con forza in quanto non intendevano perdere più l'autonomia che avevano conquistato allorquando la Sicilia era stata distaccata dal Regno d'Aragona e affidata prima nelle mani di Giacomo II e poi in quelle di Federico suo fratello. I Siciliani rigettarono l'accordo, riconobbero Federico quale unico Signore di Sicilia e lo proclamarono loro Re nel 1296.
Suo malgrado, Papa Bonifacio VIII dovette incoronare Federico a Palermo il 25 marzo 1296.
Il conflitto tra le due dinastie sembrava ormai chiuso, ma, nonostante l'intervento del Papa, esso non ebbe affatto termine. La contesa si protrasse per decenni con continue guerre, fino a quando, nel 1372, la Regina Giovanna I d'Angiò e Federico IV di Sicilia non sottoscrissero un trattato di pace che, ponendo fine alla c.d. "Guerra del Vespro", sanciva il riconoscimento reciproco delle monarchie e dei relativi territori, cioè Napoli agli Angioini e la Sicilia agli Aragonesi, estendendo il riconoscimento anche alle rispettive linee di successione.
Il Regno di Napoli, che era nato de facto nel 1282, ma che continuava a chiamarsi regno di Sicilia, con l'occupazione della Sicilia da parte di Pietro III d'Aragona, diventava tale a pieno titolo nel 1372.
Il Regno di Napoli fu, quindi, governato, fino al 1442 dalla dinastia angioina, per passare, dopo questa data agli aragonesi.
Dopo una brevissima parentesi di dominio francese, il regno venne formalmente unito alla Spagna nel 1504, perdendo il 'titolo' e diventando così, per due secoli Vicereame di Napoli, in quanto governato da un viceré in rappresentanza del re di Spagna.
Dopo una breve parentesi austriaca, il Regno di Napoli ritrovò la sua indipendenza con Carlo di Borbone, figlio del Re di Spagna Filippo V, nel 1734.
Il 10 maggio 1734 Carlo di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, fece il suo ingresso a Napoli e nel luglio 1735 fu incoronato re di Napoli e Sicilia. La conquista dei due regni da parte dell'Infante fu resa possibile dalle manovre della regina di Spagna, la quale, approfittando della guerra di successione polacca nella quale Francia e Spagna combattevano l'impero austriaco, rivendicò a suo figlio le province dell' Italia meridionale.
Il regno non ebbe una effettiva autonomia dalla Spagna fino alla pace di Vienna, nel 1737, con la quale si concluse la guerra di successione polacca. Nell' agosto 1744 l'esercito di Carlo, forte ancora della presenza di truppe spagnole, sconfisse a Velletri gli austriaci che tentavano di riconquistare il regno.
La situazione politica ed economico-sociale del regno nella prima metà del '700 era disastrosa, ciò a causa del malgoverno avutosi durante il lungo viceregno spagnolo e nei 27 anni di dominio austriaco.
Tra le prime riforme intraprese dal nuovo sovrano va ricordata la lotta ai privilegi ecclesiastici: nel 1741, con un concordato furono drasticamente ridotti il diritto d'asilo ed altre immunità; i beni ecclesiastici furono sottoposti a tassazione. Analoghi successi non si ebbero tuttavia nella lotta alla feudalità: le iniziative che minacciavano maggiormente gli interessi dei ceti privilegiati furono boicottate.
Durante il regno di Carlo si registrò un notevole sviluppo dell'economia, dovuto all'aumento della produzione agricola e degli scambi commerciali connessi. Il rifiorire del commercio fu reso possibile grazie anche alla conclusione di alcuni trattati commerciali ed alla lotta alla pirateria. Nel 1755 fu istituita presso l'Università di Napoli la prima cattedra di economia in Europa, denominata cattedra di commercio e di meccanica. I corsi (in italiano e non in latino), seguitissimi, furono tenuti da Antonio Genovesi, il cui pensiero influì molto sull'illuminismo dell'Italia meridionale.
Nel 1759, alla partenza di Carlo divenuto re di Spagna, salì al trono Ferdinando, all'età di soli 8 anni. Principali esponenti del Consiglio di Reggenza furono Domenico Cattaneo, principe di San Nicandro ed il marchese Bernardo Tanucci. Durante il periodo della reggenza ed in quello successivo, fu principalmente il Tanucci ad avere in mano le redini del Regno ed a continuare le riforme iniziate in età carolina. In campo giuridico, molti progressi furono resi possibili dall'appoggio dato al ministro Tanucci da Gaetano Filangieri, il quale, con la sua opera "Scienza della legislazione" (iniziata nel 1777), può essere considerato tra i precursori del diritto moderno.
Nel 1768 Ferdinando sposò Maria Carolina, figlia dell'imperatrice d'Austria Maria Teresa e sorella della regina di Francia Maria Antonietta. La nuova regina partecipò attivamente, a differenza del marito, al governo del regno. Gli unici campi, infatti, in cui Ferdinando si impegnò personalmente furono le opere pubbliche, i rapporti con la chiesa e la realizzazione della colonia di San Leucio, interessante esperimento di legislazione sociale e di sviluppo manifatturiero.
Nei primi anni di regno, Maria Carolina si mostrò sensibile alle istanze di rinnovamento e moderatamente favorevole alla promozione delle libertà individuali. Tale tendenza subì tuttavia una brusca inversione di rotta all'approssimarsi della Rivoluzione Francese sfociando nella repressione alla notizia della decapitazione dei regnanti francesi. Le misure repressive portarono ad un'insanabile frattura tra la monarchia e la classe intellettuale; le pene colpirono non solo i democratici, ma anche riformisti di sicura fede monarchica che così non esitarono ad abbracciare la causa repubblicana nel 1799.
I Francesi erano già entrati in Italia con Napoleone Bonaparte nel 1796, che era riuscito facilmente ad aver ragione delle armate austriache e dei deboli governi locali. Praticamente ovunque l'avanzata delle truppe francesi portò comunque a forti tensioni tra le fazioni giacobine e quelle antigiacobine e, in alcuni casi, anche a movimenti di rivolta popolare contro le truppe d'occupazione francesi (vedi anche: insorgenze antigiacobine). Nel 1798 i francesi occuparono Roma; un tentativo di contrasto delle truppe del Regno di Napoli e Sicilia si risolse in un insuccesso e così i Francesi si trovarono la strada aperta verso Napoli. Il 22 dicembre 1798 il re in fuga abbandonò Napoli per Palermo, lasciando la città praticamente indifesa; gli unici ad opporsi alle truppe francesi (dal 13 al 23 gennaio 1799) furono i cosiddetti lazzari. La resistenza fu efficace, come riconobbe lo stesso generale francese Championnet, ma inutile. I difensori furono addirittura bombardati dagli stessi giacobini napoletani che erano riusciti a prendere il forte di Castel Sant'Elmo. La difesa della città costò la vita a circa 8000 napoletani e 1000 francesi.
Il 22 gennaio 1799 (per alcuni il 21), mentre i lazzari ancora combattevano contro gli invasori francesi un pugno di giacobini napoletani, tra i quali: Mario Pagano, Domenico Cirillo, Nicola Fasulo, Carlo Lauberg, Giuseppe Logoteta, rinchiusi in Castel Sant'Elmo, proclamarono la repubblica. La Repubblica Napoletana non ebbe lunga vita, mancò infatti l'adesione popolare (a Napoli, a differenza che in Francia, non esisteva un nutrito ceto borghese al quale le riforme rivoluzionarie potessero giovare) e quella delle province non occupate dall'esercito francese. Si trattava in realtà di un governo a sovranità limitata controllato dai francesi (e che non venne riconosciuto neanche dalla stessa Francia) e da questi utilizzato per dare una veste giuridica alla loro occupazione e spogliare il Regno di buona parte delle sue ricchezze allo scopo di sostenere un'economia di guerra. Il governo repubblicano tentò delle innovazioni (soprattutto sull'eversione della feudalità e sull'ordinamento giudiziario) che però non riuscirono a trovare pratica attuazione nei soli cinque mesi di governo repubblicano.
Il 13 giugno 1799 l'armata Sanfedista e popolare, comandata dal cardinale (laico) Fabrizio Ruffo, riconquistò la città di Napoli (che nel frattempo era stata già abbandonata dai francesi, il 7 maggio, richiamati nel settentrione d'Italia) restituendola alla monarchia borbonica (regnante, durante la Repubblica, sulla sola Sicilia). Nei mesi seguenti, una giunta nominata da Ferdinando cominciò i processi contro i repubblicani: su circa 8000 prigionieri, 105 vennero condannati a morte (di cui 6 graziati), 222 all'ergastolo, 322 a pene minori, 288 a deportazione e 67 all'esilio, da cui molti tornarono, tutti gli altri furono liberati.
Il successivo quinquennio vede il Regno seguire una politica altalenante nei confronti della Francia napoleonica che, per quanto ormai egemone sul continente, rimane sostanzialmente sulla difensiva sui mari: questa situazione non consente al Regno napoletano - strategicamente posizionato nel Mediterraneo - di mantenere una stretta neutralità nel conflitto a tutto campo fra Inglesi e Francesi.
Dopo la vittoria di Austerlitz del 2 dicembre 1805, Napoleone regolerà definitivamente i conti con Napoli dichiarando decaduta la dinastia borbonica e nominando suo fratello Giuseppe Bonaparte Re di Napoli.
Ferdinando, rifugiatosi in Sicilia, dovrà ben presto fare i conti con l'insidiosa politica britannica, volta a trasformare l'isola in un protettorato (come nel frattempo già avvenuto con Malta). A Giuseppe Bonaparte, nel 1808 destinato a regnare sulla Spagna, succederà Gioacchino Murat, regnante sino al maggio 1815.
Il secondo ritorno di Ferdinando a Napoli non fu caratterizzato da repressioni. Il sovrano mantenne gran parte delle riforme attuate dai francesi (fu però, ad esempio, abolito il divorzio), ponendosi di fatto così a capo di una più moderna monarchia amministrativa. Unico taglio di rilievo con il periodo napoleonico si ebbe nei rapporti con la chiesa, che tornò ad occupare un ruolo di primo piano nella vita civile del Regno.
Dopo il Congresso di Vienna, l'8 dicembre 1816, Ferdinando IV riunì anche formalmente i regni di Napoli e Sicilia con la denominazione di Regno delle Due Sicilie (già adottata da Murat), abbandonando per sé il nome di Ferdinando IV di Napoli e III di Sicilia ed assumendo quello di Ferdinando I delle Due Sicilie.
Tale atto ebbe, tra l'altro, la conseguenza di privare di fatto la Sicilia della Costituzione promulgata dallo stesso Ferdinando nel precedente decennio napoleonico sotto la spinta dell'occupazione inglese dell'isola. In contropartita, però, la più moderna legislazione, introdotta a Napoli durante il Decennio Francese, fu estesa all'isola che era uno dei pochi territori europei che non era mai stata occupata dalle armate francesi.
Il primo luglio 1820, alla notizia che in Spagna era stata ripristinata la Costituzione concessa nel 1812 da Giuseppe Bonaparte, insorse a Nola un gruppo di militari capeggiato dai sottotenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati. La rivolta fu appoggiata anche da alti ufficiali tra i quali si distinse il generale Guglielmo Pepe.
Ferdinando, constatata l'impossibilità di soffocare la rivolta, concesse la Costituzione spagnola e nominò suo vicario il figlio Francesco. Il primo ottobre iniziò i lavori il parlamento, eletto alla fine di agosto, nel quale prevalevano gli ideali borghesi diffusi nel decennio francese. Tra gli atti del parlamento vi furono la riorganizzazione delle amministrazioni provinciali e comunali ed un provvedimento sulla libertà di stampa e di culto.
Le novità introdotte nelle Due Sicilie non furono gradite dai governi delle grandi potenze europee che convocarono Ferdinando a Lubiana. Alla partenza del re si oppose, tra gli altri, il principe ereditario Francesco.
In seguito al Congresso di Lubiana il Regno fu invaso dalle truppe austriache che nel marzo 1821 sconfissero l'esercito costituzionale napoletano comandato dal generale Pepe. A fiaccare lo spirito combattivo dell'esercito duosiciliano valse anche un proclama del re Ferdinando che, al seguito degli Austriaci, invitava a deporre le armi e a non combattere coloro che venivano a ristabilire l'ordine nel Regno.
Il 23 marzo 1821 Napoli venne occupata, la costituzione venne sospesa e cominciarono le repressioni: si contarono alla fine 30 condanne a morte (tra cui Pepe, Morelli, Silvati e Carascosa) e 13 ergastoli.
Ai primi di gennaio del 1825 morì Ferdinando I e salì al trono Francesco I. I suoi sei anni di Regno furono caratterizzati da progressi in campo economico e tecnologico, mentre una relativa stasi si ebbe sul piano politico.
Alla morte di Francesco I, il 7 novembre 1830, il Regno passò al figlio Ferdinando II. Il primo periodo di regno del nuovo sovrano (fino al 1847) fu caratterizzato da notevoli riforme volte a migliorare l'economia e l'amministrazione dello Stato. In particolare, in campo finanziario fu attuata una notevole diminuzione della fiscalità (che giovò soprattutto ai ceti meno abbienti), resa possibile, tra l'altro, dalla diminuzione delle spese di corte. Ferdinando provvide a richiamare in patria ed a reinserire negli incarichi numerosi esuli (tra i quali il generale Guglielmo Pepe ed il Carascosa) ed a diminuire le pene per i condannati politici.
In politica estera Ferdinando cercò di mantenere il Regno fuori dalle sfere di influenza delle potenze dell'epoca. Tale indirizzo era concretamente perseguito pur favorendo l'iniziativa straniera nel Regno, ma sempre in un'ottica di acquisizione di conoscenze tecnologiche che consentissero, in tempi relativamente brevi, l'affrancamento da Francia ed Inghilterra; il che, rese il sovrano (ed il Regno) inviso agli altri Stati europei.
Il regno fu nuovamente oggetto di importanti moti rivoluzionari nel 1848, moti che, peraltro, in quell'anno interessarono numerosi Stati europei, dall'Austria alla Francia alla Prussia, con risvolti anche di carattere sociale. È infatti questo anche l'anno della pubblicazione del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx.
Il re ritenne opportuno concedere la Costituzione, con regio decreto del 29 gennaio, ispirandosi al modello francese, giudicato il migliore, (analogo criterio seguirà due mesi dopo il Regno di Sardegna). Paradossalmente, i moti quarantotteschi in Francia travolgevano, a fine febbraio, proprio quel miglior modello di Costituzione e il re Luigi Filippo di Borbone - Orleans.
L'11 febbraio venne promulgata la Costituzione, giurata il 24 febbraio, nel medesimo giorno della fuga di Luigi Filippo da Parigi. Le elezioni si tennero regolarmente nel mese di aprile, ma il superamento di questa importante fase non pose termine a una disputa - che portò agli esiti infausti del 15 maggio - fra il Sovrano, che considerava la Costituzione appena concessa come base del nuovo ordinamento rappresentativo e la parte più radicale dei neoeletti che, al contrario, intendeva "svolgerla" - come si diceva con terminologia apparentemente neutra - ovvero, il primo atto del Parlamento avrebbe dovuto essere la modifica della Costituzione appena promulgata.
Nel 1859 è re Francesco II. Il Regno delle Due Sicilie sopravvisse fino al 1860, quando fu conquistato da Giuseppe Garibaldi con la "Spedizione dei Mille" per conto dei Savoia, nell'ultima fase del Risorgimento.
L'impresa di Garibaldi stupì i contemporanei soprattutto per la rapidità delle prime conquiste dei Mille e per l'enorme disparità (almeno iniziale) delle forze in campo. Le armate borboniche riuscirono a organizzare un'efficace resistenza solo nella parte conclusiva della campagna, con la battaglia del Volturno, nella quale il generale Giosuè Ritucci diresse valorosamente le truppe, quindi l'eroica ultima resistenza dell'assedio di Gaeta, in cui l'esercito borbonico si trovò a fronteggiare anche le armate del re di Sardegna, giunte nel frattempo (invadendo lo Stato Pontificio) ad affiancare le armate garibaldine, superandole in numero e in armamenti. Circondata, Gaeta fu quindi sottoposta ad un blocco navale e pesantemente bombardata dal mare e da terra, sino all'inevitabile resa.
Il regno delle Due Sicilie venne annesso al Regno d'Italia dopo l'esito di un plebiscito (il 21 ottobre 1860) in cui non fu generalmente garantita la segretezza del voto ed al quale partecipò solo una minima parte degli elettori. Nella capitale ad esempio si ebbero seggi presieduti da bersaglieri, carabinieri e garibaldini o, come nel seggio della Vicaria e Pendino, anche da esponenti della malavita che "invitavano" gli elettori a votare per l'annessione.
La reale finalità del plebiscito era quella di dare, agli occhi del mondo e della storia, una parvenza di democraticità a quella che in realtà era stata una conquista militare di uno stato pacifico, sovrano e indipendente.
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Ducato di Savoia e Regno di Sardegna
Il ducato di Savoia è un antico ducato il cui territorio comprendeva gli attuali dipartimenti francesi della Savoia e Alta Savoia. Deriva dalla precedente Contea di Savoia. La sua storia comincia nel 1416.
Il Regno di Sardegna e Corsica fu il precursore del successivo Regno d'Italia. Ebbe inizio formalmente a Roma - nell'antica Basilica di San Pietro - il 4 aprile del 1297, allorché Papa Bonifacio VIII, per risolvere la contesa tra Angioini e Aragonesi circa il regno di Sicilia, investì il re d'Aragona Giacomo II dello jus invadendi sulla Sardegna e sulla Corsica.
Ma fu solo con i Savoia, nel 1720, che lo Stato divenne sovrano e perfetto e fu anche ampliato territorialmente con gli Stati ereditari della Casata: il Ducato di Savoia (culla della famiglia reale), il Principato di Piemonte con i ducati di Aosta e di Monferrato, la Signoria di Vercelli, la Contea di Nizza e di Asti, il Marchesato di Saluzzo e parte del Ducato di Milano. Con queste annessioni, il Regno divenne uno Stato composto, formato dall'unione di più Stati, uniti sotto la corona del re di Sardegna.
Il 4 marzo 1848, Carlo Alberto, dal palazzo regio di Torino, promulgò lo Statuto Fondamentale del Regno attraverso il quale il potere legislativo veniva esercitato dal re e da due camere: quella del Senato composta da persone nominate a vita dal sovrano, e quella elettiva, formata da deputati eletti nei collegi elettorali.

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