Shoah

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Testo

COMMENTO PER IL GIORNO DELLA MEMORIA
L’agghiacciante decisione di sterminare gli ebrei che vivevano in Germania e in Europa venne presa nel 1942 durante una riunione segreta dei più alti funzionari della Germania nazista, nel corso della quale venne programmata nei minimi dettagli la “soluzione finale” della razza ebraica. Tale “soluzione” fu la tragica conclusione della politica persecutoria antisemita avviata da Hitler a partire del 1933 con l’emanazioni di leggi speciali che privarono gli ebrei di tutti i diritti civili fino a renderli di fatto “invisibili” agli occhi della popolazione tedesca. L’invisibilità divenne reale quando gli ebrei vennero deportati nei 900 Lager appositamente per diventare fabbriche di distruzione di morte. Molti di loro morirono per la fatica del lavoro forzato, altri per la fame e le percosse; la maggior parte vennero sterminati nelle camere a gas. Sei milioni e mezzo di uomini, donne, bambini scomparvero così dal mondo solo perché appartenevano ad una determinata etnia. Fra questi furono deportati nei Lager più di 7000 ebrei italiani, dei quali solo circa 600 sopravvissero. Anche gli zingari, i dissidenti politici, i partigiani, gli omosessuali furono annientati dalla spietata barbarie nazista. Ancora nei Lager, gli internati dimostrarono la volontà di far sapere ciò che stava succedendo. Dopo la liberazione si trovarono, infatti, nascosto nei luoghi più impensati dei campi, diari e appunti scritti segretamente. E molti dei sopravvissuti non vollero dimenticare neanche a distanza di anni e continuarono e continuano a rendere testimonianza di ciò che è accaduto, pur con carico di sofferenza che tale rievocazione comporta. È un modo per dare un contributo determinante alla storia, per fare opera di educazione civile, per lottare contro la possibilità che si ripeta qualcosa di simile. Ma i meccanismi della memoria di coloro che vissero l’esperienza devastante dei Lager sono complicati. Alcuni dei sopravvissuti, per proteggersi dal troppo dolore, hanno rimosso quei tragici episodi o si sono rifiutati di comunicare i loro ricordi per paura di non essere creduti e capiti. Altri ancora hanno provato in tutti i modi a dimenticare senza riuscirci e i ricordi continuano a riaffiorare.
Non possiamo più dire "non sapevamo" e sottrarci così alle nostra responsabilità: attraverso i mezzi di comunicazione di massa, sia dai più tradizionali, come i giornali e la radio, fino ai più moderni, come Internet e i cellulari, abbiamo infinite finestre aperte sul mondo. E se, come spettatori, non siamo i colpevoli degli orrori di cui siamo testimoni, l'innocenza non è una scusa per restarsene immobili e rifiutarsi di alzare un dito.
L'emozione "nella nostra poltrona di casa" dev'essere un'emozione tale da farci alzare da quella poltrona, per dare risposta alla domanda di giustizia dell'uomo. La ricorrenza dei 60 anni dall'ingresso delle truppe russe ad Aushwitz si colloca nell'anno delle celebrazioni per i 60 anni della nascita delle ACLI: una coincidenza che serve a rammentarci la necessità dell'impegno quotidiano ad una cittadinanza attiva in difesa della democrazia e della libertà di espressione, ormai su scala globale.
Non dimenticare vuole dire sapere come vanno a finire certe cose. Ad esempio, come va a finire l'umanità quando decadono valori fondanti come la solidarietà, l'amicizia, la fratellanza, l'ospitalità. O come va a finire il mondo quando sul buon senso prevale l'uso della forza, intesa come guerra o come sopraffazione. Non dimenticare vuole dire fare sforzi per non ripetere errori che possono costare cari, ad ognuno di noi. Non dimenticare vuole dire anche capire meglio quello che accade ogni giorno a ciascuno di noi. Capire che non si può fare finta di non vedere. Che si diventa complici oggi come ieri quando si tace (o non si scrive) davanti alla censura, davanti alla manipolazione della verità, davanti alle bugie più sfrontate. Che sono quelle che ci propina chi sostiene che la guerra può essere una missione umanitaria. Che la guerra può, a volte, essere necessaria. Oppure quelle di chi sostiene che Mussolini era addirittura buono. Che durante il regime fascista non ci sono state violenze politiche o razziali. E che, in fondo, il decennio di Mani pulite è stato peggio del ventennio fascista. ho letto queste frasi....riassumono quello che penso grazie per quello che fate.
"Gheto novo", questa la scritta che appare quando si entra nel Getto degli Ebrei, luogo dove ancora oggi vive la piccola comunità Ebraica di Venezia. Di tutte le cose che ci sono nel quartiere ebraico ce n’è che rimane impressa. Una semplice lapide di commemorazione dell’Olocausto che chiude con queste parole "…nell’ora dell’inumana violenza". Una frase tremendamente vera che ci riporta alla bestialità di l’uomo può essere capace. Non pensiamo solo alla follia nazista, ma tutte le volte in cui, anche in tempi recenti, l’odio e la follia della violenza hanno avuto ragione dei vinti e dei vincitori. Il giorno 27 di Gennaio è il "giorno della Memoria", perché bisogna ricordare che i morti hanno un nome, un cognome, avevano la nostra stessa voglia di vivere. Anche noi vogliamo ricordare le vittime, dei regimi politici e religiosi, i martiri dell’odio e del terrore, coloro che sono straziati nel fisico e nell’anima fino ad essere non persone. Vogliamo ricordare per dire mai più. Abbiamo voluto, per questo motivo, dare l’opportunità alle persone che ci seguono nella Rete, di potersi fermare un attimo per vedere ciò che anche inconsciamente tentiamo di rimuovere.
Eravamo tutti amici
Dalla testimonianza del dott. Paolo Rivoltella
Ricordo che andavamo tutti lì, in campo del Ghetto Novo, a giocare a calcio, cosa proibita, e da lì scappavamo per tutte le calli che ci davano un rifugio sicuro dalla grinfie dei vigili. Era bello, divertente, sì, divertente. E così anche la vita in città scorreva tranquillamente nonostante ci fosse come un senso di terrore che avvolgeva tutta Venezia. Si sentiva ogni tanto lo scoppio di una bomba a Marghera, se ci pensate, era a due passi dalle nostre case e aleggiava sempre quel misto di terrore e sconforto che si prova quando sai che sta accadendo qualcosa di tremendo, ma io, ragazzino, non me ne curavo più di tanto. Anche se mi rendevo conto che qualcuno dei miei amici, che aveva il padre in guerra, sentiva tutto questo molto, molto più di noi. Poi c’erano Angelo e Miriam, i figli dei nostri più cari amici, i Grassini, che avevano un fantastico monopattino, che io invidiavo da matti.
Io e Angelo eravamo due amici inseparabili e andavamo a scuola volentieri insieme a tutti i nostri amici del campo. Non ho mai pensato di separarmi da lui, solo perché era ebreo. Mai. Era un tipo vivace, simpaticissimo, e mi fabbricava le spade con cui, dopo la scuola, combattevamo fino a tardi. Eravamo dei veri guerrieri. Suo padre Raffaele e suo zio Guglielmo, detto Gelmo, erano proprietari di una macelleria, frequentata da tutto il quartiere, visto che Raffaele era gentile ed era molto bravo a trattare con la gente.
Era mattina e come ogni giorno stavo andando a scuola. Mi sedetti. Rimasi stupito di non trovare Angelo seduto al solito posto. Se fosse stato assente me lo avrebbe detto. Quel giorno non lo vidi e così non seppi nulla.
Il giorno dopo nulla… e l’altro ancora… lo vedevo in campo e giocavamo come al solito ai guerrieri e io continuavo a chiedergli perché non tornava in classe e lui mi rispondeva che aveva cambiato scuola, ormai frequentava quella ebraica. Pensavo lo facesse per professare la sua religione, normale!? Non solo lui ma anche tanti altri miei amici se ne erano andati così, di punto in bianco, in quella scuola dove studiavamo ebraico. Non riuscivo a capire, ma tanto lo vedevo comunque e giocavo sempre in campo con lui. Eppure una cosa non mi quadrava: aveva i miei stessi libri e le mie stesse materie; e allora perché non stava con me? Mio papà non mi illuminava di certo con delle spiegazioni. Ma, nonostante tutto, continuavamo ad andare alla sua macelleria, ma anche quella non funzionava più come una volta, e alcuni vecchi clienti avevano scelto di andarsene. Non sapevo perché.
Il pomeriggio dell’8 settembre io e mio padre, che eravamo alla stazione per lavoro, vedemmo ad un certo punto da un vaporetto spuntare un reparto tedesco che sparava a pelo d’acqua con una mitragliatrice piazzata sulla prua della barca. La situazione era peggiorata subito, in pochi giorni, e da lì capimmo che i nazisti facevano sul serio. Era iniziata una tragica pagina del libro della mia vita.
Mio padre e Raffaele sapevano. Sapevano da tanto e avevano programmato un piano che a quell’età non avevo capito. Era proprio per questo che da due settimane non vedevo più Angelo e Miriam. Mio padre aveva messo in giro la voce che se ne erano andati. Non li avevo neanche salutati. In realtà erano a casa loro, nascosti da chissà quale pericolo, per me non ne esistevano.
Mio padre si recava da loro giornalmente e filava tutto liscio. Era giunto il momento di partire. Ma penso proprio che il destino non sia mai andato incontro a loro positivamente, non li ha mai premiati. Avevano in mente proprio quel giorno, il 6 dicembre alle 5:00 della mattina di andarsene, ma proprio quella sera, con i registri in mano e tante vittime sulla coscienza, i fascisti e i nazisti cominciarono a rastrellare le case ebree senza tralasciarne nessuna. Arrivarono a casa loro dove intanto mio padre fingeva di essersi stabilito con i vari contratti d’affitto. Cercavano una famiglia ebrea, due nonni, un padre, una madre, due figli ed erano in quattro, armati fino ai denti, per prelevare delle persone innocenti, ridicolo no? Mio padre cercò di convincerli con la storia della partenza e fece vedere loro che aveva tutte le carte in regola per possedere quell’appartamento, ma non ci cedettero.
Una delle S.S. si avviò verso il lungo corridoio nella cui ultima stanza era rifugiata la famiglia che aveva avvolto i bambini nei materassi perché non si sentisse il loro pianto anche se in realtà erano i nonni che, coscienti della situazione, si disperavano di più. Stava per arrivare nella stanza quando, fu un vero miracolo!, le lampadine si fulminarono. Tirò un sospiro di sollievo nel vedere il Tedesco inciampare nel coperchio della cassa di imballaggio lasciato involontariamente lì, con il naso rotto e il sangue sgocciolante. Mio padre cercò di alleggerire il clima offrendogli le migliori cure e una grappa che risollevò il morale di tutti. Un maresciallo italiano, uno degli incaricati al rastrellamento, capita la situazione, convinse i tedeschi a lasciare la casa: lì non c’era altro che quel signore, in una notte non avevano concluso nulla! Mio padre era morto di paura. Se li avessero scoperti sarebbe stata anche la sua fine ma per fortuna quel brutto momento era passato. Era giunto invece il momento di partire. Si diresse nella stanza e trovò un disastro. Erano tutti così spaventati, sapevano di aver visto la morte. Riuscì a calmarli e a prepararli per la partenza che doveva avvenire immediatamente. Sentirono delle urla e dei colpi. Una corsa sulle scale. La porta che si era aperta e la vecchia domestica di Raffaele, affezionata alla famiglia, piangendo disperatamente raccontò cos’era successo quella notte. I genitori della madre di Angelo erano stati presi insieme a tutti quelli che avevano la sola colpa di essere Ebrei. Erano scioccati, sconvolti, ma non potevano ritardare la partenza, questione di secondi perché quelli della resistenza avevano i minuti contati. Non ci fu nulla da fare, nessuno voleva partire, volevano restare tutti uniti. Tanto che alla mattina si consegnarono al Foscarini, convinti di essere portati a lavorare e non di andare incontro alla morte. Solo dopo Raffaele capì di aver fatto l’errore. Avevano l’ultima possibilità di fuggire attraverso il campo Gloria e mio padre, deciso più che mai ad aiutarli, cercò di organizzare un’altra spedizione insieme a quelli della resistenza, facendoli passare per il cancello che dava sulle Fondamenta Nove. Lì non passava mai nessuno e con la laguna davanti avrebbero facilmente raggiunto un rifugio grazie alla barca del macello.
Ma i tedeschi avevano pensato a tutto. Avevano bloccato le vie d’uscita, il campo Gloria e le Fondamenta Nove. In qualche modo dovevano difendere la purezza della razza!
Sono stati deportati tutti quanti.
Ma ho rivisto Angelo e mi ricordo quel giorno come l’ultima fiammata che brucia tutto e non lascia che il ricordo di un limpido passato. Ormai che se ne era andato mi sentivo solo e infelice e per di più, per una promessa di mio padre a Raffaele, dovevamo vivere nel loro vecchio appartamento e custodire i loro beni insieme ad un prezioso cofanetto di gioielli. La casa era vuota, priva di vita.
Il giorno di Natale del ’43 è stato terribile.
Vado ad aprire… e vedo Angelo che mi fissa ma non mi sorride. Mi giro. Un signore in borghese con i baffetti mi chiede se in casa c’è mio padre. Lo vado a chiamare, chiarisce la questione con lui ed entrano nell’appartamento. Vengo a sapere che al campo di Fossoli vogliono far passare un felice Natale a quel povero bambino ebreo in una buona famiglia che lo potrà accogliere senza esitazioni.
Angelo non mi sfiorava nemmeno con lo sguardo. Se ne stava seduto lì, immobile, a fissare un punto della parete. Era lontano e io ero sordo ai suoi urli, cieco alla sua sofferenza, muto ai suoi sentimenti e lui guardava lontano lontano. Gli ho portato il suo monopattino, quello che invidiavo tanto, ma lui niente. Poi ci sedemmo a tavola e non mangiò nulla.
Mio padre cercò di corrompere il poliziotto a lasciare in casa il ragazzo ma quel signore con un sorriso spento disse che, se non avesse riprotato indietro Angelo, avrebbero ucciso sua moglie e sua figlia prese in ostaggio per precauzione. Non c’era niente da fare. Angelo era già stato ucciso. Era già morto, chiuso e inespressivo. Non c’era più niente da fare già prima. Non mi salutò nemmeno.
Dopo pochi anni dalla fine della guerra, venni a conoscenza del ritorno di Guglielmo. Mi precipitai da lui per ridargli il cofanetto di gioielli che avevamo custodito. Ma non lo riconoscevo più. Lo zio di Angelo era come il nipote, un tipo vivacissimo, allegrissimo e con un gran senso dell’umorismo.
Ero rimasto scioccato. Non era più lui. Era come se gli avessero rubato l’anima così allegra e spensierata che era la sua linfa vitale ed ora era rimasto a secco.
Era sempre scuro e triste con lo sguardo perso nel vuoto e con la stessa espressione di Angelo, quando lo vidi l’ultima volta. Lo osservavo, era una sensazione strana, mio padre gli porse il cofanetto, ma lui rimase indifferente: non gli importava più nulla, ormai aveva perso tutto.
“E ora sono qui che racconto questa storia e dei ragazzi di III media che si assumeranno il compito di ricordare a se stessi e gli altri cos’è successo e cosa vuol dire veramente soffrire”.
Eravamo d'estate quando è uscita la legge che obbligava gli alunni ebrei a lasciare la scuola. Io avevo finito la terza elementare, sarei dovuta andare in quarta. Non me l'hanno fatto capire subito per non darmi dei dispiaceri. Però verso l'autunno mamma un giorno m'ha detto, col tono di quella che racconta una cosa senza importanza: "Sai, il prossimo anno non puoi più andare nella tua scuola e andrai in un'altra scuola dove ci saranno tutti bambini ebrei". Per me è stata una doccia fredda: lasciare la maestra, lasciare i compagni. Così è stato. L'inizio è stato abbastanza difficile, però ho fatto amicizia coi nuovi compagni, poco per volta ho poi voluto bene alla maestra. Ad ogni modo io aspettavo con grandissima ansia il giorno in cui ci sarebbe stata la premiazione dei bambini alla scuola pubblica dov'ero andata. Perché io in terza avevo avuto il "premio di secondo grado". Avevo meritato un premio, perché ero brava a scuola, di secondo grado perché ce n'era una più brava di me. Ma ero contentissima. La premiazione avveniva a metà dell'anno dopo e io aspettavo il giorno in cui sarei andata a ritirare il mio premio e a rivedere la mia maestra e i miei compagni. Il giorno prima di quello della premiazione suonarono alla porta di casa. Driin… chi sarà? Mia mamma va ad aprire. Era la bidella della scuola Mignon, che portava un pacchetto contenente un libro, e ha detto - potrei descrivervela, piccola e grassa-: "La signora direttrice manda questo premio per la bambina Elena O.; non deve venire domani alla premiazione per non profanare le scuole del Regno d'Italia". E' stato il primo dispiacere folle della mia vita. Ho pianto, ho urlato e… quel libro oltretutto era anche brutto, un libro di mitologia greca, fascistissimo. E ho pianto e urlato. Allora la mia mamma ha cercato di consolarmi dicendomi: "Faremo una bella festa noi in casa, faremo la premiazione". Ha fatto venire tutte le zie che fingevano di essere le patronesse e tutti i cuginetti piccoli che erano piccolissimi e non capivano; ognuno ha avuto un piccolo premio, la mamma s'è messa al piano e così abbiamo fatto una gran bella festa a casa. Ma quello è stato il più grande dispiacere, il mio primo grande dispiacere.

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case;
Voi che trovate tornando la sera
Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce la pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì e per un no
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d'inverno:
Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole:
Scolpitile nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli:
O vi si sfaccia la casa,
La malattia ve lo impedisca,
I vostri cari torcano il viso da voi.
Primo Levi

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