Mafia: dalle origini ai giorni nostri

Materie:Tesina
Categoria:Storia
Download:2734
Data:20.07.2007
Numero di pagine:19
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
mafia-origini-giorni-nostri_1.zip (Dimensione: 19.4 Kb)
trucheck.it_mafia:-dalle-origini-ai-giorni-nostri.doc     80.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

LA MAFIA: DALLE ORIGINI AI GIORNI NOSTRI

DEFINIZIONE
La mafia è un’organizzazione malavitosa, territorialmente collegata alla Sicilia, con una struttura piramidale che affonda i suoi tentacoli in tutti gli aspetti politici ed economici del paese.
E' importante la definizione della mafia data da Franchetti e Sonnino nella relazione finale della Commissione d'inchiesta, istituita nel 1875/76, dove si legge che «la mafia non è un'associazione che abbia forme stabili e organismi speciali... Non ha statuti, non ha compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti, se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male».

ETIMOLOGIA DEL TERMINE
Del termine mafia sono state infdividuate diverse possibili origini etimologiche,
Alcuni sostengono che mafia derivi dalla parola araba Ma Hias, "spacconeria", che sta in relazione con la spavalderia mostrata dagli appartenenti a tale organizzazione;
Altra derivazione possibile sarebbe sempre dalla lingua araba dalla parola mu'afak, che significa “protezione dei deboli".
Ancora altri fanno la fanno dervivare da maha, "cava di pietra"; dove si rifugiavano fautori dell'unità d'Italia e le squadre rurali occulte in appoggio a Garibaldi, che poi sarebbero stati ribattezzati mafiosi.
Un'altra ricostruzione è quella fatta nel 1897 dallo storico William Heckethorn che considera il termine Mafia come acronimo di Mazzini Autorizza Furti Incendi Avvelenamenti. Tale appello sarebbe stato rivolto alle organizzazioni segrete che nascevano sull'isola.
Infine, un’altra ricostruzione abbastanza leggendaria narra che un soldato francese chiamato Droetto violentò una giovane e che la madre terrorizzata per quanto accaduto alla figlia corse per le strade, urlando «Ma – ffia! Ma - ffia!» ovvero «mia figlia! mia figlia!» . Il grido della madre, ripetuto da altri, da Palermo si diffuse in tutta la Sicilia. Il termine mafia diventò così parola d'ordine del movimento di resistenza ed ebbe quindi genesi dalla lotta dei siciliani.
L'espressione mafia diviene un termine corrente a partire dal 1863, con il dramma “I mafiusi de la Vicaria” di Giuseppe Rizzotto e Gaetano Mosca, che ebbe grande successo e venne tradotto in italiano, napoletano e meneghino, diffondendo il termine su tutto il territorio nazionale.
Il documento ufficiale nel quale appare per la prima volta il termine mafia fu il rapporto del prefetto di Palermo Filippo Gualterio dell'aprile 1865, con riferimento a un'"associazione malandrinesca" ritenuta "dipendente dai partiti" e in particolare collegata con gli oppositori, dai borbonici ai garibaldini, ed era stato indicato tra i capi il generale garibaldino Corrao, ucciso nell'agosto del 1863.

ORIGINI
Sul periodo storico entro il quale collocare la data di nascita della mafia non vi è univocità di opinioni tra gli studiosi che si sono occupati del fenomeno. La diversità di opinioni nasce dal fatto che questa organizzazione, essendo segreta, non ha lasciato documenti scritti della sua costituzione, elenchi dei partecipanti, norme di comportamento, o regolamenti.

1) Alcuni fanno risalire l'origine della mafia ai primi dell’ottocento a seguito della progressiva scomparsa del mondo feudale e della nascita del processo di privatizzazione delle terre.
I nobili della Sicilia occidentale vivevano dei feudi che possedevano: il feudo medio superava tranquillamente i mille ettari, ma il signore non poteva amministrarli direttamente, perché lavorare comportava la perdita dei privilegi del proprio stato sociale. Già a partire dal Settecento assistiamo ad un processo di spezzettamento del latifondo feudale nelle “masserie”, grandi agglomerati edili che dominavano decine di ettari. Il feudo, suddiviso in masserie, veniva dato in custodia a uomini di pochi scrupoli, detti gabellotti perché pagavano al proprietario una “gabella”, cioè un affitto. Le terre erano coltivare da contadini e da braccianti che durante il lavoro erano controllati da guardie armate di fucile, i cosiddetti campieri. Ricorrendo a minacce, assassini, vendette spietate, gabellotti e campieri costringevano la massa inerme dei contadini ad accettare salari da fame e durissime condizioni di lavoro. . A chi era d’accordo con loro i mafiosi garantivano protezione e sicurezza.: divennero così potenti da rivoltarsi contro i proprietari terrieri e dettare legge in molte tenute, estorcendo denaro ai proprietari in cambio della protezione dei loro raccolti I mafiosi andrebbero individuati proprio nelle figure del gabelloto e del campiere, ovvero coloro che, speculando sul lavoro dei contadini, assicuravano la sopravvivenza di questa struttura feudale.
Fin d’allora si è sviluppata una sub-cultura criminale – è nata la mafia!
2) altri sono convinti che sia necessario andare ancora più indietro per risalire al periodo spagnolo per trovare, nel rapporto tra Stato e popolazione, una delle spiegazioni dell’insorgenza di questi fenomeni; gli Spagnoli possedevano già nel secolo XV le loro onorate società chiamate «Società degli uomini d' onore». In Sicilia, questa società segreta importata dagli Spagnoli ebbe pieno sviluppo, essa rappresentava il mezzo con cui le classi subalterne potevano difendersi dalle soverchierie dei potenti, con punizioni immediate, esemplari e plateali.

Tutti quanti, però, sono concordi nell’indicare gli anni dell’unificazione italiana come quelli fondamentali per la percezione, anche a livello istituzionale, del nuovo fenomeno che sarà chiamato mafia.

GLI SVILUPPI
Qualsiasi sia la tesi che si accetta in ordine all'origine del fenomeno mafioso, sta di fato che si formano delle vere organizzazioni locali, spesso legate a famiglie più importanti, che danno vita ad una sorta di rete di sette semi-segrete, di cosche, che consolidano il meccanismo mafioso basato sulla semplice logica di protezione-estorsione..
I modelli di organizzazione mafiosa si consolidano e iniziano a circolare e a diffondersi dalla seconda metà dell'800. I principali nuclei di irradiazione del fenomeno sono i paesi dell’Agrigentino, pur rimanendo il punto di riferimento Palermo.
SITUAZIONE POLITICA
L'unità d'Italia non migliora la situazione descritta. Il passaggio dallo stato Borbonico a quello Sabaudo consolidò l'organizzazione feudale e l'organizzazione mafiosa che si pose in forte contrasto con lo stato, auto-finanziandosi con attività illecite. Il periodo seguente all'Unità d'Italia, cioè a partire dal 1860, registra il compimento del processo di "istituzionalizzazione" della mafia.
Il governo centrale non fu in grado di porre in essere un'efficace azione repressiva della violenza privata esercitata dalle organizzazioni mafiose. Il governo centrale fu però anche colpevole in quanto divennere sempre più frequenti gli accordi in ambito locale tra rappresentanti dello stato e mafiosi. E così grazie all'appoggio dei mafiosi i politici guadagnavano il consenso elettorale mentre i mafiosi ottenevano in cambio ulteriore protezione dallo stato e possibilità di infiltrarsi a vari livelli nelle sue strutture.
La mafia si trasformò così diventando un organismo sostitutivo dello Stato e dell’ordine legale, intervenne nell’amministrazione della giustizia e nella gestione dell’economia, arrivando ad una seria d’attività legali da cui i mafiosi e le loro famiglie traevano sostentamento e vantaggi.
Questo periodo storico è caratterizzato dall' assassinio politico del gen. garibaldino Giovanni Corrao, oppositore del governo, avvenuto a Palermo il 3 agosto 1863; e da quello dell'ex sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia Emanuele Notarbartolo, avvenuto in treno presso Palermo il primo febbraio 1893. di questo omicidio venne accusato il deputato Raffaele Palizzolo che dopo una prima condanna a trent'anni della Corte d'assise di Bologna sarà assolto nel processo di Firenze nel 1904.
La scena politica nazionale è dominata dai 5 governi di Giovanni Giolitti che dal sociologo siciliano Giuseppe Bruccoleri viene accusato di essere il «manutengolo» della mafia, mentre Gaetano Salvemini lo definì "ministro della malavita".
Negli anni che vanno dal 1875 al 1915 le condizioni politiche della Sicilia cambiano di molto, e intanto i legami politici fra classe dominante e mafiosi diventano più personali e diretti.
Ad alimentare questa situazione interviene anche la legge elettorale che dal 1882 subisce varie modifiche; gli elettori passano dal 2 per cento del 1861, all'8 per cento nel 1882, fino al suffragio generale (maschile) del 1913.
Aumentano perciò in primo luogo gli eleggibili, e mentre principi e marchesi si rifugiano al Senato, i cui componenti sono nominati dal re, numerosi baroni (i professionisti, i possidenti) lottano fra di loro per andare alla Camera dei deputati. La mafia interviene naturalmente a favore dei suoi uomini ricorrendo ad ogni mezzo per farli eleggere.

SITUAZIONE SOCIALE
La situazione sociale a partire dal 1875 vede l'affermarsi accanto ai nobili di una nuova borghesia agraria formata da professionisti, capitalisti, possidenti e dalla crema dei gabellotti, che acquistano i beni feudali ora in libero commercio e fanno crescere nuovi gruppi mercantili-finanziari-industriali:alla fine dell'Ottocento portano da 200.000 a 650.000 gli ettari di terra non in mano a nobili.
Con questa borghesia la mafia ha forti legami, anche di sangue, perché ai mafiosi è necessario “un patrono” che sia una persona colta che conosca le tasse e gli aspetti amministrativi, che sappia far manovrare le cause penali, che possa intercedere presso la polizia. Il patrono diventa così il “guanto giallo della mafia”: il borghese-barone è persona non mafiosa a cui i mafiosi (nella quasi totalità analfabeti) delegano i rapporti col mondo civile, con lo Stato, cioè, e con i suoi apparati. Il borghese-barone dà informazioni ai mafiosi e ne guida le vendette e le azioni criminose.
La situazione dei contadini era drammatica perchè venivano sfruttati dai gabellotti che a loro volta dovevano pagare gli affitti ai proprietari terrieri. I salari scendono sotto il livello di sussistenza che spinge i contadini ad emigrare: dal 1880 al 1913,vanno via più di 800.000 persone, di cui 200.000 circa rientreranno entro il 1915.
Per cercare di risolvere questa situazione e tutelare i propri diritti, già a partire dal 1890 in tutta la Sicilia gli agricoltori si unirono in fasci che erano una specie di sindacati agricoli guidati dai socialisti locali. Tali movimenti furono condannati dal governo di Roma che, con l'allora ministro Crispi inviò l'esercito per scioglierli con l'uso della forza.
Poco prima che fossero sciolti, la mafia aveva cercato di infilare alcuni suoi uomini in queste organizzazioni in modo che, se mai avessero avuto successo, essa non avrebbe perso i suoi privilegi. D'altro canto, però, continuò ad aiutare i gabellotti in modo che, chiunque fosse uscito vincitore, lei ci avrebbe guadagnato fungendo da mediatrice tra le parti.
Quando la mafia capì che lo stato sarebbe intervenuto con la legge marziale, si distaccò dai fasci e anzi aiutò il governo nella loro repressione: i campieri, i guardiani, i curatoli sono in prima fila a sparare contro le manifestazioni socialiste e a provocare veri e propri eccidi, come a Grammichele, dove nel 1905 vengono uccisi 18 contadini, e 200 furono feriti.E’ la mafia che negli anni del giolittismo ammazza i sindacalisti Panepinto e Vetro.

DAL FASCISMO ALLA 2° GUERRA MONDIALE
I primi attacchi al potere mafioso furono probabilmente quelli sferrati durante il periodo fascista.
Il Duce si recò in Sicilia nel 1925 e lì si rese conto della prepotenza e del potere che aveva raggiuto la mafia quando il sindaco mafioso di Piana degli Albanesi (Pa), Francesco Cuccia, lo rimproverò di essersi fatto scortare dalla polizia, dicendogli non ne avrebbe avuto bisogno fintanto che sarebbe rimasto in sua compagnia. Il Duce si rese conto allora che in Sicilia c'era un'altro potere, un'altro stato e lui non avrebbe naturalmente potuto tollerare di essere protetto da un miserabile padrino di provincia.
Il Duce decise di inviare in Sicilia il prefetto Cesare Mori, che si conquistò il soprannome di prefetto di ferro a causa dei suoi metodi piuttosto brutali: vi fu un massiccio ricorso a misure poliziesche che andarono dal confino alla confisca del patrimonio, volendo sradicare i mafiosi dai territori da loro controllati, screditandone allo stesso tempo il prestigio acquisito presso le varie comunità.
Mori fece condarrare tantissime persone anche per poter dare al Duce la prova del successo ottenuto con l’operazione. Furono decine e decine gli uomini arrestati e condannati anche a seguito di torture e processi sommari. Lo Stato cercava di recuperare la sua funzioni di protezione e di regolamentazione economica.
Dopo il verificarsi di alcuni arresti eclatanti di noti capimafia, a molti mafiosi non restarono che due alternative: l’emigrazione verso gli Stati Uniti d’America o l’ingresso ufficiale nel partito fascista.
C'è da dire anche anche che i mezzi brutali utilizzati dalle forze di polizia nelle tante azioni condotte per combattere il fenomeno mafioso, portarono spesso ad un progressivo aumento della sfiducia da parte della popolazione, della gente, nei confronti dello Stato, gettando così nuove basi per una rinascita della mafia stessa, che dello scontento popolare sapeva ben fare un suo punto di forza.
Non tutti gli storici sono d'accordo sulla reale azione esercitata dal prefetto Mori sui mafiosi: alcuni sostengono che abbia eliminato solo la bassa mafia come dimostra il fatto che nelle zone dove le associazioni mafiose furono sradicate esse sono ricomparse successivamente. Certo è che quando Mori arrivò agli intoccabili e al cuore della mafia fu nominato senatore e spostato dalla Sicilia ed è altrettanto vero che la mafia in generale si schierò contro il fascismo perchè per i suoi affari aveva bisogno della democrazia e di tutte le libertà e diritti che la democrazia garantisce..
Durante la seconda guerra mondiale, una buona mano al ritorno al potere della mafia in Sicilia fu dato dagli americani. Infatti numerosi boss italoamericani quali Lucky Luciano e Vito Genovese, che erano in carcere negli USA, furono contattati dai servizi segreti americani per aiutare gli alleati a conoscere i punti strategici e mantenere il controllo sull'isola in cambio della libertà. Non furono contattati solo boss americani ma anche italiani, come Vincenzo Di Carlo, Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Questi contatti avevano lo scopo di facilitare lo sbarco alleato sulle coste siciliane e successivamente, quando il controllo dell'isola era affidato agli alleati, a mantenere l'isola stabile dal punto di vista politico. In questo periodo la mafia, grazie alla collaborazione con gli alleati riorganizza il suo vecchio potere.
Molti suoi uomini noti ebbero cariche importanti: per esempio, un mafioso celeberrimo, don Calogero Vizzini, fu nominato da un tenente americano sindaco di Villalba. Vito Genovese, benché ancora ricercato dalla polizia degli Stati Uniti perchè aveva commesso molti reati, divenne il braccio destro del governatore Poletti.
Il governo militare si servì della mafia perchè aveva bisogno dei suoi servizi e delle sue concoscenze del mondo sotterraneo. Ma questo permise alla mafia oltre che di riorganizzarsi anche di avere un riconoscimento di legalità che le consentiva di identificarsi con il potere. La nuoca classe dirigente saldarono o ripresero solidi legami con la malavita americana, indirizzandosi verso il tipo di criminalità associata “industriale” caratteristico del gangsterismo USA nel periodo tra le due guerre.

DAL DOPOGUERRA A OGGI
Dopo la seconda guerra mondiale, la società siciliana subì una profonda trasformazione: diminuisce peso economico dell'agricoltura e si sviluppano il commercio e il settore terziario pubblico. In questo periodo la pubblica amministrazione in Sicilia divenne l'ente più importante in fatto di economia.
La mafia naturalmente seppe sfruttare adeguatamente questo cambio di tendenze, e si buttò nei nuovi settori socialmente ed economicamente predominanti. Per riuscirci dovette stringere, più di quanto aveva fatto in passato, più stretti rapporti con la politica e con il partito maggiore in Italia e in Sicilia, cioè la Democrazia Cristiana. Si instaurò un profondo rapporto di scambio grazie al quale la mafia traeva ingenti guadagni da appalti truccati, dalla riscossione delle tasse per conto dello stato, dall'assunzione di personale per gli enti statali e in più poteva godere della più totale immunità; la DC come partito ci guadagnava voti perché la mafia era in grado di influenzare grandi quantità di elettori. I politici della DC come singoli invece ci guadagnavano in quanto venivano corrotti con grandi somme di denaro.
I risultati più abberranti di questo connubio si vedono negli anni in cui nella città di Palermo è sindaco Salvo Lima mentre Vito Ciancimino è assessore ai lavori pubblici. In 4 anni vennero concesse 4205 licenze edilizie, di cui 3011 intestate alla stesse 5 persone, dei muratori che risultavano nullatenenti e che si è poi scoperto essere dei prestanome. Le ville situate al centro della città vennero demolite per costruire palazzi giganteschi. La stessa sorte toccò alle periferie e a molte zone verdi. Tutto questo avvenne anche grazie alla compiacenza di alcuni grandi istituti di credito siciliani che finanziavano gli imprenditori mafiosi..
Grazie all'impunità di cui govedva e all'omertà su cui poteva contare, la mafia agisce indisturbata fino agli anni 70.
Ma l'accrescere degli interessi economici fa scatenare le prime vere e propeir guerre tra le cosche. La prima guerra di mafia fu scatenata 1962 quando Calcedonio di Pisa inviato in America per consegnare una partita di droga, fu accusato di averne sottratto una parte e fu ucciso. Per rappresaglia, fu ucciso Salvatore La Barbera e dopo altri attentati suo fratello Antonio.
Negli anni 70 la mafia passò dal contrabbando di sigarette al traffico di stupefacenti nel 1978 scoppiò una seconda guerra interna alla mafia, tra la vecchia mafia storica, composta principalmente dalle famiglie affiliate ai Bontate, ai Badalamenti e ai Buscetta, e quella Corleonese. Questi ultimi furono un gruppo dirigente estremamente feroce, che per dimostrare il suo potere compì una serie di omicidi eccellenti eliminando tutte le personalità dello stato che potevano costituire un ostacolo. In appena due anni, morirono in questa guerra più di mille uomini e tutti appartenenti ad uno schieramento, quello dei gruppi che si erano arricchiti con la pizza connection.
Le guerre di mafia determinano un grosso indebolimento interno nella struttura piramidale della mafia e molti mafiosi anche a causa delle efferatezze commesse durante la guerra di mafia si consegnarono allo stato. Il più importante dei pentiti è stato Tommaso Buscetta che cominciò a parlare e svelò le notizie più importanti su Cosa Nostra e la sua attività. Grazie alle sue rivelazioni il Pool antimafia ideato da Antonino Caponnetto e composto anche da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino riuscì ad attivare contro Cosa Nostra il maxirpocesso di Palermo. Questo processo rappresenta il primo vero attacco a Cosa Nostra. Furono coinvolti oltre 1.400 imputati ed emesse 342 condanne con 2665 anni di carcere e 19 ergastoli. Tra i condannati eccellenti ci sono Luciano Liggio, Bernardo Provenzano e Salvatore Riina.
Dopo questo primo processo ne seguirono altri, vi fu una stagione di veleni interni alla magistratura e alla politica italiana mentre la mafia cercava di riprendersi.
C'è da dire che la guerra alla mafia è stata molto più difficile perchè per tantissimi anni se ne è negata l'esistenza come organizzazione criminale. Solo il giudice Nino Caponnetto, che costituì il Pool antimafia di Palermo, intuì che tutti i fatti criminali, omicidi, furti, rapine, incendi, scippi, sequestri di persona, bisognava inquadrarli in un’unica logica: un’attività mafiosa. Bisogna aspettare il 1982 perchè il Parlamento italiano arrivasse ad approvare una legge che riconosceva l’esistenza di un’associazione a delinquere di stampo mafioso e ad introdurre l'art. 41 bis per prevede il carcere duro per i reati di mafia.
Agli inizi degli anni 90 il clan dei Corleonesi cerca di riorganizzare Cosa nostra e di reagire ai continui attacchi della magistratura con una serie di attentati che culminano con la strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone e nella strage di via d'Amelio in cui morì Paolo Borsellino.
Le stragi in Sicilia hanno portato ad una durissima presa di posizione nei confronti della mafia di tutta la società civile. Migliaia di persone sono scese in piazza e nelle strade a manifestare, c'è stata la cosidetta rivolta dei lenzuoli perchè moltissime finestre e terrazze sono state coperte da lenzuoli e cartelli contro la mafia. C'è stata anche una importante attività di educazione sulla legalità con lezioni tenute direttamente dai magistrati o dai parenti delle vittime.
Lo stato con l'operazione "Vespri Siciliani" ha inviato nell'isola ben 20.000 soldati per presidiare gli obiettivi sensibili come tribunali, case di magistrati, aeroporti, porti ecc.; La presenza dell'esercito, nonostante le numerose critiche di aver "militarizzato l'isola", ha portato una riduzione dei crimini e anche alcuni arresti eccellenti come Totè Riina e Leolcuca Bagarella e ha consentito alla polizia di dedicarsi esclusivamente alle indagini.
Lo stesso giorno dell'arresto di Riina il 15 gennaio 1993 arriva in Sicilia Giancarlo Caselli che, grazie al sostegno popolare e alla presenza dell'esercito, riesce a creare ancora problemi alla mafia.
L'ultimo importante attacco sferrato alla mafia è stato l'arresto nel 2006 di Bernardo Provenzano, divvenuto capo di Cosa nostra dopo l'arresto di Riina e Bagarella.
Che cosa è la mafia adesso? Cosa Nostra non è più visibile come prima ma questo non significa che sia scomparsa. E' molto probabile che stia agendo in maniera molto più sottile ed efficace di prima..
Le strade che si ipotizza potrebbe intraprendere Cosa nostra sono due: la prima prevede un passaggio di poteri, che potrebbe far ritornare al vertice di Cosa nostra un palermitano o un trapanese per continuare allo stesso modo la gestione dell'organizzazione; si fanno i nomi di Matteo Messina Denaro, latitante dal 1993) o di Salvatore Lo Piccolo, latitante da 25 anni.
La seconda ipotesi è una sorta di riorganizzazione della mafia sul modello calabro: nessun supercapo ma ognuno con capacità gestionale autonoma dei proventi ricavati dal proprio territorio.

I PROTAGONISTI
La figura di spicco negli anni è Don Vito Cascio Ferro che può essere considerato a tutti gli effetti il vero precursore della mafia. Seppe organizzare la sua attività economica e criminosa così bene che possedeva perfino una flotta di pescherecci per i trasporti in Tunisia e in America in cui aveva importanti collegamenti con la cosidetta "mano nera" americana. Campione insuperato nel riscuotere "u pizzu", Don Vito si era ingegnato per estorcere soldi perfino agli innamorati che passavano sotto la finestra dell'amata e che dovevano pagare "a cannila" (in volgare, moccolo) che il mafioso aveva retto per proteggere la manovra amorosa. Il poliziotto italo-americano Joe Petrosino scoprì i suoi traffici e la sua attività criminosa e morì per mano dei suoi scagnozzi nel 1909. Don Vito viene arrestato dal prefetto Mori e muore in carcere nel 1993.
lucky Luciano
TOTO’ RIINA: è dapprima il braccio destro di Luciano Leggio di cui, presto, prenderà il posto come capo della famiglia dei Corleonesi. Totò Riina non è colto, non ha studiato (come dirà in un processo, «sono un quinta elementare»), ma per fare carriera in Cosa Nostra non c'è bisogno di una laurea. Lui comincia presto: uccide il suo primo uomo a diciannove anni.
BAGARELLA LEOLUCA: braccio destro.
BERNARDO PROVENZANO: Lo chiamano «il ragioniere» (e questo potrebbe far pensare che sia persona più moderata, meno sanguinaria dei suoi compagni), però lo chiamano anche «Binnu» (Bernardo), «u' tratturi» (il trattore), perché, dove passa lui, «non cresce più l'erba».

COSA NOSTRA

La mafia in Sicilia è solo Cosa Nostra. Le prime importanti informazione e rivelazioni su Cosa Nostra arrivano dall'interrogatorio di Tommaso Buscetta. Cosa Nostra è disciplinata da regole rigide non scritte ma tramandate oralmente. nessuno troverà mai elenchi di appartenenza a Cosa Nostra, né attestati di alcun tipo, né ricevute di pagamento di quote sociali.
- La cellula primaria è costituita dalla "famiglia", una struttura a base territoriale, che controlla una zona della città o un intero centro abitato da cui prende il nome (famiglia di Porta Nuova, famiglia di Villabate e così via). La famiglia è composta da "uomini d'onore" o "soldati" coordinati, per ogni gruppo di dieci, da un "capodecina" ed è governata da un capo di nomina elettiva, chiamato anche "rappresentante", il quale è assistito da un "vice capo" e da uno o più "consiglieri".
- L'attività delle famiglie è coordinata da un organismo collegiale, denominato "commissione" o "cupola", di cui fanno parte i "capi-mandamento" e, cioè, i rappresentanti di tre o più famiglie territorialmente contigue. Generalmente, il "capo mandamento" è anche il capo di una delle famiglie, ma, per garantire obiettività nella rappresentanza degli interessi del "mandamento" ed evitare un pericoloso accentramento di poteri nella stessa persona, talora è accaduto che la carica di "capo mandamento" fosse distinta da quella di "rappresentante" di una famiglia
- La commissione è presieduta da uno dei capi-mandamento: in origine, forse per accentuarne la sua qualità di primus inter pares, lo stesso veniva chiamato "segretario" mentre, adesso, è denominato "capo". La commissione ha una sfera d'azione, grosso modo, provinciale ed ha il compito di assicurare il rispetto delle regole di Cosa Nostra all'interno di ciascuna famiglia e, soprattutto, di comporre le vertenze fra le famiglie.
- La mafia palermitana ha esercitato, pur in mancanza di un organismo di coordinamento, una sorta di supremazia su quella delle altre province, nel senso che queste ultime si adeguavano alle linee di tendenza della prima.
- Non meno minuziose sono le regole che disciplinano l' "arruolamento" degli "uomini d'onore" ed i loro doveri di comportamento.
I requisiti richiesti per l'arruolamento sono: salde doti di coraggio e di spietatezza; una situazione familiare trasparente e, soprattutto, assoluta mancanza di vincoli di parentela con "sbirri".
La prova di coraggio ovviamente non è richiesta per i professionisti, pubblici amministratori, imprenditori che non vengono impiegati generalmente in azioni criminali ma prestano utilissima opera di fiancheggiamento e di copertura in attività apparentemente lecite.
Il soggetto in possesso di questi requisiti viene cautamente avvicinato per sondare la sua disponibilità a far parte di un'associazione avente lo scopo di "proteggere i deboli ed eliminare le soverchierie". Ottenutone l'assenso, il neofita viene condotto in un luogo defilato dove, alla presenza di almeno tre uomini della famiglia di cui andrà a far parte, si svolge la cerimonia del giuramento di fedeltà a Cosa Nostra. Egli prende fra le mani un'immagine sacra, la imbratta con il sangue sgorgato da un dito che gli viene punto, quindi le dà fuoco e la palleggia fra le mani fino al totale spegnimento della stessa, ripetendo la formula del giuramento che si conclude con la frase: "Le mie carni debbono bruciare come questa santina se non manterrò fede al giuramento". Lo status di "uomo d'onore", una volta acquisito, cessa soltanto con la morte; il mafioso, quali che possano essere le vicende della sua vita, e dovunque risieda in Italia o all'estero, rimane sempre tale.
L' "uomo d'onore", dopo avere prestato giuramento, comincia a conoscere i segreti di Cosa Nostra e ad entrare in contatto con gli altri associati.
In ogni caso, le conoscenze del singolo "uomo d'onore" sui fatti di Cosa Nostra dipendono essenzialmente dal grado che lo stesso riveste nell'organizzazione, nel senso che più elevata è la carica rivestita maggiori sono le probabilità di venire a conoscenza di fatti di rilievo e di entrare in contatto con "uomini d'onore" di altre famiglie
Ogni "uomo d'onore" è tenuto a rispettare la "consegna del silenzio": non può svelare ad estranei la sua appartenenza alla mafia, né, tanto meno, i segreti di Cosa Nostra; è, forse, questa la regola più ferrea di Cosa Nostra, quella che ha permesso all'organizzazione di restare impermeabile alle indagini giudiziarie e la cui violazione è punita quasi sempre con la morte.
All'interno dell'organizzazione, poi, la loquacità non è apprezzata: la circolazione delle notizie è ridotta al minimo indispensabile e l' "uomo d'onore" deve astenersi dal fare troppe domande, perché ciò è segno di disdicevole curiosità ed induce in sospetto l'interlocutore.
Quando gli "uomini d'onore" parlano tra loro, però, di fatti attinenti a Cosa Nostra hanno l'obbligo assoluto di dire la verità e, per tale motivo, è buona regola, quando si tratta con "uomini d'onore" di diverse famiglie, farsi assistere da un terzo consociato che possa confermare il contenuto della conversazione. Chi non dice la verità viene chiamato "tragediaturi" e subisce severe sanzioni che vanno dalla espulsione (in tal caso si dice che l' "uomo d'onore è posato") alla morte.
Così, attraverso le regole del silenzio e dell'obbligo di dire la verità, vi è la certezza che la circolazione delle notizie sia limitata all'essenziale e, allo stesso tempo, che le notizie riferite siano vere.
Questi concetti sono di importanza fondamentale per valutare le dichiarazioni rese da "uomini d'onore" e, cioè, da membri di Cosa Nostra e per interpretarne atteggiamenti e discorsi. Se non si prende atto della esistenza di questo vero e proprio "codice" che regola la circolazione delle notizie all'interno di "Cosa Nostra" non si riuscirà mai a comprendere come mai bastino pochissime parole e perfino un gesto, perché uomini d'onore si intendano perfettamente tra di loro.
Anche la "presentazione" di un uomo d'onore è puntualmente regolamentata dal codice di Cosa Nostra allo scopo di evitare che nei contatti fra i membri dell'organizzazione si possano inserire estranei. E' escluso, infatti, che un "uomo d'onore" si possa presentare da solo, come tale, ad un altro membro di Cosa Nostra, poiché, in tal modo, nessuno dei due avrebbe la sicurezza di parlare effettivamente con un "uomo d'onore". Occorre, invece, l'intervento di un terzo membro dell'organizzazione che li conosca entrambi come "uomini d'onore" e che li presenti tra loro in termini che diano l'assoluta certezza ad entrambi dell'appartenenza
Il mafioso, come si è accennato, non cessa mai di esserlo quali che siano le vicende della sua vita.
L'arresto e la detenzione non solo non spezzano i vincoli con Cosa Nostra ma, anzi, attivano quell'indiscussa solidarietà che lega gli appartenenti alla mafia: infatti gli "uomini d'onore" in condizioni finanziarie disagiate ed i loro familiari vengono aiutati e sostenuti, durante la detenzione, dalla "famiglia" di appartenenza; e spesso non si tratta di aiuto finanziario di poco conto, se si considera che, come è notorio, "l'uomo d'onore rifiuta il vitto del Governo" e, cioè, il cibo fornito dall'amministrazione carceraria, per quel senso di distacco e di disprezzo generalizzato che la mafia nutre verso lo Stato
Unica conseguenza della detenzione, qualora a patirla sia un capo famiglia, è che questi, per tutta la durata della carcerazione, viene sostituito dal suo vice in tutte le decisioni, dato che, per la sua situazione contingente, non può essere in possesso di tutti gli elementi necessari per valutare adeguatamente una determinata situazione e prendere, quindi, una decisione ponderata. Il capo, comunque, continuando a mantenere i suoi collegamenti col mondo esterno, è sempre in grado di far sapere al suo vice il proprio punto di vista, che però non è vincolante, e, cessata la detenzione, ha il diritto di pretendere che il suo vice gli renda conto delle decisioni adottate.
Altra regola fondamentale di Cosa Nostra è l'assoluto divieto per l'"uomo d'onore" di fare ricorso alla giustizia statuale. Unica eccezione, secondo il Buscetta, riguarda i furti di veicoli, che possono essere denunziati alla polizia giudiziaria per evitare che l'uomo d'onore, titolare del veicolo rubato, possa venire coinvolto in eventuali fatti illeciti commessi con l'uso dello stesso; naturalmente, può essere denunciato soltanto il fatto obiettivo del furto, ma non l'autore.

Esempio



  


  1. Giampiero.

    sto seguendo una ricerca.

  2. Giampiero.

    sto facendo una ricerca scolastica.