Italia postunitaria ed equilibrio europeo fra grandi potenze.

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Testo

I problemi dell’Italia post unitaria

Italia e Agricoltura
Nel 1861, al momento dell’unità, l’Italia era popolata da circa 22 milioni di abitanti.
Il tasso medio di analfabetismo era del 78%, con punte del 90%.
Pochissimi facevano uso corrente della lingua italiana, mentre tutti gli altri comunicavano attraverso i dialetti, e inoltre l’Italia, come era sempre stata, costituiva uno dei paesi europei con maggior numero di città.
La grande maggioranza degli italiani viveva nelle campagne e nei piccoli centri rurali.
L’agricoltura occupava il 70% della popolazione attiva contro il 18% dell’industria e dell’artigianato e il 12% del settore terziario.
L’agricoltura italiana nel suo complesso non era affatto favorita dalle condizioni naturali. Il suolo della penisola infatti era per quasi due terzi montagnoso. C’erano poi molte terre incolte e terreni paludosi infestati dalla malaria.
Sono nella zona della Pianura padana si erano sviluppate numerose aziende agricole moderne che univano l’agricoltura all’allevamento dei bovini. Coesistevano accanto ad esse, nelle regioni del Nord, le grandi proprietà coltivate a cereali e le piccole aziende a conduzione familiare.

La mezzadria
In tutta l’Italia centrale, in particolare Toscana, Marche e Umbria, dominava la mezzadria.
La terra era divisa in poderi, di piccole-medie dimensioni, in cui le colture di cereali si mescolavano a quelle di olivi, viti e alberi da frutta.
Ciascun podere produceva quanto era necessario per il mantenimento della famiglia e per il pagamento del canone in natura dovuto al padrone.
La mezzadria infatti era basata sulla ripartizione dei ricavi fra il proprietario (a cui corrispondeva metà del prodotto) e il coltivatore.
La mezzadria finiva con il costituire un ostacolo all’innovazione tecnica e allo sviluppo di un’agricoltura moderna.

Il Mezzogiorno
La situazione del Mezzogiorno era diversa.
Le campagne meridionali portavano l’impronta del latifondo, con popolazione concentrata in pochi e grossi borghi rurali. Le tracce dell’ordinamento feudale si facevano sentire pesantemente nei contratti agrari, profondamente arcaici e basati sullo scambio in natura, e nei rapporti fra i signori e i contadini. (vedi interpretazione storica del Risorgimento di Gramsci).
Quella delle zone del Mezzogiorno era una situazione limite. L’autoconsumo e lo scambio in natura rappresentavano una realtà largamente diffusa.
Tutto ciò si rifletteva nel bassissimo livello di vita della popolazione rurale.
I contadini italiani, nella loro grande maggioranza, vivevano ai limiti della sussistenza fisica. Si nutrivano esclusivamente di granturco, avena e segale e di pochi legumi, andavano quindi soggetti alle malattie di denutrizione, prima fra tutte la pellagra.
Fra gli uomini politici settentrionali ben pochi avevano conoscenza diretta delle condizioni del Mezzogiorno. Lo stesso Cavour, che aveva girato in lungo e in largo per l’Europa, non si era mai spinto a sud di Firenze. Il romagnolo Farini scriverà una lettera a Cavour in cui non saprà nascondere il proprio stupore e il proprio aristocratico disprezzo.
Il malessere inoltre delle masse contadine si sommò a una diffusa ostilità verso il nuovo ordine politico, i disordini si fecero più estesi e frequenti fino a trasformarsi in un generale moto di rivolta.

Fin dall’estate del 1861, tutte le regioni del Mezzogiorno continentale, erano percorse da bande di irregolari, dove briganti si mescolavano ai contadini insorti. Le bande assalivano piccoli centri e li occupavano per giorni, massacrando i notabili liberali e incendiando gli archivi comunali.
A queste aggressioni, i governi reagirono con spietata energia.
Nel 1863 il Parlamento approvò una legge che istituiva, nelle province dichiarate in stato di brigantaggio, un vero e proprio regime di guerra: tribunali militari per giudicare i ribelli e fucilazione immediata per chi avesse opposto resistenza con le armi.
Il grande brigantaggio fu sconfitto nel giro di pochi anni

La Destra storica
Il 6 Giugno 1861 moriva a Torino a soli cinquant’anni, il conte di Cavour: la classe dirigente moderata perdeva così il suo leader naturale e il suo esponente più capace.
I successori di Cavour si attennero sostanzialmente alla politica da lui già impostata nelle grandi linee: una politica rispettosa delle libertà costituzionali e insieme energicamente accentratrice, decisamente liberista in campo economico, laica in materia di rapporti fra Stato e Chiesa.
Il gruppo dirigente che governò ininterrottamente il paese nel primo quindicennio di vita unitaria non era molto diverso da quello che si era venuto formando dopo il 49 nel piemonte costituzionale.
Il nucleo centrale era costituito da piemontesi, emiliani e toscani. Meno numerosa era la rappresentanza delle regioni meridionali.
Questi uomini formavano un gruppo abbastanza omogeneo, sia dal punto di vista sociale sia sotto il profilo storico.
Provenivano da famiglie di proprietari terrieri ed erano spesso di origine aristocratica.
Nei primi parlamenti dell’Italia unita, la maggioranza si collocava a destra, e come “destra” fu definita nel linguaggio politico corrente – l’aggettivo “storica” fu aggiunto più tardi, a significare la funzione decisiva e peculiare svolta da questa classe dirigente nella storia d’Italia.
In realtà, più che una forza di destra, essa costituiva un gruppo di centro moderato.
I leader della Destra, ammiratori dell’esempio britannico, erano disposti a riconoscere in teoria la validità di un sistema decentrato, fondato sull’autogoverno delle comunità locali.
Nei fatti però prevalsero le esigenze pratiche immediate, che spinsero i governanti ad orientarsi verso un modello di Stato accentrato: basato cioè su ordinamenti uniformi per tutto il Regno e su una rigida gerarchia di funzionari dipendenti dal centro.
Ricordiamo a questo proposito delle leggi decisive in questo periodo: Legge Casati (che stabiliva il principio dell’istruzione elementare obbligatoria) e Legge Rattazzi (poneva i comuni e le province sotto il controllo dei sindaci, di nomina regia e del prefetti, rappresentanti del potere esecutivo.
Fra i motivi che spinsero la classe dirigente di accantonare ogni progetto di decentramento amministrativo, il principale fu costituito dalla situazione che si venne a creare nel Mezzogiorno. Mancò infatti ai governi della Destra, la capacità o la volontà di attuare una politica per il Mezzogiorno, ormai bruciante realtà, capace di ridurre le cause del malcontento.

La sinistra
Sui banchi dell’opposizione in Parlamento, sedevano insieme agli esponenti della vecchia sinistra piemontese, quei patrioti mazziniani o garibaldini –da Crispi a Benedetto Cairoli-.
Rispetto alla Destra, la Sinistra si appoggiava su una base sociale più ampia e composita, formata essenzialmente dai gruppi piccolo e medio-borghesi delle città –professionisti, intellettuali, commercianti e imprenditori- e comprendeva anche gruppi di operai e artigiani del Nord.
La Sinistra si contrappose nettamente alla maggioranza moderata facendo proprie le rivendicazioni della democrazia risorgimentale: il decentramento amministrativo e soprattutto il completamento dell’unità, da raggiungersi tramite la ripresa dell’iniziativa popolare. Iniziativa popolare… Alfredo Oriani dirà: “La rivoluzione senza popolo”.
Non bisogna dimenticare che Destra e Sinistra erano entrambe espressione di una classe dirigente molto ristretta, di un paese legale assai poco rappresentativo del paese reale.

Equilibrio europeo e politica delle grandi potenze

Francia:

Il nuovo regime francese inaugurò un modello politico di nuovo genere, che da allora fu detto bonapartismo.
Nel bonapartismo legittimava un potere fondato in realtà sulla forza delle armi, il centralismo autoritario di univa a una certa dose di riformismo sociale.
All’autoritarismo e al centralismo, Napoleone III univa la pratica del paternalismo e del consenso popolare.
Le costruzioni ferroviarie e le grandi opere pubbliche promosse dal regime bonapartista, svolsero la funzione di motore dello sviluppo, sia per l’edilizia sia per i settori di punta.
Un aspetto importante della cultura fu quello che può definirsi tecnocratico: la tendenza ad affidare sempre maggior potere ai tecnici –scienziati, ingegneri…- e a vedere nel trionfo della tecnica.

La guerra in Crimea
Ai decantati propositi di progresso e di pace si contrapponeva nel Secondo Impero il necessario recupero della tradizione bonapartista e della sua vocazione belli cistica.
La prima occasione per misurare le nuove ambizioni imperiali fu offerta dall’improvviso riacutizzarsi della questione d’Oriente.
Nel Novembre 53, la Russia aprì le ostilità contro l’impero ottomano.
Gli iniziali successi della Russia suscitarono la reazione del governo inglese che temeva un improvviso tracollo dell’Impero Ottomano.
Alla Gran Bretagna si associò subito Napoleone III, interessato all’affermazione della presenza francese nel Mediterraneo.
Gli eserciti alleati sbarcarono nella penisola di Crimea e posero l’assedio a Sebastopoli.
Alla guerra partecipò anche il Piemonte con un corpo di spedizione e si risolse nel lunghissimo assedio nel quale nel 1855 cadde la città.
Nel Febbraio 1865, un congresso delle potenze europee tenuto a Parigi, confermò la neutralizzazione del Mar Nero. L’impero ottomano vide garantita la sua integrità e confermata la sua sovranità nominale sui Principati autonomi di Serbia, Moldavia.
La Francia non ottenne risultati concreti, ma accrebbe il suo prestigio svolgendo un ruolo da protagonista al congresso.
L’appoggio ai movimenti nazionale che lottavano contro l’equilibrio del congresso di Vienna rappresentò una direttiva fondamentale nella politica estera del Secondo Impero. L’episodio più significativo fu l’alleanza con il Piemonte, nel 1858, culminata nella guerra vittoriosa contro l’Austria.

Lo scontro con la Prussia
Uscita trionfante dalla guerra con l’Austria, la Prussia di Bismarck e di Guglielmo I poteva accingersi a realizzare l’ultima fase del suo ambizioso programma: l’unificazione di tutti gli Stati della Confederazione germanica in un grande Reich tedesco. L’ultimo ostacolo era rappresentato dalla Francia di Napoleone III, deciso a non consentire ulteriori ingrandimenti alla Prussia.
L’occasione per il conflitto fu offerta da una questione dinastica. Nel 68 il trono di Spagna era rimasto vacante e la corona era stata offerta a un parente del re di Prussia.
La Francia in tal modo veniva accerchiata, quindi si iniziarono a definire tendenze bellicose.
Bismarck seppe sfruttare questa cosa, anzi le esasperò rilasciando un comunicato stampa formulato in modo volutamente provocatorio dopo un incontro fra Guglielmo I e l’ambasciatore francese.
Quel comunicato provocò in Francia un’ondata di furore nazionalistico. Il governo e l o stesso imperatore, il 19 Luglio 1870 dichiararono guerra alla Prussia.
La Francia affrontò il conflitto con grande entusiasmo ma con scarsa preparazione militare. Il primo Settembre, una metà dell’esercito francese era costretta ad attestarsi nella fortezza di Mezt, mentre l’altra metà veniva accerchiata a Sedan e costretta ad arrendersi.
A Parigi, assediata dai prussiani, fu istituito un governo provvisorio.
Invano il ministro della guerra Gambetta riuscì a rianimare la resistenza mobilitando il popolo contro gli invasori.
Fu firmato l’armistizio il 28 gennaio 1871.
Il 9 Dicembre fu proclamato quindi l’impero tedesco e Guglielmo I fu incoronato imperatore tedesco (e non “di Germania”, per non urtare i particolarismi dei vecchi Stati che avrebbero conservato nel nuovo Reich ampie autonomie).
Con il Trattato di Francoforte, la Francia fu costretta a corrispondere una pesante indennità di guerra e a mantenere truppe d’occupazione tedesche sul proprio territorio fino al pagamento di questa indennità. Fu costretta inoltre a cedere al Reich l’Alsazia e la Lorena, province di confine di notevole importanza e strategica.
Si trattò di una vera e propria umiliazione nazionale.

Nella primavera del 1871, la Francia dovette affrontare una drammatica crisi interna.
Dopo Sedan, era stato il popolo della capitale ad insorgere, costituendo una Guardia nazionale e decretando la fine del regime napoleonico.
Parigi aveva vissuto la caduta come l’inizio di una riscossa nazionale.
Molto diverso era l’orientamento delle campagne e dei centri minori, dove prevalevano le tendenze conservatrici e il desiderio di una rapida firma di pace.
La frattura si delineò dopo le elezioni della nuova Assemblea nazionale. Grazie al voto delle campagne, L’assemblea risultò composta in maggioranza da moderati e conservatori.
A presedere il governo fu chiamato Adolphe Thiers.
Appena entrato in carica, il nuovo governo si affrettò ad aprire trattative di pace.
Ma quando furono note le durissime condizione imposte da Bismarck il popolo di Parigi protestò in massa e decise di difendere la città.
Lo scontro tra Parigi rivoluzionaria e Francia rurale divenne fatale e Thiers non potè evitarlo.
A metà Marco il governo ordinò la consegna delle armi raccolte per la difesa della capitale, ma il comando della guardia nazionale rifiutò di obbedire e indisse le elezioni per il Consiglio della Comune.
Ma l’esperienza della Comune durò poco: tra 21 e 28 maggio, le truppe governative occuparono Parigi.
Alle esecuzioni sommarie che seguirono ci furono anche sanguinose rappresaglie.

Politica francese
Nel 1875, la nuova Costituzione repubblicana prevedeva che il potere legislativo fosse esercitato da una Camera, eletta a suffragio universale maschile, e da un Senato solo in parte elettivo.
Il Presidente della Repubblica, capo dell’esecutivo, veniva eletto dalle Camere riunite e godeva in teoria di poteri molto estesi.
In Francia quindi si instaurò un regime prettamente parlamentare.
A dominare la scena, nei primi anni della Repubblica, furono i repubblicani dell’ala moderata, i cosiddetti opportunisti.
La loro forza stava in un solido legame con l’elettorato medio, quello dei commercianti, impiegati e piccoli agricoltori.
C’erano poi le critiche dei repubblicani più avanzati, o radicali, che costituirono un forte raggruppamento sotto la guida di Celemenceau.
C’era in Francia instabilità di governi, e a questo male si aggiungeva la corruzione.
Un segno eloquente di questo disagio si ebbe quando Boulanger, generale in fama di repubblicano, si mise a capo di un vasto ed eterogeneo movimento che invocava una riforma delle istituzioni in senso autoritario e antiparlamentare.
L’avventura neobonapartista di Boulanger ebbe breve durata: il generale fu accusato di aver preso parte ad un complotto contro la Repubblica e fuggì all’estero.

La Prussia

Dopo il 48 e il 49, l’impero asburgico, tentò di riorganizzarsi sulla base del vecchio sistema assolutistico: il potere tornò a concentrarsi nelle mani dell’imperatore.
Negli stessi anni, la Prussia proponeva con autorità la sua candidatura alla guida della nazione tedesca, fidando soprattutto sulla forza trainante del suo sviluppo industriale e sulla stretta integrazione della sua economia con quella degli altri stati germanici, uniti in una lega doganale (Zollverein) da cui era invece esclusa l’Austria.
Nei territori ad Est resistenza ancora un’economia prevalentemente agricola, basata sulla grande proprietà terriera.
L’abolizione degli ordinamenti feudali non aveva scalfito il potere degli Junker (nobili latifondisti, che formavano un gruppo compatto, fortemente conservatore nelle abitudini, che esercitava quindi un notevole peso nella vita dello Stato).
Autoritarismo politico e conservatorismo sociale si rivelarono componenti essenziali di quella via prussiana allo sviluppo.
Questo accadde anche perché in Germania esistevano elementi di modernità sconosciuti agli altri paesi dell’Europa: efficienti sistemi di comunicazioni interne, una rete ferroviaria e un’alta diffusione dell’istruzione, che poneva la Prussia all’avanguardia.

Bismarck
L’artefice principale di questa politica fu il conte Otto von Bismarck, un tipico rappresentante degli Junker.
Nominato primo ministro nel 1862 da Guglielmo I, Bismarck si impegnò a realizzare una riforma dell’esercito aumentando le spese militari senza il consenso del Parlamento e proclamò di voler risolvere il problema dell’unità nazionale con il sangue e con il ferro.
Il primo ostacolo sulla via dell’unificazione era costituito dall’Austria che era uno Stato tedesco, membro della Confederazione germanica.
Il contrasto si fece acuto nel 64-65 quando le due potenze entrarono in conflitto per l’amministrazione dei territori strappati alla Danimarca.
La guerra fra Austria e Prussia durò solo 3 settimane.
L’italia, schierata a fianco della Prussia, impegnava con scarsa fortuna una parte delle forze imperiali austriache e il 3 Luglio nella battaglia di Sadowa, la Prussia inflisse all’Austria una durissima sconfitta.
Nel 1867, l’impero fu diviso in due stati, uno austriaco e l’altro ungherese (L’impero austro-ungarico appunto, uniti fra loro nella persona del sovrano ma ciascuno con un proprio Parlamento e un proprio governo).
Vedi anche guerra Franco Prussiana (Francia).

Politica tedesca
Il nuovo Reich tedesco era la maggiore potenza continentale europea.
Dal punto di vista istituzionale, le grandi scelte politiche spettavano al governo centrale, presieduto da un cancelliere e responsabile di fronte all’Imperatore.
La camera (Reichstag) eletta a suffragio universale, aveva quindi scarse possibilità di condizionare l’esecutivo.
Proprio in Germania si svilupparono accanto a partici tradizionali, forti movimenti politici di massa.
Nel 1871 fu fondato il Partito del centro, di dichiarata ispirazione cattolica. Per questo Bismarck emanò una serie di misure contro i cattolici, volte non solo ad affermare il carattere laico dello Stato, ma anche a porre sotto sorveglianza l’attività del clero.
Nel 1875 era nato il Partito socialdemocratico tedesco, verso il quale di orientò la classe operaia.
Nei confronti dei socialdemocratici, Bismarck scatenò dapprima una dura repressione facendo dapprima varare una serie di provvedimenti eccezionali e successivamente emanando importanti leggi di tutela delle classi lavoratrici.

L’Inghilterra
Intorno alla metà del secolo il Regno Unito era la più progredita fra le grandi potenze europee.
Era infatti il centro commerciale e finanziario cui facevano capo i traffici di tutti i continenti.
Aveva infine le istituzioni politiche più libere d’Europa.
Il ventennio 48-66 segnò un ulteriore consolidamento del sistema parlamentare: cioè di quel sistema nato proprio in Gran Bretagna che subordinava la vita di un governo alla fiducia del Parlamento e faceva di quest’ultimo l’arbitro indiscusso della vita politica.
Alla corona invece era affidato un ruolo essenzialmente simbolico di personificazione dell’identità nazionale, che si manifestò pienamente nel lunghissimo regno della regina Vittoria.
Il sistema parlamentare però non era sinonimo di democrazia.
Molti poteri spettavano ancora alla Camera dei Lords, alla quale si accedeva per diritto ereditario o per nomina regia.
Nel 1865 il leader dei liberali Gladstone presentò un progetto di legge che prevedeva una limitata estensione del diritto di voto.
La proposta provocò però nel 1866 la caduta del governo liberale e il ritorno al potere dei conservatori.
Furono proprio i conservatori, con Disraeli, ad assumere l’iniziativa di una riforma elettorale più avanzata di quella di Gladstone.
La nuova legge (Reform act), nel 1867, aumentava di quasi 1 milione la consistenza del corpo elettorale, ammettendo al voto i lavoratori urbani a reddito più elevato.

La questione irlandese
Anche negli anni successivi furono protagonisti il conservatore Disraeli e il liberale Gladstone.
Il primo attuò una politica di riforme sociali, il secondo, oltre a realizzare un ulteriore ingrandimento del suffragio, tentò di risolvere la questione irlandese.
L’Irlanda era divisa da secoli dal resto del Regno Unito a causa della sua fedeltà al cattolicesimo e aveva visto aggravare le sue già disagiate condizioni economiche.
Alla pressione del movimento indipendentista, Gladstone rispose presentando in Parlamento un progetto (l’Home Rule) che prevedeva la concessione di ampie autonomie.
Questo progetto provocò una forte opposizione nello stesso partito liberale e la secessione degli esponenti unionisti, cioè contrari all’autonomia irlandese, guidati da Chamberlain.

Vicende politiche successive
Negli anni a seguire, la regina morì lasciando il trono al figlio Edoardo VII, e la Gran Bretagna fu governata dalla coalizione fra conservatori e liberali unionisti (guidati da Chamberlain).
Furono varate nuove leggi che stabilivano la responsabilità degli imprenditori in maniera di infortuni sul lavoro, aumentavano i finanziamenti per le scuole elementari e medie, favorivano il collocamento dei lavoratori disoccupati.
Chamberlain presentò anche un progetto che prevedeva l’introduzione in Gran Bretagna del protezionismo doganale.
I liberali, che si erano opposti a questo progetto, conquistarono un’ampia maggioranza e per la prima volta faceva il suo ingresso alla Camera un gruppo di trenta deputati laburisti, espressione del movimento operaio.

I governi liberali si qualificarono per una linea meno aggressiva in campo coloniale e per una più energica dal punto di vista delle riforme sociali.
L’aspetto più nuovo e coraggioso della loro azione fu la proposta di introdurre una politica fiscale fortemente progressiva.
Il tentativo si scontrò con la reazione della camera dei Lords.
I liberali presentarono allora un progetto di legge parlamentare, che negava ai Lords il diritto di respingere leggi di bilancio.
Dopo anni di attrito, i Lords, grazie anche alle pressioni del nuovo re Giorgio V, si piegarono ad accettare la legge che limitava i loro privilegi.
Negli stessi anni Asquith presentò un nuovo progetto di Home Rule, che prevedeva un’Irlanda autonoma.
Dopo un lungo e tormentato dibattito, il progetto liberale fu approvato nel maggio 1914 (alcuni libri affermano che non sia mai stato approvato a causa di un solo voto).

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